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lunedì 10 giugno 2013

IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA» E «SALÒ»

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





STORIA DEL NUOVO TEATRO (I modulo)
Prof. Cristina Valenti
Gruppo di studio su: IL CORPO DI PASOLINI: «ORGIA» E «SALÒ»
(Adriano Fraulini, Letizia Torelli)
2ª Parte:

IL CORPO DI PASOLINI: «SALÒ»
di Letizia Torelli

 


Mi è difficile parlare di Pasolini. È difficile comprendere e accogliere la sua spietata e cristallina lucidità. È difficile, nel 2012, ascoltare le sue parole del 1975 e non farsi travolgere da un vortice di emozioni che toglie il respiro. È difficile ascoltarlo parlare, oggi, di «una depauperazione dell’individualità che si maschera attraverso una sua valorizzazione».
È difficile fare un discorso sul corpo in Pasolini, perché fare un discorso sul corpo significa fare un discorso storico, politico, etico, con un’estensione e un’implicazione talmente vaste del e nel reale che davvero si avrebbe voglia di fare un montaggio di tutte le interviste, i film, i documentari, di tutto ciò che parla direttamente con la sua voce e non aggiungere altro.
Cercando un modo, un punto d’accesso, non potendo rimanere in silenzio, mi lascio colpire dalle date: 1922 - 1975.
Poco più di cinquant’anni. Cinquant’anni però che vedono l’Italia passare attraverso il Fascismo, la guerra, la ripresa, il boom economico degli anni Cinquanta, e il fermento sociale dei decenni Sessanta-Settanta.



1964: Comizi d’amore.
1968: Teorema. La sequenza del fiore di carta.
1975: Salò o le 120 giornate di Sodoma.

***

1. La teatralità di «Salò»

Pasolini: coscienza critica della società, fotografo del momento di trasformazione epocale della cultura e della civiltà italiana, accusatore di quello che ha definito il «genocidio antropologico» perpetrato dall’ideologia consumistica.
È evidente, come lui stesso tiene a precisare in un’intervista durante le riprese di Salò, che la spinta per questo film nasce dal suo detestare il potere di oggi


Ognuno odia il potere che subisce. Quindi io odio con particolare veemenza il potere di questi giorni, oggi 1975. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile che non ha niente da invidiare alle manipolazioni fatte da Himmler o Hitler, li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi. I valori del consumo che compiono quello che Marx chiama il genocidio delle culture viventi, reali.

Tenendo queste parole come cornice possiamo cominciare a parlare di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il film, tratto da Le 120 giornate di Sodoma di François de Sade (1785), è ambientato durante la Repubblica di Salò: tutta la narrazione è trasposta nell’Italia settentrionale del 1944.
Dopo aver firmato ciò che più avanti scopriremo essere un crudele codice di comportamento, quattro figure: un duca, un vescovo, un banchiere e un giudice, guideranno un feroce rastrellamento durante il quale verranno sequestrati giovani figli di partigiani, partigiani stessi e sovversivi di entrambi i sessi. I giovani saranno trasferiti in una enorme villa isolata dal mondo al fine di soddisfare, grazie all’aiuto di tre ex-meretrici e dei soldati della milizia, le perversioni sessuali dei quattro nazifascisti. In un crescendo di violenza si consumano le vicende dei giovani fino a quella che potremmo chiamare una vera e propria "soluzione finale".
Lavorando alla sceneggiatura insieme a Sergio Citti (al quale era stato offerto il film), Pasolini conferisce all’opera una struttura di carattere dantesco: «Ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura una specie di verticalità, una specie di ordine di carattere dantesco». 


La teatralità di Salò nasce dall’esigenza di rendere evidente la realtà sociale che ha costretto Pasolini ad ‘abiurare’ la Trilogia della Vita. È una teatralità diffusa nella scenografia, nelle inquadrature, nella "verbosa verbalità" delle battute secondo quanto dice lo stesso regista. Peraltro, il riferimento alla rappresentazione teatrale è già in Sade, quando parla dell’"arena dei tornei progettatati" destinata alla narratrice, che "si trovava nella posizione dell’attore sul palcoscenico e gli ascoltatori, nelle nicchie, erano come spettatori in un anfiteatro". L’anfiteatro viene coerentemente aggiornato da Pasolini nella struttura scenografica del dramma borghese. […] Al centro dell’attenzione stanno le narratrici, come tre prime attrici o primedonne del varietà.

Ogni girone è caratterizzato da una particolare perversione sessuale, magistralmente introdotta dalle tre narratrici allo scopo di solleticare i desideri dei quattro signori che potranno così realizzare le proprie fantasie sui ragazzi resi inermi.



Il sesso è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano, è la mercificazione del corpo umano. La riduzione del corpo umano a cosa è tipica del potere, di qualsiasi potere. Il potere mercifica i corpi: quando Marx parla dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo parla effettivamente di un rapporto sadico.

La mercificazione dei corpi trova espressione e si intreccia nel procedimento metanarrativo. Come ha osservato Casi, Salò è giocato su una teatralità diffusa, il film «si presenta infatti come rappresentazione di una rappresentazione». Ne sono testimonianza i seguenti brani:

La narrazione delle tre donne che si truccano davanti a uno specchio da camerino;

Gli stessi signori che recitano una parte travestiti da donna per la cerimonia nuziale;

Il reclutamento delle vittime che avviene come in un provino;

La parola, fondamento della teoria teatrale pasoliniana, che si manifesta in tutta la sua potenza;

I ragazzi che sono spesso mascherati o costretti a interpretare delle parti;

Le torture finali che sono osservate dai signori con un binocolo da teatro.

Il richiamo immediato, a questo punto, è al Manifesto per un Nuovo Teatro: la rappresentazione di una rappresentazione risulta infatti essere, in Salò, la rappresentazione di una cerimonia, di un rito.



Il potere è sempre codificatore e rituale. Senza volere mi sono trovato, in questo film, a rappresentare sia la vita per bene piccolo-borghese con i suoi salotti, i suoi tè, i suoi doppiopetti da una parte, e dall’altra mi son trovato a rappresentare una cerimonia nazista.
(Il "rito" teatrale)
36) Il teatro è comunque, in ogni caso, in ogni tempo e in ogni luogo, un RITO.
37) […] Il teatro rappresenta un corpo un oggetto per mezzo di un oggetto, un’azione per mezzo di una azione. Naturalmente il sistema di segni del teatro ha dei suoi codici particolari, a livello estetico. Ma a livello puramente semiologico esso non si differenzia (come il cinema) dal sistema di segni della realtà.
L’archetipo semiologico del teatro è dunque lo spettacolo che si svolge ogni giorno davanti ai nostri occhi […] Il rito archetipo del teatro è dunque un RITO NATURALE.

Negli ultimi anni della sua vita Pasolini sembra impegnato in una incessante fuga dalle convenzioni artistiche, «nella costante ricerca di una forzatura dei confini, ancora maggiore rispetto al passato, verso l’impurità dell’opera».

Non è indifferente alle novità espresse dai nuovi teatranti e dalle loro ricerche di confine. Sono gli anni in cui cominciano ad arrivare a maturazione numerosi processi in fermento già dai primissimi decenni del dopoguerra. È in questo ambito che il nesso arte-vita viene coniugato in termini sempre più stringenti. John Cage ne fornisce una formulazione che sembra richiamare, per il versante teatrale, il pensiero di Pasolini rispetto alla lingua cinematografica:



Il teatro ha luogo sempre dovunque ci si trovi […] Per me il teatro è semplicemente qualcosa che vincola la vista e l'udito. […] Desidero definire il teatro in termini così semplici perché in questo modo è possibile considerare teatro anche la vita di ogni giorno.
Non scrivo più come prima, il ché equivale a dire che non scrivo più. In principio quando ho cominciato a fare del cinema ho pensato che si trattasse semplicemente dell’adozione di una tecnica diversa. Direi quasi di una tecnica letteraria diversa, poi mi sono reso conto, pian piano, che si trattava non di una tecnica diversa ma di una lingua diversa. E quindi io ho abbandonato la lingua italiana con cui mi esprimevo come letterato per adottare la lingua cinematografica. La lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. E invece un regista esprime la realtà attraverso la realtà. Ecco, questa forse è la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco alla letteratura. Perché esprimendo la realtà con la realtà opero e vivo continuamente al livello della realtà.

Non stupisce dunque che, durante le riprese degli esterni di Salò a Bologna, Pasolini abbia accettato di partecipare a un’azione scenica ideata da Fabio Mauri in occasione dell’inaugurazione della nuova galleria d’Arte Moderna di Bologna, il 31 maggio 1975: un’esperienza di body art che l’autore definì azione complessa o performance complessa e che consistette nella proiezione di alcune sequenze del Vangelo secondo Matteo sul petto di Pasolini.

Ma prima di occuparci di tale esperimento, dedichiamo un breve approfondimento alla figura di Fabio Mauri e alla sua precedente produzione.

 

2. «Che cosa è il Fascismo», di Fabio Mauri (1971)

[…] Io concepivo qualcosa che non era teatro […] che non aveva bisogno di un palcoscenico, poteva essere fatto nelle gallerie, a livello dell'uomo. Qualcosa di mezzo tra il teatro e le mostre, che sono le performance complesse.
 Qual è la differenza tra performance e spettacolo?
La performance è un rito attuale, lo spettacolo invece è una specie di arco: ha una premessa, uno svolgimento e una catarsi, una chiusura; mentre la performance corre a livello degli eventi, degli avvenimenti che sono attorno a noi.

L’intenzione non è tanto quella di rappresentare i ludi juveniles del ventennio fascista, quanto quella di ri-presentarli tali e quali, di «riportare in teatro un pezzo di storia».

Che cosa è il fascismo

: collocazione immaginaria; la festa è in onore del Generale Hernst Von Hussel (ricorrenza non reale ma interna alla rappresentazione).

Al centro della sala un grande tappeto rettangolare con impresso il simbolo della svastica nazista è il luogo in cui si svolge l’intera cerimonia; distribuite sui due lati sei tribune nere, destinate ad accogliere gli spettatori, «divise per corporazioni (Autorità, Personalità, Accademici, Magistrati, Famigliari, Rurali, Stampa Italiana, Stampa Estera, etc.)»; a una estremità troviamo il Podio di Comando con alle spalle uno schermo bianco con la scritta The End; all’estremità opposta invece altre due tribune più strette contrassegnate dalla stella di Davide – «Vista la violenza della stella ebraica divenuta obbligatoria in Germania per gli ebrei, l’ho messa in grande su due tribune dove avevo invitato spettatori ebrei: volevo mettere in evidenza, nella forma quasi serena, l’aberrazione sociale di quel marchio con cui i bambini dovevano giocare, mentre i grandi dovevano esibire ogni istante come segno di infamia» – riservate a uomini e donne israeliti, e una alta struttura metallica dalla quale, a un certo punto, verrà proiettato, sullo schermo antistante con la scritta The End, un documentario dell’Istituto Luce.
Gli spettatori, entrando per prendere posto, si ritrovano veramente proiettati all’interno di una manifestazione pubblica: dal podio vengono date indicazioni ai giovani fascisti e agli intervenuti, il pubblico è guidato dai primi a sistemarsi nelle tribune ad ognuno assegnate.
«Si prega di sgombrare la piazza d’armi! ... Si prega di sgomberare la piazza d’armi! … Ripeto: si prega di sgomberare la piazza d’armi! … Sono in arrivo nuove tribune … Attenzione prendere posto nelle tribune a ciascuno assegnate! ... Per ogni problema rivolgersi al centro organizzativo nazionale» tuona autoritaria una voce femminile dal podio, mentre, in sottofondo, accompagna l’entrata del pubblico la canzone Fischia il sasso.
Dopo la presentazione dei vari gruppi fascisti presenti, viene introdotto il Console Eritreo (anch’egli ospite come il "cereo" Generale Hernst Von Hussel).
La cerimonia consiste in un susseguirsi di saggi ginnici e dibattiti di mistica fascista annunciati dal podio, da programma: Il fascismo e il mondo. Dibattiti di mistica fascista. Scherma. Sbandieramento. Il problema della razza. I pattini a rotelle. Il mazzo di fiori. Kendo. I ludi juvenilis. Film luce. Sfilata.
E’ proposta anche la dimostrazione di due Kendo, «ossia di due figli di italiani a Tokyo, perché […] venivano invitati da tutto il mondo a partecipare […] a queste grandi riunioni per la gioventù» come racconta lo stesso Mauri.
L’inizio e le varie fasi della cerimonia sono scandite dai comandi per la distribuzione in campo dei giovani in divisa, impartiti dal podio.
Ogni saggio è introdotto dall’inno dei Giovani Fascisti e si conclude con il saluto fascista al Generale Von Hussel.
È uno sfoggio di giovinezza, bellezza, potenza e forza: Mauri ha la precisa intenzione di riproporre questo momento storico aberrante con i modi piacevoli e suadenti con cui si è proposto nella realtà della storia: «il male non si presenta con la maglietta con su scritto ‘male’».
Si sperimenta in poco tempo l’Ideologia falsa , l’abisso della Superficialità istituzionalizzata, la Tautologia del Potere assoluto, la malignità intima della Bugia nascosta nell’Ordine, la vergogna della confusione culturale, l’irresponsabilità di chi avoca a sé la libertà di giudizio collettivo, l’inganno della giovinezza che porta grazia e fiducia a fare da preludio al massacro. L’errore lega con qualsiasi altra cosa, soprattutto con la verità e la bellezza. La sciocchezza della natura innocente è complice ingenua di ogni male. Il nulla seducente di quando, sembrando di risolvere finalmente la complessità del reale in un dato semplice, il vuoto trova spazio e prende forma nella mente e nei corpi, mimando il serio, il vero e la profondità.
Parlando del rapporto tra Fabio Mauri e la performance non si può ignorare il ruolo primario dello spettatore e del suo particolare punto di vista. È necessario dare una spiegazione più precisa di questo concetto, per farlo occorre un piccolo salto in avanti, alla metà degli anni ’70, dove troviamo un’altra serie di opere: Le proiezioni (di cui fa parte Intellettuale), opere cinematografiche proiettate su schermi ‘impropri’.



Le immagini cinematografiche, simbolo della complessità dell’attività intellettuale, acquistano un nuovo significato per il valore deformante degli inusuali schermi, non neutrali e con forme proprie, concepiti dall’autore come luogo dell’"attualità, intesa, qui e precisamente come istante del farsi storico" […] Gli oggetti e i corpi che accolgono le immagini diventano essi stessi testimoni della loro storia, e simbolo di realtà.

Ecco, lo spettatore è, nelle performance di Fabio Mauri, esattamente uno ‘schermo improprio’. La performance si compie nel suo punto di vista:



È un lavoro sul tempo quello di Fabio Mauri, stanze del tempo in cui la valenza è mutata, ci pone come testimoni di "fatti" che accadono sotto i nostri occhi, fatti che sappiamo essere successi in un altro tempo, e ci costringe alla "visione" diretta, all’esserci, in un tempo e in un luogo rimossi, in un tempo da dimenticare.

Si conclude così la performance di Mauri:
«Per gentile concessione dell’Istituto Luce proiettiamo lo straordinario Luce numero 1358 in occasione della visita del ministro Goebbels a Venezia».
A conclusione del video Giovani Italiane e Giovani Fascisti, insieme ai Capomanipolo e al Console Eritreo marciano insieme sulla piazza d’armi intonando l’Inno di Roma, reggendo alta la bandiera nera, e uscendo di scena lasciano dietro di loro il rumore della marcia e degli aerei (le frecce nere, che tutti erano stati invitati a salutare all’inizio della manifestazione o altro?). La scena resta vuota. Il pubblico, dalle tribune, applaude. I canonici minuti in cui ci si chiede, tra sé e sé o col vicino: sarà finito così?. La risposta arriva puntuale: no. Non è così liscio il The End.
Dopo tre minuti e mezzo, in cui forse un po’ ci si chiede se si applaudirà: a cosa si applaudirà? Cosa significa applaudire a Che cosa è il fascismo? Mauri aiuta lo spettatore a prendere posizione e dà inizio ai bombardamenti a volume altissimo, gli aerei che prima sorvolavano "innocui" la piazza d’armi ora bombardano e finiscono la performance.
Sono ancora le parole di Franco Cordelli ad accompagnarci nei momenti conclusivi di Che cosa è il fascismo: «Ci sembra di sentir pulsare il cuore di una comunità, finché brutalmente, a scena vuota, a spettacolo finito, vale a dire quando saremo di nuovo nella realtà, un sinistro rumore di bombardieri ci ricorderà che cos’è, o che cosa è stato il fascismo»

3. Pasolini protagonista della performance «Intellettuale», di Fabio Mauri (1975)

In questi anni Pasolini non parla più attraverso schemi comprensibili. Sono saltati perché nessuno schema ha più senso, e perché ciò che rimane sostanziale è solo il proprio corpo, quello che aveva intuito di dover "gettare nella lotta" e che ora è l’unica invariabile strutturale della sua opera al punto da diventare, come si vedrà, oggetto stesso di rappresentazione. Assumono centralità come mai era accaduto prima d’ora la voce, il corpo. Non solo una nuova lingua e un nuovo rapporto col corpo ma, anche, una nuova modalità di ricezione (come già aveva sperimentato Mauri nelle sue performance Ebrea e Che cosa è il fascismo): lontano anni luce da un atteggiamento supino, il pubblico cui pensa Pasolini è un pubblico attivo, non nel senso dell'immedesimazione, bensì della riflessione. In questo senso anche il ruolo dell’autore/creatore non può più essere soltanto quello di garante dell’opera, ma egli stesso inizia a essere parte oggettiva e sofferta del processo creativo.
L’installazione/proiezione Intellettuale (1975) è un esempio di responsabilizzazione che riguarda il performer, in questo caso regista dell’opera proiettata, quindi un’azione di responsabilizzazione dell’artista.

Come anticipato, sul busto di Pasolini sono proiettate sequenze del suo film Vangelo secondo Matteo:



La camicia bianca indossata da Pasolini, seduto su un alto sedile, costituiva il punto più espanso dello schermo umano. Il volume del sonoro, mantenuto troppo alto rispetto alla dimensione ridotta dell’immagine proiettata sul regista, aumentava il disorientamento esercitato dall’azione sia sul pubblico che, soprattutto, sullo stesso Pasolini. Il regista, che nel corso della proiezione aveva assunto un’espressione sofferente, disse di non essere riuscito a seguire il film proprio a causa dello "scollamento" tra le immagini e la colonna sonora così alta.

Per Fabio Mauri l’arte assume una «funzione di catarsi conoscitiva, e di responsabilizzazione etica degli atti individuali». Dunque, al pari del processo di catarsi nella tragedia greca, la performance è un rito attuale: Fabio Mauri attualizza un tempo ormai andato, compiuto, affinché ognuno abbia modo di contemplare.

[…] La proiezione provoca un effetto singolare: rivela fisicamente la nascita del «segno intellettuale», «dentro» il corpo dell’autore. Possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito. Comporta anche dell’altro: l’imposizione di una «passione» che l’autore subisce, per cui sembra rispondere corporalmente di quanto ha concepito. […] Pier paolo Pasolini […] accettò di sottoporvisi e ne fu subito preso. S’immerse nello sforzo di ricordare attimo dopo attimo cosa ritrascorreva su di lui, quale dettaglio di immagini, quali forme.[…] Illuminato dal solo raggio del suo film, sembrava subire una responsabilizzazione dei contenuti reali dell’immaginazione. […] Contemporaneamente avviene un altro fenomeno: l’identità d’autore, resa materialmente evidente, si riconferma in modo efficacemente elementare. Autore e opera formano una scultura di carne e di luce, un’unità compatta. […] Attraverso quel rito intendevo richiamare a un’evidenza: che le forme espressive non erano che significati «reali», nel senso di implicite all’universo «morale» dell’uomo. Il termine «intellettuale» comprendeva, per me, tale dato. 
Noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista la memoria si scontra con il mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che aveva decifrato, ma nella performance non capiva più a che punto era. Come se avesse perduto lo sguardo sulla propria interiorità, era sgomento.
Mauri interroga continuamente autori, performer, spettatori e opere. Interroga coscienze che mette in condizione di rispondere.
Per Mauri l’opera inizia nel momento in cui diviene domanda, una domanda che non si confonde con i dubbi o con gli scrupoli, una domanda che non smette di interrogare anche quando l’opera è compiuta, anche quando l’orizzonte delle risposte continua a manifestare se stesso. La domanda è rivolta al linguaggio, a un linguaggio capace di travestirsi, trasmutarsi, a un linguaggio capace di essere seduttivo anche nelle sue forme ideologiche più pericolose.
Dal canto suo, Pasolini, accettando il ruolo di protagonista dell’evento di body art,
incarna, per una singolare coincidenza, esattamente il punto d’arrivo della propria riflessione in quel momento, unendo il triplice rapporto fra la realtà della sua persona, il cinema proiettato e il teatro dell’allestimento che lo porta a essere presenza fisica su una scena di fronte a un pubblico. E duplica – ancora una volta oggetto di uno sguardo altrui – la propria nuda epifania di poeta con le sole armi della poesia, testimone (martire) di sé come scandalo vivente, corpo politico incarnato nel proprio corpo fisico.


4. Conclusioni

Torniamo a Salò.
Il brano dell’intervista in cui Pasolini affermava che il linguaggio cinematografo consente al regista di esprimersi «al livello della realtà», proseguiva riferendosi alla sua predilezione per gli attori non professionisti:

In generale la mia opera è influenzata dall’uso di attori non professionisti, come è influenzata dall’uso di una scenografia non ricostruita in teatro, cioè una scenografia vera, nel senso che quando io giro, in realtà non faccio altro che raccogliere del materiale. Quindi vado in un posto qualsiasi non ricostruito, scelto da me in natura, e raccolgo del materiale secondo la luce, secondo quello che c’è lì in quel momento […] prendo un ragazzo che non ha mai recitato, lo metto davanti alla macchina da presa e lo tengo lì a lungo raccogliendo materiale, questo significa che poi devo fare un lungo lavoro di montaggio per togliere tutto quello che è inutile e cogliere invece quel momento di verità che può essere lampeggiato nel suo sguardo, nel suo sorriso mentre giravo.

Mettetevi nei paraggi di un corpo, del suo limite fisico, della sua sofferenza, del suo pathos... è il pulsare della vita quello cui assisterete, il suo sentirsi scorrere. Questo è quello che Pasolini vuole restituire, non ci troviamo di fronte a una costruzione di identità «il film è privo di psicologia»: qui i personaggi si esprimono solo tramite funzioni che sono azioni, le figure tendono ad esprimere non un soggetto ma un processo. Il corpo dell’attore è portatore di un’immagine che deve essere attivata, è potenza di immagine che diventa luogo dello sguardo: teatro. La costruzione di queste figure cerca la vita allo stato puro, non la sua rappresentazione, la restituzione di un’esistenza che tanto è lontana dalla sua biografia.

Un corpo/figura. Una figura che lascia transitare un processo. È quindi sempre della vita di un corpo particolare che stiamo parlando, quella ci presenta Pasolini: una vita intesa come zoé (ζωή), ed è proprio questa zoé ad essere irrimediabilmente minacciata dal potere consumistico.

Principali riferimenti bibliografici e filmici:


Stefano Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005.
Letizia Torelli, Fabio Mauri: la performance come rito attuale, Tesi di Laurea in Dams, Facoltà di Lettere e Filosofia, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, a.a. 2010-2011 (disponibile presso l’Archivio Pasolini, Bologna).
Salò o le 120 giornate di Sodoma

, Italia/Francia, 1975, 117 min., regia Pier Paolo Pasolini, soggetto Marchese de Sade (romanzo), sceneggiatura Pier Paolo Pasolini, Sergio Citti, Pupi Avati, produzione Alberto Grimaldi/Alberto De Stefanis/Antonio Girasante.
Pasolini prossimo nostro

, Italia/Francia, 2006, 63 min., regia Giuseppe Bertolucci, produzione Ripley’s Film/Cinemazero.

Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=4&ved=0CEYQFjAD&url=http%3A%2F%2Fcampus.unibo.it%2F80053%2F1%2FIl%2520corpo%2520di%2520Pasolini_Sal%25C3%25B2.doc&ei=3I2kUYSyN8SUOKvrgMgF&usg=AFQjCNECNO-32d_zEKFuVzaWIqKzAve2oA&sig2=l3ily9u-weS2uBD7a5k-jQ


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Curatore, Bruno Esposito

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