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lunedì 10 giugno 2013

IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA» E «SALÒ»

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





STORIA DEL NUOVO TEATRO (I modulo)
Prof. Cristina Valenti
Gruppo di studio su: IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA» E «SALÒ»
(Adriano Fraulini, Letizia Torelli)
2ª Parte:

IL CORPO DI PASOLINI: «SALÒ»
di Letizia Torelli

 


Mi è difficile parlare di Pasolini. È difficile comprendere e accogliere la sua spietata e cristallina lucidità. È difficile, nel 2012, ascoltare le sue parole del 1975 e non farsi travolgere da un vortice di emozioni che toglie il respiro. È difficile ascoltarlo parlare, oggi, di «una depauperazione dell’individualità che si maschera attraverso una sua valorizzazione».
È difficile fare un discorso sul corpo in Pasolini, perché fare un discorso sul corpo significa fare un discorso storico, politico, etico, con un’estensione e un’implicazione talmente vaste del e nel reale che davvero si avrebbe voglia di fare un montaggio di tutte le interviste, i film, i documentari, di tutto ciò che parla direttamente con la sua voce e non aggiungere altro.
Cercando un modo, un punto d’accesso, non potendo rimanere in silenzio, mi lascio colpire dalle date: 1922 - 1975.
Poco più di cinquant’anni. Cinquant’anni però che vedono l’Italia passare attraverso il Fascismo, la guerra, la ripresa, il boom economico degli anni Cinquanta, e il fermento sociale dei decenni Sessanta-Settanta.



1964: Comizi d’amore.
1968: Teorema. La sequenza del fiore di carta.
1975: Salò o le 120 giornate di Sodoma.

***

1. La teatralità di «Salò»

Pasolini: coscienza critica della società, fotografo del momento di trasformazione epocale della cultura e della civiltà italiana, accusatore di quello che ha definito il «genocidio antropologico» perpetrato dall’ideologia consumistica.
È evidente, come lui stesso tiene a precisare in un’intervista durante le riprese di Salò, che la spinta per questo film nasce dal suo detestare il potere di oggi


Ognuno odia il potere che subisce. Quindi io odio con particolare veemenza il potere di questi giorni, oggi 1975. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile che non ha niente da invidiare alle manipolazioni fatte da Himmler o Hitler, li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi. I valori del consumo che compiono quello che Marx chiama il genocidio delle culture viventi, reali.

Tenendo queste parole come cornice possiamo cominciare a parlare di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il film, tratto da Le 120 giornate di Sodoma di François de Sade (1785), è ambientato durante la Repubblica di Salò: tutta la narrazione è trasposta nell’Italia settentrionale del 1944.
Dopo aver firmato ciò che più avanti scopriremo essere un crudele codice di comportamento, quattro figure: un duca, un vescovo, un banchiere e un giudice, guideranno un feroce rastrellamento durante il quale verranno sequestrati giovani figli di partigiani, partigiani stessi e sovversivi di entrambi i sessi. I giovani saranno trasferiti in una enorme villa isolata dal mondo al fine di soddisfare, grazie all’aiuto di tre ex-meretrici e dei soldati della milizia, le perversioni sessuali dei quattro nazifascisti. In un crescendo di violenza si consumano le vicende dei giovani fino a quella che potremmo chiamare una vera e propria "soluzione finale".
Lavorando alla sceneggiatura insieme a Sergio Citti (al quale era stato offerto il film), Pasolini conferisce all’opera una struttura di carattere dantesco: «Ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura una specie di verticalità, una specie di ordine di carattere dantesco». 


La teatralità di Salò nasce dall’esigenza di rendere evidente la realtà sociale che ha costretto Pasolini ad ‘abiurare’ la Trilogia della Vita. È una teatralità diffusa nella scenografia, nelle inquadrature, nella "verbosa verbalità" delle battute secondo quanto dice lo stesso regista. Peraltro, il riferimento alla rappresentazione teatrale è già in Sade, quando parla dell’"arena dei tornei progettatati" destinata alla narratrice, che "si trovava nella posizione dell’attore sul palcoscenico e gli ascoltatori, nelle nicchie, erano come spettatori in un anfiteatro". L’anfiteatro viene coerentemente aggiornato da Pasolini nella struttura scenografica del dramma borghese. […] Al centro dell’attenzione stanno le narratrici, come tre prime attrici o primedonne del varietà.

Ogni girone è caratterizzato da una particolare perversione sessuale, magistralmente introdotta dalle tre narratrici allo scopo di solleticare i desideri dei quattro signori che potranno così realizzare le proprie fantasie sui ragazzi resi inermi.



Il sesso è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano, è la mercificazione del corpo umano. La riduzione del corpo umano a cosa è tipica del potere, di qualsiasi potere. Il potere mercifica i corpi: quando Marx parla dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo parla effettivamente di un rapporto sadico.

La mercificazione dei corpi trova espressione e si intreccia nel procedimento metanarrativo. Come ha osservato Casi, Salò è giocato su una teatralità diffusa, il film «si presenta infatti come rappresentazione di una rappresentazione». Ne sono testimonianza i seguenti brani:

La narrazione delle tre donne che si truccano davanti a uno specchio da camerino;

Gli stessi signori che recitano una parte travestiti da donna per la cerimonia nuziale;

Il reclutamento delle vittime che avviene come in un provino;

La parola, fondamento della teoria teatrale pasoliniana, che si manifesta in tutta la sua potenza;

I ragazzi che sono spesso mascherati o costretti a interpretare delle parti;

Le torture finali che sono osservate dai signori con un binocolo da teatro.

Il richiamo immediato, a questo punto, è al Manifesto per un Nuovo Teatro: la rappresentazione di una rappresentazione risulta infatti essere, in Salò, la rappresentazione di una cerimonia, di un rito.



Il potere è sempre codificatore e rituale. Senza volere mi sono trovato, in questo film, a rappresentare sia la vita per bene piccolo-borghese con i suoi salotti, i suoi tè, i suoi doppiopetti da una parte, e dall’altra mi son trovato a rappresentare una cerimonia nazista.
(Il "rito" teatrale)
36) Il teatro è comunque, in ogni caso, in ogni tempo e in ogni luogo, un RITO.
37) […] Il teatro rappresenta un corpo un oggetto per mezzo di un oggetto, un’azione per mezzo di una azione. Naturalmente il sistema di segni del teatro ha dei suoi codici particolari, a livello estetico. Ma a livello puramente semiologico esso non si differenzia (come il cinema) dal sistema di segni della realtà.
L’archetipo semiologico del teatro è dunque lo spettacolo che si svolge ogni giorno davanti ai nostri occhi […] Il rito archetipo del teatro è dunque un RITO NATURALE.

Negli ultimi anni della sua vita Pasolini sembra impegnato in una incessante fuga dalle convenzioni artistiche, «nella costante ricerca di una forzatura dei confini, ancora maggiore rispetto al passato, verso l’impurità dell’opera».

Non è indifferente alle novità espresse dai nuovi teatranti e dalle loro ricerche di confine. Sono gli anni in cui cominciano ad arrivare a maturazione numerosi processi in fermento già dai primissimi decenni del dopoguerra. È in questo ambito che il nesso arte-vita viene coniugato in termini sempre più stringenti. John Cage ne fornisce una formulazione che sembra richiamare, per il versante teatrale, il pensiero di Pasolini rispetto alla lingua cinematografica:



Il teatro ha luogo sempre dovunque ci si trovi […] Per me il teatro è semplicemente qualcosa che vincola la vista e l'udito. […] Desidero definire il teatro in termini così semplici perché in questo modo è possibile considerare teatro anche la vita di ogni giorno.
Non scrivo più come prima, il ché equivale a dire che non scrivo più. In principio quando ho cominciato a fare del cinema ho pensato che si trattasse semplicemente dell’adozione di una tecnica diversa. Direi quasi di una tecnica letteraria diversa, poi mi sono reso conto, pian piano, che si trattava non di una tecnica diversa ma di una lingua diversa. E quindi io ho abbandonato la lingua italiana con cui mi esprimevo come letterato per adottare la lingua cinematografica. La lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. E invece un regista esprime la realtà attraverso la realtà. Ecco, questa forse è la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco alla letteratura. Perché esprimendo la realtà con la realtà opero e vivo continuamente al livello della realtà.

Non stupisce dunque che, durante le riprese degli esterni di Salò a Bologna, Pasolini abbia accettato di partecipare a un’azione scenica ideata da Fabio Mauri in occasione dell’inaugurazione della nuova galleria d’Arte Moderna di Bologna, il 31 maggio 1975: un’esperienza di body art che l’autore definì azione complessa o performance complessa e che consistette nella proiezione di alcune sequenze del Vangelo secondo Matteo sul petto di Pasolini.

Ma prima di occuparci di tale esperimento, dedichiamo un breve approfondimento alla figura di Fabio Mauri e alla sua precedente produzione.

 

2. «Che cosa è il Fascismo», di Fabio Mauri (1971)

[…] Io concepivo qualcosa che non era teatro […] che non aveva bisogno di un palcoscenico, poteva essere fatto nelle gallerie, a livello dell'uomo. Qualcosa di mezzo tra il teatro e le mostre, che sono le performance complesse.
 Qual è la differenza tra performance e spettacolo?
La performance è un rito attuale, lo spettacolo invece è una specie di arco: ha una premessa, uno svolgimento e una catarsi, una chiusura; mentre la performance corre a livello degli eventi, degli avvenimenti che sono attorno a noi.

L’intenzione non è tanto quella di rappresentare i ludi juveniles del ventennio fascista, quanto quella di ri-presentarli tali e quali, di «riportare in teatro un pezzo di storia».

Che cosa è il fascismo

: collocazione immaginaria; la festa è in onore del Generale Hernst Von Hussel (ricorrenza non reale ma interna alla rappresentazione).

Al centro della sala un grande tappeto rettangolare con impresso il simbolo della svastica nazista è il luogo in cui si svolge l’intera cerimonia; distribuite sui due lati sei tribune nere, destinate ad accogliere gli spettatori, «divise per corporazioni (Autorità, Personalità, Accademici, Magistrati, Famigliari, Rurali, Stampa Italiana, Stampa Estera, etc.)»; a una estremità troviamo il Podio di Comando con alle spalle uno schermo bianco con la scritta The End; all’estremità opposta invece altre due tribune più strette contrassegnate dalla stella di Davide – «Vista la violenza della stella ebraica divenuta obbligatoria in Germania per gli ebrei, l’ho messa in grande su due tribune dove avevo invitato spettatori ebrei: volevo mettere in evidenza, nella forma quasi serena, l’aberrazione sociale di quel marchio con cui i bambini dovevano giocare, mentre i grandi dovevano esibire ogni istante come segno di infamia» – riservate a uomini e donne israeliti, e una alta struttura metallica dalla quale, a un certo punto, verrà proiettato, sullo schermo antistante con la scritta The End, un documentario dell’Istituto Luce.
Gli spettatori, entrando per prendere posto, si ritrovano veramente proiettati all’interno di una manifestazione pubblica: dal podio vengono date indicazioni ai giovani fascisti e agli intervenuti, il pubblico è guidato dai primi a sistemarsi nelle tribune ad ognuno assegnate.
«Si prega di sgombrare la piazza d’armi! ... Si prega di sgomberare la piazza d’armi! … Ripeto: si prega di sgomberare la piazza d’armi! … Sono in arrivo nuove tribune … Attenzione prendere posto nelle tribune a ciascuno assegnate! ... Per ogni problema rivolgersi al centro organizzativo nazionale» tuona autoritaria una voce femminile dal podio, mentre, in sottofondo, accompagna l’entrata del pubblico la canzone Fischia il sasso.
Dopo la presentazione dei vari gruppi fascisti presenti, viene introdotto il Console Eritreo (anch’egli ospite come il "cereo" Generale Hernst Von Hussel).
La cerimonia consiste in un susseguirsi di saggi ginnici e dibattiti di mistica fascista annunciati dal podio, da programma: Il fascismo e il mondo. Dibattiti di mistica fascista. Scherma. Sbandieramento. Il problema della razza. I pattini a rotelle. Il mazzo di fiori. Kendo. I ludi juvenilis. Film luce. Sfilata.
E’ proposta anche la dimostrazione di due Kendo, «ossia di due figli di italiani a Tokyo, perché […] venivano invitati da tutto il mondo a partecipare […] a queste grandi riunioni per la gioventù» come racconta lo stesso Mauri.
L’inizio e le varie fasi della cerimonia sono scandite dai comandi per la distribuzione in campo dei giovani in divisa, impartiti dal podio.
Ogni saggio è introdotto dall’inno dei Giovani Fascisti e si conclude con il saluto fascista al Generale Von Hussel.
È uno sfoggio di giovinezza, bellezza, potenza e forza: Mauri ha la precisa intenzione di riproporre questo momento storico aberrante con i modi piacevoli e suadenti con cui si è proposto nella realtà della storia: «il male non si presenta con la maglietta con su scritto ‘male’».
Si sperimenta in poco tempo l’Ideologia falsa , l’abisso della Superficialità istituzionalizzata, la Tautologia del Potere assoluto, la malignità intima della Bugia nascosta nell’Ordine, la vergogna della confusione culturale, l’irresponsabilità di chi avoca a sé la libertà di giudizio collettivo, l’inganno della giovinezza che porta grazia e fiducia a fare da preludio al massacro. L’errore lega con qualsiasi altra cosa, soprattutto con la verità e la bellezza. La sciocchezza della natura innocente è complice ingenua di ogni male. Il nulla seducente di quando, sembrando di risolvere finalmente la complessità del reale in un dato semplice, il vuoto trova spazio e prende forma nella mente e nei corpi, mimando il serio, il vero e la profondità.
Parlando del rapporto tra Fabio Mauri e la performance non si può ignorare il ruolo primario dello spettatore e del suo particolare punto di vista. È necessario dare una spiegazione più precisa di questo concetto, per farlo occorre un piccolo salto in avanti, alla metà degli anni ’70, dove troviamo un’altra serie di opere: Le proiezioni (di cui fa parte Intellettuale), opere cinematografiche proiettate su schermi ‘impropri’.



Le immagini cinematografiche, simbolo della complessità dell’attività intellettuale, acquistano un nuovo significato per il valore deformante degli inusuali schermi, non neutrali e con forme proprie, concepiti dall’autore come luogo dell’"attualità, intesa, qui e precisamente come istante del farsi storico" […] Gli oggetti e i corpi che accolgono le immagini diventano essi stessi testimoni della loro storia, e simbolo di realtà.

Ecco, lo spettatore è, nelle performance di Fabio Mauri, esattamente uno ‘schermo improprio’. La performance si compie nel suo punto di vista:



È un lavoro sul tempo quello di Fabio Mauri, stanze del tempo in cui la valenza è mutata, ci pone come testimoni di "fatti" che accadono sotto i nostri occhi, fatti che sappiamo essere successi in un altro tempo, e ci costringe alla "visione" diretta, all’esserci, in un tempo e in un luogo rimossi, in un tempo da dimenticare.

Si conclude così la performance di Mauri:
«Per gentile concessione dell’Istituto Luce proiettiamo lo straordinario Luce numero 1358 in occasione della visita del ministro Goebbels a Venezia».
A conclusione del video Giovani Italiane e Giovani Fascisti, insieme ai Capomanipolo e al Console Eritreo marciano insieme sulla piazza d’armi intonando l’Inno di Roma, reggendo alta la bandiera nera, e uscendo di scena lasciano dietro di loro il rumore della marcia e degli aerei (le frecce nere, che tutti erano stati invitati a salutare all’inizio della manifestazione o altro?). La scena resta vuota. Il pubblico, dalle tribune, applaude. I canonici minuti in cui ci si chiede, tra sé e sé o col vicino: sarà finito così?. La risposta arriva puntuale: no. Non è così liscio il The End.
Dopo tre minuti e mezzo, in cui forse un po’ ci si chiede se si applaudirà: a cosa si applaudirà? Cosa significa applaudire a Che cosa è il fascismo? Mauri aiuta lo spettatore a prendere posizione e dà inizio ai bombardamenti a volume altissimo, gli aerei che prima sorvolavano "innocui" la piazza d’armi ora bombardano e finiscono la performance.
Sono ancora le parole di Franco Cordelli ad accompagnarci nei momenti conclusivi di Che cosa è il fascismo: «Ci sembra di sentir pulsare il cuore di una comunità, finché brutalmente, a scena vuota, a spettacolo finito, vale a dire quando saremo di nuovo nella realtà, un sinistro rumore di bombardieri ci ricorderà che cos’è, o che cosa è stato il fascismo»

3. Pasolini protagonista della performance «Intellettuale», di Fabio Mauri (1975)

In questi anni Pasolini non parla più attraverso schemi comprensibili. Sono saltati perché nessuno schema ha più senso, e perché ciò che rimane sostanziale è solo il proprio corpo, quello che aveva intuito di dover "gettare nella lotta" e che ora è l’unica invariabile strutturale della sua opera al punto da diventare, come si vedrà, oggetto stesso di rappresentazione. Assumono centralità come mai era accaduto prima d’ora la voce, il corpo. Non solo una nuova lingua e un nuovo rapporto col corpo ma, anche, una nuova modalità di ricezione (come già aveva sperimentato Mauri nelle sue performance Ebrea e Che cosa è il fascismo): lontano anni luce da un atteggiamento supino, il pubblico cui pensa Pasolini è un pubblico attivo, non nel senso dell'immedesimazione, bensì della riflessione. In questo senso anche il ruolo dell’autore/creatore non può più essere soltanto quello di garante dell’opera, ma egli stesso inizia a essere parte oggettiva e sofferta del processo creativo.
L’installazione/proiezione Intellettuale (1975) è un esempio di responsabilizzazione che riguarda il performer, in questo caso regista dell’opera proiettata, quindi un’azione di responsabilizzazione dell’artista.

Come anticipato, sul busto di Pasolini sono proiettate sequenze del suo film Vangelo secondo Matteo:



La camicia bianca indossata da Pasolini, seduto su un alto sedile, costituiva il punto più espanso dello schermo umano. Il volume del sonoro, mantenuto troppo alto rispetto alla dimensione ridotta dell’immagine proiettata sul regista, aumentava il disorientamento esercitato dall’azione sia sul pubblico che, soprattutto, sullo stesso Pasolini. Il regista, che nel corso della proiezione aveva assunto un’espressione sofferente, disse di non essere riuscito a seguire il film proprio a causa dello "scollamento" tra le immagini e la colonna sonora così alta.

Per Fabio Mauri l’arte assume una «funzione di catarsi conoscitiva, e di responsabilizzazione etica degli atti individuali». Dunque, al pari del processo di catarsi nella tragedia greca, la performance è un rito attuale: Fabio Mauri attualizza un tempo ormai andato, compiuto, affinché ognuno abbia modo di contemplare.

[…] La proiezione provoca un effetto singolare: rivela fisicamente la nascita del «segno intellettuale», «dentro» il corpo dell’autore. Possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito. Comporta anche dell’altro: l’imposizione di una «passione» che l’autore subisce, per cui sembra rispondere corporalmente di quanto ha concepito. […] Pier paolo Pasolini […] accettò di sottoporvisi e ne fu subito preso. S’immerse nello sforzo di ricordare attimo dopo attimo cosa ritrascorreva su di lui, quale dettaglio di immagini, quali forme.[…] Illuminato dal solo raggio del suo film, sembrava subire una responsabilizzazione dei contenuti reali dell’immaginazione. […] Contemporaneamente avviene un altro fenomeno: l’identità d’autore, resa materialmente evidente, si riconferma in modo efficacemente elementare. Autore e opera formano una scultura di carne e di luce, un’unità compatta. […] Attraverso quel rito intendevo richiamare a un’evidenza: che le forme espressive non erano che significati «reali», nel senso di implicite all’universo «morale» dell’uomo. Il termine «intellettuale» comprendeva, per me, tale dato. 
Noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista la memoria si scontra con il mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che aveva decifrato, ma nella performance non capiva più a che punto era. Come se avesse perduto lo sguardo sulla propria interiorità, era sgomento.
Mauri interroga continuamente autori, performer, spettatori e opere. Interroga coscienze che mette in condizione di rispondere.
Per Mauri l’opera inizia nel momento in cui diviene domanda, una domanda che non si confonde con i dubbi o con gli scrupoli, una domanda che non smette di interrogare anche quando l’opera è compiuta, anche quando l’orizzonte delle risposte continua a manifestare se stesso. La domanda è rivolta al linguaggio, a un linguaggio capace di travestirsi, trasmutarsi, a un linguaggio capace di essere seduttivo anche nelle sue forme ideologiche più pericolose.
Dal canto suo, Pasolini, accettando il ruolo di protagonista dell’evento di body art,
incarna, per una singolare coincidenza, esattamente il punto d’arrivo della propria riflessione in quel momento, unendo il triplice rapporto fra la realtà della sua persona, il cinema proiettato e il teatro dell’allestimento che lo porta a essere presenza fisica su una scena di fronte a un pubblico. E duplica – ancora una volta oggetto di uno sguardo altrui – la propria nuda epifania di poeta con le sole armi della poesia, testimone (martire) di sé come scandalo vivente, corpo politico incarnato nel proprio corpo fisico.


4. Conclusioni

Torniamo a Salò.
Il brano dell’intervista in cui Pasolini affermava che il linguaggio cinematografo consente al regista di esprimersi «al livello della realtà», proseguiva riferendosi alla sua predilezione per gli attori non professionisti:

In generale la mia opera è influenzata dall’uso di attori non professionisti, come è influenzata dall’uso di una scenografia non ricostruita in teatro, cioè una scenografia vera, nel senso che quando io giro, in realtà non faccio altro che raccogliere del materiale. Quindi vado in un posto qualsiasi non ricostruito, scelto da me in natura, e raccolgo del materiale secondo la luce, secondo quello che c’è lì in quel momento […] prendo un ragazzo che non ha mai recitato, lo metto davanti alla macchina da presa e lo tengo lì a lungo raccogliendo materiale, questo significa che poi devo fare un lungo lavoro di montaggio per togliere tutto quello che è inutile e cogliere invece quel momento di verità che può essere lampeggiato nel suo sguardo, nel suo sorriso mentre giravo.

Mettetevi nei paraggi di un corpo, del suo limite fisico, della sua sofferenza, del suo pathos... è il pulsare della vita quello cui assisterete, il suo sentirsi scorrere. Questo è quello che Pasolini vuole restituire, non ci troviamo di fronte a una costruzione di identità «il film è privo di psicologia»: qui i personaggi si esprimono solo tramite funzioni che sono azioni, le figure tendono ad esprimere non un soggetto ma un processo. Il corpo dell’attore è portatore di un’immagine che deve essere attivata, è potenza di immagine che diventa luogo dello sguardo: teatro. La costruzione di queste figure cerca la vita allo stato puro, non la sua rappresentazione, la restituzione di un’esistenza che tanto è lontana dalla sua biografia.

Un corpo/figura. Una figura che lascia transitare un processo. È quindi sempre della vita di un corpo particolare che stiamo parlando, quella ci presenta Pasolini: una vita intesa come zoé (ζωή), ed è proprio questa zoé ad essere irrimediabilmente minacciata dal potere consumistico.

Principali riferimenti bibliografici e filmici:


Stefano Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005.
Letizia Torelli, Fabio Mauri: la performance come rito attuale, Tesi di Laurea in Dams, Facoltà di Lettere e Filosofia, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, a.a. 2010-2011 (disponibile presso l’Archivio Pasolini, Bologna).
Salò o le 120 giornate di Sodoma

, Italia/Francia, 1975, 117 min., regia Pier Paolo Pasolini, soggetto Marchese de Sade (romanzo), sceneggiatura Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti, Pupi Avati, produzione Alberto Grimaldi/Alberto De Stefanis/Antonio Girasante.
Pasolini prossimo nostro

, Italia/Francia, 2006, 63 min., regia Giuseppe Bertolucci, produzione Ripley’s Film/Cinemazero.

Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=4&ved=0CEYQFjAD&url=http%3A%2F%2Fcampus.unibo.it%2F80053%2F1%2FIl%2520corpo%2520di%2520Pasolini_Sal%25C3%25B2.doc&ei=3I2kUYSyN8SUOKvrgMgF&usg=AFQjCNECNO-32d_zEKFuVzaWIqKzAve2oA&sig2=l3ily9u-weS2uBD7a5k-jQ


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IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA»

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




STORIA DEL NUOVO TEATRO (I modulo)
Prof. Cristina Valenti
Gruppo di studio su: IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA» 
(Adriano Fraulini, Letizia Torelli)
1ª Parte:

IL CORPO DI PASOLINI: «SALÒ»
di Adriano Fraulini

 

I corpi parlano, e il loro discorso non può più essere ignorato(1).


1. Il paradigma antropologico del corpo


Un corpo preso a paradigma, preso ad exemplum, di solito brucia.
Il fuoco purifica e ravvede, permette ai facenti parte della collettività di godersi lo spettacolo, tenendo bene a mente il messaggio etico insito nel gesto, nello spettacolo stesso.
Bruciare su pubblica piazza il reo – più spesso, la rea – non era però l'unico modo per informare sulle pratiche di giustizia del potere vigente(2).
Tra i tanti linguaggi che da sempre il corpo parla, uno dei più antichi e intimi è di certo il linguaggio del sacro.
Sacrificare un figlio per prendere i buoni auspici davanti a una guerra che si annuncia cruenta, oppure per ammansire e obbedire un Dio che non si avvale della logica per dirimere le proprie questioni aperte con l'umanità... sono solo alcuni degli esempi topici che dimostrano come, davanti a gesti estremi, l'uomo sia chiamato a mettere tutto se stesso in gioco, spesso sacrificando la propria prole (e dunque, sicuramente, il corpo, un poco meno l'anima, vista la giovane età delle vittime: la valenza, quantomeno pubblica, dei figli è infatti decisamente irrilevante!)(3).
Sempre in prima fila rispetto alla rilevanza del sacro, il corpo è la prima manifestazione della persona, l'occorrenza singola che ci permette di dare e assumere una forma, il mezzo che – distinguendoci dagli altri – consente una presa di coscienza individuale; irretiti forse dal miracolo inspiegabile della generazione, gettiamo con stupefatto ardore le fibre dei nostri muscoli, che sorreggono la baracca scheletrica che portiamo innanzi, nel pieno delle ricezioni sensoriali...
Lungi dal ridurre il tutto a questa lettura religiosa e filosofica, il corpo permea di sé molteplici scenari: è in prima linea – e non potrebbe essere altrimenti – nella funzione di controllo etico e sociale.
Le istituzioni tendono al controllo delle anime, e lo fanno spesso attraverso il maniacale tentativo di dirimere le abitudini fisiche delle persone(4).
Assistiamo qui a un’evoluzione quotidiana, a un depotenziamento del valore corporale: non siamo più nell'iperuranio dei fatti tragici, dei grandi eventi ideali e mitologici, né nelle vicinanze del sacro... tutto si riduce a pura quotidianità, ad antropologia.
Eppure il fatto assume rilevanza storica – anzi, esagerando un poco, si potrebbe quasi dire che è proprio la storia stessa che incomincia, quando si passa dalle epopee alle piccole bagarre di tutti i giorni – e il testo di Bazzocchi, nostra vera guida, insieme a quello di Casi, in questa breve ricognizione, ce lo racconta con la dovuta maestria:
C'è però un taglio nella storia dell'uomo, una cesura che sovverte questa logica e coincide con l'introduzione dei vestiti [...] Si verifica così l'evento fondamentale che scatena ogni tipo di fantasia amorosa, ciò che fa nascere gli eccessi della "sensibilità" [...] Il corpo è diventato misterioso, nascosto, arcano. Il passaggio dal corpo nudo al corpo vestito ha deviato la storia della cultura, ha prodotto l'insorgere degli effetti più travolgenti dell'immaginazione. Si è modellata una nuova disposizione del pensiero(5).
Bazzocchi racchiude in poche righe il mutato campo di valore che cambia totalmente la funzione e il valore del corpo.
La forza arcana che conduce al "travestimento" del corpo nudo viene restituita e per nulla sopita – al contrario – alla potenza dell'immaginazione; l'idea dominante non si esaurisce più a breve giro di vicinanze, ma partorisce la grande cattedrale idealitaria del desiderio: qualcosa che non si vede, eppure se ne percepisce la presenza...
Non può che scatenarsi il grande potere dell'immaginazione, della curiosità che attanaglia le menti umane sulla conoscenza della propria semenza divina: atto di superbia smodata, l'uomo desidera ardentemente sapere.
E lo fa attraverso il corpo...

Nel desiderio vige la legge della mancanza.

Si desidera quel che non si ha, ma se ne avverte la presenza, se ne intuisce il valore profondo, la capacità intrinseca di sovvertire, scombussolare l'ordine costituito.
Il corpo è il mezzo più incline all'esperire dei desideri.
Oggetto di concupiscenza e agente in proprio di atti e prese di possesso. Il corpo agisce e parla la sua lingua di bisogno.
Vettore d'istanze, le più varie, di voluttà, lanciatore di segnali dei bisogni più irrinunciabili, il corpo si scaglia nell'immediatezza del presente di ognuno di noi; tramite suo, esprimiamo i nostri momenti d'attesa, le nostre volontà di ogni sorta.
Anche là dove si voglia mantenere una forte dicotomia tra l'anima e il corpo, il corpo non può esimersi dal segnalare la nostra presenza, il corpo testimonia.
E dice anche quel che si tende a nascondere, dice tutto degli impulsi più intimi e vitali. Il corpo anela la libertà, anche di essere schiavo...
Per questo, sull'onda del desiderio e della mancanza, accade – all'interno di patologie di rapporti – che alcuni corpi prendano il sopravvento su altri.
Affamato, come in una mistica religiosa del possesso che tende a scarnificare gli orpelli, un corpo (malato?) fatalmente ne cerca un altro da possedere; da tenere in sua balia.
Cosa spinge – nell'ottica dell'«amore al negativo» tanto cara a Huizinga e a de Rougemont(6) – a cercare il pieno possesso del corpo altrui?
Quale spia antropologica si cela dietro le sentinelle della lingua, quelle che osano proferire parole definitive sull'appartenza e sul bisogno, sull'incapacità di vivere senza l'altro, quasi eternando il mito platonico del dimidiamento dell'androgino?(7)
Possedere o essere posseduti, non è solo un gioco di specchi riflessi che dicono chi siamo giocando o venendo giocati sulla carne altrui...
Il molto di più che vi è sotteso sono le emozioni della nostra psiche e il nostro nucleo intimo profondo.
Per questo il corpo non scherza quando si fa vittima o carnefice... ma urla, grida il suo bisogno di uscire fuori dai confini della fisicità, in un viaggio nelle reni altrui per tentare una conoscenza universale e un possesso più a largo raggio.
Mettetevi nei paraggi di un corpo, del suo limite fisico, della sua sofferenza, del suo pathos... è il pulsare della vita quello cui assisterete, il suo sentirsi scorrere.
Accade, nelle pratiche quotidiane dei corpi, una evoluzione storica che tocca i costumi; la stessa opera di apertura mentale che fin dal tardo Cinquecento opera sotto l'egida delle tendenze libertine (la ricerca delle più disparate libertà politiche, oppresse dal cannibalismo fondamentalista della religione), investe pure il rapporto personale e pubblico col corpo; lo investe dall'ottica dei libertini e del suo più grande rappresentante, Sade.
Questa nuova prospettiva si interseca indissolubilmente con la tensione del desiderio e produce una situazione di fatto esplosiva, come ce la riassume Bazzocchi, citando le funzionalità opposte del "coprire" quale fautore di desiderio, e dello svelare, dell'ostensione del tutto, quale operazione filosofica e politica praticata da Sade:

L'uomo vestito di Leopardi e l'uomo nudo di Sade sono le due facce opposte dello stesso meccanismo antropologico. Il discorso amoroso (il desiderio) nasce per Leopardi dal vestito, che crea mistero, il discorso filosofico per Sade può emergere solo dall'eliminazione del vestito, che offusca la verità. I suoi libertini teorizzano solo quando sono nudi, e quando impongono con la parola una serie di modificazioni sul corpo delle vittime, iniziate al loro verbo. Il corpo nudo dice la verità, il corpo vestito segue gli inganni della fantasia [...](8).

Se nascondere vuol dire alimentare una curiosità, svelare significa fare luce sulle ipocrisie che ci circondano.
Il primo movimento è di per sé una macchina del desiderio, ma resta necessariamente fruibile da chi si colloca in una posizione dominante; e chi domina può, a un certo punto – magari al chiuso di una villa, lontano geograficamente dalla città e dalle regole di civiltà vigenti al momento – decidere di svelare in toto i meccanismi che regolano la natura e i rapporti personali.
Questo fanno i libertini, forti della loro inattaccabile padronanza del vertice della piramide sociale: alla luce del sole, sfruttano e preservano l'ipocrisia della società che li proietta in ruoli privilegiati; nel chiuso delle proprie stanze, delle proprie segrete, operano lo svelamento del puro stato di forza e di natura, dediti al deliquio del piacere, giudici assoluti davanti a corpi inermi di poveri esseri – possibilmente in tenera età – provenienti dai bassifondi della scala sociale.
E nella nudità dei loro corpi, rinchiusi tra lo splendore delle loro ville, i libertini ordinano, dispongano, creano.
Assurti al ruolo di divinità umane, decidono le pratiche sessuali, il piacere, gli abominevoli eccessi, la vita e la morte.
Tengono il bastone del comando, ma sono – clamoroso paradosso da ribaltamento – a loro volta in piena balia delle vittime, viventi i primi in funzione delle risposte delle seconde...
Qui si espletano i rivolgimenti più intimi della psiche umana e il corpo diviene il mezzo espressivo per eccellenza: il piacere, il dolore, la paura, la sofferenza... tutto è estrinsecato tramite la corporalità dell'atto, non c'è tempo per pensare.
E il piacere della mente che ordina sta proprio nel vedere approssimati al centesimo i propri istinti di generazione divini, la propria creativa vena di traboccante fantasia.
Legati da indissolubile respiro, il sadico e il masochista, la vittima ed il carnefice, sentono di appartenersi l'un l'altro e di stare agli estremi di un meccanismo che li tormenta entrambi, rappresentato dal terzo incomodo della situazione, dal mediatore delle loro istanze(9).
Presi dalla patologia incurante della loro situazione di «amore al negativo», di cui ancora non abbiamo svelato la genesi, il rapporto che si cementifica è identificabile in toto con il delirio del possesso, della proprietà privata dell'altro; l'esatto speculare e contrario dell'amore in quanto puro dono di sé, il rischio più grande in cui facilmente si può incorrere quando si è posseduti dall'orgia del possesso e del controllo della vita altrui.
La vittima diventa proprietà esclusiva del suo carnefice, la sua vita orbita attorno alle violenze fisiche e psicologiche cui viene sottoposta.
Il corpo è il certificato di appartenza, la prova provata del delirio d'onnipotenza del carnefice. Quando il corpo obbedisce e china la testa, l'anima ha rinunciato alla propria individualità, alla propria univocità; allora, tutto è possibile...
Pensiamo ora a quanto detto e trasportiamolo, da una scala privatistica, a progetto universale, collettivo: avremo Auschwitz...
Troppo disumano per essere creduto possibile(10), il progetto della soluzione finale rappresenta lo snodo cruciale, la faglia di cambio su cui il paradigma antropologico del corpo ha subito uno scarto assoluto.
Non si tratta di una barbarie e basta, di un genocidio e basta; non sono gli orrori che i corpi trucidati nelle guerre portano con sé, né il barbarico bisogno di sangue di cui ciclicamente l'uomo sembra non poter fare a meno di nutrirsi.
È il progetto.
È la lucida capacità di organizzare una sparizione globale su scala mondiale.
Non importa neppure – per calcolarne la gravità – il chi e il come.
Conta effettivamente il disegno, quello che ci sta dietro.
E gli studi scientifici, l'uso dei corpi umani come cavie da laboratorio, le frontiere dell'eugenetica, il disprezzo per i diversi, l'annientamento, in un gioco che sa di macabro, delle anime dei prigionieri attraverso il deperimento controllato dei corpi (controllato perché il disegno era quello di mantenerli in vita affinché potessero lavorare!).
Ridurre un uomo a puro numero, in un perfetto ordine dall'odore di morte!
I salvati, dopo Auschwitz, hanno portato il loro marchio appresso, indelebilmente; ma anche l'umanità, dopo Auschwitz, non ha potuto fare a meno di sentirsi marchiata a fuoco.
Sapere che "ciò era stato" ha mandato in cortocircuito tutti i meccanismi di conservazione della specie.
Nessuno poteva più dirsi vergine o ingenuo, lontano dalla verità.
Lo svelamento "libertino" aveva mostrato la potenza del suo ruolo.
Quello che – su scala privata e al chiuso di quattro mura – era l'esplosione onnipotente di un uomo su un altro uomo, veniva ora ad applicarsi a livello collettivo e al chiuso di campi di sterminio(11).
Tra gli effetti – devastanti – anche il mutamento di segno del paradigma antropologico del corpo, il suo stare nella vita fisica e psichica degli uomini.
Una serie di pratiche hanno preso l'abbrivio successivamente allo spartiacque storico dei campi di concentramento e sterminio, successivamente a quelle larve di umanità screziate nei rimasugli di corpo.
Le testimonianze rimaste ci permettono di chiudere il cerchio, la filiera dell'orrore, e di sapere cosa c'era prima del fumo, prima delle pire dei forni crematori...
Le foto di quelle "ipotesi" di umanità allo stremo delle forze chiudono definitivamente l'era del corpo sacro.
Niente più scrigno ove custodire il germe che ci equipara alla divinità!
Il corpo è ormai inevitabilmente un contenitore profano e, di conseguenza, privo di furore mitico.
Quello che racconta, lo racconta lontano dall'età dell'oro.
Perduta la sacralità, rimane l'oggetto e l'utilizzo che se ne può fare.
I corpi diventano accessori dall'uso comune e per l'estensione delle soluzioni ai nostri problemi.
Diventano estensori di un pensiero, spie della diversità, della distinzione dalla massa.
Lo sa bene Pasolini quando, in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» del 7 gennaio 1973, intitolato Discorso dei capelli, avverte senza mezzi termini la funzione identitaria di quel taglio ribelle.
E un intellettuale attento al costume e quasi ossessionato dalla preponderanza del corpo come Pasolini non può non interrogarsi, uscendo appunto dalla sua Trilogia della vita cinematografica, in cui aveva scandalizzato il pubblico con l'esposizione gaia ed esuberante dei corpi nudi.
Eppure il risultato è misero, come ci racconta, ancora una volta, Bazzocchi:

[...] e la parabola dei capelli lunghi racconta come tutto sia avvenuto nel giro di un decennio, forse meno. I segni della distinzione sono diventati segni della confusione e della mescolanza, o meglio dell'identità imposta(12).

Cosa è accaduto nel frattempo?

È accaduto che la macchina del potere economico, capita l'antifona, ha iniziato a rivolgersi per il proprio tornaconto ai nuovi stilemi esistenziali; le varie forme di liberazione, giunte al culmine nell'apice sessantottino, vengono utilizzate per veicolare nuove forme di bisogni e di consumi: il corpo diventa oggetto di attenzioni economiche e di cura, le mode impazzano alla ricerca della distinzione selettiva, ottenuta tramite il possesso di determinati oggetti, la creazione degli status symbol...

A questo punto è il permissivismo sessuale a diventare lo strumento con cui il Potere trasforma i giovani in consumatori forsennati degli stessi prodotti(13).

Nell'arco di appena un decennio, si passa dai capelli pasoliniani – frutto comunque di un tentativo identitario e distintivo di cultura partita dal basso – ai giovani dalle facce tutte uguali, a imitazione del divo del momento, e dai vestiti adeguati alle mode e alla pubblicità imperante del modello dominante, come annoterà stupefatto un grande osservatore di costumi e segni, nonché pensatore sublime, come Roland Barthes.
Il corpo, un tempo sacro, diviene la porta d'ingresso dei consumi.
Il tappetino su cui la borghesia non termina mai di ripulirsi le scarpe.
Pasolini, dopo aver inneggiato alle libertà del piacere e del corpo nella sua Trilogia, immette la virulenza dello scandalo sessuale tutta dentro l'architrave della borghesia: in Teorema, uscito nel 1968, tutto si sdipana attorno al sacro fallo dell'Ospite, capace di sconvolgere e svuotare le convenzioni intorno cui ruotava la perfetta e linda famiglia borghese.
Eppure l'operazione di recupero della sacralità corporea si rivela fuori tempo massimo.
Il crinale precedente le rivoluzioni liberali non permette recuperi di sorta; Pasolini tenterà la carta del teatro per dire con forza la fine obbligata e sconclusionata della borghesia, ma la sua operazione, tentare di creare un argine di sacralità nel gettarsi dei corpi contro il consumismo imperante, non coglierà la direzione del vento.
Di questo tentativo generoso ed arido di filiazioni ci occuperemo ora, vagliando la sua prima tragedia, Orgia, del 1968, e Salò, l'opera cinematografica del 1975, che molto ha in comune con Orgia(14).

2. «Orgia»

Orgia prende le mosse da F., un poemetto rimasto inedito scritto nel 1965.
Peculiarità, fra le tante che ritroveremo nella tragedia, la predominanza del tema linguistico, legato in gran parte alla profonda vicinanza con gli argomenti sadiani. La lingua è l'arma prediletta dei carnefici, serve loro per dichiarare la diversità dal resto del mondo.
La ripresa della matrice tragica di F., basata su un episodio realmente avvenuto ad Amsterdam, apre un interessante scenario d'intercettazioni semantiche in Pasolini: la compresenza, entro un quadro di riferimento che palesemente si richiama alla tragedia greca e alla maieutica platonica, di tre concetti destinati a implodere vicendevolmente: tragedia, borghesia e umorismo.
Ciò che interessa maggiormente all'autore è proprio il punto d'incontro finale di questi tre vettori; ovvero, come mirabilmente ricorda Casi nel suo lavoro:

Ecco allora che la storia del professore di Amsterdam, che prefigura il finale di Orgia, può essere definita dall'autore "l'unico materiale possibile" che si possa raccogliere "dal mondo borghese"(15).

L'unico materiale possibile recepibile dalla borghesia è, per l'appunto, il suicidio!
Per essersi accorto di non aver vissuto, per essersi fatto abbindolare dalla buona creanza borghese, proprio come la perfetta e ordinata famiglia di Teorema.
Il suicidio come ultimo, estremo tentativo di diventare testimonianza della verità da opporsi alla gelatinosa inconsistenza della vita borghese.
Il corpo gettato in pasto come barriera protettiva per ripararsi dal materialismo edonista del capitalismo.
Si fa qui sempre più forte la tensione dei corpi in Pasolini, l'idea del corpo come ultima arma contro i devastanti effetti della borghesia, in particolare del corpo dell'intellettuale, rinvenibile nelle sue parole che scandalizzano(16). Sarà questa una tendenza imprescindibile nell'ultima produzione pasoliniana.
Mettendo in scena la diretta rappresentazione della borghesia nell'unico modo rappresentabile, ovvero la tragedia di se stessa, Pasolini intende sconvolgere tutti i crismi del conformismo linguistico, teatrale e concettuale; il suo disegno tende a una riflessione alta, e per arrivare là dove il suo autore intende, occorre di certo risemantizzare tutta la trafila dei ragionamenti; non solo una nuova lingua e un nuovo rapporto col corpo ma, ad esempio, una nuova modalità di ricezione: lontano anni luce da un atteggiamento supino, il pubblico cui pensa Pasolini è un pubblico attivo, non nel senso dell'immedesimazione, bensì della riflessione, garantita dall'aura platonica:

La parola teatrale di Pasolini è prima di tutto una sfida alla ricezione supina dello spettatore, in accordo con la dimensione pedagogica del dialogo platonico. È una sfida al regista e agli attori [...](17).

Corpo e parola combattono nell'agone teatrale, inscenati dall'attore, non più a rivestire i panni su misura dei personaggi, no; paiono, piuttosto, decisamente più addentro alle riflessioni etiche del coro, voce di saggezza comune.
Quella che viene messa in scena, in Orgia, è la pudicizia libertina della Diversità.
La diversità, la terza via fra l'arrendersi alla cultura dominante borghese e l'alternativa della morte. La vita di una coppia, eternamente borghesi all'esterno, eternamente diversi nel chiuso della loro casa. Ma qualcosa succede...
Rinchiusi nella loro disperazione di solitari ed impossibilitati a condividere all'esterno le loro spinte sado-masochistiche, i due giungono all'idea del suicidio finale; ma se per la donna si tratta – a detta dello stesso Pasolini – di un suicidio «anomico»(18), dovuto alla mancanza di controllo rispetto al parossismo infinito del piacere masochistico, per l'uomo la scelta è chiaramente una scelta politica: con il suo gesto vuole liberare definitivamente sé e gli altri dall'oppressione del mondo entro cui era cresciuto, il mondo borghese; il suo è un vero e proprio martirio, una testimonianza eterna e sacra nella sua predisposizione allo scandalo, proprio come la parola di Gesù.
La figura del professore suicida di F. si richiama qui al martire greco Panagulis, condannato a morte dalla dittatura dei colonnelli.
Aleggia su tutta la tragedia una inevitabile aura di sacro, di racconto mitico alla ricerca della perduta età dell'oro.
Fin dal prologo, dove l'uomo annuncia in una prolessi il ragionamento che origina l'opera.
La mancanza dei nomi identitari permette una ricognizione universale degli avvenimenti, si tratta di un uomo con tutti gli altri, dalla parte del potere.
Una storia comune, di quelle che possono accadere a tutti coloro che esprimono la capacità di adattamento alle regole sociali istituite dal Potere(19).
Eppure il conformismo non ha potuto cancellare davvero la diversità, capace di rendere l'uomo libero di un barlume di pensiero, poco prima di darsi la morte.
Anzi, pare che proprio la scelta di darsi la morte rappresenti evidentemente un gesto di risveglio dal sonno della ragione, una epifania; non esaurisce il discorso sulla diversità, su quale sia il giusto atteggiamento da tenere; svolge però una similitudine inquietante, perché ci riporta a quanto detto alcune pagine fa sulla devastazione dei corpi nei campi di sterminio e sulla volontà di non vederli...

Ma se ciò che la mia morte rende significativo

della mia esistenza – lo dico ancora una volta –
fosse una rappresentazione, credo che agli spettatori,
miei nemici, che vogliono difendersi da me, direi:

"Vi prego, siate come quei soldati,
i più giovani di quei soldati,
che sono entrati per primi
oltre i reticolati di un lager...
E lì i loro occhi... Ah, vi prego,
siate giovani come loro!" Ecco tutto(20).

2.1. Primo episodio

Dopo il prologo, gli spettatori – suoi nemici (è Pasolini che parla) – sono buttati dentro la vita di coppia di un uomo sadico e di una donna masochista(21).
La complicità fra loro è totale, ma, in virtù del loro rapporto patologico, ognuno è solo davanti all'altro.
Condizione, la solitudine, essenziale per la coppia al riparo dal mondo che non capirebbe, e dell'uno verso l'altra, onde poter dar vita al rapporto di reificazione insito nella patologia sadomasochistica.
Il bisogno di distruggersi insieme necessita una sorta di distacco affettivo rispetto al gesto fisico in sé.
Entrambi ricordano in forma di racconto una gioventù che appalesa lo stato contemporaneo della nullità, le normali azioni della vita quotidiana sono unicamente la copertura del nulla dell'esistenza borghese; la spia linguistica che incorona questo stato di cose è la locuzione, più volte ripetuta, eppure nessuno parlava.
Sta a indicare il chiacchiericcio senza senso dell'umanità finita in mano agli istinti peggiori, la sonnolenza capace di corrodere fino al midollo le energie vitali profonde dell'umanesimo.
Lo stato vegetativo che circonda i due è la melassa entro cui entrambi si riparano; la loro diversità si alimenta internamente dell'ipocrisia esterna che prosegue e si esplicita nei gesti della quotidianità.
Persino il sesso, depauperato della sua funzione emotiva, contribuisce a cristallizzare lo stato mentale della donna; siamo davvero entro la parvenza di un'ipotesi di mondo, uno scheletro architettato sui luoghi comuni, sul diritto del maschio di espellere emozioni unicamente in forma di sperma, racchiuse entro l'orizzonte dei calzoni; e sui doveri della donna di accogliere, pudica e vergognosa, tutto quanto le viene offerto.

2.2. Secondo episodio

La preminenza platonica del dialogo assurge a protagonista nel secondo episodio, allorché le domande bisognose di curiosità della donna spingono l'uomo ad architettare, a ostentare tutte le sue più brutali intenzioni.
Prima ancora che nella fisicità, il piacere reciproco è dato proprio dalla parola e dall'attesa del gesto.
Il parossismo del dialogo sta proprio nell'equivalenza del confine fisico, della parola come del corpo: spinti allo stremo, cercano sempre più nuove forme di sfida, oberati dall'impossibilità fisica di riuscire ad andare definitivamente oltre; per questo l'uomo mette in scena tutto l'armamentario dei tabù...
Per questo, a nostro avviso, l'ambientazione pasquale della tragedia; giacché parrebbero comunque solo in parte condivisibili altre letture della scelta dell'ambientazione temporale.
Se infatti la Pasqua è comunque simbolo di resurrezione – e dunque può essere vista come la condizione finale della tragedia (solo per l'uomo, però! E questo dovrebbe farci riflettere...) – oppure, in una lettura antinomica, momento di celebrazione religiosa del mondo pre-esistente, a nostro avviso il vero legame della scelta pasquale sta proprio nella funzione antropologica del gesto del nutrirsi dei corpi: tabù ancestrale da non proferire, l'idea di mangiare il simile, il corpo dell'altro, raggiunge il suo apice proprio nei giorni del sacrificio estremo di Gesù.
Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi, sono le parole.. e calzerebbero a pennello nella bocca della donna; Prendetene e mangiatene tutti, a significare la congiunzione tra l'universalità della Pasqua e la condizione di sacrificio estremo voluto dai due.
Amarsi a tal punto da mangiarsi, una scelta non inopinata nell'alba dei tempi, rimasta ancor oggi come spia linguistica per testimoniare il furor con cui si è spinti fuori dai propri confini, eccitati a morte dalla presenza dell'altro.
E in questa linea di eccitabilità impazzita, inizia il piacere-pestaggio...

2.3. Terzo episodio

Il dialogo del giorno dopo, successivo alla notte di bestialità reciproca, è il vero atto di accusa alla borghesia; si apre dapprima con il solito quadretto del tempo antico, ma vira subitamente verso il cuore del problema:

[...] Dov'è la più vera verità?
In ciò che dicono questi segni di sangue
o in ciò che dice questo segno di seta?
I primi dicono ciò che noi desideriamo,
i secondi ciò che noi accettiamo(22).

Racchiuso in queste parole dell'uomo c'è il punto nodale della tragedia.
Ciò che noi desideriamo è lo stato di pura bestialità, il rapporto di forza dell'uomo sull'uomo, il possesso, l'abbandono;
Ciò che noi accettiamo sono le regole borghesi, allargate qui addirittura all'abbigliamento, ai vestiti, a tutto ciò che è identificabile come stato di cultura.
Ancora una volta è l'uomo, il libertino attivo, che ha condotto il ragionamento verso lo svelamento delle ipocrisie, verso la comprensione dello stato delle cose; ora hanno entrambi piena coscienza del loro essere doppi, del loro appartenere a due entità diverse, la prima – la società – di morte, la seconda – la loro natura – di verità e libertà.
2.4. Quarto episodio

È questo l'episodio che si chiude con il suicidio della donna.
Dopo un lungo monologo di riflessione interiorizzata, specie di resoconto della condizione sociale del sesso femminile, ma vissuto sempre entro la descrizione mitica di un luogo geografico e mentale altro, quasi vissuto con malinconia, ecco compiersi la scelta della donna: omicidio dei figli e suicidio proprio.
La lucidità delle parole della donna sembra cozzare non poco contro l'asserzione critica di cui prima abbiamo reso conto, ovvero di un suicidio anomico; certo, dietro il gesto estremo non vi è una riflessione approfondita in senso politico, nulla a che vedere con quanto compirà il marito; eppure qualcosa non torna... la scelta di tornare polvere nella natura incontaminata (accettiamo questa convenzione della scrittura senza fiatare) pare di per sé una presa di posizione, discutibile fin che si vuole, del ruolo della società sognata dell'età dell'oro. Quasi una sorta di bisogno di sentirsi parte di un corpo che invece l'ha estraniata. L'impressione è che la donna, una volta praticata insieme all'uomo la strada dello svelamento, sia giunta alla convinzione di non poter accettare la verità di non appartenere alla società borghese con tutti i crismi, pare non accettare la stessa diversità che la teneva in vita col piacere.
E l'omicidio della prole è un gesto di ripulsa verso il marito e verso il mondo: quando la verità pone fine al sogno, la reazione indica chiaramente una colpa.
Non dunque l'incapacità di frenarsi davanti agli istinti guida il suicidio della donna, al contrario: indicare con l'uccisione dei figli la colpa della società borghese, incapace di difendere la culla dei suoi sogni, e togliere all'uomo, compagno nel viaggio di svelamento, il diritto di amazzare i figli – simbolo della famiglia – è il gesto di rivalsa e ritorsione per l'assassinio della malinconia.

2.5 Quinto episodio

Dopo il suicidio della donna, resta da capire il destino dell'uomo.
Controverso questo quinto episodio, con l'uomo che conduce nella casa famigliare una giovane ragazza da seviziare; ella pare ignara di ciò che l'attende, vogliosa unicamente di esprimere la sua esuberanza libidica.
Controverso per la presenza e il ruolo della ragazza... ha un senso? È la borghesia che non sa, non s'accorge di nulla? Di certo è diverso il tono delle domande che alimentano il dialogo: mentre la donna attende con fregola di terrore al dialogo con l'uomo, la ragazza, dopo un iniziale distacco, coglie il precipitare degli eventi e lo esprime con terrore vero.
Non si tratta più di un rapporto sadomasochistico puro, c'è di mezzo un tentativo di violenza, la reificazione è brutale e sul campo il libertino è unicamente l'uomo.
All'apice della violenza egli ha un mancamento (un ricordo, forse?) e sviene, permettendo così alla ragazza di fuggire.
Restano i vestiti, simbolo del male borghese.
Restano le tracce di quanto verrà consumato nell'ultimo episodio.

2.6. Sesto episodio

Una tragedia non può che finire in tragedia.
E una vera tragedia raggiunge l'acme nel silenzio più totale.
L'uomo si denuda e si riveste degli abiti femminili della borghesia, preannunciando il suo manifesto ideale: tra la caducità che conduce alla rassegnazione e all'asservimento del potere e la morte istantanea, c'è la terza via, quella rivoluzionaria, quella di un nuovo linguaggio:

Il mio linguaggio diventerà muto per eccellenza,
oltre che per l'eternità... Eppure
chi domattina verrà, e alzerà gli occhi per decifrarlo
capirà quale terribile forza, mai pensata finora,
avrebbe avuto il mio desiderio di essere libero,
se avessi vinto il mio istinto
attraverso cui la morte
aveva dichiarato inutile ogni speranza(23).

E come a rimarcare il differente grado di riflessione del suo suicidio rispetto a quello della donna, poche righe dopo:

Infatti non faccio questo (come, ripeto,
è stato già fatto nel corso di questa tragedia)
per aver perduto il senso della legge:
ma per averlo ritrovato e... GIUDICATO.

Il suicidio è servito, nessuno potrà permettersi di non vedere quel corpo appeso a un cappio, quel corpo maschile ricoperto degli stracci dell'autorità borghese.
Sembra un inno di morte, eppure il grido di svelamento dei meccanismi borghesi contiene un sottofondo di luce.
L'uomo ha vissuto nel peccato borghese ma ha capito, togliendosi la vita come gesto palesemente dimostrativo.
Eppure ha in parte fallito: la verità del giudizio avrebbe, infatti, potuto condurlo verso il rispetto della propria diversità; diversità che sarebbe stata deflagrante all'ennesima potenza, se avesse potuto tenerla sotto controllo.
Per certi versi, è il suo, quello dell'uomo, il suicidio anomico!
Che il suo gesto derivi da una incontinenza emozionale lo si capisce bene se pensiamo alle parole sottolineate in grassetto come al secondo tempo, alla conseguenza di quanto detto appena due pagine prima, rimarcate peraltro dal testo stesso:

Sì, questo è importante, e lo sottolineo:
la morte che concede l'orgia,
rende per sua natura sciocco lo sperare(24).

Se solo l'istinto dell'orgia che conduce alla morte fosse stato soppresso, un mondo nuovo avrebbe trovato accoglimento.
Ma la ragione, anche quella del silenzio, non ha avuto la meglio.
Avevamo lasciato inevasa, all'inizio o quasi di questa ricognizione, una domanda sulla genesi dell'«amore al negativo», di quel che spinge a taluni comportamenti, fino alle loro degenerazioni patologiche.
La risposta che ci sentiamo di cogliere è qui, davanti ai nostri occhi.
Il paradigma del corpo, esattamente come tutti gli altri, è sottoposto alle regole del paradigma fondante il pensiero dell'uomo occidentale: il divenire.
E la speranza è, con la sua semantica rigogliosa di futuro, il prodotto anticipatore che il tempo porta con sé nell'entropia del suo scorrere.
Non c'è scampo da questa radice: l'essere umano ha bisogno intimamente di scorrere, a volte fino al malessere supremo.
Il corpo è l'agone, il campo di battaglia dove le forze in campo accumulano ferite e medaglie, vendette e soprusi.
Le favole d'eterno sono la panacea che alcuni somministrano per non cadere nel precipizio della contraddizione cui naturalmente tendiamo, noi, finiti alla ricerca dell'infinito.
Il suicidio dell'uomo è dunque un segno di futuro a metà, una via d'uscita rispetto al consumismo e al capitalismo imperanti.
Basteranno sette anni, quelli che separano Orgia da Salò, per annichilire anche questa flebile speranza.

3. Conclusioni

L'onda del corpo sacro come ultima salvezza cade, sostanzialmente, inevasa.
Ben altre son le direzioni che il paradigma prende dopo gli anni Settanta(25).
Frantumato da una lettura deteriore e incompleta delle topiche decostruzioniste, il corpo subisce lo stesso effetto lacerante già patito dall'Io con anticipo di almeno mezzo secolo.
Strano destino, quello del blocco monolitico del corpo: apparentemente omnipervasivo, in realtà candidato alla sparizione!
Detto in altri termini: il profluvio della fisicità, connotato precipuo della società dell'immagine ha prodotto l'esatto contrario.
Effetto di per sé del depotenziamento da mito tragico a semplice chiacchiera dell'amore al negativo come paradigma che fonda dalla letteratura provenzale ai giorni nostri, il corpo esce dalla superficie ed entra ovunque.
E se l'individualità, l'unicità, è ancor più garantita dalle ultime scoperte scientifiche (pensiamo solo alla potenza con cui è entrata nell'immaginario comune la nozione di DNA, probabilmente la scoperta scientifica più influente e diffusa per notorietà, insieme alla teoria einsteiniana della relatività nel secolo scorso, piena di implicazioni e ricadute, anche a livello di giustizia criminale, diritto ereditario, fiction etc...), il corpo va esaurendosi!
Quasi per contrappasso, ottenuta la certezza scientifica dell'unicum della persona, il resto diventa aleatorio, perde di valore.
Il processo è sotto gli occhi di tutti: annichilitone dopo Auschwitz il valore sacro, il corpo diventa commerciabile, modificabile, interscambiabile.
Non serve più vendere l'anima al diavolo per ottenere l'elisir di giovinezza, lo si compra direttamente!
Gli effetti devastanti della chirurgia plastica ed estetica portano a nuovi modi di interloquire con le proprie cellule. Ci si può ripetutamente modificare a piacimento, invadendo chirurgicamente la sfera della propria carne; il privato non è più un tabù.
E lo si fa per mille ragioni, nessuna davvero guidata da una logica che non appartenga al dominio dell'apparire, dei soldi e della superbia (nel senso di invidia mossa dal bisogno di cambio del proprio stato di essere).
Frantumati nell'anima, unici nell'impronta primigenia, interscambiabili nelle occorrenze fisiche. Ecco lo stato della nostra attualità disperante.
Il corpo è un mezzo di conquista, una macchina per fare soldi, uno status per appartenere a certe sfere sociali; ma anche – e pure peggio – organi da commerciare...
Caduto l'ultimo tabù della sacralità, non rimane alcuna nicchia inattingibile.
Organizzazioni criminali sfruttano lo stato di povertà per operare capitalisticamente sui corpi dei derelitti della società.
Pensare di poter fare una cosa del genere è, di per sé, un atto di fine sacralità.
Ma forse è unicamente il rovescio della medaglia: eticamente diverso dalle finalità della ricerca scientifica e della medicina, sfrutta ugualmente lo stesso principio fondante: l'uomo moderno può manipolare i corpi, modificarli a piacimento. La finalità è opinabile, il punto di partenza si basa sullo stesso paradigma di liceità: l'onnipotenza incontrastata della tecnica, ovvero la manifestazione pratica proprio del paradigma del divenire!
Come gli ultimi venuti di un lungo cammino di generazioni...
Il paradigma del corpo tende inevitabilmente e per effetto di lunga durata a scomparire, a emaciarsi.
In una lunga prospettiva di circolare ricongiungimento delle due parti dell'androgino, i corpi e i sessi tendono a uniformarsi verso l'alto, arieggiano, ben lontani dalla terra e dal sangue.
È una possibile prospettiva di futuro, la decorpizzazione dell'essere umano, già anticipata dagli studi sulla virtualità.
I sensi appartengono all'anima, i corpi, come prima corazza dell'homo sapiens, vengono lasciati al cambio di stagione, sostituiti, come in una matrioska tendente al nulla, dall'anoressia fisica cui tendere, chiaro sintomo di malessere.
Non può che essere così, nell'età della tecnica dispiegata (e anche questo ce lo aveva anticipato Leopardi...): morto il sacro, resta la conoscenza, e l'impossibilità dell'infinito è un titanismo insopportabile, obbliga alla malinconia, alla morte della speranza.
I corpi che spariscono a poco a poco si consumano così, in un silenzio che è tutto tranne che un silenzio, bensì un grido protratto, che nessuno accoglierà.
I corpi che parlano, dicono che l'anima è sola.


Principali riferimenti bibliografici

P. P. Pasolini, Orgia in Id., Tutte le opere, Teatro, Milano, “Meridiani” Mondadori, 2001.
S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005.
M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Milano, Mondadori, 2005.
1 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Milano, Mondadori, 2005, p. 11.
2 Decisamente esplicativi in questo senso possono risultare alcuni esempi contenuti nel capitolo iniziale di M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1975.
3 Casi classici, Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone per agevolare la partenza per Troia e Isacco, figlio di Abramo, il cui sacrificio venne richiesto – per poi essere sospeso – da Dio quale prova della grande fede del padre.
4 Cfr. L. Stone, La sessualità nella storia, Bari, Laterza, 1995.
5 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano, cit., p. 5.
6 Cfr J. Huizinga, L'autunno del Medioevo, Roma, Newton Compton, 2011 (ed. or. Harlem 1919) e D. De Rougement, L'amore e l'occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea, Milano, Rizzoli, 2006 (ed. or. Paris 1939).
7 Il mito platonico dell'androgino non conosce offuscamenti in questo senso, ma la lingua, anche quella dei nostri giorni, ci fornisce evidenti spie delle iperboli amorose e vitali legate all'essere in due, spesso sfocianti in patetiche e melense dichiarazioni di necessità dell'altro, eppure irrinunciabili!
8 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano, cit. p. 7.
9 Cfr. le riflessioni erudite contenute in R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano Bompiani, 2009.
10  Retorica di bassa lega la nostra, eppure ci si ostina a venderla così: così la mise giù Hitler nel suo Mein Kampf, e così fecero finta di intenderla gli organismi internazionali, Croce Rossa compresa, che per lungo tempo finsero di credere alla favola dei campi di lavoro e non, come venne ufficialmente (sic!) alla luce solo parecchi anni dopo, di sterminio di massa.
11 Che poi vi fosse una falla nella sciagurata visione del mondo nazista lo riporta pure il tentativo di nascondere i reali intendimenti della soluzione finale: nel delirio più totale, rivendicare la "giustezza" delle scelte operate e farlo in piena luce, avrebbe avuto un senso e una dignità diversi. Dissimulare e nascondere era invece l'evidente dimostrazione sia della follia del piano, sia della debolezza culturale dello stesso.
12 M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano, cit., p. 18.
13 Ivi, p. 21.
14 Lo stesso Pasolini fornisce un’indicazione di Orgia come antecedente di Salò nell’auto-intervista Il sesso come metafora del potere, uscita sul «Corriere della Sera” il 25 marzo 1975. (Attualmente in Pasolini per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, t. II, Milano, “Meridiani” Mondadori, 2001).
15 S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005, p.168.
16 «Le tragedie di Pasolini sono sequenze di corpi in lotta con se stessi e con le parole che ne succhiano i confini fisici come nei quadri di Bacon, piegando e piegando corpi gettati sulla scena, dove si consuma la lotta feroce fra il sé e le parole [...]» Ivi, p. 173.
17 Ivi, p. 185.
18 «Quello della donna viene spiegato [da Pasolini] come "anomico", riprendendo il concetto di anomia dal pensiero di Durkheim, secondo cui i momenti di crisi della società generano "stati di sregolatezza" da cui può avere origine il suicidio "anomico", che si verifica dunque quando l'individuo sente allentarsi il controllo sociale proprio mentre lo stato di crisi e l'insorgere di nuove passioni avrebbero maggiormente bisogno di disciplina. Questa teoria viene ripresa da Wolff, per il quale la ricerca senza fine del piacere produce nell'individuo uno stato di frustrazione perché non vede limite al desiderio.» Ivi, p. 239.
19 P. P. Pasolini, Orgia in Id., Tutte le opere, Teatro, Milano, Mondadori, 2001, p. 245.
20 Ivi, p. 248.
21 Pare in questo senso molto azzeccata la scelta registica di Adriatico di far disporre il pubblico sui lati del palcoscenico, in una sorta di tunnel claustrofobico, a strettissimo contatto con i corpi degli attori, con i loro umori. L'orgia diventa così reale, il titolo appropriato ed il vouyerismo assicurato. Lo spettatore è dentro la tragedia, non può nascondersi.
22 P. P. Pasolini, Orgia, cit., p. 280.
23 Ivi, p. 312 (grassetto mio).
24 Ivi, p. 310.
25 Dal punto di vista letterario – e non solo – si vedano gli ultimi capitoli del saggio menzionato di Bazzocchi.

Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=4&ved=0CEYQFjAD&url=http%3A%2F%2Fcampus.unibo.it%2F80053%2F1%2FIl%2520corpo%2520di%2520Pasolini_Sal%25C3%25B2.doc&ei=3I2kUYSyN8SUOKvrgMgF&usg=AFQjCNECNO-32d_zEKFuVzaWIqKzAve2oA&sig2=l3ily9u-weS2uBD7a5k-jQ


http://www.iltuoforum.net/forum/il-libro-ritrovato-f44/pier-paolo-pasolini-1922-1975-t2801.html



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