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domenica 27 dicembre 2020

Pasolini al «Corriere della Sera» - il Nuovo Potere e il vero antifascismo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini al «Corriere della Sera» 
 il Nuovo Potere e il vero antifascismo
di Valerio Valentini

Tutto ciò che io ho detto ‘scandalosamente’ sul vecchio e nuovo fascismo è […] quanto di più realmente antifascista si potesse dire”[1]. Così afferma Pier Paolo Pasolini in uno scritto inedito del novembre 1974, poi inserito negli Scritti corsari. E continua: “Questo ormai è divenuto chiaro a tutti”.[2]
A leggere le critiche che molti giornalisti muovono ai suoi articoli in quei mesi, però, non sembra affatto così chiaro. Tutt’altro. Lo dimostrano proprio le repliche a Gli italiani non sono più quelli, in cui il rifiuto di Pasolini a condannare esclusivamente una falange fascista per la strage di Brescia, nel tentativo di analizzare più a fondo i motivi che hanno spinto quei ragazzi ad un atto tanto tremendo, appare a molti intellettuali come una sfacciata correità di Pasolini stesso col mondo dell’estrema destra. O, quantomeno, un’apertura pericolosamente indulgente verso quegli ambienti.
Lo ribadisce, nell’ambito della tavola rotonda de «L’Espresso», È nato un bimbo: c’è un fascista in più, anche Elvio Fachinelli. Il quale, immaginando di trasporre su una pellicola cinematografica la vicenda dell’intellettuale Pasolini, lo descrive come un ex militante di sinistra che ora “partecipa con indifferenza alla lotta antifascista, dice che non è questo il pericolo principale”[3], e finisce col convincere i suoi giovani seguaci ad assistere con disinteresse alle bombe che esplodono nella loro città.
Con il numero successivo de «L’Espresso», quello del 30 giugno, riprende il dibattito intorno all’esito del referendum. A intervenire nella discussione è ora Giorgio Bocca, il cui articolo si apre con una critica a Gli italiani non sono più quelli, considerato emblematico della tendenza di certi “mitomani o prezzolati o canaglie” di creare “ambiguità sull’antifascismo che è fascismo e sulla sovversione nera o rosso-nera che sarebbe rivoluzione”[4].Il 7 luglio, sulla prima pagina de «Il Giorno», Bocca ribadisce il suo giudizio in un articolo in cui racconta che Pasolini, dopo esser stato accolto “a fischi e pernacchie” da un’assemblea studentesca nel ‘68, si è convinto che “gli studenti contestatori sono i nuovi squadristi, l’antifascismo è una minestra fredda, fascisti e antifascisti sono irriconoscibili”[5].
Ora, ciò che rende le idee di Pasolini così inconciliabili con l’impegno antifascista di molti intellettuali progressisti, non è la scarsa propensione dello scrittore corsaro a condannare il terrorismo o a denunciare i tentativi di svolta autoritaria ripetutamente messi in atto nell’Italia degli anni ’60 e ’70. È piuttosto un diverso modo di intendere la lotta al fascismo, o meglio a quello che Pasolini definisce “il vero fascismo”[6]. Su questo punto, egli ha maturato delle proprie convinzioni ormai da moltissimi anni: è il settembre del 1962 quando Pasolini scrive su «Vie Nuove»:
Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.[7]
Questa frase spiega benissimo come Pasolini decida, da quel momento in avanti, di coniugare il proprio antifascismo in una forma estrema e personalissima. Le incomprensioni che lo oppongono ai vari Bocca, Calvino e Ferrara, derivano proprio da una diversa concezione di cosa sia, nell’Italia di allora, il fascismo da combattere. Per la maggior parte degli intellettuali di sinistra dell’epoca, esso è ancora un fascismo di tipo tradizionale, che ha l’aspetto minaccioso dei terroristi neri e quello più indecifrabile del Sid. Quello che Pasolini, invece, intende affrontare, è il fascismo incarnato da quel nuovo Potere fintamente democratico e falsamente tollerante, che rappresenta il più totalitario e repressivo dei regimi della storia. Quella che Pasolini denuncia sul «Corriere della Sera» è “una forma «totale» di fascismo”, che “attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre[8] si prefigge come fine “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”[9], e tende quindi “alla identificazione di borghesia con umanità”[10].
Quando però bisogna definire concretamente in cosa questo nuovo “Potere” consista, Pasolini non lo fa se non in modo molto vago, soprattutto fino alla metà del ’74. E questa sua parziale incapacità ispira molte ironiche critiche, che daranno vita a lunghi dibattiti: emblematico, su tutti, quello con Maurizio Ferrara, che dalle pagine de «L’Unità» del 12 giugno, accusa Pasolini di cercare “rimedio alle proprie crisi involutive scaricando le difficoltà sulla esistenza imbattibile di un Potere-mostro, fuori dalle classi, il Moloch”[11].
In qualche modo, è come se Pasolini riuscisse a comprendere la maniera in cui questo nuovo Potere eserciti la propria forza e quali finalità persegua, ma non sappia dire da chi esso sia detenuto. Quello che è certo, in ogni caso, è che per Pasolini quel Potere ha il suo centro direttivo al di fuori del nostro Paese: è per questo che “delle varie componenti che formano oggi in Italia il mosaico fascista hanno senso «unicamente» quelle che vengono manovrate dalla CIA e da altre forme del capitalismo internazionale”[12]. Ed è per questo che il nuovo Potere si rende indipendente dagli organi di potere più strettamente nazionali, aggirandoli o addirittura servendosene cinicamente.
In particolare, è proprio la Democrazia Cristiana ad esser stata spodestata, ad aver perso il suo ruolo di guida per le masse. Ed è proprio alla DC che Pasolini decide di rivolgersi direttamente, a partire dal 1975. È il 1° febbraio, quando sulla prima pagina del «Corriere della Sera», appare Il vuoto di potere in Italia: si tratta del primo passo verso la proposta, che lo scrittore formulerà nell’agosto successivo, di istituire un vero e proprio processo penale ai danni dei maggiori esponenti dello scudo crociato. In questo articolo, tra i più noti dell’intera carriera giornalistica di Pasolini, è percepibile lo sforzo dell’autore di riprendere molti temi già affrontati in vari altri interventi sui quotidiani, ritagliandone alcuni passi o riproponendone singole affermazioni, e di ricucirli in maniera magistrale, rendendo il testo un compendio di straordinaria intensità dell’intera silloge che oggi lo contiene.
Qual è l’accusa che Pasolini formula nei confronti dei “gerarchi” democristiani? Quella di aver dapprima creato un “drammatico vuoto di potere”, non accorgendosi di essersi ridotti a “«teste di legno»” al servizio del nuovo regime transnazionale, e poi di aver permesso che tale vuoto fosse colmato dal nuovo “Potere” consumistico, il quale ha dato avvio ad un processo di corruzione delle coscienze, di imposizione di modelli estranei alla cultura degli individui, di omologazione centralistica e totalitaria. È questa l’Italia, dopo “la scomparsa delle lucciole”.
Il giorno seguente, nella rubrica Tribuna aperta, pubblicata sulla prima pagina del «Corriere della Sera», appare la replica all’articolo delle lucciole. Lo scritto s’intitola Non è mai esistito un regime democristiano, e l’autore è Giulio Andreotti. “Non ricordo con esattezza l’episodio – spiega Piero Ottone, l’allora direttore del Corriere, che ha voluto rilasciarmi un’intervista – ma mi sento di poter escludere che a sollecitare Andreotti fossimo stati noi. Fu senz’altro una sua iniziativa”.
Andreotti risponde alla denuncia di “lucciolicidio” di Pasolini enunciando gli enormi meriti della DC, che ha di fatto reso più moderno ed efficiente il Paese. “Il presunto regime sarebbe stato quindi artefice di una eccezionale trasformazione” che ha permesso all’Italia, tra l’altro, di presentarsi “al mondo con una consistenza economico-produttiva prima sconosciuta”. Di fronte all’accusa di chi considera quello democristiano un regime, la risposta di Andreotti è “nettissima”, e ovviamente “negativa”; semmai, c’è da rilevare che “senza la DC nell’Italia di oggi maggioranze in Parlamento non si formano”, e non essendoci “alternative democratiche in vista”, un eventuale “cambio di forze al potere”, che pure sarebbe “naturale”, non è affatto pensabile[13].
Il confronto tra Pier Paolo Pasolini e Giulio Andreotti si rinnova, sempre sulle colonne del «Corriere della Sera», il 18 febbraio, quando il quotidiano pubblica, appaiati in prima pagina, gli interventi dei due antagonisti. Gli insostituibili Nixon italiani, a firma dello scrittore bolognese, e Le lucciole e i potenti, dell’allora ministro del bilancio, compaiono nel medesimo riquadro con il titolo Processo alla DC, accusa e difesa[14]. Pasolini, nel suo intervento, insinua innanzitutto che Andreotti abbia voluto proditoriamente spostare il dibattito su argomenti diversi rispetto a quelli affrontati in Il vuoto del potere in Italia, riducendo l’intero scritto ad un resoconto sul malgoverno democristiano, e rispondendo così con “una finta difesa d’ufficio”. Ipotizzando comunque che la replica di Andreotti sia dovuta soltanto ad una sua errata comprensione del contenuto dell’articolo delle lucciole, Pasolini sostiene che “il lungo, prevedibile e diligente elenco dei meriti” della DC stilato da Andreotti, non consista in altro che in “un elenco delle Opere del Regime”. Ovvero di quelle opere che, in certi momenti storici, i regimi non possono esimersi dal realizzare. A partire dagli anni ’60, infatti, “a spingere la Democrazia cristiana alle opere” sono stati non i bisogni reali della società, ma gli interessi economici della grande industria. E in tutto ciò, la DC “non si è accorta di essere divenuta, quasi di colpo, nient’altro che uno strumento di potere formale sopravvissuto, attraverso cui un nuovo potere reale ha distrutto un paese”[15].
Pasolini passa poi all’ “oscura allusione alla sorte di Nixon” fatta da Andreotti nel passaggio in cui dichiarava l’impossibilità di creare governi senza l’ausilio della DC, peculiarità che rende il caso italiano diverso da quello inglese e da quello americano. Qual è, per Pasolini, il significato di tale allusione? Che “qui in Italia, miei cari, non si può fare come si è fatto in America con Nixon, cioè cacciare via chi si è reso responsabile di gravi violazioni al patto democratico: qui in Italia i potenti democristiani sono insostituibili”. Il giudizio che Pasolini arriva a formulare nei confronti degli “uomini che decidono la politica italiana” è ovviamente radicale: essi “non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, di ciò che è radicalmente cambiato nel «potere» che essi servono”; in secondo luogo, essi “non sanno nulla, o fingono di non saper nulla, sull’unica «continuità» di tale potere, cioè sulla serie delle stragi”. Dunque, “fin che i potenti democristiani taceranno sul cambiamento traumatico del mondo avvenuto sotto i loro occhi”, e fin che essi “taceranno su ciò che, invece, in tale cambiamento costituisce la continuità cioè la criminalità di Stato, non solo un dialogo con loro è impossibile, ma è inammissibile il loro permanere alla guida del paese”[16].
Giulio Andreotti risponde punto su punto. Distingue innanzitutto il consumismo dall’edonismo: se quest’ultimo è sempre “riprovevole”, sarebbe invece sbagliato “condannare in blocco la dilatazione intervenuta di alcuni effetti sensibili dello sviluppo industriale”. Per ciò che concerne la strategia della tensione, invece, Andreotti ricorda di averne sempre denunciato la gravità, anche “quando molti fautori degli extraparlamentari chiudevano volentieri ambo gli occhi scusando come ragazzate i pestaggi o l’artigianato delle bombe molotov”. Egli, al contrario, quando ne ha avuto la possibilità, ha sempre “agito senza esitazione e forse con qualche risultato” nel tentativo di “far luce su responsabilità ovunque collocate”, ben consapevole che “fino al giorno in cui rimarranno oscuri i mandanti e gli esecutori dei troppi atti di terrorismo che hanno funestato l’Italia, resta all’orizzonte una nube nerissima e assai preoccupante”. “In quanto a Nixon – continua il ministro democristiano – non vedo dove e quando lo abbia citato. Pasolini ha equivocato sul concetto di mutamento non traumatico dei partiti al potere che stabilmente avviene sia negli Stati Uniti che in Inghilterra”[17]. (E qui bisogna specificare che in effetti Andreotti, nel suo Non è mai esistito un regime democristiano, non ha mai accennato direttamente al presidente degli Stati Uniti[18]). Piuttosto, se non si sono verificati avvicendamenti alla guida del nostro Paese, è perché per quasi trent’anni “gli elettori in maggioranza hanno ragionato e deciso diversamente dal modo di opinare pasoliniano”. “Dopo le lucciole – conclude Andreotti, rivolgendosi al suo avversario – si dovrebbero vedere spenti anche i dirigenti dc. Non è un po’ troppo per un auspicio ricostruttivo?”.[19]
L’interrogativo sarcastico con cui si conclude l’articolo di Andreotti introduce in una questione a lungo dibattuta, e cioè se quella del Pasolini corsaro e luterano vada considerata come una critica limitata alla sola pars destruens. Gli intellettuali, soprattutto quelli marxisti, che con Pasolini polemizzano nel periodo ’73-’75, appaiono tutti concordi – pur se con motivazioni diverse – sul fatto che egli rinunci a formulare una concreta proposta progressista, e si limiti a una condanna irrevocabile nei confronti del presente. In realtà non è così. E lo si comprende soprattutto leggendo quella che è la prosecuzione, e il momento costruttivo, del discorso intrapreso negli Scritti corsari, e cioè le Lettere luterane.
Innanzitutto, va notato come il Pasolini che emerge negli Scritti corsari è un intellettuale che, in maniera orgogliosa, e spesso contro ogni evidenza, rifiuta programmaticamente qualunque tipo di autorevolezza. Lo si può constatare in Nuove prospettive storiche: la Chiesa è inutile al Potere, in cui Pasolini, replicando ad un articolo de «L’Osservatore Romano», afferma: “Io non ho alle spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla mai voluta”[20], ribadendo convinzioni espresse già su «Vie Nuove»[21] nel 1964 e su «Tempo»[22] nel 1968. Ora, invece, nel pieno 1975, Pasolini rinuncia a questa sua prerogativa. Ciò è evidente nella prima sezione delle Lettere luterane, nella quale Pasolini assume proprio quel tono un po’ cattedratico e un po’ paternalistico che ha sempre ostinatamente detto di voler rifuggire. Lo fa rivolgendosi a Gennariello, l’immaginario adolescente napoletano col quale l’autore instaura un rapporto paideutico: rapporto che sembra inteso come preludio a quella “conoscenza di classe”[23] che Pasolini ritiene indispensabile per un intellettuale che voglia avvicinare il proprio stato antropologico a quello di un giovane proletario. In ogni caso, anche nella seconda sezione delle Lettere luterane Pasolini non rifiuta più alcuna autorevolezza, soprattutto quando si rivolge ai giovani, “imbecilli” e “criminaloidi”, che diventano, in molti casi, i suoi interlocutori privilegiati.
Questo sensibile cambio di atteggiamento è il sintomo di una consapevolezza che non è affatto nuova nello scrittore, ma che negli ultimi mesi della sua vita matura in modo particolare. Si tratta della consapevolezza dell’urgenza di creare, o meglio di riscoprire, un patrimonio di valori da poter proporre alle giovani generazioni. E in questo è evidente il suo desiderio di ricostruire, non soltanto di abbattere. “La distruttività”, scrive Pasolini in Pannella e il dissenso, un articolo uscito sul «Corriere della Sera» del 18 luglio, è “la caratteristica più intransigente della «prima vera grande rivoluzione di destra»”[24], che egli identifica con la rivoluzione del neocapitalismo transnazionale. Questa traumatica disintegrazione dei fondamenti culturali genera un pericolosissimo senso di sbandamento, un “trauma” che, come in altre sedi Pasolini ha specificato, “ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler”[25].
A soffrire in maniera più profonda gli effetti di questa omologazione sono le masse giovanili, costituite in gran parte da potenziali criminali, i quali si fanno vanto della loro violenza e della loro volgarità in quanto per loro “vale la figura o «modello» del «disobbediente»”[26], imposta anch’essa dal consumismo. Figura che però è ormai completamente svuotata di qualunque significato realmente rivoluzionario: anzi, in quanto specimen del perfetto consumatore, il “disobbediente” è oggi il più fedele sostenitore del “Potere”. Se “una decina d’anni fa”, spiega Pasolini a Pannella in quello stesso articolo, “la parola «obbedienza» indicava ancora quell’orrendo sentimento che essa era stata in secoli di controriforma, di clericalismo, di moralismo piccolo-borghese, di fascismo”, e “la parola «disobbedienza» indicava ancora quel meraviglioso sentimento che spingeva a ribellarsi a tutto questo”, oggi, dal punto di vista semantico, “le parole hanno rovesciato il loro senso scambiandoselo”[27]. Il vero disobbediente, in realtà, è l’“«obbediente»”, cioè colui il quale “crede nei valori che il nuovo capitalismo vuole distruggere”[28].
Da qui nasce l’invito a Pannella ad aggiornare il proprio linguaggio: “non devi più chiamare la tua «disobbedienza», ma «obbedienza», o meglio, se vuoi, «nuova obbedienza» e di tale «nuova obbedienza» offrirti come modello”[29]. Non è, però, un’esortazione che Pasolini intende rivolgere soltanto al leader del PRI. È piuttosto una sorta di chiamata alle armi, un invito ad un nuovo impegno che riguarda anche e soprattutto la classe dirigente del PCI, in cui è riposta l’attesa non solo “pratica ed economica”, ma anche “antropologica”, di tutti i milioni di elettori che ne hanno determinato la vittoria alle urne. E poi, ovviamente, ci sono gli intellettuali. Pasolini vorrebbe ricompattare, insomma, un fronte realmente progressista, che si assuma il compito di offrire un’alternativa esistenziale a milioni di giovani, privati d’ogni fondamento ideologico e morale.
La chiusura dell’articolo indirizzato a Pannella è in realtà un appello denso di speranza. Forse utopico o forse disperato. Sicuramente sincero.
[…] è chiaro che ciò che, oggi, conta individuare e vivere è una «obbedienza a leggi migliori» – simile a quella che, dopo piazzale Loreto, è nata dalla Resistenza – e la conseguente volontà di «ricostruzione». Fondare la possibilità di una simile «obbedienza» e di una simile «volontà di ricostruzione» è il vero nuovo grande ruolo storico del Pci. Ma anche tuo; anche dei radicali; anche di ogni singolo intellettuale, di ogni uomo solo e mite.[30]
Queste righe richiamano alla mente altre parole, che dalle colonne di «Paese Sera», l’8 luglio 1974, Pasolini indirizzava a Italo Calvino. Quest’ultimo, in un’intervista rilasciata a «Il Messaggero» il 18 giugno, aveva criticato l’analisi del collega in merito alla rivoluzione antropologica italiana, e si era augurato di non aver mai nulla a che fare coi giovani fascisti di oggi: “non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli”[31]. A questa affermazione, ripetendo quasi alla lettera una tesi esposta in un articolo pubblicato pochi giorni prima sul «Corriere della Sera»[32], Pasolini aveva replicato così:
[…] augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È un’atroce forma di disperazione e di nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.[33]
Se in molti casi l’incoerenza è un difetto innegabile di Pier Paolo Pasolini, per quanto concerne il suo impegno antifascista gli va riconosciuta una ferrea e intransigente fermezza: leggendo i suoi scritti giornalistici dal 1960 – anno in cui, su «Vie Nuove»[34], auspicava una riforma scolastica e una riscrittura dei manuali di storia improntate su concezioni antifasciste – fino alla fine della sua vita, si percepisce come il compito che egli si prefigge, in quanto intellettuale marxista, sia quello di dissodare le coscienze “bruttate” degli individui, in particolar modo dei giovani. Se il nuovo Potere è il vero fascismo, Pasolini tenta allora di combatterlo sottraendo ai suoi tentacoli possibili discepoli, recuperandoli ad una vita diversa rispetto a quella imposta dal regime. L’obiettivo ultimo di Pier Paolo Pasolini diventa non più soltanto quello di evitare che i ragazzi cadano nel baratro dell’omologazione, ma di fornire loro un modello culturale, sociologico ed esistenziale diverso. Qualcosa, di profondamente antifascista, in cui si possa credere, e a cui si possa obbedire.


1. Pasolini, Scritti corsari, p. 241.
2.Ibidem.
3.È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso».
4. Bocca, A proposito di P.P. Pasolini.
5. Bocca, L’acqua calda di Pasolini. È questo l’articolo che Pasolini definisce un atto di linciaggio nei suoi confronti in Pasolini, Scritti corsari, pp. 74-75.
6. Pasolini, Scritti corsari, p. 45.
7. Id., Fascisti: padri e figli, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 1014.
8. Ivi, p. 46.
9. Ivi, p. 50.
10. Ivi, p. 18.
11. Ferrara, I pasticci dell’esteta.
12. Ivi, p. 64.
13. Andreotti, Non è mai esistito un regime democristiano.
14. Si noti che sino a questa data Pasolini non ha ancora mai parlato, esplicitamente, di un "processo" ai danni dei politici democristiani. Rispetto alla scelta del Corriere di ricorrere ad un’impaginazione così efficace, mettendo fisicamente a confronto i due articoli, la testimonianza di Piero Ottone non è purtroppo d’aiuto. "Sono passati tanti anni – scherza l’ex direttore del quotidiano milanese – mi si conceda almeno quest’alibi". Quello che però appare evidente è che Andreotti, prima di scrivere la sua ulteriore risposta alla controreplica di Pasolini, deve aver letto in anteprima l’articolo di quest’ultimo, dal momento che il suo Le lucciole e i potenti contiene una confutazione metodica delle tesi sostenute in Gli insostituibili Nixon italiani. Che la redazione del «Corriere della Sera», ricevuto lo scritto di Pasolini, lo abbia fatto pervenire ad Andreotti per dargli la possibilità di replicare sullo stesso numero del quotidiano? "Non lo escludo – afferma Ottone – ma non posso neppure confermarlo".
15. Pasolini, Scritti corsari, pp. 135-138.
16. Ivi, pp. 138-140.
17. Andreotti, Le lucciole e i potenti.
18. Il passaggio incriminato è il seguente: "Se vi fossero alternative democratiche in vista, sarebbe naturale un cambio di forze al potere. Quando avviene in Inghilterra o negli Stati Uniti, non è mai traumatico per il partito battuto, che comincia la strada della riconquista attraverso l’opposizione efficace e una revisione interna adeguata. Ma senza la DC nell’Italia di oggi maggioranze in parlamento non si formano".
19. Andreotti, Le lucciole e i potenti.
20. Pasolini, Scritti corsari, p. 82.
21. Id., Dopo un anno, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 1024-1025: "Non voglio avere autorità, sappiatelo. Se ce l’avrò, l’avrò di volta in volta, per l’eventuale forza dei miei argomenti di quel dato momento, di quella data circostanza: e soprattutto per la sincerità. […]".
22. Id., Il perché di questa rubrica, ivi, p. 1095: "Ebbene, ecco: io mi rifiuto, intanto, di comportarmi da persona pubblica. Se una qualche autorità ho ottenuto […] sono qui per rimetterla del tutto in discussione […]. […] l’autorità, infatti, è sempre terrore […]".
23. Id., Scritti corsari, p. 209.
24. Id., Pannella e il dissenso, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p. 607.
25. Id., Scritti corsari, p. 131.
26. Id., Lettere luterane, p. 81.
27. Ivi, pp. 80-81.
28. Ibidem.
29. Ivi, p. 82.
30.Ivi, p. 83-84.
31. Guarini, Quelli che dicono «no».
32. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
33. Ivi, p. 55.
34. Id., risposta n. 40, 8 ottobre 1960, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, pp. 907-908.


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