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sabato 14 dicembre 2013

Pasolini - Contro l'omologazione

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Contro l'omologazione
di Giuliano Della Pergola da "Il Manifesto" del 16 aprile 1988


Il 2 novembre 1975 Pasolini veniva ucciso in circostanze che, per metterci la coscienza in pace, chiameremo per ora "solo" drammatiche. L'11 aprile 1987 Prima Levi si gettava dalle scale della sua abitazione. Suicida. Dicono che, negli ultimi tempi, la sua depressione fosse giunto al punto che egli non riusciva piu' non solo a scrivere, ma neppure a leggere. Nella mia fantasia ritorno spesso a queste due morti, diversamente inquietanti. Non riesco a togliermi dalla mente che siano legate da un comune senso tragico della storia, presagio possibile di un terribile futuro. Nella morte di Pasolini colpi' la fantasia di chi seguiva la sua "disperata vitalita'" lo stretto rapporto esistente tra la morale espressa nel suo ultimo film Salo' e quel che sappiamo della sua morte al Lido di Ostia: una morte "annunciata" nel film, quasi cercata (dira' Pelosi, un giorno, tutta la verita'? O in cambio del suo silenzio continuera' ad entrare e ad uscire dalle carceri italiane?) In Salo' Pasolini sostenne la tesi secondo cui un sottile legame puo' unire, pur nel dramma, il carnefice con la vittima, entrambi accomunati sadomasochisticamente nella comune azione. Una sorta di corto circuito tra oppressi e oppressori, il cui esito e' l'impossibilita' di lottare. Una sorta di fascino che s'impone, coi connotati della "collaborazione sociale", sulle contrapposizioni e i conflitti. Oppressi e oppressori omologati e accomunati insieme: indistinti. Il fascismo porta all'omologazione e viceversa l'omologazione porta al fascismo. Pasolini aggiungeva che l'omologazione in atto in Italia, necessaria perche' il paese passasse dalla somma di culture nazionale, era caratterizzata da un forte violenza. Nella tradizione italica stavano le distinzioni (e i dialetti), nel futuro del paese l'integrazione europea (e la lingua italiana trionfante sui dialetti). Non cosi' pensava Primo Levi. Nel suo ultimo e splendido libro, I sommersi e i salvati, ritornando sul tema oppressi-oppressori ha scritto pagine esaltanti nel contestare la necessaria omologazione tra chi subisce e chi infierisce. Una allusione critica al film di Liliana Cavani Portiere di notte ci toglie ogni sospetto sul suo pensiero, su questo punto. Ma, sostiene Primo Levi, Auschwitz fu un fatto storico. Come tale puo' tornare. Questa tragedia, che per la sua dimensione madornale, non puo' essere vissuta due volte, puo' ripresentarsi. E sebbene i crimini di fronte ai quali ci troviamo ogni giorno (o quelli svelati tardivamente, perpetrati nel silenzio e oggi riscoperti), non possono essere comparati con l'efferata, programmata, organizzata brutalita' di quanto accadde nei campi di sterminio nazisti, pure la riflessione e' costretta a scendere nel buio di dimensioni tragiche, che la nostra fantasia non sorregge. Alludo alla Cambogia, al Vietnam, alle lotte tribali in Africa, ma anche nell'Armenia, al Kurdistan iracheno, ai cinquemila morti, a mezzo yprite, del 27 marzo 1988 ad Halabja. L'omologazione riguarda anche l'indifferenza con la quale l'opinione pubblica segue queste tragedie. Come quei polacchi che lavorano i loro campi tutt'intorno ad Auschwitz (le cui agghiaccianti testimonianze sono analiticamente raccontate nel documentario Sterminio), senza terrore, senza indignazione, senza scandalo, con assuefatta sottomissione - come fossero ovvie! - le deportazioni e le morti, cosi' l'opinione pubblica quotidianamente apprende dai televisori le tragedie attuali e cio' non crea fremiti di rabbia, o un grande desiderio di trasformazione etico/politica. Si viene a sapere e si dimentica: si sa e non si sa piu'. Nel tempo tecnico necessario a passare su un altro canale. Siamo in presenza di un immenso processo di omologazione: quella legata all'assuefazione dell'orrendo, che ci fa complici dei carnefici. L'orrido e' diventato ovvio. Di questo Levi lucidamente s'accorse prima di morire. E allora perche' sopravvivere? Non si puo' essere testimoni due volte di crimini tanto atroci. Chiamiamolo "depressione" - ma anche qui per metterci la coscienza in pace: senza convinzione - la malattia che lo porto' a gettarsi dalla tromba delle scale della sua abitazione torinese. Le morti di Pasolini e Levi ritornano spesso nella mia fantasia: e se un nuovo strisciante fascismo fosse gia' tra di noi?


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"Amado mio" - Dal cassetto di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





"Amado mio"
Dal cassetto di Pasolini
di Renzo Paris da "il Manifesto" del 29/9/82 pagina 7


Se i rapporti di Pasolini con la sua omosessualita' sono stati scandalosamente al centro del suo personaggio pubblico, nei suoi innumerevoli processi, non hanno avuto la stessa rilevanza nelle opere che finora ci era dato conoscere. Pasolini si era voluto comunista e nel legame tra l'omossessuale e il comunista, lo scandalo giganteggio', dentro e fuori di lui, fino all'autocensura. Aveva sempre rimandato la pubblicazione, ad esempio, di due romanzi brevi, scritti in gioventu', che ora compaiono insieme in un volume intitolato Amado mio. I motivi per cui Pasolini ci aveva nascosto questo libro, mentre pure aveva riscritto e pubblicato, Il sogno di una cosa, sono ormai consegnati al mistero. Possiamo provare pero' a fare delle ipotesi. Innanzitutto, da gran letterato qual'era, immaginava postume le opere "non finite", dove la forma faceva difetto, dove non si usava sufficientemente il fren dell'arte. Atti impuri, uno dei due romanzi, e' stato rimaneggiato dalla curatrice del volume, Concetta D'Angeli, la quale ha dovuto svolgere in prima persona anche quelle parti che nel romanzo era state scritte in terza. In secondo luogo l'autore di Ragazzi di vita non volle darsi ancora un volta in pasto a chi lo accusava di essere un corruttore di minorenni. Sappiamo che gli ultimi anni di vita li passo' scrivendo un romanzo di piu' di mille pagine, le sue confessioni omosessuali, che gli editori e gli eredi non hanno ancora inspiegabilmente pubblicato. Pasolini stesso, a chi lo interrogava sulla sorte del romanzo, come capito' al sottoscritto pochi giorni prima che morisse, rispondeva che aveva deciso di pubblicarlo postumo. Ed era certo un discorso velato di ironia. Ma l'ipotesi forse piu' convincente e' ancora un'altra. Temendo la rottura di immagine di scrittore impegnato a sinistra, di poeta civile (immagine ormai consolidata in tutte le storie letterarie) lo scrittore friulano aveva accuratamente soppresso la sua omosessualita' letteraria. La regola dell'universalita' dell'arte, primonovecentesca, aveva prodotto piu' d'un eco in lui. Le ceneri di Gramsci non poteva sopportare nessuna luce obliqua. Un poeta insomma non accetta etichette di nessun genere. Ma cominciamo con il primo romanzo del volume, con Atti impuri. Il giovane Paolo, appena laureato, renitente alla leva, durante la seconda guerra mondiale, raccoglie attorno a se' un gruppetto di ragazzi del suo paese e dei paesi vicini e insegna loro soprattutto il piacere della lettura poetica. In questo lavoro gli e' accanto la madre, insegnante di lingue; presenza muta, carica di significati. I fanciulli sono il vero argomento del libro e soprattutto uno di essi, tal Nistuti, che Paolo si accorge di desiderare rapinosamente. Nistuto e' figlio di contadini ma anche Bruno, un altro ragazzo che Paolo vorrebbe far suo, lo e'. Mentre Nistuti e' innamorato, di bruno ama solo il sesso, la sua "volgarita". Ed e' qui che Paolo rivela la sua provenienza di classe, la sua appartenenza alla piccola borghesia di provincia, che certo non vede di buon occhio il sottoproletariato rurale. La vicenda con Bruno e' la spia che sia per gli omosessuali che per gli eterosessuali degli anni quaranta, c'e' il sesso e c'e' l'amore, due cose separate e distinte. Per Nistuti solo amare, anche se non sa vibrare di piacere alla vista di un bel tramonto o al suono del violino o al canto di un usignolo. C'e' anche una ragazza in Atti impuri. Si chiama Dina e passa il suo tempo, lei che conosce musica e psicanalisi, a cercare Paolo nella boscaglia, mentre rincorre i ragazzi. La sofferenza amorosa di Paolo, che arriva al parossismo, quasi potesse essere concepita come un'ossessione senza oggetto, e' atroce. Il giovane insegnante vorrebbe che tutti accettassero la sua omosessualita', come accettano la sua bravura, la sua bonta'. Ed e' proprio per via dell'intensita' di una tale sofferenza che Atti impuri non e' un romanzo per omosessuali. Certo puo' dare fastidio l'idea che l'omosessuale si debba riscattare, debba soffrire, debba sentirsi munito. La problematica cattolica sollevata dal romanzo non e' delle piu' attuali. Che cosa ne penserebbe ad esempio, uno scrittore come Tony Duvert, che racconta i suoi furenti amori omosessuali in un borgo dell'Africa del nord in Diario di un innocente (La Rosa editore). Forse ne sorriderebbe. Il piacere in Atti impuri e' tanto piu' bramato quanto piu' lo steccato del divieto e' solido. La carne non ha il colore e i contorni "pagani" dei narratori moderni dell'omosessualita'. Essa e' legata ai tizzoni infernali. E cosi' Dio si accoppia con Mammona. Paolo si muove tra angeli e diavoli, combatte come l'ultimo dei cavalieri di un romanzo cattolico che in Italia ha avuto altri fautori. Quello che caratterizza Atti impuri oltre al sapore violentemente autobiografico, e' la energia quasi settecentesca e musicale del personaggio, che fa volentieri della sua sofferenza teatro, culto della bellezza, del manierismo. Puo' sembrare che tra le bellezze naturali del Friuli, l'amore di Paolo e le atrocita' della guerra, non intercorra alcun rapporto,. Invece, almeno ad un livello di intenzioni, non e' cosi'. Paolo nel suo amore si sente "ammalato". E la guerra e' sempre stata una grande malattia. L'unica a far eccezione e' la natura, che sembra non occuparsi, spavalda, delle vicende umane. E' la spia del divino sulla terra? Il secondo romanzo breve, un racconto lungo in verita', che ha dato il titolo al volume, e' scritto in terza persona. La forma si presenta subito piu' accuarata. Dove in Atti impuri spirava l'aria della patetica confessione, quasi di fatto personale, in Amado mio tutta la materia omosessuale e' distanziata, allegerita, ancor piu' teatralizzata. Desiderio, il personaggio conduttore del romanzo, che e' pero' corale, inscena davanti alla platea dei suoi amici, in nottate all'aperto, nei balli, nelle lunghe giornate assolate, vere e proprie performance. Desiderio e' frivolo, provocatore, "checca". Pretende baci da tutti i ragazzi della comitiva e soprattutto da uno di loro, soprannominato Iasis, il quale lo fara' ingelosire presto. All'aperto, dove si balla e si canta Amado mio, scoppiano come mortaretti, le effusioni, i trasalimenti, le gelosie e gli accasciamenti del giovane Desiderio. Siamo piuttosto dentro un musicall che dentro un idillio alessandrino, come suggerisce Bertolucci nella sua bizzarra presentazione. Alla fine degli anni quaranta certo Pasolini si sente piu' cresciuto e domina la sua materia con piu' maestria, ma la materia gli ha fatto lo scherzo a volte di scomparire, tanto e' stata travestita, allegerita. Si sara' capito a questo punto che le preferenze del recensore vanno tutte a Atti impuri, che certo aggiunge e suggerisce come nuove all'itinerario pasoliniano. Amadao mio prefigura invece scialbalmente, Ragazzi di vita. Detto cio', i due romanzi, dal punto di vista stilistico, si assomigliano in piu' punti. L'estrema letteralita' delle scelte aggettivali e sintattiche, la presenza di frequenti arcaismi fa pensare al giovane Pasolini che si allontana dal suo infuocato materiale di vita attraverso una ricerca letteraria piu' neoclassica che sperimentale. L'amata filologia e' presente in entrambi i romanzi, ma con esiti diversi, se non opposti.


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L'abiura del corsaro

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Eretico e Corsaro




L'abiura del corsaro
di Federico De Melis da "Il Manifesto" del 24 ottobre 1993 pag. 11


In un recente articolo di Enzo Siciliano sulle squallide proteste di un gruppo di cittadini di Ostia per la stele di una consagra da collocale all'idroscalo, dove Pasolini fu assassinato, si legge:
"Accettare l'opera di un poeta morto e' facile. I poeti del passato vanno a finire nelle antologie scolastiche, e questa fine, proprio funeraria, sembra degnissima alla maggioranza delle persone",

E' un passaggio che merita piu' di un ragionamento.

Dal 2 novembre 1975, il giorno della morte di Pasolini, assistiamo nel nostro paese ad un processo di espropriazione della sua persona e della sua opera che non ha precedenti. Si stenta a credere che esistano persone cosi' sognanti, da pensare che tenere senza sosta Pasolini in prima pagina sia un buon servizio per lui e per la societa'. Ma puo' darsi ve ne siano. Non parlo delle iniziative volte alla sua conoscenza, ma in particolare del banchetto ideologico che se ne fa - non passa giorno - nelle redazioni dei quotidiani, dei settimanali, di alcune case editrici, nelle scrivanie di accreditati opinion maker culturali. In una societa' sbranata dall'industria culturale e' assai difficile, al contrario di quel che pensa Siciliano, "accettare l'opera di un poeta morto". Pasolini, infatti, non e' morto. Si puo' pensare, in buona fede, che egli sia ancora vivo perche' continua a mordere con le posizioni corsare degli ultimi anni. E' piu' probabile, invece, che sia tenuto in vita. Il motivo e' questo: la sua biografia e le sue opere, finache la sua morte, si prestano facilmente a manipolazioni feticistiche, ad alimentare ed eccitare l'ideologia come feticcio di cui si ha gran fame nel nostro paese in questo passaggio epocale. Ed ecco "Santoro erede di Pasolini". Un contravveleno sarebbe forse la smitizzazione di Pasolini corsaro. Non parlo soltanto del polemista degli ultimi anni, ma, in senso lato, del Pasolini mosso da un'intenzione politica. Questo Pasolini e' stato trasformato in un luogo ecumenico dov'e' contenuto tutto e il contrario di tutto, da depredare all'uopo per le proprie immediate battaglie politiche o le proprie trovate giornalistiche. Tanto piu' che gli articoli propriamente corsari contengono a iosa possibili cortocircuiti con gli attuali misteri ed esigenze nazionali: il connubio mafia-politica, Tangentopoli, le stragi, il disintegrarsi dello Stato e dell'unita' nazionale. Alberto Asor Rosa tiene ferma, su Pasolini, l'idea dell'"impolitico". Qualche giorno fa, in un servizio televisivo dedicato alla stele di Ostia, il commentatore chiudeva dolendosi del fatto che la protesta fosse rivolta proprio contro chi, "come Pasolini, ha combattuto per la liberta' e la giustizia sociale". In questa riduzione televisiva di Pasolini e' equiparato a Nenni. Anche periodizzando con zelo all'interno della sua opera, non siamo mai in grado di trarne l'immagine di colui che si batte univocamente per la liberta' e la giustizia sociale. Nei momenti in cui, negli anni cinquanta e sessanta, gli si vuole impedire di esprimersi, non sembra, dalle sue risposte, che il fondamento del suo discorso sia la liberta'. E infatti, ebbe una certa simpatia per i socialismi reali, di cui tendeva a minimizzare, in virtu' dei loro presunti progressi sociali, il problema dell'individuo. Negli anni sessanta-settanta, poi la liberta' coincide per lui con il fallimento della prospettiva laica, determinato dallo sviluppo neocapitalistico, la "prima grande rivoluzione di destra". La liberta' e' allora liberta' dal consumo o la liberta' tollerata. Altrettanto problematica e' nell'opera di Pasolini la questione della giustizia sociale. Da cui soprattutto deriva il suo rapporto di odio-amore con la sinistra storica italiana. Infatti sente assai in anticipo che un passo sia pur minimo verso la giustizia sociale non potra' che venire dalla distruzione delle culture particolari e dei loro valori, dalle disgregazioni culturali delle classi, per cui li popolo diviene maasa: una cesura epocale di cui ritiene responsabili anche le organizzazioni della sinistra storica. Dalla gioventu' alla morte, senza sosta, punge dentro di lui la contraddizione irrisolvibile di chi, formatosi ideologicamente sui testi di Gramsci, e' disposto a sacrificare sull'altare dei valori liberta' e giustizia sociale, sull'altare del mito la storia. Pasolini e' "impolitico" perche' il suo argomentare e' frutto di una dialettica bloccata, che e' invece il motore ruggente della sua inquieta ricerca poetica. Nel suo Attraverso Pasolini, Fortini riproduce un passo del 79 in cui afferma, a proposito del Pasolini corsaro degli ultimi anni che "una voce clemante nel deserto non puo' usare un microfono". Fa un effetto di "monologo tragicomico", aggiunge Fortini. Viene in mente la famosa fantasia di Kafka che vuole leggere il suo romanzo davanti una nutrita platea. Kafka vuole portare alla luce, con voce onnipotente, le ragioni della poesia. In Pasolini v'e' un'analogo desiderio di rivalsa. Sono le ragioni della poesia, cioe' del suo io mitico, che egli porta in prima pagina sul Corriere della sera. E per farle valere da quel luogo ha bisogno di renderle anfibie, di travestirle. E cosi travestito, finalmente possono "entrare in societa'" alla stessa stregua, e con lo stesso potere di seduzione, di un sonante commento politico. In Pasolini, e' solo interrogando l'atto letterario che traiamo una lezione politica. Cosi' un buon servizio civile sarebbe riportare gli Scritti corsari e le Lettere luterane al loro alveo naturale, che e' la letteratura, leggere l'articolo delle lucciole come una poesia di Traumanar e organizzar. Non mancano scritti da cui si deduce qunto negli ultimi anni sentisse limitato il campo estetico, che il suo discorso civile perdeva forza d'attrazione tra le maglie di un ordine estetico. In questo senso Petrolio e' la testimonianza di un estremo tentativo di fuga. Questa fissazione alla dimensione estetica, che e' un modo di vedere la realta', e' una traslazione, al piano appunto visivo, del mito del "materno Friuli", che e' un modo di sentire, ricordare, pensare la realta'. Puo' far paura, pero' non c'e' dubbio che Pasolini sentisse la realta' come un eterno ritorno, come immobile ciclicita'. Percio' le rapidissime e tumultuose trasformazioni del mondo in cui era nato e aveva vissuto la propria adolescenza e giovinezza che in questi anni giunge al capolinea, gli ponevano un problema irrisolvibile. Lo avrebbe potuto affrontare attraverso la dialettica, processo intellettuale che per che per costituzione non gli apparteneva. Il termine "omologazione culturale", che ricorre cosi' spesso nelle sue pagine corsare, e' certo, piu' che una definizione di realta' storica, la quale a un occhio storico rimane sempre molteplice e potenziale, una formula mitologica. Mentre la societa' italiana subiva lo sviluppo neocapitalistico, il mito pasoliniano, per stargli dietro, per registrarlo, per denunciarlo, si travestiva in modi disparati, utilizzando mezzi disparati. Piu' la societa' italiana si corrompeva, piu' la stella fissa di Pasolini brillava, illuminava le marcescenze che ne derivavano. V'e' un rovesciamento dei termini - dall'"umile Italia" alla "nuova Preistoria" - ma non manca l'esigenza di anteporre alla realta' un'immagine del proprio io, impossibilitato a partecipare alla storia. La storia assume cosi' una valenza mitica. In una poesia dell'11 maggio 1969 - sta girando Medea - Pasolini scrive: "la storia e' rotonda, come il tempo dell'eternita', che essa quindi solo a parole contraddice - l'orso della primavera e Gramsci sono uno accanto all'altro". A quindici anni dalle Ceneri di Gramsci il padre del marxismo italiano ritorna non come ombra da esorcizzare o da tradire, come pungolo dell'ideologia inservibile di fronte al "vuoto" della storia in cui serenamente si perdono i ragazzi del Testaccio, ma come figure da affiancare all'eterno ciclo stagionale. Ma perche' affiancarla? Il tempo dell'eternita' non puo' che conglobare la storia. Se non erro l'immagine della "nuova Preistoria" compare in quella stupenda raccolta che e' Poesia in forma di rosa, scritta tra il 1961 e il 1964. La precocita' storica di questa immagine degli anni corsari puo' stupire perche' siamo abituati a pensare a uno sviluppo dell'opera poetica di Pasolini. Ma questo sviluppo non esiste se non sul piano delle forme, nel liberarsi progressivo, fino alla pura discorsivita', dell'ordine metrico. Gli incontri anonimi di Pasolini con ragazzi che poi si perderanno nel flusso dei giorni e degli anni assumono percio' stesso un valore epifanico. Cosi' la storia che, costretto a guardare dal di fuori, non gli apparira', come ad alcuni grandi scrittori reazionari di questo secolo, ai quali e' stato piu' volte impropriamente accostato, un flusso di sangue e di escrementi, ma come "la vita vera": una dimensione a cui - simile in questo a Rimbaud, scrive Fortini - non gli e' dato accesso. La storia diviene allora vita irriflessa, si mitizza. Se il mondo e' omologato, immagine mitica, si lascia dietro la storia, che e' pur sempre il mito. "Con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita", com'e' scritto ne Le ceneri di Gramsci. e la storia "e' finita" non solo perche' sviliscono "le belle bandiere", ma perche' Pasolini equivoca - un equivoco assai fecondo sul piano poetico e anche politico - su quel che la storia e' o non e'. E' la nostalgia della storia a sortire sul piano poetico le piu' belle prove di Pasolini; o meglio l'urgenza ideologica di recuperare in immagini un mondo perduto, un'Italia perduta, laddove entra in collisione con le immagini apocalittiche e annichilenti del Dopostoria. Da questa scintilla vien fuori il grande manierista, colui che, tra gli incendi postatomici in cui si perde la realta' tanto amata, l'Appenino o i rioni di Roma o "il bianco meridione", non puo' che rievocarla per frammenti e struggimenti. E' il Pasolini di alcune poesie de La religione del mio tempo e di Poesia in forma di rosa, dove l'elegia sopraffatta dal rumore della modernita', remerge a flussi come "canto a morto" per una civilta'. Il poeta di cui Moravia piangeva la perdita sembra bandito, a favore dell'immagine, ben piu' eccitante, dell'intellettuale corsaro e pederasta. Alla generazione dei trentenni, cioe' di coloro che hanno conosciuto Pasolini dopo la sua morte, fortemente condizionati dall'immagine sconcia del martirio, spetterebbe di demistificare, attraverso un rapporto muto col corpo vivo dell'opera. Parte di questa generazione, uomini per cui la giovinezza ha coinciso con quello che si sarebbe rivelato l'ultimo tratto della storia del comunismo, ha sentito in Pasolini un padre pedagogico che li potesse orientare o sorreger nei rovesci della storia. Cio' che non si puo' chiedere a un poeta. Dopo la sua morte, Pasolini e' rimasto un fantasma, perche' l'industria culturale lo ha voluto tenere equivocamente in vita. La sua opera non e' stata civilmente metabolizzata, ma scissa e gettata pezzo a pezzo in un gran pentolone postmoderno. Pasolini, i suoi figli dovrebbero ucciderlo davvero, e cibarsene davvero, come nel bosco di Nemi: solo cosi' potranno ricomporre la sua opera. Invece i suoi nipoti e' giusto che lo incontrino in buone antologie scolastiche, o edizioni critiche.

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Pasolini, la sintesi del sacro e del mito.

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Eretico e Corsaro






Pasolini, la sintesi del sacro e del mito.

"I superamenti, le sintesi! sono illusioni,
dico io, da volgare europeo, ma non per cinismo –

(…)

… La tesi
e l’antitesi convivono con la sintesi: ecco
la vera trinità dell’uomo né prelogico né logico,
ma reale. Sii, sii scienziato con le tue sintesi
che ti fanno procedere (e progredire) nel tempo (che non c’è),
ma sii anche mistico curando democraticamente
nel medesimo tabernacolo, con sintesi, tesi e antitesi."


Dopo Uccellacci e uccellini (1966) Pasolini iniziò una nuova fase della sua produzione cinematografica che potrebbe essere definita, molto approssimativamente, come fase del mito – Edipo re e Medea - del racconto allegorico o della parabola esemplare– Teorema e Porcile – e che in molti casi venne considerata dai critici, soprattutto contemporanei del regista, come un abbandono della realtà e del presente storico in favore di una fuga verso il mito e la rabbia autobiografica. In una temperie culturale che favoriva le opere impegnate e dalla chiara connotazione politica, l’autore di Teorema venne assimilato a coloro che sono

«convinti di scardinare la realtà senza la realtà» e che ricorrono a «simboli sclerotizzati e piccolo-borghesi, pronti a dimenticare la furia e la disperazione, inclini a un appiattimento delle contraddizioni in una gelatinosa pagina bianca»

in altre parole si limitava la componente ideologica di queste opere sottolineandone, con un giudizio di valore, la regressività e il "decadentismo" dovuti, probabilmente, ad un impasse poetica e ad un indugiare attorno alle tematiche psicologico-barbariche care alla sensibilità estenuata dell’artista, forse «sopravvissuto» e divenuto, ormai, un’«autorità» dell’intellighenzia culturale italiana. Pasolini, dal canto suo, in alcuni interventi del periodo rifiutava decisamente le opinioni di coloro che definivano la sua produzione più recente come una fuga verso il mito estetizzante o verso il ripiegamento solipsistico dell’autobiografismo, e rivendicava il profondo realismo e l’estrema attualità delle sue opere; criticando invece il superficiale contenutismo e l’opportunistico "allineamento a sinistra", anche se spesso in buonafede, di molte opere che trattavano direttamente le tematiche contestatarie e rivoluzionarie.

Asserendo che: "È realista solo chi crede nel mito, e viceversa" e che "il «mitico» non è che l’altra faccia del realismo"Pasolini difendeva la concezione "mitica" della realtà come autentica ed "originaria", in quanto è proprio dell’uomo antecedente l’era industriale e tecnologica non considerare la natura come "naturale", bensì come ierofania, disvelamento perturbante delle radici ancestrali della vita, luogo in cui le contraddizioni, le tesi e le antitesi, il pragma e l’enigma, convivono affiancate ed in cui il "superamento", la sintesi hegeliana, non ha ragione di essere. Nello stesso momento Pasolini denunciava l’irrealtà e lo "scandalo" di una visione del mondo, quella del pragmatismo moderno, che escludesse il mitico ed il sacro dal proprio orizzonte appiattendo la natura e la storia in un unico Presente dilatato ed omnicomprensivo.

Ma, come la serva di Teorema si fa seppellire nel cantiere o, in Medea, il centauro del mito continua a vivere accanto al centauro "appiedato" e razionale, così il sacro, pur essendo stato superato e dimenticato, pur avendo le caratteristiche di una sopravvivenza di un universo irrimediabilmente perduto, continua a persistere nel mondo della razionalità tecnicistica ed esercita ancora la sua funzione perturbatrice.

Parlare della concezione sacrale del mondo in Pasolini equivale a parlare di "tutto" Pasolini, di tutta la sua opera e di tutta la sua vita, da Il nini muàrt fino a San Paolo, dalla corona di spine della Ricotta alle poesie di Trasumanar e organizzar. Ciò che interessa in quest'ambito è la funzione ed il valore che ha assunto la sacralità in un certo periodo della vita dell’artista e della sua coscienza ideologica. Do qualche esempio.

In Teorema l’assunto è quello della apparizione del sacro in una famiglia dell’alta borghesia settentrionale, Pasolini utilizza il termine di "ierofania" mutuandolo "inconsapevolmente" da Mircea Eliade, e quello di verificare gli effetti perturbatori di tale apparizione. La parte positiva del film, non in senso estetico ma in senso ideologico, sta appunto nella sconvolgimento e nella crisi successiva che l’angelo-demonio semina fra i vari membri della famiglia; i quali reagiscono alla crisi mettendo in discussione il loro ruolo sociale, la loro esistenza e cercando di risolverla in una nuova vita. Significativamente solamente la serva, in quanto depositaria dell’arcaica religiosità contadina, riesce ad approdare ad una soluzione di questa crisi attraverso la via della santità, la folle santità dei mistici; mentre le soluzioni offerte ai membri della famiglia borghese conducono alla sterilità – l’arte neoavanguardista del figlio – alla negazione di se stessi – l’erotomania della madre e la pazzia della figlia – oppure alla rabbia impotente – l’urlo del padre nel deserto.

Medea, invece, parla dello scontro diretto tra il mondo della storia, laico e positivista, appartenente a Giasone (che ha dimenticato i vecchi insegnamenti del centauro mitologico ormai muto) e il mondo della barbarie, intriso dai riti di una religione preistorica, da cui proviene la strega Medea. Quest’ultima in un primo tempo, dimentica della cultura ancestrale da cui proviene, superata da quella del marito, dona il vello d’oro che da feticcio del culto animistico della fertilità viene degradato a trofeo di guerra. Questo superamento, però, non impedisce il traumatico e mortifero ritorno di Medea furiosa alle antiche pratiche magiche e al rito estremo e terribile dell’infanticidio.

Quindi, secondo Pasolini, il sacro aveva nei confronti della società consumistica, che deve desacralizzare tutto per fare rientrare ogni cosa nel presente del ciclo di produzione, una funzione dirompente, di opposizione e contestazione, per il solo fatto di alludere ad una "alterità" non assimilabile ed ineludibile. L’impegno e l’attualità per Pasolini erano dunque in questa ricerca "dell’idea dell’uomo che sta scomparendo" e nel rifiuto del mero contenutismo in cui, molto spesso, ricadevano le opere contestatarie intrise di "gauchismo alla moda", colpevoli, secondo lui, di negare il potere usandone lo stesso linguaggio e favorendo in questo modo la sua irrevocabile affermazione.

C’è da dire, però, che Pasolini nella sua nostalgia per il sacro, e nella disperata ricerca delle sopravvivenze di quest’ultimo, non si rifaceva ad alcun culto o ad un popolo particolare, perché era cosciente che da sempre il sacro "spontaneo" delle civiltà contadine era stato "istituzionalizzato" dalle varie autorità religiose – gli sciamani, i preti, ecc. – e nello stesso tempo riconosceva 

"in questa nostalgia (…) qualcosa di sbagliato, di irrazionale, di tradizionalista".

Inoltre quanto detto finora sulla nostalgia del sacro e sulla sua carica "scandalosamente rivoluzionaria" non deve essere inteso come la teorizzazione profetica, sulla falsariga della profezia di Alì dagli occhi azzurri, di una possibile eversione del mondo contadino-religioso ai danni della civiltà tecnologico-razionale. In realtà Pasolini difendeva il sacro perché: "… è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere"e nel frattempo non si faceva più illusioni sul Terzo Mondo, ormai avviato quasi irrevocabilmente, con l’eccezione di alcune sacche di resistenza, verso il neocapitalismo:

"Hanno una sola idea, in quelle teste innocenti,e molto appetito. È finito l’incubo agricolo,e si mangia. Si mangia a Homs,si mangia a Aleppo.Sono stati lavati, tosati, vestiti, calzati:e ora il padre con le mammelle li guarda, bravi figlioliche si sono liberati dei sacrifici umani e della siccità,e, frastornati da tale «catastrofe spirituale»,se ne vanno nudi sotto i panni militari, come vermi,come bambini. …
(…)
Beata Resafa non ancora raggiunta dai pali della luce,ché quanto ad Aleppo,l’ansia del consumo fa dei maschi di questa cittàtanti bovaristi, in attesa di un Bourghiba."



Ma più oltre, in questa stessa poesia, contraddicendosi apparentemente, Pasolini individua la valenza reale del suo portato nostalgico ritrovando il sacro e il luogo del suo "ritorno" nell’attività artistica:

"Qui sì, sicuramente, sono sepolte delle ossa!E tutto ciò ch’è sepolto è destinato alla resurrezione(ancora, almeno, per un figlio di contadini friulani).Come un indovino ne sento la consolatrice presenza.Del resto è poco che ho capito per quale ragionela parola «ritorno» è quella che mi sembra più cara,facendomi tremare misteriosamente.
Mite solitudine del Qualat Sm’aan,se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo."


Ideale suggello di questo periodo della produzione pasoliniana, e premessa di quello successivo, potrebbero essere gli Appunti per un’orestiade africana, un’opera piuttosto trascurata nella filmografia dell’artista ma che, ad esempio, Adelio Ferrero colloca tra le «esperienze meno note, ma certamente più alte dell’autore». Questa documenta con una raccolta di figure e luoghi della Tanzania contemporanea la ricerca effettuata da Pasolini dei possibili protagonisti di un film, tratto dalla trilogia di Eschilo, che non fu mai realizzato. Attraverso una «proiezione nello spazio (la trilogia lo sarà nel tempo) di una mitica condizione popolare perduta, inattingibile nel presente» Pasolini analizza la possibilità delle "sopravvivenze" del mito in una società che si trovava, con il bagaglio del mondo antico ancora intatto, sul varco dell’era industriale. I visi, i gesti, i sorrisi potevano essere sia quelli dell’uomo delle origini sia quelli dell’ultimissimo istante di una ragazza – la possibile Elettra o Cassandra– che si perdeva nella folla. Qui "l’idea dell’uomo" esisteva ancora nonostante stesse per essere, anche qui, ingoiata dal futuro. Ma ciò che differenzia gli Appunti dalla Trilogia è il fatto che questo "ritorno", pur essendo forse nostalgico, non è ancora "disperato" ma ha ancora dentro di sé la progettualità, la ricerca, l’utopia.

Mi riferisco soprattutto alla figura che assumono le Erinni nella ricostruzione pasoliniana. Rappresentate attraverso l’immagine bellissima delle piante scosse dal vento impetuoso, le Erinni da divinità oscure e malefiche vengono trasformate in Eumenedi, benefiche tutrici della natura nella Polis appena fondata da Oreste. Le Erinni sono la metafora con cui Pasolini esprime l’antica cultura africana maturata nei millenni ed arrivata ad esprimere compiutamente se stessa nell’imperturbabilità del rapporto dell’uomo con la natura; e come queste divinità preistoriche possono trasformarsi in divinità protettrici così l’antica cultura può permanere, mutata ma ancora viva, nella nuova ed utopica Africa della democrazia e del progresso. Pasolini dunque esprimeva "la possibilità di una diversità", un possibile futuro alternativo a quello del modello di sviluppo neoindustriale, sia occidentale sia socialistico, che mantenesse intatta, accanto alle nuove forme di vita sociale, la "religione delle cose" tipica delle civiltà contadine. "Religione" che deve essere intesa nel significato più ampio del termine, quindi non di mera persistenza, nell’africano contemporaneo, dell’esteriorità cultuale dei riti animistici ma di una perpetuazione di una visione del mondo che percepisca la sacralità e il mistero che si manifestano nella vita dell’uomo, e che quindi renda l’uomo non "alienabile" e non "riducibile" alla sfera entropica del ciclo di produzione.

Pasolini nell’interrogare un gruppo di studenti africani sulla possibile realizzazione del film, pone anche questa questione del futuro alternativo e della persistenza del passato. Invece la maggior parte degli studenti, o comunque le "correnti di pensiero" che fanno riferimento a qualche studente "dominante", sembra preoccupata di dare di se stessa e dell’Africa postcolonialista un’immagine quanto più moderna possibile, rifiutando nello stesso momento sia la possibilità della realizzazione del film così come la concepisce Pasolini sia le allusioni che fa il regista attorno alle "sopravvivenze" culturali. Ad esempio, quando Pasolini accenna alla carica di "capotribù" a cui potevano appartenere i padri degli studenti stessi, questi sorridendo, ed in alcuni casi con uno sguardo risentito, negano l’effettiva importanza di questa carica nel sistema sociale dell’Africa contemporanea, evidenziando invece l’importanza e il numero di cambiamenti che il loro paese ha affrontato nell’ultimo decennio.

Secondo Lino Micciché proprio in questo «no», in questo «contrasto» con gli studenti africani e nel

«prendere atto che la temuta "mutazione antropologica" aveva superato le società affluenti e il capitalismo maturo, per dominare anche in quel Terzo Mondo dove il suo utopismo aveva ritenuto possibile rievocare lo spirito di "antiche civiltà sepolte" e ancora incorrotte dall’etica del mondo industriale», 

si trovano le ragioni del brusco abbandono del Mito, e del «rifugiarsi» in esso, per aver constatato l’irrealtà della «purezza incontaminata» delle popolazioni africane, e le radici della nuova produzione cinematografica che avrebbe visto una fuga verso un passato altrettanto illusorio. Ho già espresso più sopra la mia riserva sulla definizione del «rifugio nel Mito» - senza comunque dare giudizi sul valore estetico dei film di quel periodo – e la esprimerò più avanti su quella di «fuga nel passato»; ciò che mi preme sottolineare ora riguarda i tempi e le modalità della disillusione pasoliniana. Innanzitutto ridimensionerei l’importanza che ha avuto il confronto "negativo" con gli studenti di colore: Pasolini sapeva che, in quanto studenti, gli africani dell’intervista non erano quel che si dice un «campione rappresentativo», ma, privilegiati che vivevano ormai da tempo in un paese occidentale, potevano avere quell’"ansia di conformismo" e quella visione nevrotizzante del "mondo bianco" - "il fascino bianco del potere" di cui Pasolini aveva parlato a proposito di alcuni neri d’america - da cui derivavano le loro perplessità e le loro proteste di modernità. Inoltre, secondo Micciché, Pasolini avrebbe avuto proprio in occasione delle riprese degli Appunti la percezione del cambiamento antropologico avvenuto tra i suoi popoli amati, e da questa avrebbe maturato la sua disillusione ideologica e il mutamento di rotta in senso artistico con l’abbandono del Mito. Ma la conoscenza che il regista aveva dell’Africa e dei suoi popoli non si limitava ai sopralluoghi cinematografici e a delle visite sporadiche, ma era costituita dalla lunga frequentazione "dei regni della fame" che era iniziata sin dai primissimi anni Sessanta; quindi l’avvertimento del mutamento in senso neoindustriale non poteva, per quanto fosse stato repentino, giungere in maniera così folgorante ed improvvisa da sorprendere Pasolini nel momento stesso in cui si apprestava a girare un film, ed essere allo stesso tempo così profondo da provocare la crisi creativa che sarebbe stata risolta nell’ulteriore «fuga» della Trilogia. Pasolini, in realtà, sin dai tempi de La rabbia – il mediometraggio del ’63 costituito da spezzoni documentaristici – era cosciente che una delle possibili "vie africane" era quella neocapitalista; inoltre, a riprova del fatto che quella degli Appunti non è stata una folgorazione ed una fine definitiva di una speranza, ancora nel 1970 Pasolini poteva scrivere articoli come: Nell’Africa nera resta un vuoto fra i millenni, in cui, se da un lato constatava con orrore che le tenaglie dello sviluppo più distruttivo si stavano stringendo attorno al continente africano e che si stavano compiendo dei veri e propri genocidi, come nel caso dei Denka nel Sudan o degli Ibo in Nigeria, d’altro canto nutriva ancora una certa speranza, seppur flebile e dubbiosa, per il socialismo rigoroso di Sekù Turè in Guinea e per la possibile alternativa della "rivoluzione conservativa" che questo rappresentava.

Ma se ci può essere qualche dubbio attorno alle tappe e alle modalità nella svolta artistica ed ideologica dei primi anni Settanta, è indubbio che questa svolta c’è stata e che, con il nuovo decennio, era iniziato il periodo della "disperata vitalità" e della poetica del corpo come ultima sopravvivenza di un mondo distrutto.

Fabio Frangini



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Nico Naldini e la scelta del cinema di Pasolini.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 Nico Naldini e la scelta del cinema di Pasolini.
Secondo una tesi affascinante (ma discutibile) di Nico Naldini la scelta del cinema, all’inizio degli anni Sessanta, da parte di Pasolini fu la naturale conseguenza di una crisi personale e soprattutto ideologica; in particolare, riferendosi ai tre progetti di romanzo che erano sul tavolo dello scrittore all’inizio del 1960 (Il Rio della grana, a completare la trilogia costituita dai due romanzi romani; La Mortaccia e Storia burina) Naldini dice:


"Nessuno di questi tre abbozzi si svilupperà compiutamente in un romanzo e poche pagine di ciascuno compariranno in Alì dagli occhi azzurri. L’impedimento alla loro realizzazione è un intreccio di cause pratiche – tra cui l’impegno per la realizzazione del film [Accattone] – e di crisi personale e ideologica. La crisi del marxismo alla fine degli anni Cinquanta e l’avanzata della società neocapitalistica tolgono ogni vitalità a queste storie; le hanno fatte rapidamente invecchiare retrodatandole in un mondo non più riconoscibile. Le borgate, da luogo di vitale speranza politica, si sono trasformate in luoghi di violenza e disumanità. Di questo mondo rimangono le sopravvivenze fisionomiche e il cinema è appunto il nuovo mezzo espressivo per testimoniare le vecchie passioni. L’«istintivo passaggio» al cinema in questo modo si presenta anche come recupero del passato là dove è ancora possibile trovarlo."


Secondo Naldini, dunque, sin dall’inizio dell’attività registica il "disperato" e "sacrale amore per la realtà" del poeta di Tal còur di un frut per il mondo arcaico e contadino di Casarsa o dell’autore di Ragazzi di vita per le borgate preistorico-moderne della "città di Dio" era già stato profanato, e quindi sconsacrato, dal dilagare apparentemente inarrestabile dell’assolutismo neocapitalista. Il Friuli "di cà de l’aga" con i suoi paesaggi era ormai lontano, e così la "pura luce" della Resistenza e la "scoperta" prima del comunismo e poi di Marx avvenuta durante i giorni delle lotte contadine per l’attuazione del lodo De Gasperi. Giorni che saranno poi ricordati, fra l’altro, nel romanzo Il sogno di una cosa e in Poesia in forma di rosa:

"…Dio!, belle bandiere
degli Anni Quaranta!
A sventolare una sull’altra, in una folla di tela
Povera, rosseggiante, di un rosso vero,
che traspariva con la fulgida miseria
delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie
- e col fuoco delle ciliegie, dei pomi, violetto
per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva,
ardente rosso affastellato e tremante,
nella tenerezza eroica d’un immortale stagione"


Lontana era Casarsa fuggita assieme alla madre, "come in un romanzo", nel gennaio del 1950, a seguito dello scandalo di Ramuscello, ma lontana sarebbe stata anche, sempre secondo Naldini, la città scoperta all’alba di quel decennio fondamentale nella carriera dell’artista, che "povero come un gatto del Colosseo", un disperato "di quelli che finiscono suicidi" si aggirava per Roma, le sue borgate:

" …dove credi
che la città finisca, e dove invece
ricomincia, nemica, ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti"


Quella Roma millenaria e modernissima, imperiale e barocca, che divenne ben presto il centro assoluto dell’universo esistenziale e poetico di Pasolini, proiettando sempre più sullo sfondo della memoria il Friuli contadino:

"Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre,…"
"Ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali."

Passati e come appartenenti ad un'altra epoca sarebbero stati anche i "viventi", i protagonisti dei racconti e dei romanzi romani: gli "aristocratici" abitanti di Trastevere, i borgatari dei quartieri creati nella periferia in seguito agli sventramenti fascisti degli anni Trenta, ma soprattutto i sottoproletari delle baracche all’estrema periferia romana, immigrati da poco dal Sud e mescolati, con la loro cultura mitico-ancestrale di contadini, al mondo drammatico e spietato della Grande Città. Per Pasolini gli abitanti della capitale del cattolicesimo erano in realtà pagani, toccati dal Cristianesimo solo superficialmente (nelle pratiche rituali e superstiziose) avevano piuttosto una filosofia cinico-stoica, sopravvissuta a diciassette secoli d'evangelizzazione, e una morale basata sull’onore invece che sulla Pietas cristiana - tipica invece degli alti-italiani come il poeta di Casarsa - vivevano in un mondo parallelo e toccato solo marginalmente dal mondo borghese. Anzi, forti della loro cultura antica e sempre viva – ne è testimone la vivacità del dialetto-gergo che continuamente mutava e si rinnovava – disprezzavano come inetti i "signorini", i "farlocchi", i "figli di papà".

Sempre in Squarci di notti romane Pasolini scriveva:

"Questa Roma non del 1950 ma dell’ultimo istante, dell’ultimo vaffanculo gridato dal ragazzo che passa per il lungotevere infebbrato con la camicia bianca già sbottonata – questa Roma così ultima e vicina che solo chi la vive in piena incoscienza è capace di esprimerla… tutti sono impotenti davanti a lei, il papa o Belli redivivo, tutti arrossiscono davanti alla sua bellezza troppo nuda, al modo di dire nato la sera stessa, al mutamento di tono, leggerissimo ma bruciante già d’una nostalgia ossessiva, nel gridare una frase che il dialetto presenta da qualche secolo come impossibilitata a qualsiasi mutamento…"


Questa città e i suoi abitanti già all’inizio degli anni Sessanta, dunque, avrebbero incominciato a corrompersi profondamente dal di dentro, rimanendo se stessi solo nell’immagine, nelle fisionomie dei vicoli e dei visi, perdendo man mano l’originalità del loro linguaggio verbale per mantenere solamente il linguaggio del corpo. Per effetto di questa corruzione, rappresentabile emblematicamente dall’inurbamento delle famiglie delle baraccopoli nei palazzi-lager dell’ina-case, nei sottoproletari romani scompaiono, come in un precipitato chimico, gli elementi "non assimilabili" che costituivano la loro diversità – e, secondo Pasolini, la loro salvezza – e rimangono solamente i corpi muti, uniche testimonianze veritiere di un passato non recuperabile. Quindi la scelta del medium cinematografico da parte di Pasolini sarebbe stata indotta quasi forzatamente da questo mutamento, anche se recepito inconsciamente, dell’oggetto poetico, che avrebbe avuto nell’immagine l’unica possibilità di essere espresso e mantenuto in vita; Franco Citti, Ettore Garofalo avrebbero dunque offerto in Accattone e in Mamma Roma non il loro essere sottoproletario e vivente nella sua interezza, ma unicamente il loro apparire, il puro segno visivo, magari riscattato esteticamente dalla citazione o ispirazione dotta - il Ragazzo con canestro di frutta di Caravaggio, Masaccio, ecc. - perché il loro vissuto era ormai diventato altro rispetto a quello della generazione precedente, o anche di solo quattro o cinque anni prima, che era scomparso o stava morendo di fronte alla violenza dell’offensiva del mondo nuovo.

Qui sta il fascino della tesi di Naldini, ma, secondo me, anche il suo limite.

Il fascino maggiore di quest'opinione sta nel rispondere ad una domanda comune sull’opera pasoliniana - cioè per quale ragione Pasolini abbia incominciato a fare cinema - in maniera originale e suggestiva, annettendo alle motivazioni artistiche e poetiche anche una componente ideologica: la constatazione della metamorfosi sociale in atto. Ma l’errore di questa affermazione sta nel considerare sincronici i vari momenti della maturazione del pensiero pasoliniano; si potrebbe dire che Naldini guardi al Pasolini dei primi anni Sessanta attraverso gli occhi del Pasolini degli anni del Caos, o addirittura al Pasolini "corsaro" e "luterano" degli anni Settanta; in altre parole dà come compresenti quegli elementi di critica sociale e politica che caratterizzeranno invece affermazioni posteriori come quelle dell’Articolo delle lucciole o «Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio». Basta prendere in mano un brano qualsiasi del dialogo con i lettori che Pasolini intrattenne sul settimanale "Vie Nuove" dal 1960 al 1965 per rendersi conto che, nonostante il distacco progressivo degli ultimi anni, credeva ancora nella "purezza" e nella "santità" del proletariato, nella fattispecie proletariato comunista, e dunque poteva ancora amarlo:

"Io, cupo d’amore, e, intorno, il coro
dei lieti, cui la realtà è amica.
Sono migliaia. Non posso amarne uno.
Ognuno ha la sua nuova, la sua antica
bellezza, ch’è di tutti: bruno
o biondo, lieve o pesante, è il mondo
che io amo in lui…"

Questo non vuol dire che Pasolini ignorasse i mutamenti che stava subendo il mondo che amava; il boom economico cominciava, in Italia, la sua fase di assestamento e l’emigrazione nel Meridione stava spopolando interi paesi, e alla desertificazione demografica si affiancava quella culturale. Anche i paesi del Terzo Mondo liberandosi in quegli anni dal colonialismo diventavano "paesi in via di sviluppo" scegliendo l’opzione industriale. Coevi ai precedenti, dunque, sono questi versi:
"Ché io,
del Nuovo  Corso della Storia
- di cui non so nulla – come
un non addetto ai lavori, un
ritardatario lasciato fuori per sempre -
un sola cosa comprendo: che sta per morire
l’idea di uomo che compare nei grandi mattini
dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro, …"

oppure:

"… Non sapete?Proprio
insieme al Barocco del Neo-Capitalismo
incomincia la Nuova Preistoria"


Ma è proprio nell’ambiguità del concetto di "Nuova Preistoria" che il Pasolini dei primi anni Sessanta si differenzia da quello posteriore, questa "Nuova Preistoria" non è ancora, o non lo è del tutto, il mondo senza storia dell’entropia borghese ma è il mondo nuovo successivo alla deflagrazione terzomondiale. Nella Ricotta Orson Wells citando Pasolini recita:

"…O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta…"


ma soprattutto nella Profezia di Alì dagli occhi azzurri Pasolini diceva:

"…deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri
usciranno da sotto la terra per uccidere
usciranno dal fondo del mare per aggredire
scenderanno dall’alto del cielo per derubare
e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli
- distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…"
Ancora nel 1964 nel risvolto di Poesia in forma di rosa Pasolini indicava il motivo fondamentale di questa opera come il: "tentativo stentato di identificare la condizione presente dell’uomo (diviso in due Razze, ormai, più che in due Classi) come l’inizio di una Nuova Preistoria", dunque le "due Razze" vivevano ancora ben distinte ed inconciliate. Sempre di quegli anni sono i viaggi all’estero: nel ’61 in India – Bombay, Nuova Delhi, Calcutta – con Alberto Moravia ed Elsa Morante, quindi, nello stesso anno, in Kenia e a Zanzibar; nel ’62 trascorre il mese di gennaio in Egitto, Sudan, Kenia e Grecia; infine nel ’63 è nello Yemen, in Kenia, Ghana e Guinea; di quell’anno è, inoltre, la stesura della sceneggiatura del film: Il padre selvaggio, che doveva essere ambientato in Africa, e che non sarà mai girato per ostacoli produttivi conseguenti al processo per vilipendio alla religione della Ricotta. Pasolini comincia a viaggiare, e le borgate romane si allargano fino a diventare il Terzo Mondo intero, forse perché la periferia romana inizia ad andargli stretta e ad essere troppo simile a quella di qualsiasi altra periferia del mondo occidentale.

In un’intervista del 1967 Pasolini ormai affermava:

"Ebbene la realtà che prima mi interessava, intendo dire il sottoproletariato romano delle borgate, sta cambiando rapidamente, non lo riconosco più. Il sottoproletariato romano che prima era solo esistenzialmente reale, ma non aveva una realtà storica, oggi sta diventando una frazione del Terzo Mondo."


Ma questo è solo l’inizio di un processo e, d’altra parte, l’intervista appartiene ad un periodo conseguente nell’itinerario pasoliniano di "presa di coscienza".

Riassumendo si potrebbe dire che nei primi anni Sessanta era ancora viva in Pasolini l’illusione, perché poi si rivelerà tale, di una possibile salvezza palingenetica, per quanto contraddetta e lontana da essere postulata dogmaticamente, proveniente dai "Regni della Fame" verso l’occidente civilizzato; l’amore per il corpo è ancora amore "per il mondo che c’è" [e non "c’era"] in esso. Questo sogno palingenetico e questo amore degno di "una forza del passato" era chiaramente eterodosso rispetto al pensiero marxista tradizionale, di fronte alla cui istituzionalità Pasolini aveva da sempre avuto un atteggiamento critico e complesso, come nei famosissimi versi delle Ceneri di Gramsci:
"Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;"


Ma, d’altro canto, pur avendo acuito all’inizio del decennio la propri eterodossia arrivando a rinnegare parte della sua precedente attività culturale – è di quegli anni il grido: "ABIURO DAL RIDICOLO DECENNIO!"(riferendosi agli anni Cinquanta) di Poesia in forma di rosa – Pasolini rifiutò sin dai primi momenti la parola d’ordine del "disimpegno" che caratterizzava, in ambito culturale, gli anni del boom economico e della crisi delle ideologie. In particolare Pasolini si schierò decisamente contro la cosiddetta "neoavanguardia", raccolta in Italia principalmente attorno al Gruppo ’63, la quale rifiutava l’ideologia come chiave interpretativa della realtà e si proponeva di superare la letteratura degli anni Cinquanta negandone le strutture classiche e, rifacendosi alle avanguardie storiche, demistificando, attraverso la sperimentazione, il linguaggio tradizionale che, in un periodo di mercificazione letteraria e di riproducibilità tecnica, era divenuto irrimediabilmente logoro ed incapace di farsi portatore di significati. In qualità di esponente di punta della cultura del decennio precedente e in quanto erede della tradizione "umanista", Pasolini era direttamente coinvolto in questa "iconoclastia desacralizzante", ma oltre a questo coinvolgimento personale l’autore di Una vita violenta accusava i neoavanguardisti della svalutazione, in campo letterario, della cultura precedente, classica e più recente, e dell’accettazione-integrazione, attuata con "cinismo ed eleganza", dei nuovi valori, pur se ancora indefiniti, della tecnica e dell’industria culturale, in altre parole quelli del neocapitalismo.

Dunque già nei primi anni Sessanta Pasolini avvertiva la mutazione che stava subendo il capitalismo classico e ne rifiutava, da intellettuale marxista ancora "impegnato" le nuove idee e le nuove sirene.

di

Fabio Frangini


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