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martedì 9 aprile 2013

Il profondo nero dei misteri d’Italia

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



di Piero Ottone, da la Repubblica, 14 marzo 2009


Sulle stragi di Stato, come sull' immortalità dell' anima, si può discutere all' infinito, senza mai approdare a una certezza. Non sono un esperto, in un caso e nell' altro. Ma sull' argomento delle stragi è comparso un nuovo libro, Profondo Nero, i cui protagonisti, da Enrico Mattei a Eugenio Cefis e a Licio Gelli, hanno incrociato tutti, in un modo o nell' altro, la mia vita professionale: alcuni li ho anche conosciuti e frequentati. Non potevo dunque non leggerlo. Per fortuna, gli autori, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, giornalisti entrambi, scrivono con chiarezza, e hanno corredato il testo di ampie note, bene documentate. Ma interessante è soprattutto la loro tesi: quella di una pista unica per decifrare i tragici episodi che hanno funestato attraverso gli anni la vita pubblica italiana. La morte di Mattei, presidente dell' Eni, di Mauro De Mauro, giornalista, di Pier Paolo Pasolini, scrittore e poeta, sono secondo loro gli anelli di un' unica catena. All' origine c' è un protagonista, Eugenio Cefis, che è, essi dicono, il vero fondatore della P2. Licio Gelli e Silvio Berlusconi sono il punto di arrivo. Inutile aggiungere che i vincitori, come dimostra l' Italia contemporanea, sono loro. Su ogni episodio, naturalmente, nessuna certezza. L' incidente che provocò la morte di Enrico Mattei, l' uomo più potente d' Italia, sarà stato la conseguenza di un attentato, come affermò il pubblico ministero Vincenzo Calia nella richiesta di archiviazione del 1993; a suo dire, l' attentato «comportava il coinvolgimento degli uomini inseriti nello stesso Ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano». Ma chi erano questi uomini?E perché lo fecero? Cefis fu il successore di Mattei: anche Johnson, vice-presidente degli Stati Uniti, fu sospettato da qualcuno di essere coinvolto nell' assassinio di John Kennedy perché gli succedette alla Casa Bianca. Ma questo non basta. Quanto al giornalista De Mauro, può darsi che stesse davvero indagando sulla morte di Mattei, e che fosse sulla pista giusta, tanto da preoccupare i colpevoli: ma neanche di questo vi era certezza; e comunque non basta neanche questo per collegare il sequestro e l' uccisione di De Mauro con l' assassinio, se assassinio fu, di Mattei. È anche vero che l' aggressione e l' assassinio di Pasolini non potevano essere attribuiti soltanto a balordi di periferia: ma chi erano allora i mandanti e gli esecutori? Pasolini stava raccogliendo una documentazione sulla morte di Mattei; e scrisse sulle stragi di Stato un articolo famoso che pubblicammo nel Corriere il 14 novembre del 1974, un articolo che cominciava con le parole: «Io so». Ma neanche lui aveva le prove: «Io so - così scriveva in quell' articolo - perché sono un intellettuale, uno scrittore». E aggiungeva che mettere insieme i fatti, dargli una logica faceva parte del suo mestiere.
Semplifico il discorso, in queste poche righe: gli autori di Profondo Nero sono molto circostanziati. Ma neanche loro pretendono di possedere certezze: si limitano ad avanzare ipotesi. Quel che fa impressione, tuttavia, è che la tesi del disegno eversivo, pur non essendo dimostrata, può essere sostenuta con molti riferimenti concreti: perché la vita pubblica, nel nostro paese, è sempre accompagnata, nel sottofondo, da personaggi sospetti e torbidi eventi. Enrico Mattei non era soltanto il presidente di un ente pubblico, l' Eni, fornitore di energia: disponeva di fondi segreti, così ingenti da consentirgli di fondare più o meno segretamente un giornale, Il Giorno, in concorrenza col Corriere della Sera. Finanziava i partiti, e nell' unico nostro incontro (a Londra, dove ero un qualsiasi giornalista che lui vedeva per la prima volta) parlò come se fosse stato il ministro degli Esteri del nostro paese, in accesa polemica con la politica del governo. E perché Eugenio Cefis, prima successore di Mattei all' Eni, poi presidente della Montedison, faceva incetta di giornali? Ne fondò uno a Torino, un altro a Milano, comperò il Messaggero a Roma e cercò di mettere le mani sul Corriere, alla fine riuscendoci, perché diede garanzie finanziarie a Andrea Rizzoli, che lo acquistò. Per noi in via Solferino, Cefis era diventato un incubo. Perché la brama del nostro quotidiano era diventata, per lui, un'ossessione? Diceva in giro, disse anche a me, che i giornali gli servivano per fare favori agli uomini politici, nell' interesse di Montedison, ma non mi pare che lo sviluppo della chimica in Italia fosse la sua prima aspirazione.E che cos' era la P2, questa associazione segreta alla quale aderirono personaggi delle Forze Armate, diplomatici, alti funzionari dello Stato, uomini politici, giornalisti (tra i quali il mio successore alla direzione del Corriere ), e di cui lo stesso Cefis faceva parte? In uno Stato che funzionava male, governato da una classe politica inefficiente, uomini di potere agivano in segreto. Per migliorarne il funzionamento? Aspiravano soltanto a una riforma per rafforzare l' esecutivo, secondo il modello gollista? O volevano instaurare una dittatura, anche disposti a uccidere per conseguire i loro obiettivi? La partenza improvvisa di Cefis dall' Italia, quando abbandonò tutto, fu misteriosa anch' essa.
Adesso, concludono gli autori di Profondo Nero, «ci sono voluti trent' anni, ma il golpe bianco è quasi compiuto. Con Berlusconi (tessera P2 n. 625), tre volte premier, con record di longevità governativa, che aspira al Quirinale ed è indicato proprio da Gelli come erede prediletto. Il golpe è stato realizzato senza eserciti e senza divise... Dopo la morte di Falconee Borsellinoe dopo gli attentati mafiosi del 1993 si è compiuta la svolta politica che ha cancellato la Dc, il Psi e i partiti laici minori, e ha aperto la strada alla Seconda Repubblica, con la discesa in campo di Berlusconi, in un' Italia letteralmente ipnotizzata dall' imperio mediatico televisivo...».
Esiste, possiamo aggiungere, un blocco di potere economico ormai abbastanza omogeneo e molto potente, con Geronzi a Mediobanca al posto di Cuccia. E queste non sono ipotesi. Sono certezze.

(16 marzo 2009)

Fonte:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/page/4/?s=pasolini


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Silvio Parrello – La morte di Pasolini

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Silvio Parrello, detto Er Pecetto, continua a dedicarsi alla ricerca della verità sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Avendolo conosciuto in giovinezza, fu testimone diretto delle intricate vicende che portarono alla tragica fine del poeta. Da allora, ha provato in vari modi a riportare l’attenzione su questo crimine irrisolto, ma i suoi appelli sono sempre stati frustrati dall’unica verità stabilita, ovvero la colpevolezza del solo Pino Pelosi.
Sebbene in queste righe si occupi solamente degli esecutori materiali dell’omicidio, lascia comunque capire come la regia di quella sera sia stata molto accurata.
Si ricordi che si tratta della personale verità di Silvio Parrello, e che la Verità, quella perfetta, è forse destinata a rimanere imprigionata nella più buia burocrazia.
Indagine sul delitto di Pier Paolo Pasolini
A distanza di oltre dieci anni dalla mia personale indagine sulla morte di P.P.P., emerge con chiarezza una verità completamente diversa da quella processuale. Iniziamo dall’incontro che Pasolini ebbe con Pelosi alla stazione Termini la sera del 1° novembre 1975. Non fu casuale, ma fu un appuntamento già fissato in precedenza, in quanto i due si frequentavano da alcuni mesi. Quella notte il ruolo di Pelosi era solo quello di accompagnare l’intellettuale ad Ostia per recuperare le bobine del film ‘Salò’, che i due fratelli Borsellino, amici di Pelosi, avevano rubato su commissione a fine di estorsione; fu a quel punto che scattò l’idea dell’omicidio. Quando Pelosi e Pasolini finirono di cenare al ‘Biondo Tevere’, montarono in macchina e si avviarono in direzione di Ostia. I due furono seguiti dai fratelli Borsellino in sella alla loro Vespa e da una moto Gilera 125 rubata guidata da Giuseppe M. Lungo il percorso si accodarono una Fiat 1500 con a bordo tre balordi, che successivamente massacrarono di botte il Poeta, ed un’Alfa Romeo simile a quella di Pasolini, con una sola persona, la stessa che investì e uccise lo scrittore schiacciandolo sotto le ruote. Alla fine della mattanza, quando i sicari fuggirono, sul luogo del delitto rimasero solo in due: Pino Pelosi e Giuseppe M., che presero la macchina del Poeta per scappare. Percorsi pochi metri Pelosi si sentì male, scese dalla macchina e vomitò, mentre il suo ‘caro’ amico proseguì la fuga, e, giunto sulla Tiburtina, abbandonò l’Alfa Romeo di Pasolini, e si dileguò. Pelosi, rimasto all’Idroscalo solo e appiedato, venne fermato ad Ostia a Piazza Gasparri dalle Forze dell’Ordine, a poche centinaia di metri dal luogo del delitto.  Alle tre del mattino, due ore dopo l’omicidio, due poliziotti telefonarono a casa di Pasolini all’Eur, comunicando alla cugina Graziella Chiarcossi che la macchina di P.P.P. era stata trovata abbandonata sulla Tiburtina. Di questa telefonata la Chiarcossi ne parlò più volte con Sergio Citti, il quale, cinque mesi prima della sua morte, verbalizzò il fatto alla presenza dell’avvocato Guido Calvi. Durante il processo, l’automobile di Pasolini fu periziata dai periti Ronchi, Ronchetti e Merli, e si capì immediatamente che si trattava di una blanda e superficiale perizia; i tre non si recarono mai sul luogo del delitto. Al contrario, quella presentata da Faustino Durante, nominato dalla famiglia, è ben diversa, e appare con chiarezza che ci fu un’altra macchina ad uccidere l’intellettuale. All’indomani del delitto, quella stessa automobile fu portata da Antonio Pinna in riparazione presso una carrozzeria al Portuense. Il primo carrozziere, Marcello Sperati, viste le condizioni dell’auto, si rifiutò di eseguire il lavoro, mentre il secondo carrozziere, Luciano Ciancabilla, la riparò. Il 12 Febbraio 1976, nell’indagine sull’omicidio di P.P.P., il maresciallo dei carabinieri Renzo Sansone fa arrestare i due fratelli Borsellino. La notizia venne data alla stampa il 14 febbraio 1976, lo stesso giorno in cui scomparve Antonio Pinna, la cui auto fu trovata all’aeroporto di Fiumicino, e del quale non si seppe più nulla fino al venerdì di Pasqua del 2006. Quel giorno venne a trovarmi nel mio studio di pittore e poeta un sedicente figlio di Antonio Pinna, tale Massimo Boscato, di cui nessuno conosceva l’esistenza, neanche i parenti più stretti, nato da una relazione tra Pinna e una donna del Nord Italia. Il sedicente figlio era alla ricerca del padre, e, tramite un suo amico che prestava servizio alla DIGOS ed una ricerca condotta da lui stesso, risultava che Antonio Pinna era stato fermato a Roma nel 1979, alla guida di un’auto con la patente scaduta. Oltre a questo, il fascicolo che lo riguardava recava la dicitura TOP SECRET.
Questa è la mia verità, ma purtroppo non posso documentarla.
Silvio Parrello
Roma, 19 luglio 2011
fonte: 
http://antarchia.com/2011/07/28/silvio-parrello-la-morte-di-pasolini/

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PASOLINI IN TRIBUNALE

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I fatti di Casarsa
 Pasolini denunciato per corruzione di minorenne.Condannato in primo grado, Pasolini viene assolto in appello; il ricorso in cassazione della Pubblica Accusa è giudicato inammissibile. Nel 1952 Pasolini verrà assolto "perché il fatto non costituisce reato e per mancanza di querela".  

Ragazzi di vita
La Presidenza del Consiglio dei ministri promuove un'azione giudiziaria contro il romanzo Ragazzi di Vita.
Pasolini viene citato in giudizio per contenuto osceno del romanzo, Il processo viene rinviato perché i giudici non hanno letto il libro. Il Pubblico Ministero chiede l'assoluzione degli imputati "perché il fatto non costituisce reato". I giudici accolgono la richiesta e dissequestrano il libro.
 
Querela del comune di Cutro
Il 17 novembre 1957 il ragioniere Vincenzo Mancuso, sindaco del comune di Cutro in provincia di Catanzaro, querela Pasolini per "diffamazione a mezzo stampa". Pasolini in un suo articolo sul Sud del paese aveva scritto "A un distendersi di dune gialle, in una specie d'altopiano, è il luogo che più mi impressiona di tutto il viaggio. E' veramente il paese dei banditi, come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano al loro atroce lavoro, c'è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia..."Il tribunale di Milano pronuncia sentenza di non doversi procedere.

Fatti di Anzio.
Due giornalisti hanno dichiarato di aver visto parlare Pasolini con due ragazzi al porto di Anzio, per poi andare al ristorante. Usciti dal ristorante i giornalisti chiedono ai ragazzi che cosa avesse detto loro Pasolini; questi indicando altri ragazzi a bordo di una barca nel porto confessano che il poeta ha chiesto loro "Quanti anni hanno?" Alla risposta "Dodici anni", aveva commentato: "Però avranno dei bei cazzetti". I giornalisti hanno così informato la polizia.
Il procuratore di Velletri, competente per territorio, invia la pratica al
procuratore della Repubblica di Roma. Quest'ultimo gliela rimanda non ravvisando il reato di corruzione di minorenne, ma al più, il reato di turpiloquio. Il procuratore generale di Velletri invia, allora, il procedimento alla pretura di Anzio. Interrogati, i minori dichiarano di aver ricevuto cento lire dai due giornalisti per parlare del fatto. La querela viene archiviata perché non si ravvisano ipotesi di reato.

Fatti di via Panico
 La notte tra il 29 e il 30 giugno 1960, in via Panico scoppia una furibonda rissa tra due gruppetti di ragazzi. Tra la confusione generale, a una ragazza viene rubato un anello con granati del valore di ventiquattromila lire, mentre un altro ragazzo viene derubato di una catenina e di un orologio d'oro. La refurtiva verrà ritrovata in casa di uno dei partecipanti alla rissa, Luciano Benevello. Interviene Pasolini che, con la sua Giulietta, accompagna Benevello a casa. Pasolini viene accusato di aver voluto deliberatamente agevolare la fuga di Benevello e di aver partecipato, egli stesso, alla rissa. La stampa si accanisce sul caso e criminalizza lo scrittore. Il 16 novembre 1961 il Tribunale di Roma assolve Pasolini per insufficienza di prove.   

Fatti del Circeo
Il commesso di un bar a S. Felice Circeo, sostiene che uno sconosciuto, dopo aver bevuto una Coca-Cola e dopo aver fatto molte domande, avrebbe indossato un paio di guanti neri, inserito nella pistola un proiettile d'oro e cercato di rapinarlo dell''incasso della giornata.
Il barista cerca di reagire e colpisce con un coltello la mano del rapinatore, che fugge.Il giorno successivo il barista vede passare per strada una Giulietta, in cui riconosce il suo rapinatore: prende il numero di targa e fa una denuncia ai carabinieri. In quella Giulietta c'è Pier Paolo Pasolini. I carabinieri di Roma perquisiscono l'abitazione e la macchina di Pasolini in cerca della pistola. Pasolini ammette di essere entrato nel bar, di aver bevuto una Coca-Cola, di aver fatto alcune domande, ma di essersi poi diretto a S. Felice Circeo, dove stava lavorando alla sceneggiatura di Mamma Roma. La sua versione non convince e viene rinviato a giudizio.
I giornali della sinistra e quelli moderati difendono Pasolini contro l'assurda accusa, mentre i giornali di destra attaccano, come al solito, senza mezze misure lo scrittore.Il processo si apre a Latina. L'avvocato difensore di Pasolini, il democristiano Carnelutti, viene sospettato dai giornali di essere l'amante dello scrittore. Pasolini viene condannato a quindici giorni di reclusione, più cinque per porto abusivo di armi da fuoco e diecimila lire per mancata denuncia della pistola, con la condizionale. I difensori presentano immediatamente appello. Il 13 luglio 1963 la corte d'appello di Roma dichiara di non doversi procedere contro Pasolini per estinzione del reato intervenuta per amnistia. L'avvocato di Pasolini, Berlingieri, ricorre in cassazione per ottenere l'assoluzione con formula piena, ma ottiene solo un'assoluzione per mancanza di prove.

Denuncia Antonio Vece
Antonio Vece, un maestro elementare di Avellino sporge denuncia presso la polizia giudiziaria di Roma contro Pasolini. Dichiara di essere stato avvicinato da Pasolini, di essere salito sulla sua Giulietta, di essere stato portato in aperta campagna, minacciato, malmenato e derubato di un capitolo di un suo romanzo. Due giorni dopo, al commissariato di polizia di Centocelle, confessa di aver inventato ogni cosa. Viene denunciato per simulazione di reato, che sarà archiviata in data 2 dicembre 1965. 

Causa civile Pagliuca

L'ex deputato democristiano, avvocato Salvatore Pagliuca, cita in giudizio Pasolini e la società Arco film. La denuncia si riferisce al film Accattone, e al fatto che un personaggio di malavita del film, ha lo stesso nome dell'avvocato. Chiede la soppressione del suo nome dal film e il risarcimento per danni morali e materiali. Pagliuca usa questa vicenda a scopi elettorali per la propria elezione al parlamento. Non viene rieletto e il giudizio si chiude con una sentenza che respinge il risarcimento dei danni morali e con l'obbligo di eliminare il nome del Pagliuca dal film. Obbliga Pasolini e la Arco Film al risarcimento dei soli danni materiali.


Mamma Roma.

Il tenente colonnello Giulio Fabi denuncia alla procura della Repubblica di Venezia il film Mamma Roma, proiettato alla XXIII Mostra del cinema di Venezia, per offesa al comune senso della morale e per il contenuto osceno. Soliti attacchi dei giornali della destra italiana, che questa volta si traducono in atti di boicottaggio e di violenza da parte dei gruppi di estrema destra. Il 5 settembre 1962, il magistrato giudica infondata la denuncia e dichiara di non doversi procedere l'azione penale.


Aggressione Di Luia. 
Serafino Di Luia insieme ad altri giovani neofascisti appartenenti ad associazioni di estrema destra, aggredisce Pasolini durante la proiezione di Mamma Roma, nel cinema Quattro Fontane di Roma. Ne nasce una rissa, cui partecipano, in difesa di Pasolini, Citti e altri amici del regista. A questa seguono una serie di aggressione fasciste a cui Pasolini non farà mai seguire una denuncia. Laura Betti, amica di Pasolini, viene aggredita e picchiata da un giovane che risulterà aderente a "Nuova Italia" e che partecipò alla rissa del cinema Quattro Fontane. 

Querela Bernardino De Santis. 
"Un giorno, un pazzo m'ha accusato di averlo rapinato (con guanti e cappello neri, le pallottole d'oro nella pistola): tale accusa è passata per buona e attendibile, perché a un livello culturale sottosviluppato si tende a far coincidere un autore coi suoi personaggi: chi descrive rapinatore e rapinato" [Pier Paolo Pasolini, articolo apparso su "L'Espresso"]. Per queste parole, Bernardino De Santis, il barista rapinato al Circeo, querela Pasolini per diffamazione. Il 31 gennaio 1967, il Tribunale di Roma "dichiara di non doversi procedere" contro Pasolini, "per essere il reato estinto per intervenuta amnistia".  

Processo per il film Teorema
Il sostituto procuratore della Repubblica di Venezia denuncia Pasolini, quale autore del film Teorema, per offesa al comune senso del pudore. Il 13 settembre 1968, la procura della Repubblica di Roma ordina il sequestro del film per oscenità. Il Tribunale di Venezia assolve Pasolini "perché il fatto non costituisce reato". La corte d'appello conferma la sentenza di primo grado. 

Incauto affidamento
 Nel 1969 Pasolini viene denunciato dalla polizia stradale al pretore di Bologna, per aver affidato la guida della sua automobile, Giulietta TI, a Carmelo Tedesco, sprovvisto di patente di guida. Pasolini in giudizio dichiara di aver dato la macchina a Ninetto Davoli che a sua volta l'ha prestata a un giovane con la patente, che insieme al Tedesco si è fermato a un distributore. Invitato a spostare l'auto mentre il giovane patentato non è presente, Carmelo Tedesco viene fermato dalla polizia stradale. Il pretore di Bologna assolve Pasolini "perché il fatto non sussiste". 

Invasione di edificio
Pasolini, insieme a Zavattini, Massobrio, Ferreri, Angeli, Maselli e De Luigi, viene processato per aver turbato l'altrui possesso di cose immobili, trattenendosi oltre l'ora stabilita nei locali del Palazzo del cinema di Venezia. I fatti si riferiscono alla dura contrapposizione per l'autogestione da parte degli autori cinematografici della Mostra del cinema di Venezia. Pasolini e gli altri imputati vengono assolti "perché i fatti ascritti non costituiscono reato" 

La morte di cinquanta pecore (Porcile)
Giovanni Longo di Nicolosi (Catania), allevatore di ovini, denuncia Pasolini e il produttore Gianvittorio Baldi, in quanto responsabili della morte di cinquanta pecore. Longo asserisce che la notte tra il 24 e 25 novembre 1968, in contrada Serra La Nave di Nicolosi, un branco di cani affamati e infreddoliti, dopo essere stati liberati il giorno precedente al termine delle riprese di Porcile, si sono introdotti nell'ovile ammazzando cinquanta pecore. Il procedimento dura cinque anni. Il 20 novembre 1971, il Tribunale civile di Catania respinge la richiesta di risarcimento danni. 

"Lotta Continua"
Dal primo marzo 1971 Pasolini risulta ufficialmente direttore responsabile del periodico "Lotta Continua", organo di un gruppo extraparlamentare dell'estrema sinistra. Ciò è dovuto alle leggi italiane che impongono che ogni pubblicazione debba avere un direttore iscritto al ruolo dei giornalisti professionisti. Così gli esponenti di Lotta Continua chiedono agli intellettuali italiani iscritti all'albo dei giornalisti, di assumere a rotazione la carica di direttore del loro periodico. Pasolini accetta, pur non condividendo la linea politica di Sofri e compagni, è quindi direttore di "Lotta Continua" dal 1 marzo al 30 aprile 1971. Il 18 ottobre 1971, la corte d'assise di Torino processa Pasolini insieme agli altri esponenti di Lotta Continua per aver svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dello Stato; e di avere, quindi, pubblicato e istigato a commettere delitti. Il 18 ottobre 1971, la Corte d'assise di Torino sospende il processo e rinvia a nuovo ruolo.

Processo per il film Decameron. 

Il film, ispirato alle novelle del Boccaccio, subisce una persecuzione continua. Fioccano le denuncie da tutte le parti del paese. Il film viene sequestrato. E' il segno più evidente di una serie di paranoici di cui Pasolini è ormai bersaglio privilegiato.

Processo per il film I racconti di Canterbury. 

Il procuratore della Repubblica di Benevento (dove fu proiettato per la prima volta il film) accusa Pasolini di oscenità. Dopo tre giorni, e su richiesta del Pubblico Ministero, il giudice istruttore archivia la denuncia. Il film viene giudicato quattro volte e quattro volte prosciolto dall'accusa di oscenità.
Altre otto denunce arrivano alle procure di: Mantova, Viterbo, Frosinone, Venezia, Latina. Le disavventure giudiziarie seguite al film I racconti di Canterbury danno un quadro chiaro del clima persecutorio in cui si muoveva Pasolini.

Processo per il film Il fiore delle Mille e una notte
Il film, prima ancora di essere immesso nel circuito cinematografico, viene denunciato da una donna che l'ha visto in anteprima.Il giudice istruttore del tribunale di Milano decreta di non doversi promuovere azione penale contro il film.

Processo [postumo] per il film Salò o le centoventi giornate di Sodoma
Il film viene censurato e se ne vieta la distribuzione. Il divieto viene annullato nel dicembre del '75; segue una denuncia dell'Associazione nazionale per il buoncostume all'autorità amministrativa. Il produttore del film, Alberto Grimaldi, viene processato dal tribunale di Milano, e imputato presso la procura di Venezia per presunta corruzione di minorenni. Quest'ultima supposizione si rivelerà inammissibile. Il tribunale di Milano condanna Grimaldi a due mesi di reclusione, duecentomila lire di multa, e dispone il sequestro del film. Il ricorso in appello porta all'assoluzione di Grimaldi, e al dissequestro del film solo a condizione di alcuni tagli. Il film viene tagliato per un totale di cinque minuti. Nel giugno del 1977 il pretore di Grottaglie in provincia di Taranto, Evangelista Boccumi, dispone un nuovo sequestro del film. Dodici giorni dopo il sostituto procuratore della Repubblica di Milano stabilisce che il sequestro di Salò è palesemente illegittimo, e ne dispone l'immediato dissequestro.

Fonte:
http://www.scudit.net/mdpasprocessi.htm




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Pasolini - Sciascia... vite parallele

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Pasolini - Sciascia... vite parallele
di JOLANDA BUFALINI

L'Unità, martedì 21 giugno 1994 - pag. 11




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Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi


Il filo nero delle stragi

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Intervista a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, autori di "Profondo Nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un'unica pista all'origine delle stragi di stato" (Chiarelettere).

di Roberto Vignoli

Molto è stato scritto sui casi Mattei, De Mauro e Pasolini. Ma la vostra inchiesta ha il merito di gettare una nuova luce indicando un'unica pista che legherebbe questi tre misteri d'Italia e le stragi di stato. Qual è questa pista e come siete giunti a questa conclusione?
Sandra Rizza
: Profondo nero ha l'ambizione di illuminare il buio che circonda tre casi giudiziari italiani rimasti senza risposta. Siamo partiti dall'inchiesta del pm Vincenzo Calia che ha riletto le numerose anomalie seguite alla morte di Mattei in chiave di "depistaggi", anche istituzionali.

Abbiamo trovato diversi punti di collegamento tra questi e l'insabbiamento dell'inchiesta sulla scomparsa di De Mauro, e ci siamo convinti che i due casi fossero profondamente intrecciati.
Rileggendo, infine, "Petrolio" di Pasolini, l'opera incompleta che si proponeva di ripercorrere proprio le guerre interne all'Eni per denunciare la natura criminogena del potere in Italia, ci è sembrato molto probabile che il romanzo postumo fosse un possibile movente della sua uccisione. La pista unica è la chiave di lettura univoca che contestualizza le tre vicende rimaste ancora senza una risposta giudiziaria soddisfacente. Si parte dalla morte di Mattei che persino Fanfani, molti anni dopo, definì come il "primo atto terroristico del nostro paese". Si finisce con l'uccisione di Pasolini all'Idroscalo, che Pelosi oggi sembra ricondurre per la prima volta a una matrice politica.
L'idea è che dietro la morte di Mattei vi sia un complotto tutto italiano (come l'ha definito Calia), orchestrato con la complicità di pezzi deviati degli apparati istituzionali e pronto a ricompattarsi ogni volta che, anche a distanza di molti anni, qualcuno minaccia di svelare il segreto di quella morte. Per questo sarebbe scomparso il giornalista De Mauro e per questo sarebbe morto lo scrittore Pasolini. De Mauro indagava sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia per conto del regista Rosi. Pasolini era ossessionato da Mattei e dal suo successore Cefis durante la stesura di "Petrolio".
Quali novità principali emergono dalla vostra ricostruzione?
Sandra Rizza:
Pelosi racconta oggi per la prima volta che Pasolini fu ucciso da una squadra di cinque persone, che definisce "picchiatori" fascisti, arrivati con una macchina e una motocicletta. Secondo la sua ricostruzione, due o tre spuntarono dal buio dell'Idroscalo e si dedicarono subito al pestaggio. Gli altri due restarono a guardare il pestaggio, forse a controllare che tutto andasse come nei piani, dopo aver immobilizzato lo stesso Pelosi, che quella sera probabilmente era stato usato come esca. L'eliminazione di Pasolini, in questa nuova ricostruzione, non appare più come l'esito di una sconclusionata lite tra omosessuali, ma come un agguato studiato a tavolino e di chiaro stampo "politico", che molto probabilmente ha una matrice "eccellente". Noi abbiamo ipotizzato che questa eliminazione fosse collegata alla scrittura di "Petrolio". "Petrolio" è un romanzo importantissimo, il primo romanzo italiano che spiega la strategia della tensione, il romanzo che contiene in nuce tutte le denunce di tipo politico che poi finiranno negli articoli del Corriere della Sera e passeranno alla storia come gli "Scritti Corsari". Sono prese di posizione "estreme" e dirompenti, che nell' Italia di quegli anni dovevano suonare particolarmente scomode e intollerabili.

Nell'intervista pubblicata nel libro Pino Pelosi aggiunge elementi fino ad ora taciuti sull'assassinio di Pasolini che sembrano rafforzare la matrice politica del delitto.
Sandra Rizza: Le nuove verità di Pelosi, che oggi fa i nomi di due dei picchiatori, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, entrambi morti di Aids, non fanno che confermare quella che da trentaquattro anni è la convinzione di gran parte dell'opinione pubblica italiana: e cioè che l'uccisione di Pasolini fu un delitto politico. Nel pestaggio di Ostia, Pelosi non poteva essere solo. Lo disse subito il perito Faustino Durante, illustrando in aula che lo stato del corpo di Pasolini, letteralmente massacrato di botte, non poteva assolutamente conciliarsi con l'aggressione di un'unica persona. Nella sentenza di primo grado, poi, il presidente del tribunale per i minorenni Carlo Alfredo Moro formulò l'imputazione parlando di un omicidio commesso da Pelosi con il concorso di ignoti. Questi ignoti non sono mai stati scoperti. E non sono mai stati scoperti perchè non sono mai stati cercati. Cos'è successo? Gli avvocati Calvi e Marazzita dicono chiaramente che la fretta di chiudere le indagini, in presenza di un reo confesso, impedì l'accertamento di molti indizi che furono totalmente trascurati. Marazzita oggi ricorda che subito dopo la morte di Pasolini gli arrivò una segnalazione anonima che indicava la presenza di un automobile, una Fiat, sul luogo del delitto. Marazzita segnalò immediatamente agli inquirenti alcuni elementi della targa: la città di provenienza, CT, e i primi tre numeri. Nessuno fece nulla. Oggi Pelosi dice che all'Idroscalo arrivarono un'automobile, una Fiat 1300 o 1500 e una moto, con cinque persone a bordo. E' incredibile la coincidenza...
Quanto è attendibile a vostro avviso la testimonianza di Pelosi?
Sandra Rizza
: Quanto sia attendibile Pelosi, è compito della magistratura accertarlo, se ne avrà voglia. Di certo, la procura di Roma avrebbe a disposizione un eccezionale strumento di riscontro, per accertare l'attendibilità di Pelosi: la tecnologia moderna che oggi è a disposizione dell'investigazione. Si potrebbe disporre la riesumazione dei corpi dei Borsellino e fare un confronto con il materiale biologico ancora presente negli abiti di Pasolini, custoditi nel museo criminale di Roma. C'è poi un altro possibile accertamento: il maresciallo Sansone, che per primo fece il nome dei Borsellino, in un rapporto archiviato nei mesi successivi alla morte di Pasolini, parla di un quarto complice sul luogo del delitto, tale Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro, pluriomicida, tuttora vivo e detenuto. Anche lui potrebbe essere sottoposto ad accertamenti di tipo biologico.

Quanto è stata importante la lunga e rigorosa indagine condotta dal Pm Vincenzo Calia (prima del vostro libro pressochè sconosciuta all'opinione pubblica) che, per quanto conclusasi giudiziariamente con un'archiviazione, mette nero su bianco molte verità inquietanti?
Sandra Rizza
: Moltissimo. Quella di Calia è davvero un'indagine illuminante, che mette insieme migliaia di documenti, perizie, interrogatori, che riscrive un pezzo di storia italiana, che segue una logica stringente, ma purtroppo non arriva a individuare i responsabili della morte di Mattei per mancanza di prove sufficienti. È curioso, ma scrivendo questo libro e partendo proprio dall’indagine di Calia, che noi abbiamo arricchito con ulteriori testimonianze, ci è sembrato di osservare alla lettera l'insegnamento che fu il testamento laico di Pasolini: "Io so... ma non ho le prove". La possibilità, cioè, per un intellettuale, ma anche per un cittadino che eserciti la propria coscienza critica, di mettere insieme fatti e circostanze, di maturare la consapevolezza del lato oscuro della storia italiana, e soprattutto di farne partecipe l'opinione pubblica.

Secondo Calia l'uccisione di Enrico Mattei porterebbe una firma italiana.
Giuseppe Lo Bianco
: Nella sua ricostruzione giudiziaria che ha avuto il grande merito di riscrivere, quasi da storico, una pagina oscura di storia italiana che altrimenti sarebbe stata dimenticata, Calia ha incontrato un numero incredibile di anomalie, di atti giudiziari spariti, di esiti di commissioni ministeriali stravolte nei verbali finali, di testimoni reticenti e poi generosamente ricompensati, persino di bobine Rai manomesse per farne sparire l’audio, ma anche fatti più gravi come un altro probabile attentato aereo, ai danni di un motorista di Mattei, precipitato con il figlio pochi istanti dopo il decollo dall’aeroporto di Ciampino. Tutti fatti avvenuti in Italia che lo hanno indotto, insieme all’analisi degli interessi politico-economici e delle relazioni che ruotavano attorno all’Eni, a ritenere che, a prescindere da un intervento internazionale, da lui ritenuto poco probabile, in Italia qualcuno ben introdotto negli ambienti dell’Eni e delle istituzioni si fosse mosso per fare fuori il presidente dell’Eni, depistando le indagini successive per accertare le responsabilità.

Quali prove a sostegno di questa ipotesi?
Giuseppe Lo Bianco: Le prove giudiziarie a sostegno di questa tesi, a distanza di oltre 40 anni, spesso sono coperte da prescrizione o, in qualche caso, non sono state trovate: questo non vuol dire che tutti i documenti recuperati, che compongono un quadro coerente e attendibile, perdono il loro valore storico. Ed alla luce, appunto, di questo obbiettivo (la ricostruzione storica), pur condividendo tutti i rilievi sui depistaggi e le coperture "italiane", frutto probabilmente di legami già allora inconfessabili tra apparati di Stati diversi, guardando al ruolo operativo di certi personaggi, peraltro citati nel libro, e agli interessi contingenti del mondo del petrolio internazionale, ritengo più probabile che un input francese a difesa dell’intervento di Mattei in Algeria abbia messo in moto il meccanismo omicida. Il senso del ruolo di altri apparati è racchiuso tra depistaggi e coperture, in un vero e proprio sistema a protezione di interessi economici e politici, nell’articolo 40, libro primo, titolo terzo, del codice penale: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo’’. Un articolo del codice penale che spesso spiega il ruolo omissivo di tanti apparati dello Stato nei numerosissimi misteri italiani.

Quanto all'omicidio De Mauro, appare chiarissimo dalle vostre pagine il depistaggio compiuto dai servizi per impedire che si arrivasse alla verità che sembrava a portata degli investigatori. Perchè?
Giuseppe Lo Bianco: Per impedire di individuare i responsabili della scomparsa di un giornalista che si era avvicinato moltissimo alla verità sull’incidente di Bascapè dove morì Mattei. Per soffocare una pista che avrebbe portato molto in alto, verso i vertici istituzionali citati dai testimoni ascoltati da Calia. Per evitare di riaprire un caso ormai archiviato come incidente aereo. Un caso, come ha scritto Pietro Zullino nel suo libro, con cui mezza Italia da decenni, ricatta l’altra mezza.
Chi era realmente Eugenio Cefis, che in una nota dei servizi riportata nel volume, è indicato come il vero fondatore della P2 e il "grande manovratore" del potere più oscuro?

Giuseppe Lo Bianco: Giorgio Bocca ha raccontato di avere incontrato una domenica mattina Cefis in redazione, al Giorno, a Milano, venuto a stampare personalmente alcune foto. Evidentemente non si fidava di nessuno. E del resto, foto sue in giro non se ne trovano. Cefis aveva l’ossessione della segretezza, del mistero, del silenzio. È il prototipo dell’altissimo burocrate pubblico, felpato, discreto, riservato con un nemico giurato, il comunismo, e un’unica religione: il potere, con P maiuscola. E, nel suo caso, con l’utilissimo patrimonio di rapporti atlantici cementati negli anni difficili della resistenza, sulle montagne della Val d’Ossola. Con lui alla guida di fatto dell’Eni, e poi della Montedison, si perde del tutto, a differenza di Mattei, la visione del bene comune, per lasciare il posto a una tutela di interessi di gruppo, più o meno occulti, che sarà una costante di tutta la storia italiana, fino ai giorni nostri. Su Cefis, il suo ruolo ed il suo sistema, c’è un ottimo libro di Scalfari e Turani, punto di partenza di ogni tentativo di conoscenza del personaggio.
Ancora oggi la sua figura è avvolta nel mistero e il suo ruolo nelle trame italiane poco conosciuto.
Giuseppe Lo Bianco: Probabilmente ancora oggi scontiamo l’enorme influenza di Cefis nel sistema dell’informazione italiana che ha soffocato ogni curiosità giornalistica nei suoi confronti, tranne rare e mirate eccezioni, spesso interessate: non è un caso che l’unico libro che approfondisce nel dettaglio la ramificazione delle sue società e dei suoi interessi mettendone in luce gli aspetti occulti ed illeciti sia firmato con uno pseudonimo. Nel palcoscenico della politica italiana di quegli anni, ma anche di oggi, le relazioni economiche e i loro intrecci con la politica, dovevano restare dietro le quinte, incomprensibili per i cittadini perchè scomode da raccontare nelle loro radici criminali. 
Il "sistema Cefis" che descrivete nel libro - controllo dell’informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico - appare come una terribile e tragica costante della vita politica italiana, che passando dalla P2 arriva al regime berlusconiano dei nostri giorni, svuotando di fatto la democrazia del nostro paese. Esiste davvero questo filo nero?
Sandra Rizza: Esiste eccome. D'altra parte mi pare che il primato del potere economico su quello politico, e il controllo dell'informazione, nel nostro paese, siano una questione di scottante attualità. Cefis, secondo una nota dei servizi segreti, è stato il fondatore della P2. Gelli, secondo numerose testimonianze, sarebbe stato con Ortolani, il suo successore. Oggi non è un caso che Gelli, il capo della P2, l'autore del Piano di rinascita democratica, un piano eversivo per occupare pacificamente i posti di comando del paese, e assumerne il controllo politico senza spargimenti di sangue, si permetta pubblicamente di insignire Berlusconi, il capo del governo italiano, come il suo più degno erede. Il Piano di rinascita democratica oggi è in gran parte realizzato, in parte è sul punto di realizzarsi con il più volte annunciato varo della Terza Repubblica, la Repubblica Presidenziale. Berlusconi che - lo sanno tutti - è stato un membro della P2, ora apertamente annuncia di voler cambiare la Costituzione, definendola "sovietica". E' l'Italia che purtroppo oggi è cupa, non certo la nostra ricostruzione...
Indagare su Mattei, De Mauro e Pasolini è quindi in grado di illuminare il nostro presente? E' questa la motivazione che vi ha spinto a occuparvi di queste vicende dopo aver affrontato un altro terribile mistero d'Italia qual è quello della scomparsa dell'Agenda Rossa di Paolo Borsellino?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Proprio questo. L'idea che quella che raccontiamo sembra una storia del passato ma non lo è. E' l'antefatto del misfatto italiano, del degrado politico e antropologico dell'Italia, che oggi abbiamo sotto i nostri occhi. Perchè dietro la morte di Mattei, De Mauro e ancor più dietro la tragica fine di Pasolini, ci sono probabilmente gli stessi poteri forti, le stesse cordate, a volte persino gli stessi attori del lugubre teatrino contemporaneo. Ci sono le stesse dinamiche di potere, le stesse manovre, ma soprattutto la stessa idea manipolatoria delle istituzioni, dell'opinione pubblica, dell'informazione, della democrazia, la stessa ideologia eversiva animata dalla solita comarca di logge, lobbies finanziarie, affezionati fan degli autoritarismi, picchiatori e fascisti, che con la complicità di pezzi deviati delle istituzioni, dal dopoguerra a oggi, hanno continuato e continuano a mestare nell'ombra e a condizionare in modo più o meno sotterraneo la politica italiana. Il loro obiettivo, oggi come ieri, è di piegare la democrazia al soddisfacimento degli enormi interessi economici del sistema criminale, e di garantirsi l’impunità assoluta per il passato e per il futuro.
Nell'Italia di questi giorni l'attacco alla magistratura e il tentativo di imbavagliare la libera stampa è sempre più forte. Cos'è che, come cronisti, vi scandalizza maggiormente?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Di quello che succede oggi in Italia, in verità, ci scandalizza quasi tutto. La xenofobia, le ronde, gli attacchi alla Costituzione... tra le molte strette autoritarie che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi, c'è anche il tentativo di mettere il bavaglio all'informazione. Il fatto che il critico D'Orrico sul "Magazine" del Corriere della Sera abbia definito il nostro libro ‘diffamatorio‘ solo perchè abbiamo osato raccontare un pezzo di storia italiana, andando aldilà della sentenza di archiviazione, fa parte di questo sentire. In Italia oggi c'è una gran voglia di mettere a tacere i giornalisti, quei pochi che ancora possono e vogliono inseguire una verità, sia pure scomoda. Se i critici, gli opinion leader si allineano a questo ennesimo tentativo liberticida, allora dobbiamo veramente stare all'erta. Il giornalista ha un solo limite, questo sì sacro: quello che impone di offrire al lettore una ricostruzione onesta, leale, corretta. E di non travisare mai i fatti. Ma dobbiamo fare attenzione: l’idea che un giornalista non possa più riflettere e scavare su un evento oscuro che la magistratura ha archiviato, è un’idea pericolosa e assurda, che mette il silenziatore per sempre al giornalismo investigativo. Se quest’idea fosse legittima, tutta la produzione saggistica degli ultimi venti o trent’anni, sul terrorismo, sulla P2, su piazza Fontana, sulle stragi di Brescia e di Bologna, sulle bombe dei treni, sul caso Moro, su quanto è accaduto in Sicilia dal ‘91 al ‘93, in una parola sulla storia sottotraccia di questo Paese, dovrebbe essere distrutta. Tante, sono, infatti le archiviazioni che lasciano l’amaro in bocca. Tante le assoluzioni. Proprio per mancanza di prove. E poche volte, le ricostruzioni giornalistiche o quelle degli storici coincidono con le sentenze giudiziarie, che sono spesso incomplete, parziali, insoddisfacenti, specie se riguardano i potenti. Persino sulla prima strage della Repubblica italiana, quella di Portella della Ginestra, che porta la data del 1° maggio 1947, ancora oggi gli storici si dividono in almeno tre scuole di pensiero fra loro incompatibili, andando ben aldilà della verità raggiunta dalla sentenza di Viterbo, che condannò solo la manovalanza dei pastori della banda Giuliano".
Quindi anche l'informazione ha le sue responsabilità...
Sandra Rizza
: È proprio per l'acquiescenza dell'informazione che l'Italia è arrivata a questo punto... è diventata un paese fascista e intollerante. I giornalisti dovrebbero smetterla di autocensurarsi e cominciare a scrivere quello che pensano veramente, senza appiattirsi sempre sulle verità ufficiali perchè queste, troppo spesso, sono il frutto di mediazioni inaccettabili, se non effetto di vera e propria propaganda politica. Un esempio a caso? L'errore giudiziario sugli stupratori della Caffarella, subito individuati con grande clamore di stampa in alcuni rumeni, poi risultati innocenti. Ecco un esempio di come la verità giudiziaria può servire la propaganda. La giustizia italiana purtroppo è stata spesso troppo timida con il potere, e la sete di giustizia che c'è nel nostro paese dipende proprio da questo. Dal fatto, cioè, che la storia sotterranea del potere italiano non è mai stata giudicata con chiarezza. Quando ho letto per la prima volta la sentenza di archiviazione del gip Lambertucci sono rimasta sorpresa: il gip demolisce l'inchiesta di Calia ma poi, come in preda a un oscuro senso di colpa, non può evitare di riconoscere i meriti del lavoro del pm che per primo ha riletto le numerose "anomalie" delle indagini su Mattei in chiave di evidenti "depistaggi". Il gip si sente quindi in dovere di citare l’autorevole voce di Carlo Ginzburg che distingue nettamente tra il lavoro del giudice e quello dello storico: il primo, vincolato dalla prova, il secondo legittimato a scavare ancora laddove le risposte fornite dalla giustizia non sono soddisfacenti. Perchè lo fa Lambertucci, se non perchè avverte che nella vicenda da lui archiviata vi sono lacune, interrogativi, sospetti lasciati senza risposta? "Uno storico ha il diritto di scorgere un problema", scrive Ginzburg, "laddove il giudice deciderebbe il non luogo a procedere". Il che significa che il mestiere dello storico (e quello del giornalista), non può essere mai assimilato a quello del giudice. Mi è sembrato che il gip quasi ci spronasse, con quella citazione, a fare di più, che invitasse noi che non siamo vincolati dalla prova, noi che siamo giornalisti, noi che siamo i manovali della storia, a scavare ancora laddove i dubbi sono più scottanti, dove gli interrogativi sono più dolorosi. Noi abbiamo un grande rispetto per l’intelligenza del lettore. Noi crediamo di avergli dato, in "Profondo nero", tutti gli elementi utili, e di avergli consegnato pure i nostri dubbi: si faccia il lettore, con tutti gli elementi a disposizione, la sua idea sulla storia italiana, sulla giustizia italiana. Sul "sistema Cefis". E sul delitto Pasolini. È diffamatorio, questo? Ma qual è allora il mestiere del giornalista? Il cronista deve annullarsi davanti alla presunta universalità dell'atto giudiziario? Io spero che in Italia si apra un dibattito onesto sul ruolo dell'informazione. Prima che sia troppo tardi.


(16 marzo 2009)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-filo-nero-delle-stragi/


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Curatore, Bruno Esposito

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