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martedì 9 aprile 2013

Il filo nero delle stragi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Intervista a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, autori di "Profondo Nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un'unica pista all'origine delle stragi di stato" (Chiarelettere).

di Roberto Vignoli

Molto è stato scritto sui casi Mattei, De Mauro e Pasolini. Ma la vostra inchiesta ha il merito di gettare una nuova luce indicando un'unica pista che legherebbe questi tre misteri d'Italia e le stragi di stato. Qual è questa pista e come siete giunti a questa conclusione?
Sandra Rizza
: Profondo nero ha l'ambizione di illuminare il buio che circonda tre casi giudiziari italiani rimasti senza risposta. Siamo partiti dall'inchiesta del pm Vincenzo Calia che ha riletto le numerose anomalie seguite alla morte di Mattei in chiave di "depistaggi", anche istituzionali.

Abbiamo trovato diversi punti di collegamento tra questi e l'insabbiamento dell'inchiesta sulla scomparsa di De Mauro, e ci siamo convinti che i due casi fossero profondamente intrecciati.
Rileggendo, infine, "Petrolio" di Pasolini, l'opera incompleta che si proponeva di ripercorrere proprio le guerre interne all'Eni per denunciare la natura criminogena del potere in Italia, ci è sembrato molto probabile che il romanzo postumo fosse un possibile movente della sua uccisione. La pista unica è la chiave di lettura univoca che contestualizza le tre vicende rimaste ancora senza una risposta giudiziaria soddisfacente. Si parte dalla morte di Mattei che persino Fanfani, molti anni dopo, definì come il "primo atto terroristico del nostro paese". Si finisce con l'uccisione di Pasolini all'Idroscalo, che Pelosi oggi sembra ricondurre per la prima volta a una matrice politica.
L'idea è che dietro la morte di Mattei vi sia un complotto tutto italiano (come l'ha definito Calia), orchestrato con la complicità di pezzi deviati degli apparati istituzionali e pronto a ricompattarsi ogni volta che, anche a distanza di molti anni, qualcuno minaccia di svelare il segreto di quella morte. Per questo sarebbe scomparso il giornalista De Mauro e per questo sarebbe morto lo scrittore Pasolini. De Mauro indagava sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia per conto del regista Rosi. Pasolini era ossessionato da Mattei e dal suo successore Cefis durante la stesura di "Petrolio".
Quali novità principali emergono dalla vostra ricostruzione?
Sandra Rizza:
Pelosi racconta oggi per la prima volta che Pasolini fu ucciso da una squadra di cinque persone, che definisce "picchiatori" fascisti, arrivati con una macchina e una motocicletta. Secondo la sua ricostruzione, due o tre spuntarono dal buio dell'Idroscalo e si dedicarono subito al pestaggio. Gli altri due restarono a guardare il pestaggio, forse a controllare che tutto andasse come nei piani, dopo aver immobilizzato lo stesso Pelosi, che quella sera probabilmente era stato usato come esca. L'eliminazione di Pasolini, in questa nuova ricostruzione, non appare più come l'esito di una sconclusionata lite tra omosessuali, ma come un agguato studiato a tavolino e di chiaro stampo "politico", che molto probabilmente ha una matrice "eccellente". Noi abbiamo ipotizzato che questa eliminazione fosse collegata alla scrittura di "Petrolio". "Petrolio" è un romanzo importantissimo, il primo romanzo italiano che spiega la strategia della tensione, il romanzo che contiene in nuce tutte le denunce di tipo politico che poi finiranno negli articoli del Corriere della Sera e passeranno alla storia come gli "Scritti Corsari". Sono prese di posizione "estreme" e dirompenti, che nell' Italia di quegli anni dovevano suonare particolarmente scomode e intollerabili.

Nell'intervista pubblicata nel libro Pino Pelosi aggiunge elementi fino ad ora taciuti sull'assassinio di Pasolini che sembrano rafforzare la matrice politica del delitto.
Sandra Rizza: Le nuove verità di Pelosi, che oggi fa i nomi di due dei picchiatori, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, entrambi morti di Aids, non fanno che confermare quella che da trentaquattro anni è la convinzione di gran parte dell'opinione pubblica italiana: e cioè che l'uccisione di Pasolini fu un delitto politico. Nel pestaggio di Ostia, Pelosi non poteva essere solo. Lo disse subito il perito Faustino Durante, illustrando in aula che lo stato del corpo di Pasolini, letteralmente massacrato di botte, non poteva assolutamente conciliarsi con l'aggressione di un'unica persona. Nella sentenza di primo grado, poi, il presidente del tribunale per i minorenni Carlo Alfredo Moro formulò l'imputazione parlando di un omicidio commesso da Pelosi con il concorso di ignoti. Questi ignoti non sono mai stati scoperti. E non sono mai stati scoperti perchè non sono mai stati cercati. Cos'è successo? Gli avvocati Calvi e Marazzita dicono chiaramente che la fretta di chiudere le indagini, in presenza di un reo confesso, impedì l'accertamento di molti indizi che furono totalmente trascurati. Marazzita oggi ricorda che subito dopo la morte di Pasolini gli arrivò una segnalazione anonima che indicava la presenza di un automobile, una Fiat, sul luogo del delitto. Marazzita segnalò immediatamente agli inquirenti alcuni elementi della targa: la città di provenienza, CT, e i primi tre numeri. Nessuno fece nulla. Oggi Pelosi dice che all'Idroscalo arrivarono un'automobile, una Fiat 1300 o 1500 e una moto, con cinque persone a bordo. E' incredibile la coincidenza...
Quanto è attendibile a vostro avviso la testimonianza di Pelosi?
Sandra Rizza
: Quanto sia attendibile Pelosi, è compito della magistratura accertarlo, se ne avrà voglia. Di certo, la procura di Roma avrebbe a disposizione un eccezionale strumento di riscontro, per accertare l'attendibilità di Pelosi: la tecnologia moderna che oggi è a disposizione dell'investigazione. Si potrebbe disporre la riesumazione dei corpi dei Borsellino e fare un confronto con il materiale biologico ancora presente negli abiti di Pasolini, custoditi nel museo criminale di Roma. C'è poi un altro possibile accertamento: il maresciallo Sansone, che per primo fece il nome dei Borsellino, in un rapporto archiviato nei mesi successivi alla morte di Pasolini, parla di un quarto complice sul luogo del delitto, tale Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro, pluriomicida, tuttora vivo e detenuto. Anche lui potrebbe essere sottoposto ad accertamenti di tipo biologico.

Quanto è stata importante la lunga e rigorosa indagine condotta dal Pm Vincenzo Calia (prima del vostro libro pressochè sconosciuta all'opinione pubblica) che, per quanto conclusasi giudiziariamente con un'archiviazione, mette nero su bianco molte verità inquietanti?
Sandra Rizza
: Moltissimo. Quella di Calia è davvero un'indagine illuminante, che mette insieme migliaia di documenti, perizie, interrogatori, che riscrive un pezzo di storia italiana, che segue una logica stringente, ma purtroppo non arriva a individuare i responsabili della morte di Mattei per mancanza di prove sufficienti. È curioso, ma scrivendo questo libro e partendo proprio dall’indagine di Calia, che noi abbiamo arricchito con ulteriori testimonianze, ci è sembrato di osservare alla lettera l'insegnamento che fu il testamento laico di Pasolini: "Io so... ma non ho le prove". La possibilità, cioè, per un intellettuale, ma anche per un cittadino che eserciti la propria coscienza critica, di mettere insieme fatti e circostanze, di maturare la consapevolezza del lato oscuro della storia italiana, e soprattutto di farne partecipe l'opinione pubblica.

Secondo Calia l'uccisione di Enrico Mattei porterebbe una firma italiana.
Giuseppe Lo Bianco
: Nella sua ricostruzione giudiziaria che ha avuto il grande merito di riscrivere, quasi da storico, una pagina oscura di storia italiana che altrimenti sarebbe stata dimenticata, Calia ha incontrato un numero incredibile di anomalie, di atti giudiziari spariti, di esiti di commissioni ministeriali stravolte nei verbali finali, di testimoni reticenti e poi generosamente ricompensati, persino di bobine Rai manomesse per farne sparire l’audio, ma anche fatti più gravi come un altro probabile attentato aereo, ai danni di un motorista di Mattei, precipitato con il figlio pochi istanti dopo il decollo dall’aeroporto di Ciampino. Tutti fatti avvenuti in Italia che lo hanno indotto, insieme all’analisi degli interessi politico-economici e delle relazioni che ruotavano attorno all’Eni, a ritenere che, a prescindere da un intervento internazionale, da lui ritenuto poco probabile, in Italia qualcuno ben introdotto negli ambienti dell’Eni e delle istituzioni si fosse mosso per fare fuori il presidente dell’Eni, depistando le indagini successive per accertare le responsabilità.

Quali prove a sostegno di questa ipotesi?
Giuseppe Lo Bianco: Le prove giudiziarie a sostegno di questa tesi, a distanza di oltre 40 anni, spesso sono coperte da prescrizione o, in qualche caso, non sono state trovate: questo non vuol dire che tutti i documenti recuperati, che compongono un quadro coerente e attendibile, perdono il loro valore storico. Ed alla luce, appunto, di questo obbiettivo (la ricostruzione storica), pur condividendo tutti i rilievi sui depistaggi e le coperture "italiane", frutto probabilmente di legami già allora inconfessabili tra apparati di Stati diversi, guardando al ruolo operativo di certi personaggi, peraltro citati nel libro, e agli interessi contingenti del mondo del petrolio internazionale, ritengo più probabile che un input francese a difesa dell’intervento di Mattei in Algeria abbia messo in moto il meccanismo omicida. Il senso del ruolo di altri apparati è racchiuso tra depistaggi e coperture, in un vero e proprio sistema a protezione di interessi economici e politici, nell’articolo 40, libro primo, titolo terzo, del codice penale: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo’’. Un articolo del codice penale che spesso spiega il ruolo omissivo di tanti apparati dello Stato nei numerosissimi misteri italiani.

Quanto all'omicidio De Mauro, appare chiarissimo dalle vostre pagine il depistaggio compiuto dai servizi per impedire che si arrivasse alla verità che sembrava a portata degli investigatori. Perchè?
Giuseppe Lo Bianco: Per impedire di individuare i responsabili della scomparsa di un giornalista che si era avvicinato moltissimo alla verità sull’incidente di Bascapè dove morì Mattei. Per soffocare una pista che avrebbe portato molto in alto, verso i vertici istituzionali citati dai testimoni ascoltati da Calia. Per evitare di riaprire un caso ormai archiviato come incidente aereo. Un caso, come ha scritto Pietro Zullino nel suo libro, con cui mezza Italia da decenni, ricatta l’altra mezza.
Chi era realmente Eugenio Cefis, che in una nota dei servizi riportata nel volume, è indicato come il vero fondatore della P2 e il "grande manovratore" del potere più oscuro?

Giuseppe Lo Bianco: Giorgio Bocca ha raccontato di avere incontrato una domenica mattina Cefis in redazione, al Giorno, a Milano, venuto a stampare personalmente alcune foto. Evidentemente non si fidava di nessuno. E del resto, foto sue in giro non se ne trovano. Cefis aveva l’ossessione della segretezza, del mistero, del silenzio. È il prototipo dell’altissimo burocrate pubblico, felpato, discreto, riservato con un nemico giurato, il comunismo, e un’unica religione: il potere, con P maiuscola. E, nel suo caso, con l’utilissimo patrimonio di rapporti atlantici cementati negli anni difficili della resistenza, sulle montagne della Val d’Ossola. Con lui alla guida di fatto dell’Eni, e poi della Montedison, si perde del tutto, a differenza di Mattei, la visione del bene comune, per lasciare il posto a una tutela di interessi di gruppo, più o meno occulti, che sarà una costante di tutta la storia italiana, fino ai giorni nostri. Su Cefis, il suo ruolo ed il suo sistema, c’è un ottimo libro di Scalfari e Turani, punto di partenza di ogni tentativo di conoscenza del personaggio.
Ancora oggi la sua figura è avvolta nel mistero e il suo ruolo nelle trame italiane poco conosciuto.
Giuseppe Lo Bianco: Probabilmente ancora oggi scontiamo l’enorme influenza di Cefis nel sistema dell’informazione italiana che ha soffocato ogni curiosità giornalistica nei suoi confronti, tranne rare e mirate eccezioni, spesso interessate: non è un caso che l’unico libro che approfondisce nel dettaglio la ramificazione delle sue società e dei suoi interessi mettendone in luce gli aspetti occulti ed illeciti sia firmato con uno pseudonimo. Nel palcoscenico della politica italiana di quegli anni, ma anche di oggi, le relazioni economiche e i loro intrecci con la politica, dovevano restare dietro le quinte, incomprensibili per i cittadini perchè scomode da raccontare nelle loro radici criminali. 
Il "sistema Cefis" che descrivete nel libro - controllo dell’informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico - appare come una terribile e tragica costante della vita politica italiana, che passando dalla P2 arriva al regime berlusconiano dei nostri giorni, svuotando di fatto la democrazia del nostro paese. Esiste davvero questo filo nero?
Sandra Rizza: Esiste eccome. D'altra parte mi pare che il primato del potere economico su quello politico, e il controllo dell'informazione, nel nostro paese, siano una questione di scottante attualità. Cefis, secondo una nota dei servizi segreti, è stato il fondatore della P2. Gelli, secondo numerose testimonianze, sarebbe stato con Ortolani, il suo successore. Oggi non è un caso che Gelli, il capo della P2, l'autore del Piano di rinascita democratica, un piano eversivo per occupare pacificamente i posti di comando del paese, e assumerne il controllo politico senza spargimenti di sangue, si permetta pubblicamente di insignire Berlusconi, il capo del governo italiano, come il suo più degno erede. Il Piano di rinascita democratica oggi è in gran parte realizzato, in parte è sul punto di realizzarsi con il più volte annunciato varo della Terza Repubblica, la Repubblica Presidenziale. Berlusconi che - lo sanno tutti - è stato un membro della P2, ora apertamente annuncia di voler cambiare la Costituzione, definendola "sovietica". E' l'Italia che purtroppo oggi è cupa, non certo la nostra ricostruzione...
Indagare su Mattei, De Mauro e Pasolini è quindi in grado di illuminare il nostro presente? E' questa la motivazione che vi ha spinto a occuparvi di queste vicende dopo aver affrontato un altro terribile mistero d'Italia qual è quello della scomparsa dell'Agenda Rossa di Paolo Borsellino?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Proprio questo. L'idea che quella che raccontiamo sembra una storia del passato ma non lo è. E' l'antefatto del misfatto italiano, del degrado politico e antropologico dell'Italia, che oggi abbiamo sotto i nostri occhi. Perchè dietro la morte di Mattei, De Mauro e ancor più dietro la tragica fine di Pasolini, ci sono probabilmente gli stessi poteri forti, le stesse cordate, a volte persino gli stessi attori del lugubre teatrino contemporaneo. Ci sono le stesse dinamiche di potere, le stesse manovre, ma soprattutto la stessa idea manipolatoria delle istituzioni, dell'opinione pubblica, dell'informazione, della democrazia, la stessa ideologia eversiva animata dalla solita comarca di logge, lobbies finanziarie, affezionati fan degli autoritarismi, picchiatori e fascisti, che con la complicità di pezzi deviati delle istituzioni, dal dopoguerra a oggi, hanno continuato e continuano a mestare nell'ombra e a condizionare in modo più o meno sotterraneo la politica italiana. Il loro obiettivo, oggi come ieri, è di piegare la democrazia al soddisfacimento degli enormi interessi economici del sistema criminale, e di garantirsi l’impunità assoluta per il passato e per il futuro.
Nell'Italia di questi giorni l'attacco alla magistratura e il tentativo di imbavagliare la libera stampa è sempre più forte. Cos'è che, come cronisti, vi scandalizza maggiormente?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Di quello che succede oggi in Italia, in verità, ci scandalizza quasi tutto. La xenofobia, le ronde, gli attacchi alla Costituzione... tra le molte strette autoritarie che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi, c'è anche il tentativo di mettere il bavaglio all'informazione. Il fatto che il critico D'Orrico sul "Magazine" del Corriere della Sera abbia definito il nostro libro ‘diffamatorio‘ solo perchè abbiamo osato raccontare un pezzo di storia italiana, andando aldilà della sentenza di archiviazione, fa parte di questo sentire. In Italia oggi c'è una gran voglia di mettere a tacere i giornalisti, quei pochi che ancora possono e vogliono inseguire una verità, sia pure scomoda. Se i critici, gli opinion leader si allineano a questo ennesimo tentativo liberticida, allora dobbiamo veramente stare all'erta. Il giornalista ha un solo limite, questo sì sacro: quello che impone di offrire al lettore una ricostruzione onesta, leale, corretta. E di non travisare mai i fatti. Ma dobbiamo fare attenzione: l’idea che un giornalista non possa più riflettere e scavare su un evento oscuro che la magistratura ha archiviato, è un’idea pericolosa e assurda, che mette il silenziatore per sempre al giornalismo investigativo. Se quest’idea fosse legittima, tutta la produzione saggistica degli ultimi venti o trent’anni, sul terrorismo, sulla P2, su piazza Fontana, sulle stragi di Brescia e di Bologna, sulle bombe dei treni, sul caso Moro, su quanto è accaduto in Sicilia dal ‘91 al ‘93, in una parola sulla storia sottotraccia di questo Paese, dovrebbe essere distrutta. Tante, sono, infatti le archiviazioni che lasciano l’amaro in bocca. Tante le assoluzioni. Proprio per mancanza di prove. E poche volte, le ricostruzioni giornalistiche o quelle degli storici coincidono con le sentenze giudiziarie, che sono spesso incomplete, parziali, insoddisfacenti, specie se riguardano i potenti. Persino sulla prima strage della Repubblica italiana, quella di Portella della Ginestra, che porta la data del 1° maggio 1947, ancora oggi gli storici si dividono in almeno tre scuole di pensiero fra loro incompatibili, andando ben aldilà della verità raggiunta dalla sentenza di Viterbo, che condannò solo la manovalanza dei pastori della banda Giuliano".
Quindi anche l'informazione ha le sue responsabilità...
Sandra Rizza
: È proprio per l'acquiescenza dell'informazione che l'Italia è arrivata a questo punto... è diventata un paese fascista e intollerante. I giornalisti dovrebbero smetterla di autocensurarsi e cominciare a scrivere quello che pensano veramente, senza appiattirsi sempre sulle verità ufficiali perchè queste, troppo spesso, sono il frutto di mediazioni inaccettabili, se non effetto di vera e propria propaganda politica. Un esempio a caso? L'errore giudiziario sugli stupratori della Caffarella, subito individuati con grande clamore di stampa in alcuni rumeni, poi risultati innocenti. Ecco un esempio di come la verità giudiziaria può servire la propaganda. La giustizia italiana purtroppo è stata spesso troppo timida con il potere, e la sete di giustizia che c'è nel nostro paese dipende proprio da questo. Dal fatto, cioè, che la storia sotterranea del potere italiano non è mai stata giudicata con chiarezza. Quando ho letto per la prima volta la sentenza di archiviazione del gip Lambertucci sono rimasta sorpresa: il gip demolisce l'inchiesta di Calia ma poi, come in preda a un oscuro senso di colpa, non può evitare di riconoscere i meriti del lavoro del pm che per primo ha riletto le numerose "anomalie" delle indagini su Mattei in chiave di evidenti "depistaggi". Il gip si sente quindi in dovere di citare l’autorevole voce di Carlo Ginzburg che distingue nettamente tra il lavoro del giudice e quello dello storico: il primo, vincolato dalla prova, il secondo legittimato a scavare ancora laddove le risposte fornite dalla giustizia non sono soddisfacenti. Perchè lo fa Lambertucci, se non perchè avverte che nella vicenda da lui archiviata vi sono lacune, interrogativi, sospetti lasciati senza risposta? "Uno storico ha il diritto di scorgere un problema", scrive Ginzburg, "laddove il giudice deciderebbe il non luogo a procedere". Il che significa che il mestiere dello storico (e quello del giornalista), non può essere mai assimilato a quello del giudice. Mi è sembrato che il gip quasi ci spronasse, con quella citazione, a fare di più, che invitasse noi che non siamo vincolati dalla prova, noi che siamo giornalisti, noi che siamo i manovali della storia, a scavare ancora laddove i dubbi sono più scottanti, dove gli interrogativi sono più dolorosi. Noi abbiamo un grande rispetto per l’intelligenza del lettore. Noi crediamo di avergli dato, in "Profondo nero", tutti gli elementi utili, e di avergli consegnato pure i nostri dubbi: si faccia il lettore, con tutti gli elementi a disposizione, la sua idea sulla storia italiana, sulla giustizia italiana. Sul "sistema Cefis". E sul delitto Pasolini. È diffamatorio, questo? Ma qual è allora il mestiere del giornalista? Il cronista deve annullarsi davanti alla presunta universalità dell'atto giudiziario? Io spero che in Italia si apra un dibattito onesto sul ruolo dell'informazione. Prima che sia troppo tardi.


(16 marzo 2009)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-filo-nero-delle-stragi/


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Curatore, Bruno Esposito

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