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domenica 28 aprile 2013

Accattone non muore mai


"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 




Accattone non muore mai


Emilio Ranzato per “L’Osservatore Romano

Negli ultimi cinquant’anni tante volte, persino troppe, si è sottolineata la santità dei personaggi diAccattone. Per quell’innocenza garantitagli dall’essere fuori dalla storia.
Ma il capolavoro di Pasolini va anche in una direzione per molti versi opposta, verso l’essenza di un problema moderno: l’eccesso del corpo e della materia. Ovvero il corpo rifiutato, emarginato, non utilizzato da una società che al contrario accoglie e accumula oggetti inutili, effigi di un benessere di cartapesta. Un problema ideologico, dunque. Ma anche estetico.
Tanto si è detto della frontalità dell’immagine pasoliniana, della figura umana sempre centrale, con un riferimento alla pittura medioevale che in seguito diventerà esplicito citazionismo. In effetti il dato più innovativo e sconcertante dell’esordio cinematografico del poeta e intellettuale sono i personaggi che attraversano i luoghi senza abitarli, senza viverli, come fossero davvero gli sfondi di un dipinto.
Questa frontalità, però, richiama anche il cinema muto, fonte d’ispirazione del nuovo regista per sua stessa ammissione. Al di là di precise influenze — Pasolini parlerà di Chaplin, Ejzenštejn, Dreyer — ciò che riporta al cinema degli albori è il problema dell’utilizzo del corpo. Problema che nasce dalla trasparenza quasi scandalosa dei mezzi espressivi cinematografici, e dalla difficoltà di apporvi dei filtri. E il profano della cinepresa Pasolini, abituato a trincerarsi dietro l’ambiguità rassicurante della parola, proprio grazie al suo sguardo ancora vergine avverte subito questa sfida. Tuttavia, non vi si sottrae. Vi intravede, anzi, la soluzione estetica alle proprie posizioni ideologiche, che già in quei primi anni Sessanta stavano perdendo la monolitica consistenza marxista per aprirsi a derive più complesse, pessimistiche, ma anche più universali e poetiche.
Il cinema con la sua trasparenza disarmante, e il poeta con in mano una cinepresa che per lui è ancora un mistero, diventano quindi un’alchimia perfetta per l’intellettuale ossessionato dall’incombere della società dei consumi. Che non ha trovato nella politica risposte sufficienti per sé e per gli altri. E che ora vuole lasciarsi andare a una risposta personale tutta poetica, finalmente libero dai vincoli di un’ideologia precostituita. Il cinema, da questo momento in poi, sarà per Pasolini il territorio franco dove far convivere tutte le sue contraddizioni, e dare ampio sfogo a quella permeabilità di dottrine interiori che sulle pagine dei giornali continuerà a far discutere, scandalizzare, disorientare gli esponenti di ogni parte politica.
Ecco dunque che in quel viaggio a ritroso verso le radici antropologiche dell’uomo moderno, verso il primitivo, che sarà Accattone, Pasolini si imbatte senza paura anche nell’atavico problema della presenza di un corpo o di oggetto sullo schermo, e della sua incontenibile forza. Che sia la locomotiva di Lumière che minaccia di uscire dall’inquadratura facendo fuggire gli spettatori, o un eroe delle comiche che rimbalza sulla scena distruggendo tutto come una mina vagante.
Nel cinema di Pasolini questo problema estetico ed espressivo diventerà un tutt’uno con i problemi che la modernità sembra non poter risolvere, e anzi sembra alimentare: cosa fare degli emarginati, dei non impiegati, degli ultimi. Di coloro che rimangono sulla faccia oscura della società dei consumi. Che cosa fare dei corpi e degli oggetti in eccesso. Con questa geniale sintesi, l’outsider coglie dunque nel segno. Mettendo il dito in una tematica che da lì in avanti avrà lungo corso e ampia fortuna sul grande schermo, divenendo addirittura il concetto più politico espresso dalla settima arte. Il corpo come escrescenza. Il corpo come materia non utilizzata di cui sbarazzarsi in qualche modo.
Sovrapposto com’è a uno scenario di borgata che non offre più nulla di abitabile, Accattone è sì un martire di Mantegna, ma è anche a un passo dalle orde di zombi costretti a reiterare azioni inutili nel cinema di Romero, dai reietti stipati in ghetti sempre più istituzionali di Carpenter, dal connubio fra organico e inorganico come aberrazione della tecnologia in Cronenberg, dalle suburre industriali che creano mostri nel primo Lynch. D’altronde persino lo splatter — termine inaugurato proprio per Romero — prima di diventare un passatempo per palati forti nasce come simbolo dei metodi con cui la società moderna si libera di tutto ciò che produce in eccesso, e di tutti coloro che non riesce a impiegare.
Naturalmente, Pasolini non propone soluzioni altrettanto drastiche. L’anelito di morte che grava sul suo protagonista, però, assolve in fin dei conti la stessa funzione. Se la società non riesce a riconoscere in quel corpo una persona, Accattone farà in modo di liberarsene per conto proprio. Non a caso, con l’aiuto di un simbolo della modernità. Ruba una motocicletta come l’Antonio di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) rubava la più umile delle due ruote. Entrambi falliscono nel loro maldestro, illusorio tentativo di scalare la piramide sociale.
Ma se Antonio veniva graziato in un finale aperto, Accattone trova l’agognata morte in un finale che non potrebbe essere più definitivo.
Ecco come Pasolini liquida gli strascichi neorealisti che pure pervadono la sua opera. A pochi anni di distanza, quella speranza di andare avanti nonostante tutto, sembra già svanita.
I suoi primi tre lungometraggi, d’altronde, finiscono con una morte. Ma se nel seguente Mamma Roma(1962) il protagonista sfiorava l’alterità assomigliando al Cristo più famoso di Mantegna, ne Il vangelo secondo Matteo (1964) si parla già di una morte solo apparente. Il Cristo pasoliniano è in fin dei conti un alter-ego e un contraltare di Accattone: rappresenta la grazia di essere fuori dalla storia.
Nella sua brama febbrile, quasi disperata di vivere, anche a dispetto della difficoltà di trovare un posto nel mondo come i suoi personaggi, Pasolini forse aveva già scorto una nuova risposta per sé e per l’uomo moderno.

Fonte:
http://sottoosservazione.wordpress.com/2011/08/30/accattone-non-muore-mai/#more-23769

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L´atlante dei volti perduti che Pasolini ci ha lasciato

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L´atlante dei volti perduti che pasolini ci ha lasciato


Nell´intervento per il Premio Napoli, il filosofo francese confronta l´opera dell´autore di “Accattone” con quella dell´antropologo Ernesto De Martino. Etnologo e cineasta sono accomunati dalla cultura visiva tra documentario e neorealismo

Georges Didi-Huberman per “la Repubblica”


Lo stesso anno, il 1961, in cui Pasolini girava Accattone – seguito, qualche mese dopo, da quel furioso montaggio poetico-apocalittico che fu La Rabbia – il grande etnologo italiano Ernesto De Martino intraprendeva un lavoro colossale, rimasto incompiuto alla sua morte, riguardo alla questione delle “apocalissi culturali”. Sarebbe forse molto utile analizzare con precisione le analogie, i parallelismi, le convergenze fra l´opera del poeta e quella dell´antropologo. Come Pasolini farà tutta la vita, così Ernesto De Martino non esita a diagnosticare delle “fini del mondo” in vari fenomeni storici: la decolonizzazione, la lotta rivoluzionaria, i problemi culturali – o addirittura psicopatologici – legati, per esempio, alla minaccia nucleare.
È dunque attraverso l´osservazione fenomenologica dei corpi e dei loro gesti che Ernesto De Martino – erede in questo senso dei lavori di Aby Warburg o di Marcel Mauss – trova la materia prima per la sua analisi: movimenti, affetti, tecniche corporee messe in atto nei saluti, nei giochi, nelle danze o nelle processioni religiose; tutto ciò costituiva il veicolo, sempre singolare, di un rapporto generale con il mondo. E tale rapporto – come in Pasolini – si formula sempre sotto forma di critica, ossia come consapevolezza di una crisi: quella “crisi della presenza” di cui Ernesto De Martino fa un concetto centrale dell´intero suo approccio etnologico delle “sopravvivenzepagane” nel cattolicesimo: pratiche magiche, trance e danze del tarantismo, lamenti rituali… La sua opera Furore simbolo valore potrebbe quasi essere il titolo – e anche il contenuto – di un poema di Pasolini. La sua ipotesi sui rapporti fra storia e “metastoria” potrebbe giustificare un´estetica uguale a quella del regista di Edipo re, legittimando una certa posizione epistemica nell´osservazione etnografica.
Pasolini incontrò Ernesto De Martino nel 1959, il 6 novembre precisamente: avevano ricevuto ex aequo il premio letterario della città di Crotone; il primo per il suo racconto Una vita violenta, il secondo per la sua inchiesta Sud e magia.

Se la Mater dolorosa filmata dal cineasta per Il Vangelo secondo Matteo – ruolo interpretato da Susanna, madre di Pasolini – ha profonde affinità con la contadina italiana immortalata dall´etnologo, o meglio dal suo collaboratore Franco Pinna, in pieno pianto di Maria, non è solo perché i due artisti sono accomunati dalla stessa cultura visiva, attraverso il realismo fotografico degli anni Trenta e il neorealismo cinematografico degli anni Cinquanta, ma anche perché l´arte visiva di Pasolini era espressa sotto forma di documentario, mentre la scienza etnografica di De Martino era permeata di un certo lirismo visivo.
Ernesto De Martino, com´è noto, non si accontentava di prendere appunti e misure sul luogo delle inchieste: egli creava atlanti fotografici e archivi sonori per l´oggetto di studio principale, la “crisi della presenza”, soprattutto con l´aiuto del suo assistente Diego Carpitella. Non c´è da meravigliarsi, quindi, se tale dimensione “audio-visiva” sia sfociata, per esempio, in quel capolavoro dell´arte documentaria rappresentato da Taranta, un film girato in Puglia nel 1961 da Gianfranco Mingozzi, su temi musicali scelti da Carpitella e commentario del poeta Salvatore Quasimodo, direttamente ispirato dallo studio sul tarantismo di Ernesto De Martino e pubblicato nella sua opera La Terra del rimorso. Allo stesso modo, ci colpisce la dimensione essenzialmente documentaria del lirismo pasoliniano: non soltanto perché i suoi film-documentario non rinunciano mai a una forma poetica – e penso soprattutto ai diversi Appunti, sull´India nel 1968 o sull´Africa nel 1969 – ma anche perché i film di fantasia, a cominciare da Accattone o da Mamma Roma, possono essere guardati localmente, nel dettaglio delle inquadrature, come osservazioni etnografiche sui corpi della popolazione. L´arte di Pasolini rivelerebbe, in questo senso, una tipologia estetica ossessionata, come ha detto Hal Foster, dal “ritorno del vero” e che, da Robert Smithson ad Allan Sekula, avrebbe fatto dell´artista un etnografo dell´alterità, sebbene il campo sia, in verità, ben più vasto di quello proposto dalla visione estremamente “americano-centrata” di Hal Foster. Ecco perché il cinema etnografico attraversa l´intera opera di Pasolini: c´è un po´ di Robert Flaherty fino in Uccellacci e uccellini così come c´è, in maniera indubbiamente più visibile, un po´ di Jean Rouch in Edipo re. Ogni volta, infatti, si nota l´approccio ai gesti umani, ai comportamenti fondamentali; ogni volta l´alterità è resa – nell´Oriente, per esempio – in tutta la sua crudezza, la sua prossimità e, di conseguenza, in tutto il suo valore inquietante.
La sfidasta nel dare forma all´inquietante prossimità di un tempo complesso che, mantenendosi a fior di gesto, di ogni gesto presente, non si riduce tuttavia mai alla sua attualità storica. È per questo che Pasolini ha concepito la questione delle popolazioni al di là di un´antropologia strutturale e si è diretto – attraverso De Martino, fra gli altri – verso qualcosa di più simile a un´antropologia delle sopravvivenze: «Bisognerebbe riportare il memoriale, egli dice, al di là delle lingue» in quanto semplici sistemi di segni disposti in sincronia, non fosse altro che per capire, ad esempio, il perché Ninetto sia, al tempo stesso, nostro contemporaneo e nostro “preellenico”. Ecco perché bisogna creare degli “atlanti linguistici”, scavare nella profondità dei dialetti, osservare questo “patrimonio comune dei segni” che attraversano la storia nel corpo dei nostri contemporanei sotto forma di “segni mimici” (…). È in questo senso che la miseria dei popoli è sfida del dolore: essa protesta oggi contro uno stato di fatto che le è imposto, ma lo fa attraverso gesti che appartengono innanzitutto alla sua cultura, una cultura della quale lo stato di fatto in questione ha pronunciato l´obsolescenza e la sparizione. Tale sarebbe, dunque, il gesto critico dell´antichità, il suo valore diagnostico e politico. Tale sarebbe la necessità rivoluzionaria dal punto di vista archeologico: «La miseria stratifica: come in una vecchia casa abbandonata, basta poggiare appena il piede per sollevare una nube di polvere soffocante».
La memoria in sé non è né buona né cattiva: né intrinsecamente rivoluzionaria né intrinsecamente passatista. Il punto sta nel suo valore d´uso: da un lato può soffocare i movimenti del desiderio, dall´altro può sovvertire l´apatia del presente, poiché è anche attraverso la loro memoria che i corpi resistono alla storia che li aliena. Ogni primo piano sul viso o sul gesto di un figurante diviene quindi una dichiarazione di sfida – libera ma “isolata”, potente ma locale – del corpo dei popoli contro il loro essere esposti alla scomparsa.


(Traduzione di Valeria Cacace)


Fonte:
http://sottoosservazione.wordpress.com/2011/11/02/l%c2%b4atlante-dei-volti-perduti-che-pasolini-ci-ha-lasciato/#more-26371

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Pasolini, un grande inquieto sulle tracce del sacro

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Pasolini, un grande inquieto sulle tracce del sacro

Zaccuri per “Avvenire

Una Messa per il poeta. Ma anche per il regista, il polemista o qualsiasi altra definizione si voglia affiancare al nome di Pier Paolo Pasolini. Una Messa per il grande inquieto, dunque, sempre tentato dall’esperienza del sacro e sempre contraddittorio nell’esplorazione del mistero.
Accade sabato 19 novembre a Casarsa della Delizia, al termine del convegno su “Pasolini e il sacro” che il locale Centro studi organizza a partire da venerdì 18 in collaborazione con una serie di realtà tra le quali si trova anche la Pro Civitate Christiana di Assisi (per informazioni www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it ). Com’è noto Casarsa, in provincia di Pordenone, è il paese d’origine della madre dello scrittore, Susanna, che insieme con Pier Paolo e gli altri defunti della famiglia Pasolini verrà ricordata durante il rito celebrato da padre Virgilio Fantuzzi, il critico cinematografico di «Civiltà cattolica» che dell’opera pasoliniana è considerato uno degli esperti più autorevoli.
«Anche per me – spiega Fantuzzi – tutto comincia con Il Vangelo secondo Matteo. Nel 1964, quando uscì il film, stavo ancora studiando per diventare gesuita e all’epoca seminaristi e sacerdoti non potevano frequentare le sale pubbliche. Ma c’erano le proiezioni in collegio e fu così che vidi per la prima volta il Vangelo.
Ne rimasi molto colpito, ma anche sconvolto, perché avevo letto le professioni di ateismo del regista. Trovai il modo di incontrare Pasolini per dirgli quello che pensavo. E cioè che, se non fosse stato credente, non avrebbe mai potuto dirigere un film come quello. Lui mi ascoltò, diventammo amici e da allora in poi discutemmo spesso delle tematiche che lo appassionavano. So benissimo che religiosità di Pasolini è un argomento controverso. Quello che posso dire con sicurezza è che negli ultimi anni della sua vita non si dichiarava più ateo».
Un altro dato inconfutabile è la centralità che Il Vangelo secondo Matteo conserva all’interno dell’opera di Pasolini. «Anche dal punto di vista stilistico – precisa Fantuzzi –. In un primo momento aveva pensato di girarlo con un’impostazione “romanica”, simile a quella di Accattone, in modo da mantenere una distanza con le immagini, riprese frontalmente. Si ritrovò invece, come ammise lui stesso, ad adottare una modalità “impressionista-espressionista”, di pieno coinvolgimento, che pure non gli impedì di attenersi con fedeltà pressoché letterale al testo di Matteo. Una “conversione” ci fu, dunque. Sui generis, compiuta anzitutto suil piano dello stile, ma non per questo meno significativa».
A ribadire quanto complesso possa essere il discorso sulla religiosità pasoliniana è un altro dei relatori del convegno di Casarsa, lo storico Remo Cacitti, docente di Letteratura cristiana antica alla Statale di Milano. «Pasolini fu spesso accusato di ateismo – ricorda lo studioso –, ma in termini che ricordano le analoghe imputazioni che i romani rivolgevano ai cristiani delle origini.
Su due aspetti, in particolare, l’ateismo dello scrittore si avvicina al cosiddetto “ateismo protocristiano”. I pagani trovavano intollerabile il fatto che i seguaci di Gesù non onorassero gli dèi della città. Per questo Luciano di Samosata li accosta addirittura agli epicurei. Ecco, mi pare che le critiche rivolte a Pasolini poggiassero sulla stessa insofferenza per il suo atteggiamento di demistificazione religiosa. Il secondo elemento è la demistificazione politica: i cristiani rifiutavano l’identificazione, tipica dell’età augustea, tra religio, pietas e humanitas, in conseguenza della quale chi non era pius si poneva al di fuori del consesso umano. Senza dimenticare che a Roma, tradizionalmente, l’accusa di empietà andava di pari passo con quella di licenza sessuale. Tutti aspetti che tornano nella querelle su Pasolini, che tuttavia appare sempre impegnato in una personalissima “imitazione di Cristo”».
Prova a tirare le fila il critico Filippo La Porta, che a Casarsa pronuncerà un intervento dal titolo programmatico: “Il sacro è la realtà stessa”. «Pasolini – argomenta La Porta – muove da una posizione che potremmo definire gnostica: gettato nel mondo, lamenta il trauma della perdita e percepisce il mondo come ostile. Ma non si ferma qui, perché strada facendo si accorge che la realtà stessa può essere il luogo in cui il sacro si manifesta, se non altro come memoria di un’ineffabile unità originaria. È un percorso in cui giocano un ruolo importante gli scritti di Mircea Eliade, di cui Pasolini è lettore e da cui attinge l’idea che ogni oggetto è sé stesso e, nel contempo, significa anche altro da sé. Siamo, si capisce, in una visione ciclica del tempo, di ascendenza pagana, che però nella vicenda di Pasolini si intreccia spesso con un cristianesimo contadino, a sua volta non estraneo a questa percezione cosmica. Più ancora che sul piano concettuale, del resto, il rapporto di Pasolini con il cristianesimo si consuma nella dimensione di una concretezza che si sarebbe tentati di qualificare come politica e che ha il suo compimento nella gratuità, in una purezza di sguardo che lo porta, da ultimo, a riconoscere la vita come dono».

Fonte:
http://sottoosservazione.wordpress.com/tag/pier-paolo-pasolini/


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Quella messa per Pasolini e l’equivoco della conversione

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L’opera dell’intellettuale è fitta di segni religiosi, ma intesi come categorie premorali

Franco Brevini per “Il Corriere della Sera


Pasolini senza pace. Sono trascorsi trentasei anni dalla sua tragica fine su uno sterrato di Ostia, eppure la figura dello scrittore non sembra ancora congedarsi dai clamori della cronaca per comporsi nel distacco della storia. Di vedove Pasolini ne ha sempre avute e da subito sulla sua eredità si accanirono in molti. Ora gli tocca perfino una messa, in occasione del convegno su «Pasolini e il sacro», organizzata a Casarsa il prossimo 19 novembre e celebrata da padre Virgilio Fantuzzi, il critico cinematografico di «Civiltà cattolica». D’altronde è stato lo stesso Pasolini a incoraggiare molti equivoci, rilanciando la figura dello scrittore comecomédien et martyr.

La tendenza a proporsi come un homo patiens è rintracciabile in Pasolini fino dagli inizi. Non c’è forse un rapporto fra il Cristo fanciullo impudicamente esposto sulla croce nelle blasfeme poesie dell’ Usignolo della Chiesa cattolica e il polemista civile che ostenta e sconta pubblicamente la propria omosessualità? Tutta la sua opera gronda di categorie religiose, usate con deliberata disinvoltura. Intitola una raccolta poetica La religione del mio tempo, gira La ricotta e Il Vangelo secondo Matteo, in Teorema un giovane dio sconvolge una famiglia borghese, progetta perfino un film su San Paolo. Ma il Vaticano censura i suoi film, La ricotta gli costa una denuncia per vilipendio della religione e nuovi guai gli procureràTeorema.

Ma cos’è il sacro per Pasolini? È una categoria premorale: sacri sono rousseauianamente i diritti della creatura. I ragazzi di vita compiono atrocità, cui basta a riscattarli la loro condizione creaturale. In Accattone un giovane ladro e magnaccia può morire sulle note della Passione secondo Matteo . Nel suo antimodernismo, al disincanto del capitalismo, opponeva la sacralità della «meglio gioventù», della civiltà contadina e delle plebi del Terzo mondo.

In un’opera segnata da un fondo ossessivo, la sacralità fu per lui una metafora per rivendicare i diritti di una diversità sessuale, che ostentò sempre con impudicizia. «Gettare il proprio corpo nella lotta». E la lotta era un’esperienza di riconsacrazione sacrificale dopo gli incontri mercenari con i ragazzi di vita. Per questo in lui militanza significa subito martirio: un Cristo esposto, che attraverso la vocazione pedagogico-socratica cerca il riscatto dal proprio peccato.

Tuttavia non si dovrebbe scordare che di tutto questo parliamo perché è diventato parole e immagini di una delle più folgoranti avventure creative del secondo Novecento. Tornare a quelle parole e immagini, misurarsi con l’opera invece che con la fallacia della biografia, può essere il modo più serio per onorare quel suo doloroso sacro.

Fonte:
http://sottoosservazione.wordpress.com/tag/pier-paolo-pasolini/


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Pier Paolo Pasolini inedito: La luce della resistenza.

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Gian Paolo Serino
La luce della resistenza


“Viviamo in uno strano periodo, in cui l’urgenza dell’agire non esclude, anzi, richiede assolutamente l’urgenza del capire”. È questo uno dei molti passaggi di sorprendente attualità tratti da un inedito di Pier Paolo Pasolini scritto nel 1955. Pasolini aveva previsto non solo il ’68, ma anche il filo sempre più sottile tra intellettuali e politica. Questo inedito, però, è anche un vero e proprio manifesto programmatico di quelle che saranno le sue opere e la sua vita. Due pagine dattiloscritte che riemergono ora, insieme ad alcune lettere inedite, dall’Archivio di Giancarlo Vigorelli: all’epoca redattore e caporedattore di riviste come “L’Europeo” e “Oggi”, inviato speciale e critico letterario de “Il Tempo” e negli ultimi anni presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani di Milano. Fu proprio Vigorelli, scomparso lo scorso settembre a 92 anni, tra i primi a scoprire il talento di Pasolini: grazie ad una sua recensione l’Italia iniziò a conoscere il poeta de La meglio gioventù. Lo testimoniano anche le lettere che Pasolini scrisse a Vigorelli tra gli anni ’50 e ’60 , sempre in bilico tra timidezza quasi reverenziale e affetto, bisogno conclamato di aiuto e brevi ma folgoranti confidenze. Ansioso per una mancata risposta, poi felice per la recensione particolarmente apprezzata dal padre: del quale il giovane poeta dimostra di desiderare il consenso e la stima, in modo quasi angosciante.
Ne deduciamo inoltre che molti, se non tutti i suoi scritti giovanili fossero custoditi non dalla madre, come si è sempre scritto, ma proprio dal vecchio e malato genitore.
In quegli anni difficili Vigorelli gli commissiona molti articoli per le sue riviste ed è tra i pochi intellettuali italiani – Alberto Moravia, Carlo Bo, Gianfranco Contini ed Emilio Cecchi – a difenderlo durante il processo per oscenità intentato nel 1955 contro Ragazzi di vita. Questo saggio inedito, che sarebbe dovuto apparire sulla rivista “Paragone”, e le lettere (qui pubblicate in versione non integrale) sono tuttora custoditi nell’Archivio Vigorelli insieme a autografi, inediti, epistolari, documenti e manoscritti di tanti grandi scrittori italiani ed Europei del ‘900, come europea è la sua raccolta di libri, quasi 50.000 volumi, buona parte in edizioni e lingua originale.

Pier Paolo Pasolini inedito: La luce della resistenza.


Qualcosa pare oggi, nella primavera del ’55, realmente finito: il dopoguerra. È finito non solo nel disordine e nella corruzione, ma anche nelle coscienze di viverci. Il senso di liberazione e di ripresa, dal ’45 agli anni immediatamente successivi, sembra ormai il dato di una psicologia lontana: e si ripresenta viziato, all’interno di ognuno di noi, dello stesso male che avrebbe portato il mondo esterno – la classe dirigente italiana, nella fattispecie – all’involuzione di oggi. Si sente il desiderio di dimenticarlo e superarlo, come un legame stantìo, impuro e un po’ ridicolo.
Esattamente il contrario avviene per gli anni della Resistenza: che si sono fissati in una luce che si fa sempre più limpida. Nessun desiderio di superarli – come per gli anni del dopoguerra: e nemmeno, certo, di ritornarci, se essi richiedono di contare come un’esperienza unica e altissima: sicuramente la più alta della nostra vita. Di farsi paradigma: cristallino nella necessità e nella violenza con cui le circostanze lo hanno determinato – che dimostri, come dato, determinato appunto dalle circostanze storiche e fuori dalla nostra coscienza logica e dai nostri programmi, una possibilità: la possibilità di un’intesa tra uomini della più diversa formazione e delle più diverse tendenze.
Allora, ciò che univa era la necessità del combattere – dell’agire -, oggi, che quel paradigma va sciolto nei suoi termini logici e riportato all’analisi, della necessità di capire. (Si badi che noi parliamo da intellettuali, non da politici: anche se la distinzione vale solo alla superficie). E la comprensione del mondo, l’atto del capire, può realizzarsi anche in una posizione che non sia resa estrema da una scelta: può realizzarsi anche in una posizione intermedia (ma non di terza forza o di aprioristica coalizione!), in cui chi vi si trova abbia una coscienza chiara (e soffra magari un dramma sincero) della propria impossibilità di scegliere: assumendo questa impossibilità a dato storico. E si badi che noi, di tendenza marxista, non usiamo in questo momento un linguaggio che sia marxisticamente eretico, non usciamo dall’impostazione classista del discorso.
Dei borghesi – come sono gli intellettuali invitati a questa testimonianza nel «Dibattito» – commetterebbero, ne siamo certi, un peccato di irrazionalità se, per salvarsi, si gettassero definitivamente in un’azione che, data la scelta compiuta, li giustificherebbe davanti a se stessi e li annullasse in una specie di anonimato e di conformismo. Meglio che di una conversione, si tratterebbe, in tal caso, di una inversione del proprio essere storico. Ed è per questo che non si dovrebbe tornare alla Resistenza nemmeno nel migliore degli atteggiamenti, per così dire, parriani: non sempre la purezza di un ideale e di una nostalgia garantiscono la sua necessità.
Viviamo in uno strano periodo, in cui l’urgenza dell’agire non esclude, anzi, richiede assolutamente l’urgenza del capire: mai un fare è stato in così immediata dipendenza da un conoscere. E se una conciliazione dei vari modi di conoscenza (o almeno dei due fondamentali) è possibile, questa, ripetiamo, non può essere che drammatica: religiosa, senza autolesionismi o irrazionalismi mistici.
Come allora a unirci erano le difficoltà e i pericoli esterni, oggi dovrebbero essere le difficoltà e i pericoli interni: se le istituzioni e gli ideali democratici non sono minacciati da una scatenata violenza di eserciti, ma da una scissione che disgregando la società in una pratica e ideologica lotta di classe, disgrega in realtà la vita stessa, nella pienezza che questa raggiunge attuandosi nei singoli individui. E l’equilibrio (quello, supremo, della Resistenza) non va certo raggiunto cancellando uno dei termini del dilemma: ma vivendo il dilemma nel modo più rischioso, intellettualmente e sentimentalmente.



Lettere inedite
[frammenti]
Una felicità quasi infantile
Ecco alcuni brani dalle lettere inedite che Pier Paolo Pasolini
scrisse al critico Giancarlo Vigorelli
.
Roma 10 Giugno ‘50
Gentile Sig. Vigorelli, forse avrà avuto notizia dagli uscieri o dalla telefonista della mia insistenza nel volerla rivedere: non era per capriccio, Lei lo sa. Ora avrei bisogno del materiale che Le ho lasciato, per cercare di pubblicarlo da qualche altra parte.


Roma 30 agosto ‘54
Caro Vigorelli, Bertolucci mi ha avvertito che per la recensione Lei desidererebbe qualche altra cosa mia. Ho messo insieme tutto quello che ho potuto trovare nei miei cassetti: di cui è custode mio padre. È mio padre che viene a portarLe il pacco. Sono documenti della mia prima gioventù letteraria.


Roma 6 ott 1954
Caro Vigorelli, ho letto stamattina, appena alzato, il tuo stupendo articolo. Sono qui senza parole, tanto sono colpito e sovvertito. E sono oppresso insieme da una contentezza quasi infantile (quella che vedo dipinta negli occhi di mia madre e di mio padre) e da una nuova, ancora più ossessionante responsabilità. Non trovo altro modo di ringraziarti che prometterti di non risparmiarmi, di non attutire mai, anche dovesse assumere forme di smania o di vizio nell’ordine irrazionale, o di mania intellettualistica o moralistica, quella passione che tu hai sentito nei miei versi.



Roma 11 dicembre ‘55
Caro Vigorelli, ormai tu sei una delle sei o sette persone per cui io scrivo, come destinatari diretti e coscienti: e sei stato tu a volerlo essere, a esserlo, sin dalle prime ormai antiche letture. Forse, per orgoglio, per eleganza, non avrei dovuto scriverti queste righe: ma perché? che me ne importa dell’orgoglio, dell’eleganza, non voglio saper vivere.


Roma, 8 ottobre 1969
Caro amico, la critica in genere ha accolto un mio film Porcile in modo ingiusto e sgradevole. Temo che a causa di questa accoglienza, tu non sia andato a vedere il mio film […]. Ma io invece ci tengo enormemente a Porcile, che considero la mia opera più riuscita.


dall’Archivio Giancarlo Vigorelli

Fonte:
http://www.satisfiction.me/pier-paolo-pasolini-inedito-la-luce-della-resistenza/


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PASOLINI, un ricordo di Giuseppe Trabace

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PASOLINI, UN RICORDO

di GIUSEPPE TRABACE

Nell’autunno del 1944 a 22 anni Pier Paolo Pasolini, con l’aiuto dell’amatissima madre Susanna, apre a Versuta in Friuli una scuola per una decina di ragazzi che all’epoca, causa l’imperversare della seconda guerra mondiale, non potevano frequentare le scuole pubbliche. Pasolini ci butta tutto il suo impegno di giovane intellettuale solitario e ad un tempo esercita la sua vena di poeta forse ingenuo ma con il lucido obiettivo di instillare in quei pochi alunni il suo coinvolgente amore per la natura di quei splendidi luoghi. Un piccolo esempio la sua poesia titolata “ Il sole e le viole “:
Che calduccio stare al sole
presso l’uscio di campagna
pare che odorino le viole
lungo i cigli della via.
La via è bianca e azzurro il cielo
e verdina la pianura
c’è nell’aria come un velo
che avvolge campi e mura
Una voce molle,molle,
una voce roca,roca
par che nasca dalle zolle
e trapunga l’aria fioca
E’un fanciullo che ripete
la poesia sotto il sole.
Sulle guance rosse e liete
Gli occhi son due viole.
Negli anni a venire quel poeta di delicata sensibilità assumerà nuovi imprevedibili volti. Sarà l’intellettuale raffinato e controcorrente che nel 1956 fonderà, assieme ad altri giovani innovatori quali Leonetti e Roversi , la rivista letteraria “ L’Officina “ ponendo mano a una dura battaglia per la revisione del novecentismo letterario ed incentivando in tal modo il superamento di quel neorealismo e di quell’ermetismo, che avevano rappresentato fino ad allora le linee guida per i poeti e i letterati del nostro paese. Nasce tra gli anni quaranta e cinquanta in Italia un poeta dotato di un’autonoma ed originale scrittura. I suoi versi saranno nella prima fase nella tanto amata lingua friulana e in una secondo momento in lingua italiana. Copiosa la sua produzione, di cui non si possono dimenticare le raccolte di poesie inserite nelle “ Ceneri di Gramsci “ e nell’ “ Usignolo della Chiesa cattolica “. Alla poesia Pasolini dona tutta la sua passione civile, mutuata solo in parte dalla teoria marxista, ma in cui si sottende uno scarto tra sensibilità individuale e ragioni storiche. Dalla lettura di quelle poesie esce fuori la complessità, a volte la contraddittorietà, del personaggio Pasolini. L’ artista si dibatte in un dilemma che attraverserà la sua esistenza fino alla tragica morte. Egli ama la vita con disperata vitalità. Ne è prova la molteplicità di temi e interessi che sviluppa con una vis ed una qualità che ricorda certi artisti del Rinascimento italiano. Una vitalità che si esprime anche ponendo sotto gli occhi di tutti – a volte facendone una bandiera- le sue scelte omosessuali, per cui pagherà prezzi incalcolabili. Infine su tale onda si batte con coraggio e in assoluta buonafede- spesso in splendido isolamento- contro le tante ingiustizie sociali e le discriminazioni che attraversano quel periodo storico. In contraddizione quest’uomo così vitale è attanagliato fin dalla gioventù dalla consapevolezza della caducità del vivere e da funesti presagi di morte. L’uomo e l’artista sono imbevuti da questo tormento che trova una parziale attenuazione, almeno fino agli anni sessanta, in una concezione religiosa della sacralità della vita.
Nonostante questi limiti Pasolini “ inventa “ nei primi anni del 1950 un nuovo modo di creare arte, Nasce il romanziere con l’opera del 1954 “ Ragazzi di vita “. L’artista, che si è trasferito a Roma nel 1950, cala il suo romanzo nella triste e degradata realtà delle borgate romane. In quegli anni- ma il fenomeno continuerà fino alle soglie degli anni novanta- un gran numero di persone poverissime, spesso senza lavoro, trascinano la loro esistenza cercando con ogni mezzo, anche illegale, di sopravvivere. Esse si ammucchiano nelle periferie di Roma, vivono in case fatiscenti o,peggio, in primitive baracche di legno tra vicoli maleodoranti e sevizi inesistenti. I giovani sono le prime vittime di quel degrado, la sopravvivenza a qualsiasi costo è il loro credo. Essi coprono i loro problemi sfoggiando una maschera di indolente sufficienza o di cinica indifferenza verso gli altri. Pasolini scopre quel mondo- descrivendolo come un inferno sulla terra- aiutato nelle sue peregrinazioni nelle periferie dall’amico borgataro Sergio Citti. Nel romanzo adotta, sempre su indicazioni del Citti, il linguaggio aspro e scurrile di quei luoghi, nell’obiettivo di una presa di coscienza collettiva di quella realtà e dell’umanità che la soffre ma anche di porre in rilievo una diversità sociale, quasi antropologica. Alcuni critici letterari di grosso nome e parte dei lettori si rivoltano contro quel modo di scrivere, non accettando la cruda descrizione di un sottobosco umano che forse è meglio ignorare. Lo scrittore non demorde, la sua è una scelta di vita, le sue lunghe peregrinazioni, anche notturne, nella periferia poverissima di Roma segnano anche la sua vita privata, spesso percorsa da pulsioni omosex incontrollabili, ma fanno emergere altresì le sue qualità di letterato schierato sul fronte del riscatto sociale degli emarginati. Il 1959 è l’anno in cui pubblica il suo secondo romanzo “ Una vita violenta “. L’ambientazione è sempre quella delle borgate romane, il protagonista è Tommaso Puzzilli, un giovane di 17-18 anni che subisce tutti i condizionamenti di quel contesto. I suoi comportamenti sono violenti, il suo modo di esprimersi volgare, pare perdersi, eppure in quel giovane vivono elementi di altruismo e solidarietà umana. Non esiterà a soccorrere i suoi vicini baraccati sotto l’infuriare di una tempesta e questo gesto gli costerà la vita. Il romanzo, pur potendosi definire contraddittorio come il suo autore, coglie nel segno allorquando disegna con crudo realismo la vita di persone ai margini della cosiddetta società civile ma ad un tempo delinea la voglia di alcuni di essi di riscattarsi moralmente sia pure nei limiti del loro vissuto. I nemici di sempre continuano ad attaccarlo, a partire da alcune gerarchie del Vaticano e da intellettuali di quel Partito comunista italiano, cui egli faceva da sempre riferimento senza esservi peraltro iscritto. A volte l’intellettuale, che pure può vantare l’amicizia sincera di colleghi come Alberto Moravia, Elsa Morante e Carlo Emilio Gadda, è soggetta a persecuzioni astiose e crudeli. Subisce processi, viene accusato perfino di rapina in una discutibile e farisaica identificazione tra lo scrittore e i personaggi dei suoi romanzi. Tutto finisce nel nulla ma Pasolini per parte dell’opinione pubblica di quel periodo- sviata da un certo tipo di giornali scandalistici- è un uomo da condannare senza pietà, al di là delle sue effettive colpe.
Già a metà degli anni cinquanta Pasolini sente l’esigenza di parlare più direttamente al pubblico, di trasmettere visivamente attraverso il mezzo cinematografico tutto quel magma di idee, di riflessioni che gli turbinano dentro e gli danno vitalità e disperazione.
Inizia brillantemente come sceneggiatore del regista Mauro Bolognini cui “ impone “, sia pure in parte, le sue tematiche preferite nei
film “ La notte brava “ e il “ Bell’Antonio “. Cura i dialoghi romaneschi del capolavoro di Federico Fellini “ Le notti di Cabiria “.Il grande regista romagnolo stringe amicizia con l’artista geniale e con sana ironia lo definisce “ possiede saggezza da padre priore e estro da folletto lunare “ Nel 1961 ecco il gran passo di Pasolini alla regia cinematografica. Con originali intuizioni figurative la trama tratteggia la figura di uno sfruttatore di prostitute, Accattone. Egli trascina la vita in una misera borgata romana ben conscio della “infamità “ della sua esistenza, ma circondato da amici cinici e scanzonati che tirano la vita commettendo furti. Ad un tratto Accattone ,che pure ha abbandonato la moglie e un figlio, incontra un’ingenua ragazza Stella e cerca con abili maneggi di trascinarla verso la prostituzione. L’imprevisto è che quest’uomo,in apparenza perduto, si innamora di Stella. La sua vita ne viene sconvolta, tenta di lavorare onestamente ma la fatica è troppa per lui che ha vissuto sempre nell’ozio. Non c’è che ricorrere agli amici di sempre e improvvisare qualche furto. La fortuna non l’aiuta, perderà la vita mentre fugge per non essere catturato dalla polizia e nello spirare pronuncia la frase: “ Mò sto bene “. Accattone è un personaggio mirabilmente descritto da Pasolini, un reietto della società ma che pure ha l’esigenza insopprimibile di provare sentimenti sinceri verso un’innocente. L’ambiente che lo circonda e lo condiziona è spietato e nel momento dell’inizio di un suo riscatto non può che trascinarlo verso la morte che pure per Accattone rappresenta la liberazione. Film dai molti risvolti ma girato con una semplicità che stupisce, con attori presi dalla vita ma dai volti di una realtà sconvolgente, con una colonna sonora originalissima composta da raffinate musiche di Back in netto contrasto con la volutamente squallido habitat. Il film, per tanti un capolavoro, divide il pubblico ma riesce a ridare vitalità al cinema italiano impegnato dopo i successi del neo realismo negli anni quaranta e cinquanta.Ormai è un regista affermato e l’anno dopo gira “ Mamma Roma”, storia di una matura prostituta che abbandona il mestiere per dedicarsi al figlio adolescente e un po’ sbandato. Tanta la voglia della madre di aiutare il giovane ma il cupo mondo della borgata attira nelle sue spire quel giovane fino a fargli perdere la vita . Il volto sofferente della madre nell’apprendere la ferale notizia resterà impresso nella mente dello spettatore come simbolo di un dolore che non può trovare consolazione. Straordinaria è l’interpretazione di Anna Magnani nel ruolo della madre ma il film, pur inferiore al precedente “ Accattone “, svolge un discorso coerente sulla difficoltà di un riscatto da parte di chi, sia pure in un contesto difficile, ha sbagliato. La carriera di Pisolini nel modo del cinema prosegue sempre ad un livello alto come quando nel 1964 dirige “ Il vangelo secondo Matteo “. L’apostolo Matteo racconta in modo semplice ed efficace la vita di Gesù Cristo e questo attira l’ ” arrabbiato “ Pasolini. L’esposizione di Matteo non viene tradita nel film, piuttosto i toni sono più forti, il figlio di Dio nel suo messaggio di amore verso l’umanità appare nella visuale del regista come un rivoluzionario che vuole cambiare nel profondo e ad ogni costo uomini e cose. La chiesa, che non dimentichiamo è quella del Concilio, per grande parte condivide sostanzialmente l’impostazione data al film da Pasolini, gli sono vicini in primo luogo i frati francescani di Assisi. Nel film inaspettatamente di intravede il senso religioso che attraversa l’esistenza di quest’uomo non facilmente classificabile. Pasolini tenta altre vie in un’ansia di rinnovamento nel modo di inventare cinema. Nel 1965 dirige una favola surreale sul tramonto del marxismo “ Uccellacci e uccellini “. I toni sono ironici ma in realtà il regista mostra la sua delusione per i suoi ideali politici forse traditi. Al protagonista, un borghese squallidamente perbenista, presta la sua inimitabile maschera Totò, che con maestria riesce a mescolare toni farseschi a espressioni di una crudeltà inaspettata. Il film non viene apprezzato dal pubblico che lo ritiene astratto e poco comprensibile ma va analizzato storicamente come uno dei primi approfondimenti di un intellettuale di sinistra degli anni 60 sulle inadeguatezze delle teorie marxiste. La strada del regista prosegue con film che si rifanno ai miti antichi e quindi alle grandi tragedie greche come “ Edipo re “ e “ Medea “. L’ indubbia inventiva porta il regista ad ambientare tali tragedie rifacendosi a luoghi e tradizioni del sud del nostro paese. Ritorna su temi favolistici e religiosi che toccano il tema della difficoltà del vivere mantenendo l’innocenza con l’ottimo film “ Teorema “. Proseguirà con altri tentativi, non sempre riusciti, sempre rispolverando testi classici quali “ Il Decamerone “ e “ I racconti di Canterbury “ Forse il regista va oltre le righe non sottraendosi dal girare scene fin troppo esplicite di nudo o di rapporti sessuali. Il suo fiuto coglie peraltro il momento storico. Siamo negli anni 70 e battono alle porte i problemi della liberazione sessuale, dell’emancipazione femminile mentre il movimento femminista si impone all’attenzione generale. Purtroppo quel che di valido Pasolini esprime con questi film battendosi contro una censura non aliena da ottusità viene rovinato da pessimi imitatori che danno il via a pellicole di bassissimo livello in cui imperano le “ Ubalde tutte nude e tutte calde “ e via continuando. Alle soglie della morte Pasolini all’inizio del 1975 dirige “ Salò “ in cui vengono descritte, con sequenze agghiaccianti, le torture inflitte dalla canaglia fascista ai partigiani nel periodo della repubblica di Salò. L’artista pare sempre più ossessionato dai suoi demoni, la speranza nel futuro dell’uomo si è affievolita, l’Italia gli appare sempre più stretta nelle angustie del conformismo e dell’inadeguatezza, un tanfo di morte ammorba la visione di quel film. Un the end funesto per un regista che complessivamente ha segnato la storia del cinema italiano.
Nasce, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, il Pasolini giornalista- polemista. In quegli anni quasi ogni giorno sulla prima pagina del Corriere della Sera appare un suo editoriale che, come ogni prodotto dell’artista, provoca calorosi consensi e forti dissensi. Pasolini affronta i temi più scottanti che segnano la società di quei tempi, come al solito senza fare sconti a chicchessia. Tra i suoi “ nemici ” preferiti “ c’è la Democrazia Cristiana, un partito che lui ritiene sclerotizzato dall’esercizio del potere da oltre 20 anni , arcaico difensore della borghesia italiana egoista e perbenista e con i suoi uomini più rappresentativi inquinati da fondati sospetti di corruzione.Le sue battaglie giornalistiche sono tante e incisive. Va ricordata la sua coraggiosa denuncia dei nefasti effetti di un consumismo naturalmente portato col passare del tempo a introdurre nell’uomo bisogni sempre più superflui, affievolendo principi e ideali. Una profezia che ha un triste riscontro pure ai nostri giorni facendoci rimpiangere- come per l’appunto scrisse Pasolini- il costume e la società degli anni trenta e quaranta, quel mondo arcaico in cui erano intatti certi valori di fondo e in cui nelle sere d’estate le campagne erano ancora illuminate dalle lucciole. Una provocazione certo ma che attirò su Pasolini gli strali dei tanti con interessi contrapposti e anche dello stesso partito Comunista italiano, timoroso di un rimpianto di un passato che riteneva non lo riguardasse.Nel 1968 durante gli scontri all’università di Roma tra studenti e polizia a Valle Giulia Pasolini prende, contro ogni previsione, le parti dei poliziotti “ figli del popolo “ e condanna gli studenti viziati e prepotenti. Ribalta in tal modo tutto un modo di pensare di quegli anni del mondo della sinistra attirandosi esplosioni di odio esagerate anche perché lui non condanna la protesta giovanile in sè ma le distorsioni di essa.
Ormai Pasolini nei primi anni del 1970 è un personaggio di primo piano della cultura nazionale e internazionale, uno dei maitre a penser del costume Accanto ai tanti ammiratori e seguaci vi sono gruppi di opinione che non cessano di contestarlo duramente, anche sul piano strettamente personale, con il chiaro intento di togliere dalla scena un uomo che, sia pur talvolta sbagliando, ha tirato fuori dagli armadi i tanti scheletri di una società politico-culturale che si rifiuta di riconoscere i suoi errori. Se l’intellettuale continua ad operare con la consueta alacrità, l’uomo Pasolini è profondamente deluso e pessimista. Capta attorno a sé questo alone di odio, ne è turbato, forse prostrato. In questo clima avvelenato va posto il crudele omicidio dell’artista. Il 2 novembre 1975, nell’ambiente degradato dell’Idroscalo di Ostia, nel cuore della notte, Pasolini si apparta con il “ ragazzo di vita “ Pino Pelosi e ne viene barbaramente ucciso a seguito di un litigio. Il giovane delinquente confessa subito dopo l’omicidio e la sua versione, pur non convincente in più punti, viene accolta prima dagli inquirenti e poi dai giudici. La sentenza di condanna è mite ma i dubbi restano anche se sono trascorsi trent’anni. Ai primi di quest’anno Pelosi in una trasmissione televisiva ha svelato che contro l’intellettuale fu architettato un agguato da più persone, consapevoli che Pasolini, causa le sue tendenze omosessuali, era uso a frequentazioni notturne con giovani sbandati. Il vero movente,ove fosse veritiera tale ultima versione, Pelosi non ha potuto o voluto svelarlo. Al di là di ogni illazione il far tacere la voce di Pasolini ha ferito la cultura di questo paese che sente in qualche modo la mancanza di un intellettuale di grande qualità, libero, non condizionato da nessuno e che ha pagato, più del dovuto , le sue incertezze e i suoi errori.
Ci siamo avvicinati in piena modestia al personaggio Pasolini. Il nostro è stato un racconto non esaustivo ma solo per flash.
In conclusione, per controbattere a certe tesi- forse superficiali- sulla creatività di questo intellettuale che sarebbe dovuta , quasi esclusivamente, al suo status di omosessuale riteniamo equo riportare quello che Pasolini testualmente disse al riguardo nell’ottobre 1975 alle soglie della sua morte:
“ Sono vent’anni che la stampa italiana,e in primo luogo la stampa scritta, ha contribuito a fare della mia persona un controtipo morale, un proscritto. Non c’è dubbio che a questa messa al bando da parte dell’opinione pubblica abbia contribuito l’omofilia, che mi è stata imputata per tutta la vita come un marchio di ignominia particolarmente emblematico nel caso che rappresento. Il suggello stesso di un abominio umano da cui sarei segnato, e che condannerebbe tutto ciò che io sono, la mia sensibilità, la mia immaginazione, il mio lavoro, la totalità delle mie emozioni, dei miei sentimenti e delle mie azioni a non essere altro se non un camuffamento di questo peccato fondamentale, di un peccato e di una dannazione……………Vorrei mi spiegassero perché in trent’anni che scrivo nell’ambito della letteratura, e di questa stampa, praticamente nessuno si è avveduto di quanto fosse contraddittorio sostenere che tutto ciò che creavo fosse contemporaneamente il frutto di un’immaginazione astratta, irrealistica, e quello di un’esperienza abietta e obbrobriosa. Come mai non hanno capito che il diritto dello scrittore a dire tutto presuppone il dovere di inventare tutto, in altre parole di cogliere la verità, tutte le verità, senza per questo compromettersi nell’esperienza dell’abiezione “.
Oggi a trent’anni dalla morte occorre un riflessione su ciò che Pasolini ha rappresentato nel 1900 per la cultura italiana sfrondando, per quanto possibile, le vicissitudini della sua vita tormentata.
Fonte:
http://www.mariafelice.it/tempinostri/Racconti/pasolini.html

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Curatore, Bruno Esposito

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