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sabato 27 aprile 2013

Mamma Roma, di Gianfranco Massetti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Mamma Roma, di Gianfranco Massetti



Il 31 agosto del 1962, alla presentazione di mamma Roma alla Mostra del Cinema di Venezia, Pier Paolo Pasolini viene denunciato per offese al buon costume ed oltraggio al comune senso del pudore. A promuovere l’azione legale nei suoi confronti è il comandante dei carabinieri di Venezia. L’esito della denuncia sarà però l’archiviazione da parte della magistratura che ritiene non sussistano gli estremi del reato.
Durante la proiezione del film a Roma, al cinema Quattro Fontane, il 23 settembre, Pasolini viene aggredito da un gruppo di neofascisti. Col sostegno di alcuni amici, il regista riesce ad avere la meglio e a mettere in fuga i giovani facinorosi. La sceneggiatura del film era stata pubblicata alcuni mesi prima della sua apparizione nelle sale cinematografiche dalla casa editrice Rizzoli di Milano. Protagonista della storia è un giovane adolescente la cui vicenda richiama, nell’episodio finale, un fatto di cronaca realmente accaduto.    
Di esso, aveva fatto menzione Pasolini durante un’intervista a "Noi donne", nel dicembre del 1959. A chi gli chiedeva che cosa avrebbe scritto avendo a disposizione un giornale, il regista aveva risposto: "Avrei scritto della morte a Regina Coeli del ragazzo diciottenne Marcello Elisei. E’ un fatto che ancora non riesco a sopportare, e ogni volta che ci penso devo ricacciare le lacrime in gola. Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte: non sono giornalista. Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana ." (in P.P. Pasolini, Per il cinema, vol. II, Milano, Mondadori 2001, p. 3050). L’intenzione di Pasolini verrà invece ripresa per la sceneggiatura di Mamma Roma.
Mamma Roma è una quarantenne prostituta, che da poco si è liberata del suo pappone, andato a nozze con una giovane burina della campagna romana. La donna ha un figlio di sedici anni che è stato cresciuto da una famiglia di contadini; ma ora che si è ritirata dalla "libera professione" e si è comprata coi soldi una rispettabilità da fruttivendola conduce Ettore nella sua casa di Casal Bertone, nei pressi del Verano. Qui ci dovranno stare per pochi giorni, in attesa del trasloco in uno dei nuovi condomini della zona residenziale di Cecafumo.
 

Nel frattempo, Carmine, il pappone, si rifà vedere da Mamma Roma per strapparle una buonuscita che gli possa consentire di mettersi in società con degli "amici sua". Mamma Roma affronta così l’ultimo sacrificio che la separa dalla promozione sociale di Cecafumo ….Ma la casa nuova, commenta il regista nel testo della sceneggiatura, non è molto diversa da quella vecchia: "invece di essere perduta in un palazzone liberty è perduta in un palazzone novecento color vinaccia …." (in op. cit. vol. I, p. 179). Ettore nel quartiere dove vanno ad abitare fa subito amicizia coi ragazzi e, siccome non ha un lavoro, chi gli dà i soldi è la madre:"Tiè, ‘a pappò! Attento a come te li spendi, eh! Nun te li fa magnà dalli amici! Ricordate che chi paga è micco… Fatte rispettà … Devi esse’ superiore a loro, sempre, nun te fa incantà perché so’ tutti fiji de impiegati, gente signorile … Che nun so’ mejo de te! La grana in saccoccia ce l’hai, puoi spende e spande come te pare, puoi fa er grande là in mezzo!" (op. cit. vol. I, p. 180).
Gli amici presentano ad Ettore una ragazza che abita lì. E’ Bruna, una giovane che ha otto anni più di lui, ma è ancora una bambina. Per un regalo o qualcosa, lei sta con tutti. Mentre la compagnia dei giovani squattrinati lo lascia solo per andare a compiere qualche furtarello ai danni dei moribondi dell’ospedale, Ettore s’incontra con la ragazza e per stare con lei le promette una catenina d’oro. Ma stavolta i soldi per comprarla sua madre non glieli da. Allora, si rivolge ad un ricettatore per vendere qualche vecchio disco di musica che è riuscito a sottrarre in casa. Preoccupata per suo figlio, Mamma Roma si rivolge al prete per cercargli un posto da cameriere in una trattoria di Trastevere. Ma ciò che il prete le può offrire è soltanto un lavoro da manovale.
Dopo che Ettore si è picchiato con gli amici per Bruna, Mamma Roma ritorna dal sacerdote che le parla sinceramente: dal niente non si costruisce niente; lei ha delle gravi colpe nei confronti di suo figlio; di tutto il male che c’è in lui e nel suo destino la responsabilità maggiore è proprio sua. Intanto, mandi Ettore a fare il manovale e vedrà che le cose miglioreranno. Non avendo avuto soddisfazione dal prete, Mamma Roma si rivolge a un’amica prostituta ed al suo pappone.
Insieme riescono a compromettere il proprietario di una trattoria, che per uscire senza danni alla propria reputazione assume Ettore come cameriere, mentre Mamma Roma gli regala un Morini tutto nuovo. Ma il passato tornerà a bussare alla sua porta: è Carmine che pretende di farla tornare a battere.
Lungo il viale delle Anime Perse, Mamma Roma passeggia e si lamenta della sua triste sorte e della sorte di suo figlio con Biancofiore ed un pittoretto:


"Mamma Roma: Perché tu fai ‘sta vita? Chi è responsabile?Manco lo sai te!
Biancofiore: Ciài trent’anni de carriera, me lo venghi a domandà a me?
Mamma Roma: Lo sai che la colpa è tutta tua?
Biancofiore: Ah, venghi bene!
Mamma Roma: De tutto quello che è, ognuno è la colpa sua, lo sai sì?
Biancofiore: Embèh, è ‘na cosa capita! Che vuoi fa la spia?
Mamma Roma: Sì, ma il male che fai te, per colpa tua, è come ‘na strada, dove camminano pure l’altri, pure quelli che nun ciànno colpa!
Biancofiore: Eh, porello, Ettore! Quann’è venuto ar mondo certo che lui nun ce voleva camminà, pe’ ‘sta strada! Sta’ sicura! Ma chi t’ha messo in testa tutte ‘ste fregnacce?
Mamma Roma: Un prete! Me pareva ‘na Bibbia vivente! Nun ho voluto ricomincià da zero! Che te credi, che nun l’ho capita? Li mortaci tua e de ‘sto cognac, m’hai fatto ubriacà!
Biancofiore: Addio, te saluto! Fatteli da sola, ‘sti esami de coscienza!
Mamma Roma: Ahioddio, che mal de panza! Ma che me so’ magnato? Er grasso der core!
Pitto
rretto: ‘A ventriloqua!
Mamma Roma: Che sei un cliente mio, te?
Pittorretto: No, io so’ de la Juventus!
Mamma Roma: N’ho avuti tanti ormai, che chi se li ricorda? Mica so’ l’anagrafe! Er primo è stato mi’ marito, er padre de Ettore …
Pittorretto: Perché? Hai trovato pure marito?
Mamma Roma: Era un giovanotto che ciaveva le sette bellezze …
Pittorretto: Sì, pure la rota de scorta!
Mamma Roma: Quando se semo sposati eravamo venti persone … Semo iti in chiesa uno alla volta, il primo è partito alle nove, e l’ultimo a mezzogiorno … Partivamo staccati dieci minuti uno dall’altro per nun dà nell’occhio … Perché mi’ marito era ricercato da la Polizia … Come se semo sposati nun ha fatto in tempo a dì de sì, che le guardie l’hanno preso …So’ rimasta lì, sull’altare, vergine!
Pittorretto: Il brutto era se rimanevi sverginata come Rosina!
Mamma Roma: E sai perché mi’ marito, er padre de Ettore, era un farabutto disgraziato?
Pittorretto: Boh, so’ cavoli sua!
Mamma Roma: Perché la madre era ‘na strozzina, e er padre un ladrone.
Pittorretto: Perché allora la madre era ‘na strozzina, e er padre un ladrone?
Mamma Roma: Perché er padre della madre era un boja e la madre della madre ‘n’ accattona, e la madre del padre ‘na ruffiana, e er padre der padre ‘na spia!
Pittorretto: Dio liberaci dal male!
Mamma Roma: Tutti morti de fame! Ecco perché! Certo se ciavevano i mezzi, erano tutte persone per bene! E allora de chi è la colpa? La responsabbilità?"
(op. cit., vol. I, pp. 236 – 239




Intanto, Ettore si è licenziato dalla trattoria e campa di piccoli espedienti, di furtarelli con gli amici. Mezzo malato, s’introduce con uno di loro in ospedale durante l’orario di visita dei parenti per cercare di arraffare qualcosa ai moribondi. Ma stavolta lo prendono, lo arrestano, lo portano in carcere, dove nel delirio della febbre aggredisce le guardie. Mandato in infermeria, muore legato ad un letto di contenzione, in tutto simile al Cristo morto del Mantegna. Quando comunicheranno a Mamma Roma la notizia del suo decesso, l’espressione di lei sembra chiedere: "Di chi è la colpa?" E nel suo sguardo si stagliano gli edifici bianchi della città che le vengono incontro.
A capire meglio la tematica del film ci aiutano alcune dichiarazioni rilasciate dal regista a "Filmcritica" nel settembre del 1962 (cfr. op. cit. vol. II, pp. 2819-2835). Mamma Roma, afferma Pasolini, possiede una sua problematica morale "che le si sviluppa per gradi". Contaminata dall’ideale borghese, che ha assimilato dai modelli cinematografici o televisivi o altrimenti diffusi dai rotocalchi, vive il profondo disagio della contraddizione tra un ideale piccolo borghese che ha fatto suo e le passate esperienze da prostituta. Dal caos che ne deriva proviene anche il fallimento della sua nuova vita col figlio:"Il primo momento di questo fallimento è rappresentato dalla sua visita al prete; ecco, con questa sua iniziativa lei viene ad aggiungere al suo generico ideale piccolo borghese un primo momento di problematica morale, cioè il senso della propria responsabilità, che fino ad ora non le era nemmeno balenato per la testa; né come prostituta, né come piccola borghese reazionaria poteva pensare di essere in qualche modo responsabile: era una riflessione su se stessa che non poteva avere (…). Questo primo momento di problematica morale però non basta, rimane un puro e semplice flatus vocis in lei: infatti non conta per nulla, tanto che decide di fare il ricatto per poter dare al figlio una sistemazione piccolo borghese. Quando però (…) anche questo fallisce, allora la pulce che le aveva messo nell’orecchio il prete comincia a farsi sentire, quel primo moto di coscienza comincia a lavorare dentro di lei. Finché – nella seconda lunga carrellata al viale delle prostitute – dirà fra sé, pressappoco: «Certo la responsabilità probabilmente è mia, quel prete aveva ragione, però se io fossi nata in un mondo diverso, se mio padre fosse stato diverso, mia madre diversa, il mio ambiente diverso, probabilmente sarei stata diversa anch’io». Cioè comincia ad allargare questo senso della responsabilità dalla propria persona individua, quello che aveva colto il prete, al proprio ambiente."( cit., pp. 2820 – 2821).

Pasolini farà molto di più: allarga implicitamente la responsabilità dall’ambiente in cui è cresciuta Mamma Roma a quello delle istituzioni, del governo e dell’intera società_


Gianfranco Massetti

Fonte:
 http://www.activitaly.it/immaginicinema/pasolini/mamma_roma.htm


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Una sfida civile alla morte - Perché ci è ancora necessario Pier Paolo Pasolini.

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Perché ci è ancora necessario Pier Paolo, uno scrittore che, in un certo senso, ha perso vincendo
di Antonio Tricomi



L’opera di Pasolini è sì inequivocabilmente autobiografica; soffre sì di una condizione come di minorità rispetto al suo autore, che non se ne distacca, non le lascia autonomia alcuna, quasi la occulta, certamente la sovrasta, con il proprio corpo e la propria voce. È sì quella di un impenitente Narciso, di un uomo rimasto ragazzo, divenuto (o forse nato) nevrotico e comunque smanioso di rifugiarsi nel suo grembo, non metafora, ma reale sostituto, di quello materno. È però anche un’opera felicemente scissa al proprio interno, squarciata da due tendenze opposte che di continuo lottano per prevalere e sembrano volersela contendere. La tendenza dell’autore a giudicarla un proprio esclusivo possesso, il luogo nel quale ritirarsi e il diario quasi terapeutico da aggiornare costantemente: insomma, nulla più che un autoritratto contraddistinto da segni contraddittori e frequenti correzioni, e allora destinato a rimanere incompiuto, perché in continuo divenire sono le sue fattezze di uomo, il suo animo di eterno adolescente, le sue idee di intellettuale, il suo stile di poeta manierista. L’altra, ancora e sempre dell’autore, a viverla e a costruirla come un inesausto tentativo di fotografare l’esistente, la storia e i mutamenti sociali e culturali di volta in volta in atto nel paese, e allora a concepirla come un dovuto e necessario, addirittura profetico, ritratto generazionale, per raccontare le illusioni e gli errori, le scelte e le colpe di uomini e di scrittori nati sotto il fascismo e in seno alla modernità, chiamati a traghettare altrove l’Italia e l’arte, e infine costretti ad ammettere di aver consegnato la prima alla borghesia e di non aver saputo o voluto impedire il collasso della seconda.

L’opera insostenibile e spesso mancata di Pasolini, al pari del suo corpo atrocemente martoriato, appartiene dunque a un poeta civile che ha voluto sfidare la morte: quella dell’arte, provando ad opporle una summa interminabile e inclassificabile della tradizione letteraria e della cultura umanistica tutta; quella dell’autore, cercando di ripristinare l’aura di una figura ormai misconosciuta, e perciò facendosi profeta, opinion-maker corsaro e luterano, offrendosi infine quale martire, sempre per dimostrare che quella dell’artista è una presenza ancora necessaria alla società. E così egli ha perso forse due volte. Da un lato, perché non ci ha saputo dare il capolavoro né ha potuto impedire ciò che certo non poteva essere lui a impedire, ossia quel processo di delegittimazione della letteratura che appare adesso del tutto compiuto. Dall’altro perché, sottraendosi all’obbligo morale abitualmente avvertito dai grandi scrittori, quello cioè di impegnarsi ad offrire alla collettività dei libri che possano restare, appunto dei capolavori, ha contribuito ulteriormente non a difendere, ma piuttosto a dissolvere il mito dell’autore, rimpiazzandolo con quello dell’intellettuale inteso come “battitore libero”, nonché iniziando, tra i primi, a muoversi nella stessa direzione in cui frequentemente oggi si muove chi tende a ridurre quel mito alla triste realtà del facitore di testi e di merci che anzitutto è una vedette del mondo dello spettacolo, un prodotto dell’industria culturale.Ma se Pasolini ha perso, in un certo qual modo ha perso vincendo. Voleva sfidare la morte e sopravviverle? Ebbene, è vero che pur avendolo eccessivamente celebrato erigendo alla sua opera un monumento – dieci Meridiani – senza precedenti nella letteratura italiana, facciamo forse molta più fatica oggi di ieri a reputarlo un classico, così come credo che addirittura maggiori saranno le resistenze dei suoi futuri lettori e giudici a concedergli il tributo generalmente concesso ai grandi autori. Ciononostante, chiunque voglia adesso e vorrà domani comprendere come sono cambiate e cosa sono diventate la letteratura e l’Italia dal dopoguerra agli anni Settanta, deve e dovrà obbligatoriamente fare i conti con i suoi testi assai più che con quelli di scrittori magari meno irrisolti di lui, nonché misurarsi con una morte scandalosa legata a quell’opera deforme non da una rapporto di causalità – come vorrebbero quanti in essa vedono l’esito di un complotto ordito dal Palazzo o, addirittura, un suicidio “per procura” –, ma da uno di semplice, e tragica, contiguità. Quello di Pasolini è cioè un delitto politico perché qualcuno, verosimilmente un branco di picchiatori neofascisti, ha voluto ridurre al silenzio un frocio che, nei suoi romanzi, nelle sue poesie, nelle sue pellicole cinematografiche, nei suoi saggi e interventi polemici, si era permesso di denunciare, con lucidità e forza sconosciute a molti altri scrittori e intellettuali dell’epoca, il degrado culturale, morale di una società, la nostra, oggi addirittura più corrotta, squallida di trent’anni fa.

Amarlo e insieme odiarlo; recuperarlo per poi volerlo superare; affrancarsi dal suo mito per riscoprire la reale sostanza della sua opera e del suo messaggio etico-civile; usarlo: come in passato, è ancora e sempre questo che con Pasolini siamo e saremo chiamati a fare.



* L’autore di questo intervento ha da poco pubblicato i saggi critici Sull’opera mancata di Pasolini (Carocci, 2005) e Pasolini: gesto e maniera (Rubbettino, 2005)

Fonte:
http://www.retididedalus.it/Archivi/2006/Aprile/LUOGO%20COMUNE/pasolini_2.htm





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Essere inattuali e diffidenti.

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Essere inattuali e diffidenti.
di Francesca Romana Merli

E' questa l'eredità e la lezione più preziosa che ci ha lasciato un grande intellettuale che sapeva individuare il potere nascosto in ogni discorso



Pasolini ci serve inattuale. Credo che oggi ci possa servire solo a patto di mantenerlo inattuale; invece renderlo attuale, parlare di cosa avrebbe detto se fosse vivo è un altro modo per renderlo normale. E anche innocuo.
Si dice che Pasolini è stato santificato, e l’uso che si fa della sua opera qualche volta sembra un po’ acritico, semplicistico, un uso che non sarebbe piaciuto a Pasolini, ma di cui Pasolini e il suo atteggiamento verso la comunicazione e la presenza pubblica dell’intellettuale sono in parte responsabili. In un articolo dello scorso novembre sul Corriere della Sera Franco Cordelli spiegava che Pasolini è diventato il Santo Patrono Intellettuale d’Italia anche perché nella fase più aspra del suo attacco al degrado antropologico italiano si era lasciato andare a «frasi brutte, perfino stupide, sicuramente arroganti» e oggi seguirlo su quella strada di generico disprezzo e superficiale moralismo è facile e redditizio. Se l’industria culturale si appropria subito dei concetti più corrivi e “scandalosi” che l’intellettuale esprime magari per fretta o ansia o ingenua fiducia in se stesso, non si può negare che Pasolini quello scandalo spesso lo cercava, per caparbia provocazione, per l’intenzione di mettere in discussione tutto, e anche forse perché era meno abile di quanto credesse nell’orientare l’industria culturale sulla strada che lo interessava: diceva che per parlare del potere bisogna avere un posto in quel potere e questa convinzione è trasparente nei suoi discorsi, tanto trasparente che a volte rischia di rendere opaco il lavoro vero, il lavoro di parlare del potere. Questo lavoro sul potere dovrebbe essere una delle eredità di Pasolini, se di eredità proprio si deve discutere.
Pasolini ha fatto in modo che l’artista e il personaggio raccolti nel suo nome non potessero più essere separati, un fatto che nella lettura che se ne può dare oggi non è né giusto né sbagliato, è un fatto e va osservato e studiato. La critica più interessante ne trae conseguenze importanti, intorno al significato del corpo di Pasolini che è un corpo presente molto più di tutti gli altri corpi di intellettuali e scrittori della sua epoca, autori di cui conosciamo l’opera ma non ricordiamo i tratti del viso, i gesti, i movimenti. Di lui ricordiamo tutto, il suo volto ci è noto, e ci era noto anche prima dell’occasione del trentennale. Forse è il destino che tocca ai santi, diventare santini, immaginette, ma credo che anche questo faccia parte, abbia fatto parte, di una strategia pasoliniana. Lui sentiva il dovere della presenza invasata, diceva così, se avesse taciuto, se non si fosse mostrato sarebbe stato superato, travolto, dimenticato. Credo che tutti siamo affetti dalla sindrome pasoliniana secondo cui un libro un film una storia ci interessano solo se parlano in un modo o nell’altro di noi, ma qualche volta riusciamo a non manifestarlo, lui mai. Lui lo dichiarava, e ne faceva la sua forza. Quando leggo Pasolini che descrive un momento di un romanzo, un passaggio di una poesia, il carattere degli indiani, quello che sto leggendo è Pasolini che descrive se stesso. Anche al cinema, ovviamente. In questo va cercata la sua grandezza, anche la sua grandezza, insieme a scelte meno grandi, insieme ai discorsi più facili e arroganti e a volte sbagliati di cui sarebbe giusto considerare facilità arroganza e errore piuttosto che farli diventare profondi, tolleranti, condivisibili. 
Oggi è inutile e dannoso santificare Pasolini, non ha senso definirlo un profeta, perché i profeti parlano per intuizione mistica mentre nelle analisi di Pasolini non c’è nessun misticismo, se ha saputo leggere nella sua epoca e persino a volte parlarci della nostra è perché stava attento, sapeva guardare la storia e la cronaca, particolarmente quando non si lasciava prendere dall’ira e da quel bisogno di dire l’ultima parola come fa il maestro a scuola. Oggi Pasolini si può avvicinare non tanto separando l’artista dal personaggio, che appunto non è possibile e non è nemmeno necessario, non tanto ribellandosi a una creatività così profondamente connotata dall’autobiografia (che è un concetto su cui i critici – giustamente – si accapigliano, perché non si dovrebbe far derivare seccamente le espressioni dalle esperienze ma non si può nemmeno pensare che quello che siamo non coincida con quello che scriviamo), quanto scegliendo cosa è importante e cosa meno, andando a vedere se sotto i discorsi che funzionano meglio perché sono “scandalosi” non c’è qualche indicazione che sorprende davvero perché è silenziosa e sussurrata. Credo non si possa evitare di avvicinarsi a Pasolini con ambivalenza, non si può evitare perché a digerirlo tutto si rimane schiacciati; credo sarebbe interessante leggere più cose di Pasolini “storico”, analista dei misteri italiani, intellettuale che sapeva collegare fatti diversi fra loro piuttosto che conoscere quegli aspetti minori della sua vita professionale e dei rapporti con gli altri intellettuali, insomma le nevrosi, che qualcuno (insospettabile, come è prevedibile, perché i suoi segreti li conosce chi lo conosceva bene) a volte ci racconta come fossero fonti critiche. Mi piace quando Pasolini insegna a diffidare dei discorsi, di tutti i discorsi, perché il potere si annida lì, nei modi di pensare e anche di parlare, mi piace quando spiega che al razzismo, all’omofobia, al disprezzo del diverso si risponde facendosi ancora più diversi, rifiutando di farsi uguali. Questa caparbia dichiarazione di consapevolezza potrebbe mantenere la sua forza dopo che la schiuma dei suoi discorsi meno interessanti sarà affiorata e superata. E in questo sarebbe la sua preziosa inattualità.
* L’autrice di questo articolo ha di recente pubblicato il libro Lo specchio a colori - Pasolini trent’anni dopo (Editrice Zona, 2005)

Fonte:
 http://www.retididedalus.it/Archivi/2006/Aprile/LUOGO%20COMUNE/pasolini_2.htm

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Pasolini, Totò e Che cosa sono le nuvole

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Che cosa sono le nuvole?

Tra il Marzo e l’Aprile del 1967, Pasolini, appena tornato dal Marocco, è già al lavoro per la realizzazione del secondo episodio promesso a Dino De Laurentiis. Il film nel quale s’inserisce Che cosa sono le nuvole? è Capriccio all’italiana: ennesimo film della grande produzione di pellicole a episodi che ha caratterizzato quel periodo. Al film prendono parte vari registi di spessore come: Steno nell’episodio Il mostro della Domenica, Bolognini in Perché e La gelosa, Monicelli ne La bambinaia e Zac in Viaggio di lavoro. Pasolini girò il suo cortometraggio nell’arco di una settimana, utilizzando oltre al duo Totò/Ninetto, attori come Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e l’amico-scrittore Francesco Leonetti.
Tutto si svolge all’interno di un teatro, prima della messa in scena dell’ Otello di Shakespeare: alle pareti sono affissi i quattro manifesti degli spettacoli in programma, si tratta, in realtà, dei quattro titoli dei progetti di film comici che Pasolini ha in mente in quel periodo che campeggiano su altrettanti capolavori di Velasquez. Sulla locandina che riproduce "Il nano don Diego de Acedo detto El Primo" è presente il titolo: La terra vista dalla Luna; sulla riproduzione de "Il principe Baltasar Carlos con un nano", il titolo Mandolini (film che avrebbe dovuto contenere una serie di sketch comici interpretati da Totò e Ninetto); e infine, sul manifesto che ritrae il "Filippo IV", il titolo "Le avventure del Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo" (che si trasformerà negli anni successivi nel progetto del "Porno-Teo-Colossal").
Il cartellone de La terra vista dalla luna giace a terra, strappato, a indicare uno spettacolo che ha già avuto luogo. <<Prossimamente>> e <<Domani>> annunciano rispettivamente Mandolini e Re Magio Randagio. Escludendo La terra vista dalla luna nessuno di questi progetti di pellicole comiche fu realizzato: solo Sergio Citti nel 1996 realizzerà "I Re Magi randagi".
Sul manifesto che indica lo spettacolo di <<Oggi>> ritroviamo su "Las Meninas" del pittore di Siviglia, il titolo Che cosa sono le nuvole?. "Las Meninas" può essere considerata una delle opere più importanti della storia dell’arte proprio per la sua carica innovativa. Essa viene considerata come il primo caso di mise in abyme (o struttura in abisso), che consiste nel prendere come punto focale dell’ opera la creazione artistica, ovvero la rappresentazione nel suo realizzarsi, nel suo farsi. Quindi notiamo, come l’opera di Velasquez si leghi alla "rappresentazione nella rappresentazione" dell’Otello di Shakespeare che propone Pasolini. Detto questo, ecco la storia del film.
In uno scalcinato teatrino di periferia va in scena l’Otello di Shakespeare recitato dai burattini. L’azione è incentrata sulla gelosia di Otello provocata ad arte dal malvagio Jago, il suo cattivo consigliere. Fuori scena il burattino Otello, che è appena nato (è stato appena costruito) e non conosce ancora il mondo, poco convinto del suo ruolo, chiede spiegazioni al burattino Jago, che gli risponde: <<Siamo in un sogno dentro un sogno>>. La vicenda si sviluppa in scena come nella tragedia shkespeariana.
Quando Otello, costretto dal suo destino di burattino-attore e dall’odio ce deve per forza recitare, sta per uccidere Desdemona, gli spettatori non trattengono la loro ira e, per salvare la povera fanciulla innocente, saltano sul palcoscenico e lo ammazzano insieme al malvagio Jago. Nello sgabuzzino-camerino gli altri burattini piangono addolorati la morte dei loro compagni. Arriva l’immondezzaro, carica sul suo camion i due burattini-cadaveri, li trasporta alla discarica e li butta via. Nel mondo reale i due burattini si rendono conto della <<straziante, meravigliosa bellezza del creato!>>
Con Che cosa sono le nuvole?, Pasolini decide di abbandonare definitivamente la trattazione ideologica (seppur in alcuni casi ceda alla tentazione), che già abbondantemente è stata utilizzata in Uccellacci prima e, in toni più sommessi in La terra vista dalla luna poi, lasciandosi andare alla pura creazione poetica.
All’interno dell’episodio i personaggi svolgono senza dubbio un ruolo importante; i più rappresentativi sono: Jago/Totò, che nel film svolge il ruolo del saggio che aiuta Otello/Ninetto nella ricerca di se stesso nel mondo reale, del senso della sua esistenza e, Otello/Ninetto appunto che, appena creato, è costretto a recitare in una tragedia che non conosce con un copione che non ha mai studiato. Sembra che sia spinto da una forza sovrannaturale che lo spinge a dire parole e a fare gesti che non condivide e che anzi egli stesso respinge. Ben presto Otello, con l’aiuto di Jago, si rende conto di non vivere nella realtà ma in una rappresentazione di essa in cui tutti gli altri burattini, come lui, sono costretti a svolgere azioni decise da qualcun altro per loro.
Inevitabilmente, vivendo in un "mondo nel mondo", gli stessi protagonisti hanno a che fare con due Dei: un Dio-marionettista che "regge le fila della rappresentazione" e che risponde alle domande con il "forse" e un Dio-autore che, seppur interpretato da Francesco Leonetti (lo stesso che aveva dato voce al corvo di Uccellacci), s’identifica nello stesso Pasolini. Infine vi è l’immondezzaro (interpretato da Domenico Modugno) Caronte di anime-inanimate traghettate al mondo reale. L’unica maniera per poter assaporare la "straziante meravigliosa bellezza del creato" è quella di morire per poter rinascere, ma solo per pochi attimi, quegli attimi che permettono a Jago e Otello di scoprire le nuvole. "Otello- Iiiiiih, che so’ quelle? Jago- Sono…sono…le nuvole…Otello- E che so’ le nuvole? Jago- Boh! Otello- Quanto so’ belle! Quanto so’ belle! Jago- Oh, straziante meravigliosa bellezza del creato!"
E poi c’è il pubblico che decide di venir fuori dal suo ruolo e intervenire sulla scena per evitare che la tragedia si compia, regalando alla rappresentazione un finale diverso da quello che Shakespeare aveva pensato. Irrompe sul palco, impedisce a Otello di uccidere Desdemona, e dopo aver eliminato Jago e Otello, porta in trionfo Cassio. Rileviamo qui una doppia citazione di Pasolini, una riferita alle sceneggiate a cui il pubblico prendeva spesso vivacemente parte e l’altra a Don Chisciotte che, per correre in aiuto del valoroso Don Gaiferos, salì sul palcoscenico per fare strage di burattini.
Pasolini, in questa maniera, ritrae ancora una volta il pubblico/massa ignorante e inconsapevole che non è in grado di accettare qualsiasi evento esca dai canoni dell’ "etica borghese": questa interpretazione ci permette quindi di rilevare ancora una volta la sua insoddisfazione nei confronti della società, e d’individuare alcuni cenni della sua denuncia alla dilagante omologazione, già ampiamente trattata in Uccellacci.
Quindi, i personaggi di Che cosa sono le nuvole?, seppur marionette, sono in grado di provare emozioni alla stessa maniera degli esseri umani: hanno paura quando vengono trasportati alla discarica, piangono quando qualcuno di loro muore,rimangono estasiati dalla bellezza del mondo reale. Non hanno urgenti bisogni fisici come i personaggi delle due pellicole precedenti, ma bisogni morali. Ma se i nostri attori vivono una rappresentazione nella rappresentazione (o in un "sogno nel sogno" come afferma Jago-Totò), se hanno due Dei ai quali rivolgersi, allora vivono una doppia vita e una doppia morte al tempo stesso. Ed è qui che ritroviamo, forse con maggiore evidenza, la dicotomia vita-morte, già analizzata in La terra vista dalla luna. Lo stesso Pasolini, obbligato a indicare i rapporti che legano i due episodi afferma che, oltre allo stile comico-picareso che contraddistingue entrambi, un punto fondamentale d’incontro è quello che riguarda la definizione de "l’ideologia della morte": <<Quell’ideologia che fa corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella disperata vitalità che assume valore e significato solo grazie al mistero del suo avere fine>>. In quest’ottica Pasolini ritrae la vita come un viaggio senza senso e la morte come nascita, come recupero del senso della vita.
Ma c’è un altro aspetto che lega Che cosa sono le nuvole? al cortometraggio precedente, ed è l’utilizzo del colore: la stranezza cromatica contraddistingue anche quest’ultima opera del regista bolognese. Jago, completamente colorato di verde dimostra la falsità dei personaggi nel loro non essere umani. Sicuramente il colore (utilizzato con la sapienza degli artisti) ha permesso a Pasolini d’incrementare l’espressività dei suoi film.
Per quanto riguarda le musiche utilizzate nell’episodio c’è da dire che, dopo la collaborazione con Ennio Morricone, che aveva caratterizzato le due pellicole precedenti, in Che cosa sono le nuvole? Pasolini realizza con Modugno una canzone (dallo stesso titolo del film) scritta dal regista bolognese e musicata e interpretata dal cantante polignanese: i due si ritrovano dopo l’esperienza di Uccellacci, quando Modugno aveva cantato i titoli di testa.
Pasolini dopo questo episodio per i suoi film successivi è pronto a dar vita a una vera e propria rivoluzione linguistica, che avrà inizio con la poetica dell’immagine, <<sciolta dai legami logici, sbilanciata sul versante delle pure emozioni>>. Il suo primo tentativo sarà Edipo Re, film che aveva già cominciato a girare in contemporanea con l’episodio trattato.
Con Che cosa sono le nuvole? si chiude la trilogia comica di Pasolini nata con Uccellacci e uccellini, consolidatasi con La terra vista dalla luna, e ha fine la collaborazione Pasolini/Totò/Ninetto a causa della morte del secondo che avverrà un mese dopo la fine delle riprese. Totò, quindi, non farà mai in tempo a vedere il suo ultimo lavoro: <<La morte del burattino Jago si sovrappone a quella del principe dei comici: entrambi abbandonano le assi del palcoscenico, i fili tagliati da una Parca crudele>>. La morte di Totò interrompe, quindi, quel rapporto di collaborazione con Pasolini che finalmente aveva intrapreso i binari giusti. Egli era entusiasta del lavoro che stava svolgendo, proprio perché Pasolini gli permetteva di recuperare quella comicità dei primordi, quella del clown e del burattino. Alla luce di questo Pasolini abbandona definitivamente l’ambito grottesco-picaresco e, Che cosa sono le nuvole? rimarrà l’ultimo episodio del ciclo comico da egli stesso progettato.



PER UN CINEMA IDEOLOGICO E SURREALE a cura di Lorenzo Mirizzi
Fonte:
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Pasolini, Totò e Uccellacci e uccellini.

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Eretico e Corsaro




Uccellacci e uccellini


Subito dopo il gran successo di pubblico su scala internazionale de Il Vangelo secondo Matteo, nell’Aprile-Maggio del 1964 Pasolini ritorna all’opera pubblicando, sul settimanale "Vie Nuove", un soggetto cinematografico strutturato in tre principali episodi, intitolati: L’Aigle, Faucons et Moineaux e le Corbeau. Si tratta di tre favole, ognuna con un tema diverso.
L’Aigle racconta di un domatore francese (Monsieur Courneau) che cerca di ammaestrare un’aquila senza riuscirvi: la chiave di lettura di tale episodio è da ricercare nelle critiche che precedentemente erano state mosse, al Vangelo, da Michel Cournot, intellettuale francese e critico della Nouvelle Vague. Nell’episodio Cournot è il domatore esasperato e, l’aquila è il "Terzo mondo", l’irrazionalità che non si lascia "civilizzare" dall’intellettuale laico, convinto che tutto ciò che è difforme debba essere assimilato in relazione ai propri parametri. In L’Aigle, Pasolini mette a confronto la razionalità e la magia, elementi che si traducono nell’incontro-scontro tra la cultura moderna e la cultura "preistorica" del Terzo mondo. Come afferma Serafino Murri, Pasolini in questo periodo <<sembra essere mosso da un terzomondismo un po’ guevariano un po’ sartiano>>.
Faucons et Moineaux parla di due fraticelli impegnati, su ordine di S. Francesco, a convertire falchi e passeretti alla parola di Dio; riusciti in un primo momento nell’intento rimangono sbalorditi di come poi, nonostante tutto, i falchi continuino a predare i passeri e come nulla possano fare per evitarlo.
Le Corbeau racconta, invece, le vicissitudini di padre e figlio che camminano verso non si sa dove accompagnati da un corvo filo-marxista molto loquace.
Pasolini realizza tutti e tre gli episodi succitati, ma, in sede di montaggio, decide di eliminare il primo e di incorporare il secondo nel terzo come un racconto proferito durante il viaggio dal Corvo. La presenza di Totò ha grande rilevanza nell’intero film: da Pasolini viene utilizzato nei tre episodi come domatore-frate anziano e padre viandante.
Nei primi giorni di lavorazione di "Uccellacci" dilagava una perplessità reciproca tra Totò e Pasolini. Da un lato Totò, a riprese del film inoltrate, non riusciva a capire bene quali fossero le reali intenzioni dell’autore, dall’ altro Pasolini faceva fatica a contenere la personalità dell’attore dal quale non riceveva quel totale abbandono che richiedeva. La stima reciproca che legava i due fece sì che i lavori proseguissero senza intoppi: la situazione migliorò nel corso delle riprese e il film fu terminato.
Innocenti Totò e Innocenti Ninetto, padre e figlio, camminano lungo una desolata e anonima periferia. Entrano nel baretto di una stazione delle corriere. Totò beve qualcosa, Ninetto si scatena con alcuni ragazzi in un ballo moderno suonato dal juke-box. Se ne vanno. Davanti ad una casa è radunata una piccola folla dall’aria mesta. Totò si ferma incuriosito a guardare. Ninetto va ad incontrare una ragazza, che trova vestita da angelo, mentre si sta preparando a una recita religiosa. Poi torna dal padre, insieme al quale assiste ad uno spettacolo terribile: vengono trasportati in quel momento fuori dalla casa i cadaveri di due coniugi, suicidi, si sussurra nella folla, per disperazione.
Camminando su un’autostrada in costruzione, padre e figlio incontrano un corvo parlante, che chiede se può accompagnarli nel loro viaggio. Totò e Ninetto accettano la compagnia del corvo, che da questo momento comincia ad assillarli di domande. L’istinto pedagogico spinge il corvo a raccontare un apologo cristiano-marxista: la storia di uccellacci e uccellini.
Secolo XIII. Campagna umbra. Totò e Ninetto sono frate Ciccillo e frate Ninetto. S. Francesco li incarica di evangelizzare gli uccelli. I due frati si incamminano e trovano per primi i falchi.Frate Ciccillo dopo vani tentativi, riesce a trovare finalmente il modo di comunicare con loro. I falchi lo capiscono. Poi tocca ai passeri. Saltellando nel loro linguaggio, Frate Ciccillo predica la pace e l’amore. La missione è compiuta ma all’improvviso un falco assale e uccide un passero sotto gli occhi increduli dei due fraticelli. Tornano da S. Francesco sconfitti e delusi ma il Santo, dopo averli incoraggiati, li invita a ritentare e a riprendere il cammino. Totò e Ninetto continuano a camminare e incontrano nuove avventure. Trasgrediscono le leggi della proprietà privata, assistono allo spettacolo di una troupe di saltimbanchi e, arrivati davanti a un povero casolare, Totò, per nulla impietosito dallo spettacolo di miseria che gli si presenta davanti, minaccia di sfratto i suoi poveri inquilini che da tempo non pagano l’affitto. Subito dopo Totò e Ninetto giungono in una lussuosa villa per un colloquio con un ingegnere col quale i due hanno dei debiti. Anche qui l’ingegnere non si fa impietosire e gli aizza i cani contro.
Il corvo, assistendo a tutti questi avvenimenti, puntualmente li commenta, con il suo consueto e tedioso moralismo marxista. Totò e Ninetto prendono l’autobus e vanno a Roma dove assistono ai solenni funerali di Togliatti.Lungo la strada incontrano una prostituta, Luna, con la quale fanno l’amore a turno in un campo. Il corvo continua a parlare mentre Totò e Ninetto, stufi e affamati, lo ammazzano e lo mangiano. Riprendono il cammino. Si allontanano di spalle lungo una strada bianca come nei finali delle comiche di Charlot.
Uccellacci e uccellini s’inserisce in una fase dell’ attività artistica di Pasolini che potremmo definire del "cinema ideologico", di cui avevamo avuto già prova ne Il Vangelo. Ma se in quello, l’attenzione era concentrata sull’ideologia cristiana (predicatoria oseremmo dire), "Uccellacci" è permeato di ideologia politica, legata al malessere di Pasolini per una società destinata alla deriva.
Tale concezione di cinema s’insinua in un periodo storico (la metà degli anni ’60) che vede la nascita dei cosiddetti "film della crisi" legati alla scomparsa di Togliatti. Il "cinema ideologico" di Pasolini fa da ponte tra la fase del "cinema di borgata" (che comprende Accattone, Mamma Roma e La Ricotta) e la fase del "cinema del mito"(che va da Edipo Re a Medea).
Nel film si avverte il profondo senso di disillusione che il regista prova nei confronti dei partiti marxisti, italiani e non. Infatti, come egli stesso ha affermato, non intende una crisi del marxismo, ma proprio una crisi dei partiti marxisti, per quanto questa distinzione sia lecita. Questa svolta ideologico-politica raggiunge il suo punto di maggiore espressione con la pubblicazione della raccolta Poesia in forma di rosa nella quale possiamo leggere affermazioni come: "La rivoluzione non è più che un sentimento".
Per Pasolini oramai sono passati i tempi in cui era possibile sperare in una rivoluzione e, "l’entusiasmo civile per la resistenza antifascista è oramai solo un ricordo".
La morte di tali illusioni coincide, nel film, con i funerali di Palmiro Togliatti: la morte di quell’ideologia che il leader del P.C.I. rappresentava. Pasolini monta materiale di repertorio, proponendo quindi i volti realmente disperati di chi assistette alle cerimonie. Senza dubbio, l’autore riesce a connotare di tragicità tale sequenza rendendola la parte più significativa e triste dell’intero film.
Di certo il suo pessimismo (perché è di pessimismo che si deve parlare), non è un "pessimismo cosmico leopardiano": spera, in cuor suo, che si possa prima o poi attuare quella "rivoluzione delle coscienze" che permetterebbe di capovolgere la situazione di impasse nella quale la società del periodo pare essersi adagiata.
Alla luce di tutto ciò, quindi, il regista bolognese arriva a Uccellacci e uccellini al termine di un processo ideologico individuale che lo vede ormai quasi rassegnato. Egli non può fare altro che constatare che la società che lo circonda è irrimediabilmente destinata ad assecondare il conformismo. Tema centrale quindi è la denuncia alla dilagante omologazione a cui si sta assistendo che produce in Pasolini non solo una crisi ideologica ma anche una crisi espressiva. Ed è proprio su questo che si avvertono le principali conseguenze: per comunicare decide di scegliere la favola, <<che è astorica per definizione>>, quasi a volersi astrarre dal contesto, allontanare dalla realtà.
Pasolini cerca, attraverso il cinema di utilizzare un linguaggio (cinema che egli stesso definirà "linguaggio della realtà"), più legato all’elemento visivo, più metaforico: che inevitabilmente paga dazio alla comprensibilità, ma che aggira l’omologante lingua della borghesia. Ed è per questo che "Uccellacci" di primo acchitto sembra di difficile soluzione, così pregno di metafore, sostrati ideologici e sottili ironie.
I protagonisti di questa "incomunicabilità" sono i protagonisti del film: Totò, Ninetto e il Corvo.
E’ facile rendersi conto di come in realtà non venga mai a crearsi un dialogo significativo tra Totò e Ninetto da una parte, e il Corvo dall’altra: sembrano parare lingue diverse. Totò e Ninetto sono i rappresentanti del proletariato, estranei alla storia e, <<Innocenti di cognome e di fatto, camminano ignari verso un avvenire che la dottrina comunista non è più in grado di delineare>>.
Ma i due protagonisti non hanno solo connotazioni negative, ma portano con sé un bagaglio di speranza: <<l’irrefrenabile vitalità di Totò e Ninetto è la sola via possibile per uscire dallo stato d’inerzia causato dalla predicazione ideologica affinché, nuovamente, fioriscano "i garofani rossi della speranza">>.
I due hanno fisionomie opposte e al tempo stesso complementari, rimandano a due differenti modi di essere e a due generazioni: il giovane e il vecchio, il romano e il napoletano, il cittadino e il campagnolo.
Pasolini decide di utilizzare Totò per cercare di sfruttarne il codice gestuale tipico della maschera comica: è evidente, in tal senso, l’intenzione del regista bolognese, di connotare di allegria e spensieratezza la figura del sottoproletario.
Il Corvo, invece, << viene da lontano, dal paese Ideologia, abitante nella città del futuro, in via Carlo Marx, al numero 70 volte 7, figlio del sig. Dubbio e della Sig.ra Coscienza>> . Ben presto ci rendiamo conto di come il Corvo possa essere considerato il protagonista implicito del film. E’ l’intellettuale marxista, l’incarnazione dell’ideologia, che sta attraversando una profonda crisi: una crisi che sta portando i sostenitori di tali ideologie a ripiegare in comportamenti sempre meno distinguibili da quelli dell’ "infima borghesia" a riprova della dilagante omologazione alla quale si sta assistendo. E’ possibile identificare nelle spoglie del Corvo lo stesso Pasolini e la sua ideologia, anche se egli cercò, già in fase di realizzazione, di prenderne le distanze: <<Dovevo staccare il marxismo del Corvo dal mio, […] doveva essere cosciente della crisi del marxismo ma con delle ragioni che non fossero strettamente le mie>>.
Il Corvo è "cosciente" della sua fine e cerca di lanciare spunti per un ideologia che rinasca dalla fine del pensiero marxista ed è convinto al tempo stesso della sua "sconfitta pedagogica" nei confronti di Totò e Ninetto (elemento che ritroviamo in chiave metaforica anche nella sconfitta di frate Ciccillo nel suo tentativo di ammaestrare i falchi e i passeretti).
Il "racconto del Corvo", che è possibile considerare come il quinto mediometraggio di Pasolini, può essere interpretato, in chiave metaforica, come l’analisi del tema della lotta di classe, molto caro all’autore.
I falchi e i passeretti rappresentano gli sfruttatori e gli sfruttati: ma la connotazione favolistica del film porta, inevitabilmente a una semplificazione binaria del mondo con la distinzione dell’esistenza nel creato di buoni e cattivi, oppressori e oppressi. Ma la denuncia vera e propria nei confronti della società classista che va sviluppandosi, Pasolini la realizza in alcune sequenze centrali del film: Totò dapprima è oppressore nei confronti di poveri contadini, impossibilitati a pagare l’affitto e costretti a tenere a letto i propri figli poiché non possono dar loro da mangiare e, successivamente, è oppresso dai debiti con l’ingegnere e dai cani feroci dello stesso.
Il regista inserisce un nuovo concetto della lotta di classe che abbraccia non solo la dottrina marxista ma anche l’induismo e il cattolicesimo. Nell’episodio del proprietario pestato da Totò e Ninetto, Pasolini, attraverso le parole del Corvo ribadisce il dogma dell’abolizione della proprietà privata senza l’utilizzo della violenza: <<Bisogna sempre vincere con la non violenza, come Gandhi!, conciliando la rivoluzione comunista e il Vangelo>>.
Guardando il film in un’altra ottica, possiamo notare come si vengano a delineare due itinerari: quelli dei bisogni corporei e quelli degli aspetti fisici dell’esistenza.
Il primo è un percorso che passa dalle feci alla fame e al sesso, il secondo va dalla nascita alla miseria alla morte. In Uccellacci l’elemento della fisicità è ridondante, si esprime attraverso varie forme: dai dolori al ventre che spingono Totò e Ninetto a defecare, al parto "in diretta" dell’attrice durante lo spettacolo, all’aggressione subita dai pastori tedeschi, fino ad arrivare ai rapporti dei protagonisti con una prostituta e all’uccisione del Corvo. <<All’astratto simbolismo delle parole del Corvo influenzate dall’ideologia si contrappone, l’impellente materialità del corpo proletario schiavo delle sue necessità>>.
Ma il viaggio dei protagonisti incrocia tantissimi altri elementi di forza metaforica: Totò e Ninetto percorrono una strada che simboleggia la loro vita, senza uno scopo, senza una destinazione. Il contesto che li circonda è semidistrutto: vi regnano le macerie, createsi in seguito al crollo delle ideologie, che non lasciano speranze di ricostruzione e di rinascita. Il cielo di tanto in tanto è solcato da aerei rumorosissimi a riprova del crescente e "omologante" progresso al quale si sta assistendo e, gli autobus vengono continuamente persi a simboleggiare l’ormai svanita possibilità di rivoluzione. Lungo le strade sterrate ritroviamo segnali impossibili (come Istanbul Km. 4.253 o Cuba Km. 13.257) attraverso i quali Pasolini fa sentire la presenza del Terzo Mondo e vie improbabili (come via Benito La lacrima Disoccupato o via Lillo Strappalenzuola scappato di casa a 12 anni) <<come lapidi alla memoria di personaggi che non ci sono più>>.
Con Uccellacci e Uccellini si chiude, per Pasolini, il sogno di poter parlare a tutti: adotta un linguaggio metaforico e al tempo stesso ironico,un’ironia che s’insinua nella narrazione stessa. Stilisticamente, il film rappresenta una vera e propria svolta nel cinema pasoliniano che fino a " Il Vangelo" era stato dominato da una mescolanza di elementi a volte anche contrastanti. <<In Uccellacci pervade l’ideologia, scompare il vezzo/vizio/virtù>>, che lascia spazio ad una surreale comicità.
In molti tratti del film la lingua e lo stile che vengono adottati sono quelli del cinema muto classico: ricordiamo la lotta tra Totò e Ninetto e i contadini del campo o, ancora, la battaglia a torte in faccia. Per Pasolini la vera comicità è quella del cinema muto: quella di Chaplin e di Keaton. Totò gli permette, in questo senso, di recuperare tale comicità, essendo per lo stesso regista <<il più vigoroso tra i mimi comici>> .
Ma Uccellacci ha anche connnivenze con "Francesco Giullare di Dio" di Rossellini nonostante Pasolini, constatasse che il neorealismo non doveva essere considerato come una <<rigenerazione>> del cinema ma come una vera e propria <<crisi vitale>>.
Pasolini definirà questo suo nuovo modo di fare cinema "cinema d’èlite": egli si rivolge non alla tipica èlite d’intellettuali ma ad un’èlite che è la massa che necessita di essere disomologata.
Con Uccellacci prende avvio una proficua collaborazione del regista bolognese con Ennio Morricone, il quale musicò buona parte del film e collaborò per molti altri film successivi. Oltre a realizzare un blues rielaborò due opere mozartiane tratte dal "Flauto Magico" (duetto Papageno-Pamina e Aria di Sarastro) e la canzone partigiana di origine russa, "Fischia il vento".
L’opera di Pasolini ebbe parecchi problemi dal punto di vista giudiziario. La censura ne vietò la visione ai minori di diciotto anni (solo in seguito si ebbe una riduzione del decreto ai minori di quattordici). Ma la critica più veemente venne proprio da quella sinistra italiana che non tollerò l’atteggiamento disfattista dell’autore e che portò a una completa rottura tra lo stesso Pasolini e il P.C.I.
Ma, quasi contemporaneamente, il film fu presentato a Cannes dove fu accolto con trionfo e dove Totò ricevette una menzione speciale per la sua interpretazione.
Da molti definito film unico della cinematografia italiana, Uccellacci e uccellini se pecca di qualcosa pecca di complessità ideologica, come afferma lo stesso Pasolini: <<L’atroce amarezza dell’ideologia sottostante al film […] ha finito forse col prevalere e, evidentemente […] tale amarezza mi ha impedito di vedere le cose e gli uomini con lo sguardo allegro e leggero del perdono>>.


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Pasolini,Totò e la Terra vista dalla Luna

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La terra vista dalla luna


Già durante le riprese di Uccellacci e Uccellini, Pasolini pensa alla possibilità di una nuova collaborazione con la strana coppia Totò - Ninetto Davoli.
Dapprima studia la realizzazione di un Pinocchio (in cui Totò avrebbe dovuto svolgere "stranamente" il ruolo di Geppetto e, Ninetto Davoli quello del burattino di legno), poi pensa di girare un intero film (Che cos’è il cinema?) suddiviso in quattro episodi: Che cosa sono le nuvole?, La Terra vista dalla luna, Le avventure del Re Magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo, e Mandolini.
Ma nel 1966, Dino De Laurentiis, gli offre la possibilità di girarne due in altrettanti film: Le Streghe e Capriccio all’italiana. Egli accetta ma il progetto originario non verrà mai più prodotto; non verranno realizzati né il terzo né il quarto episodio.
In Le Streghe gli altri episodi sono girati da Rosi (La siciliana), Bolognini (Senso civico), Visconti (La strega bruciata viva) e De Sica (Una serata come le altre). Nel suo episodio Pasolini è chiamato a trattare un argomento che potremmo definire inusuale per lui: la figura della donna-strega. Decide di rielaborare un racconto fiabesco intitolato Il buro e la bura al quale aggiunge un inizio e una fine. Il racconto narra di un uomo e di suo figlio che cercano una moglie/madre che si prenda cura di loro in sostituzione della precedente defunta.
Il regista bolognese comincia le riprese de La terra vista dalla luna nel Novembre del 1966 e avverte: <<si tratta di una favola surreale e comica […] una storia fuori dal tempo e come qualsiasi storia surreale, s’imparenta con la stregoneria>>.
Ciancicato Miao e suo figlio Baciù vivono in una borgata fuori dal tempo, dovele baracche sono multicolori e fantastiche come nei fumetti. Rispettivamente vedovo e orfano, piangono addolorati sulla tomba fresca della moglie e madre Crisantema, appena sepolta. Ma i due si rendono conto di non poter fare a meno di una donna e decidono di trovarne un’altra che piaccia a entrambi. Per diversi motivi la vedova, la prostituta e il manichino, che incontrano successivamente, non soddisfano le loro aspettative. Solo in Assurdina Caì, una sordomuta, Ciancicato e Baciù trovano la moglie-madre ideale. Si celebra il matrimonio. Arrivati a casa Assurdina, da perfetta massaia trasforma una disordinata baracca in una bellissima casetta da fiaba. Ma Ciancicato e Baciù non si accontentano e desiderano una casa più accogliente e spaziosa pur non avendo i soldi è per acquistarla. Allora organizzano un piano: Assurdina finge un tentativo di suicidio mentre padre e figlio cercano di impietosire i passanti e di raccogliere una colletta.
Ma due strani turisti si arrampicano sul Colosseo, gettano una buccia di banana, e Assurdina scivolando cade di sotto.
Ciancicato e Baciù piangono disperati, ma al ritorno alla baracca Assurdina è lì vestita da sposa che li attende. Assurdina, muta è silenziosa è morta, ma si comporta come se fosse viva: una moglie-madre perfetta. Tutto è come prima. Ciancicato e Baciù sono felici.<<Morale:- spiega la didascalia - essere vivi o essere morti è la stessa cosa>>
<<Visto dalla luna, questo film che s’intitola appunto La terra vista dalla luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla terra sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Paolo Pasolini>>.
In un primo momento, La terra vista della Luna, ci appare come la continuazione di Uccellacci e uccellini. Lasciati Totò e Ninetto, nel film precedente, lungo la strada, in un finale tutto chapliniano, li ritroviamo in vesti diverse in una società che potremmo definire inserita nel "dopo storia". Ma, ben presto, ci rendiamo conto che l’elemento ideologico, che aveva caratterizzato gran parte di Uccellacci, qui viene tenuto maggiormente a bada, facendo in modo che rimanga nella penombra del racconto. Ma, sembra, che non vi riesca del tutto: in una sequenza dell’episodio, Totò/Ciancicato afferma: <<La vita è un sogno e gli ideali stanno qua (sotto la suola delle scarpe)>>. Alle prese con la "surrealtà" e con la "comicità", il regista bolognese aveva come primo obiettivo quello di formulare un nuovo linguaggio, "il linguaggio filmico", meno logico e comprensibile ma che al tempo stesso sfuggisse al "senso comune" e all’ interpretazione omologante. Alla stessa maniera di come avveniva in Uccellacci, in La terra vista dalla Luna vi è "incomunicabilità" tra i personaggi: emblematici sono, in tal senso, il mutismo di Assurdina e gli sforzi di Totò/Ciancicato, costretto a movimenti da marionetta, pur di farsi capire. Ma la vera grande novità del film è l’utilizzo del colore. <<Proprio il colore, composto da tonalità accese ed evidenti contrasti, è la chiave espressiva dove risulta più evidente la sperimentazione pasoliniana>>.
Egli cerca di fornire un nuovo punto di vista: una visione che superi la maniera comune di vedere le cose, una sorta di sguardo alieno: non a caso La terra vista dalla luna.
Proprio l’utilizzo delle tonalità accese, per primo comunica la connotazione favolistica dell’episodio. La folla grigia, che si accalca sotto il Colosseo quasi ad attendere il suicidio di Assurdina, rappresenta la società senza più individualità, uniformata dalla testa ai piedi. L’utilizzo dei colori richiama l’espressionismo che ha contraddistinto buona parte del cinema dell’autore bolognese e che raggiunge qui la sua massima espressione.
Il contesto in cui i personaggi si muovono è caratterizzato da <<paesaggi cromaticamente assurdi>> quasi completamente deserti e privi della presenza umana. Totò/Ciancicato e Ninetto/Baciù vivono in un mondo che si potrebbe definire un "Terzo Mondo" all’interno dell’occidente. Pasolini si riferisce a quel Terzo mondo culturale, rappresentato dalla massa che è inconsapevole della sua sorte. Questa visione è arricchita dalla presenza di due turisti pronti a fotografare ogni aspetto dello squallore che li circonda: rappresentano la società dei consumi, l’industria culturale di massa. I due turisti causeranno la morte/non morte di Assurdina con la loro sete di scatti.
Ma, La terra vista dalla luna fonda il suo significato principale sulla dicotomia vita-morte. <<La vicenda è ridotta ai termini elementari e fondamentali dell’esistenza umana>>. Ma, in questo mondo "fuori dal mondo" (lunare possiamo dire), anche questa dicotomia viene superata: <<Nessun personaggio può morire, per il semplice fatto che è già morto e appare ormai solo filmicamente come pura immagine e finzione narrativa>> .
In un’altra ottica, Pasolini analizza e discute, nel film, la condizione della donna in una società siffatta. Assurdina rappresenta il vero e proprio desiderio maschilista in persona: una donna bella, brava nelle faccende di casa, che sappia cucinare e che, perdipiù, non dica nulla. E, quindi, non è importante che sia viva o morta, ciò che conta è che continui a svolgere i suoi compiti di brava moglie/madre.
Pasolini ci offre nel suo episodio una "strega" completamente inedita, che è ben lontana dal tipico cliché (e non vi erano dubbi) della strega-donna cattiva e spietata.
La morale, esplicitata da una didascalia finale, afferma: "Essere morto o essere vivi è la stessa cosa". Tale affermazione, tratta dalla filosofia indiana, non vuole essere solo e semplicemente critica e pessimistica, ma nasconde un’esortazione da parte dello stesso Pasolini: bisogna ricominciare a comunicare, innalzare gli ideali e le ideologie che stanno <<sotto le suole delle scarpe>>, <<essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette>>.
Senza dubbio in La terra vista dalla luna Pasolini si rifà, ancora più scopertamente di quanto non fosse avvenuto in Uccellacci e Uccellini, al cinema muto di Chaplin. In questo episodio fa ancora più utilizzo, rispetto al precedente, delle immagini accelerate e delle gag clownistiche di Totò: il suo sembra un vero e proprio omaggio a Charlot.
Nonostante la centralità del ruolo della Mangano, Totò può essere considerato il protagonista del film: egli reindossa i panni del clown sfruttando la comicità che aveva contraddistinto le sue origini artistiche e, a distanza di anni, pare non essere affatto a disagio.
La terra vista dalla luna fu girato quando Pasolini già stava lavorando all’ Edipo Re e ancora una volta, come già era successo per Uccellacci, fu vietato ai minori di diciotto anni. Tornato dal Marocco, Pasolini, ritornerà ancora a lavorare con la coppia Totò/Ninetto per l’altro episodio in programma: Che cosa sono le nuvole?


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Pasolini-Callas:L’amore impossibile (seconda parte)

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Pasolini-Callas:L’amore impossibile 

(seconda parte)

settembre 4, 2012
Cosimo Capanni

Pier Paolo Pasolini:“Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un´angoscia leggera leggera, non più che un´ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po´ di nevrosi: ma oggi in te c´era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare.
Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora.
Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so.
Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l´intera, intatta luminosità. C´è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi esprimo in termini un po´ incomprensibili. Ma a questo ci vuol poco a mettere rimedio: sono un po´ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le “Visioni della Medea”: in queste condizioni di emergenza, devi avere un po´ di pazienza con me, e cavarmi un po´ le parole con la forza. Ti abbraccio.
Maria Callas:“Caro Pier Paolo, ho ricevuto il libro poi la tua cara lettera. Sono infelice per te – ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico, sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te, come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai bene in fondo che sarebbe andata così. Se ricordi a Grado in macchina si parlava con Ninetto di amore e che ne so io. Dentro in me – le mie antenne tu dici – me lo dicevano quando Ninetto diceva che non si innamorerebbe mai – sapevo che diceva delle cose che era troppo giovane per capire. E tu in fondo uomo tanto intelligente lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi anche tu a un sogno, fatto da te solo perché è così anche se ti addoloro con questa predicuccia piccola. La realtà è quella che devi affrontare ma non puoi perché non vuoi. Tu rinascerai, ci sono riuscita io – donna – con tanta sensibilità, eppure ho capito che solo in noi possiamo basarci. Tu ahimè non prendermi in giro. E’ triste anche e sopratutto per me dirlo. Sugli altri non si può fidare a lungo. E’ legge di natura. Noi dentro dobbiamo trovare la forza, almeno apparente, non ti faccio da madre, caro, ma ti consideravo mai come mio padre. Pier Paolo i libri sanno tanto sì, ma non la dura realtà, e non insegnano quello che io credo, e morirò credendo. Cioè che l’uomo solo può fare, di pura volontà, amor proprio ed orgoglio. Quello che io cerco di fare. In realtà se mi capisci, ma in fondo vedo forse non tanto, piedi per terra bisogna averli sempre poi sognare sì, ma è sogno non realtà. La realtà è creazione, dignità, non borghesia come dici, o forse non ho capito bene il libro. Io vivo nella borghesia servendomi di lei perché l’artista ha bisogno di lei. Ma in realtà io vivo sola, nella fede che posso, devo, perché sono guardata da tutti. E si ha il dovere di fare, una volta messi lassù. Non si può fare ciò che si vorrebbe. Anch’io vorrei, certo, ma allora si accetta essere criticati perché chi riesce la gente lo colloca alto, e così hai dei doveri. Se no allora si lascia e si fa quello che si vuole. Non si trovano scuse per noi, anche se gli altri danno tanto. Certo le parole sono parole, facili a scrivere a te – ma quando è che crescerai P.P.P.? Non è giunta l’ora di essere più ricco e maturo, anche se fanciulli si è sempre grazie a Dio. So che mi odierai per quel che ti scrivo. Ma ti ho sempre detto la verità, e ti chiedo scusa che invece di coccolarti ricevi queste stupide parole. Te le avevo già dette e ti chiedo perdono. Sono qui, peccato che non vieni, chi sa perché poi. Gli amici sono per i momenti difficili, te l’ho detto sempre. Sarò qui tutto l’Agosto anche. Vorrei avere tue notizie. Sono sempre tua caramente con l’amicizia di sempre. Scrivimi qui Draconizzi Petacci Marmari. Grazie del telegramma da Londra.
Maria (fanciullona)
21 luglio 1971.

Carissimo P.P.P. ho ricevuto la tua cara lettera qui a New York, venuta via, stufa del mare e di Parigi perché quest’anno mi sono ripresa dal riposo più presto del solito e Parigi offre poche possibilità di lavorare la mia musica, che poi in fondo è l’amica che non tradisce. La pace che tu pensi che ho ce l’ho davvero, me la impongo. Ti ho detto mio carissimo amico che credo in noi creature umane. Io ed io sola ho fatto quello che mi spetta nella società, il rispetto, certo sono come tu dici sana – è vero – ma so anche che l’orgoglio mi salva da tante cose. Tu sai che è la strada la più dura subito a seguire ma alla lunga è l’unica. Non aspetto niente da nessuno – che se possono l’amicizia – che è tanto. Ma so anche stare tanto sola sto bene con me. Rare volte mi tradisco. Ancora tu dirai che faccio prediche. No P.P.P. non te ne faccio – sono anzi addolorata che soffri. Dipendevi troppo da Ninetto e non era giusto. Ninetto ha il diritto di vivere la sua vita. Lascialo fare. Guarda di essere forte, lo devi, come tutti abbiamo passato di là in un modo o in un altro, so che immenso dolore che è, più delusione che altro forse. Certe parole valgono nulla per consolarti, lo so.
 Avrei voluto che tu avessi sentito il bisogno venire da me, passare qualche 5 minuti duri, perché sono solo qualche 5-10 minuti di dolore atroce poi diventa un poco meno, ma non ne hai sentito il bisogno della mia amicizia e sono addolorata di questo. Ma capisco anche questa tua reazione. Amico mio vorrei avere tue notizie. La nostra amicizia merita questo almeno, non credi. Io sarò qui fino alla fine di Novembre, poi torno a Parigi. Qui ho tanti buoni amici, e vivo letteralmente nella musica, quindi sono assai tranquilla, sarò ancora di più se mi dai tue notizie spesso. Sfogati pure con me, come mi sono sfogata io a te tante volte. T’abbraccio forte con tanto affetto e sono sempre credimi la tua migliore amica (presunzione forse).
Maria. - 5 settembre 1971
Il Poeta-regista, Dacia Maraini, Albero Moravia, Pier Paolo Pasolini e Maria Callas erano un quartetto piuttosto collaudato a condividere tempo e spazio insieme: “Abbiamo fatto due viaggi in Africa, di un mese ogni volta, e uno nello Yemen. La Callas era abituata agli alberghi di lusso ma si adattava anche agli ostelli, come è successo quando ci siamo mossi all’interno dell’Africa con la Land Rover (Intervista di Annalisa Serpilli comparsa sul Sole 24 ore l’11 settembre 2007). Ed è proprio da quella Land Lover che parte il racconto di Dacia Maraini Il Poeta-regista e la meravigliosa soprano (supplemento del Corriere della Sera del 26 luglio). Il semplice ricordo lascia spazio alla felice tessitura di un vero e proprio racconto dove l´io narrante si cela timidamente dietro una “ragazza dagli occhi cilestrini”, confidenziale epiteto che non lascia spazio ad ambiguità e di cui scopriremo solo alla fine la paternità. La limpidezza del ricordo bene contrasta con l´opacità della terra bruciata africana. Pasolini concluderá il Frammento alla morte con queste parole:

“Africa! Unica mia alternativa”. In effetti l’Africa era per il poeta-regista il naturale controcanto dell’Occidente: nera, mitica e preindustriale, essa si opponeva alla civiltà bianca, razionalistica e borghese, e fu proprio durante questi viaggi che Pasolini elaborò la sua Poetica sull´Africa e la sua interpretazione di Medea. Cosí Moravia descrive un documentario di Pasolini sull´Africa: “per niente esotica e perciò tanto più misteriosa del mistero proprio dell’esistenza, coi suoi vasti paesaggi da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati da un’umanità contadina e primitiva. Pasolini ‘sente’ l’Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano”.
Umori, sensazioni, stupori, scoperte. Tutto stratifica lungo il percorso narrativo di questo breve racconto inedito di Maraini, lasciandoci intravedere le autentiche movenze dei protagonisti (gli stivali di Pasolini sulla terra bruciata, gli ampi occhiali di Maria Callas) così come raramente ci è dato sapere. Assaporiamo appena, grazie alla discrezione signorile e delicatissima della nostra autrice, le intime dinamiche sentimentali, gli sguardi fugaci, quell´incontro irripetibile tra alcuni dei più grandi del panorama culturale del novecento. Maraini, una di loro, ci concede poi di procedere oltre l´evento umano del viaggio, sorvolando con lo sguardo elefanti, coccodrilli, zanzare, grilli e termiti. Ed è lí, di fronte ad alla visione “sorprendente e primordiale” della natura africana, che lo sguardo attento della narratrice si corrompe in emozione assoluta, sorprendendosi in lacrime. Ed è forse quello stesso rapimento, quello che accompagnò Maraini dopo la prima volta di fronte alla Divina; era a Parigi, la Tosca , qualche tempo prima del viaggio in Africa. Non avrebbe mai pensato, allora, che avrebbe condiviso con quella “pantera” una piccola stanza e due lettini di ferro smaltato.

In effetti l´occhio femminile di una Maraini giovanissima, è l´unico sopravvissuto in grado di poter traghettare fino ai nostri giorni la testimonianza di un tempo gravido di esperienze intense vissute da chi, primo fra tutti Pasolini, riuscì a tradurre in arte il senso profondo dell´Africa. Maraini, attraverso parole fresche e puntuali nella rievocazione, ci accompagna persino dentro la casa della madre di Pasolini, mostrandoci una donna fortissima nella sua ferrea volontà di madre friulana, di “maestra” conscia di non avere rivali. È un piacere lasciarsi portare per mano laddove forse, ognuno di noi, avrebbe voluto essere, nel modo in cui molti avrebbero voluto raccontare.
I quattro personaggi, Moravia, Pasolini, Callas e Maraini, sembrano davvero usciti dalla fiaba della vita, ognuno con il proprio fardello simbolico che riconosciamo già come parte integrante della “nostra” stessa storia: il vecchio mentore, scrittore di fama saggio ma brontolone, l´eroe trascinante, puro e intoccabile, la diva timida, capace di stupire per la sua carica di intima umiltà, la “giovane scrittrice”, un angelo viaggiatore testimone privilegiato di un mondo che le trascorrerà splendido e tragico sotto gli occhi. Scompaiono nello spazio di una pennellata ogni stereotipo: scompare l´autore taciturno (Moravia sarà l´unico a parlare in teatro!), l´intellettuale trasgressivo e la diva capricciosa. Scompare l´apparente algido distacco dell’autrice per lasciare il posto a tratti di pura emozione. Non c’é traccia di vanto in questo privilegio, solo la naturalezza di un’esperienza vissuta nella strabiliante consapevolezza di possedere quel magico strumento di trasporto che è la scrittura, che brilla tra le nostre dita come facevano i gioielli nelle mani di Maria Callas. 
(Fine seconda parte)

Fonte:
http://www.gbopera.it/2012/09/pasolini-callaslamore-impossibile-seconda-parte/

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