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mercoledì 7 aprile 2021

Il mio profeta Pier Paolo Pasolini - Lettere di un'amicizia a distanza - Cesare Padovani

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Il mio profeta Pier Paolo Pasolini 
Lettere di un'amicizia a distanza
Cesare Padovani


Mi sto chiedendo se sia possibile parlare (o scrivere) di Pier Paolo Pasolini senza il tono dell’ufficialità, o senza il cinismo indotto dell’inchiesta, oppure senza quell’indelicato gusto culturale di fare degli excursus nella vita interiore del suo essere uomo. La credo questa un’operazione difficile, data la gara di “prodotti” che recentemente hanno invaso il mercato delle commemorazioni, delle scoperte delle “prove” e del pettegolezzo. Operazione difficile, in quanto la cultura

dell’ascolto prudente, attenta ai messaggi importanti, è sopraffatta dall’abitudine allo scandalo. Un grande uomo di cultura, quale appunto Pier Paolo Pasolini, che scrive ad un quindicenne non desta alcuna attenzione (non fa cronaca!), a meno che non ci sia sotto qualcosa… Ma che cosa?

Un lampo di luce, tra le nebbie della Padania

Ero un quindicenne, vivevo in campagna a otto chilometri dal Po, in quella landa padana che ti fascia di nebbia corpo e pensieri. Eppure, in quel grigiore senza tempo, dipingevo, balbettavo poesie e sognavo. Sognavo soprattutto di poter fare un giorno il liceo, e nell’attesa mio padre mi aprì in paese un distributore di benzina. Qualche giornale locale di tanto in tanto mi pubblicava ingenue poesie in quel dialetto veronese imbastardito dal confinante territorio mantovano. Crescevo così senza confronti, coccolato dagli elogi paesani, quando un mattina di maggio del ’53 ricevetti questa lettera, da un certo Pier Paolo Pasolini a me assolutamente sconosciuto.
Roma, 16 maggio 1953
Caro Cesarino,
scusa se intervengo così, sconosciuto e irrichiesto, nella tua vita, diciamo nella tua vita letteraria. Ho finito in questo momento di leggere (per caso, perché non leggo mai questa roba) un articolo che ti riguarda su “Oggi”: alquanto patetico, a dire il vero, e un po’ umiliante per te. Tu cerca di essere inattaccabile dal male di questa gente che per aumentare la tiratura di un giornale sarebbe capace di qualsiasi cosa, anche di fare (come nel tuo caso) degli indelicatissimi excursus in una vita interiore, approfittando del fatto ch’è la vita interiore di un ragazzo… Bada che la tua posizione è pericolosissima: non c’è niente di peggio di divenire subito della “merce”. Se tu dipingi e scrivi poesie sul serio, per una ragione profonda e non solo per consolarti delle tue disavventure fisiche (o magari, come dicono, per ragioni terapeutiche…), sii geloso di quello che fai, abbine un assoluto pudore: anche perché non sei che un ragazzo, e i tuoi disegni, le tue poesie non possono essere che il prodotto di un ragazzo. Eccettuati, ch’io sappia, Rimbaud e Mozart, tutti i ragazzi prodigio hanno avuto una mediocre riuscita, e io penso, appunto, che l’unico modo per preservartene è chiuderti in te stesso, e lavorare, ma lavorare sul serio.
Non era per dirti queste cose, però, che ti scritto: ho voluto mettermi in contatto con te solo perché ho visto nel famigerato articolo che scrivi delle poesie in dialetto. Ciò m’incuriosisce tremendamente. Devi sapere che anche io a diciotto anni ho cominciato a scrivere dei versi in dialetto (friulano) (ma anch’io avevo cominciato a scrivere versi prestissimo, a sette anni: la mia malattia non era fisica né nervosa, ma psicologica); ho poi continuato a lavorare cercando, oltre che esprimermi, di capirmi. Sono passati una dozzina d’anni e ora, laureato in lettere e insegnante (insegno a dei ragazzi come te) sono nel pieno del mio lavoro letterario. Te ne mando alcuni documenti: non posso mandarti una grossa “Antologia della poesia dialettale del ’900″, uscita presso l’editore Guanda di Parma quest’anno, perché non ne ho più che una copia per me.
Tutte queste cose te le scrivo perché tu sappia regolarti sul mio conto, e mi risponda sinceramente: perché scrivi in dialetto? o se proprio il perché non lo sai (è un difficile atto critico il saperlo) perché ami il dialetto? Ti sarei molto grato se tu mi rispondessi e mi mandassi magari qualche saggio delle tue poesie dialettali, su cui io potrei darti un giudizio assolutamente privo delle sdolcinature giornalistiche che ti dicevo, e darti magari qualche consiglio di tecnica o di lettura. Una stretta di mano dal tuo  
Pier Paolo Pasolini.
Fu questo il primo scossone della mia vita, uno scossone benefico ma comunque scossone, e ci pensai a lungo prima di rispondere. Quando tutti ti ammirano e ti elogiano, padre madre sorelle amici, è difficile sapere chi sei: lo specchio allora serve solo per ammirarti come nelle favole, e non ti mostra nessun difetto. E quella prima lettera di Pasolini è riuscita a rompere un equilibrio esistenziale che nessun amore paterno o materno avrebbe potuto ricomporre. Ora ho capito! mi ripetevo, come esclama Agave nelle Baccanti di Euripide allorché s’accorge d’aver ucciso il figlio Penteo, Ora ho capito! : occorre impegnarsi, e seriamente, occorre liberarsi dalle ipocrisie, dalle adulazioni, dal pericolo di diventare “merce” di sdolcinature giornalistiche, occorre studiare, conoscere, esplorare, confrontarsi. Occorre fare sul serio. Dieci anni più tardi, mi ribadiva ancora: Ricorda che non avrai più tanto desiderio di sapere e di amare come in questi anni e devi selvaggiamente approfittarne, leggere e imparare come un pazzo.
E ancora: Credo di capire che in te prevarrà la vocazione critica su quella poetica: forse per quel tanto di coatto distacco dalla vita che la tua vita ti impone… (21 febbraio ’64). Quel distacco dalle cose che rende sacra la vita, o che sa dissacrarla senza perderla.
E così risposi a quel professor Pier Paolo Pasolini ringraziandolo di cuore.

Scavare nel cuore, e nella memoria, in dialetto friulano…

Quando, nell’autunno dell’85, Laura Betti mi invitò a casa sua a Roma per saperne di più sulla corrispondenza tra me e Pier Paolo, mi propose di mettermi in contatto con Nico Naldini perché stava curando per l’Einaudi il voluminoso epistolario di Pasolini che comprendeva un arco di vita, e di retroscena culturali, dal ’40 al ’75. Né allora né in seguito si trovarono le lettere che io per anni ho inviato a lui; ma questo non mi rattrista affatto perché, come tutti gli adolescenti di questo mondo fatto di “allegre miserie”, avevo anch’io trovato il mio Profeta. Un Profeta con cui poter dialogare idealmente, anche da lontano, e soprattutto un Profeta che si riconosceva in me.
All’interno della stessa lettera del 16 maggio c’era un piccolo libretto di poesie in dialetto friulano, Tal cour di un frut (Nel cuore di un fanciullo), con questa dedica: A Cesarino Padovani come a un antico me stesso miracolosamente nuovo, coi più affettuosi auguri del suo Pier Paolo Pasolini.
A fine luglio dello stesso anno, ecco, con la seconda lettera Pasolini mi si rivela padre culturale; e solo ora, a vent’anni dalla sua morte, mi rendo conto quanto il suo essermi Profeta e la sua capacità di anticipare eventi ideologie costumi e storia, abbiano un senso profondo, e non solo per me.
Roma, 31 luglio I953
Caro Cesare, grazie per la tua intelligente lettera, e perdona il ritardo con cui ti rispondo: sono affogato nel lavoro, e invidio le tue vacanze (tanto più che anch’io, alla tua età, venivo a trascorrere le vacanze estive da quelle parti, a Riccione: stiamo percorrendo la stessa strada…). Tu però non badare ai miei ritardi, e, sempre se ne hai voglia, rispondimi come questi ritardi non ci fossero: tu hai tempo, beato te! Le due rispostine al “perché” che ti avevo inopinatamente posto, benché — è naturale — agnostiche, sono assai fini e intelligenti nella loro semplicità. Chiedere a un ragazzo come te perché scrive versi è come chiedere alla pioggia perché piova o a un fiore perché odori. Si tratta di un fatto irrazionale, e prima di poter definirlo razionalmente… La prosa della tua lettera mi piace assai di più dei tuoi versi dialettali, che, a parte una certa goffaggine e ingenuità infantile (che potrebbe di per sé andare benissimo) rivelano la presenza di influenze, chiamiamole letterarie, non buone. C’è implicitamente, dietro le tue parole, l’opinione errata che il dialetto debba servire a trasporti affettivi convenzionali e senza mordente, conditi da un’obbligatoria intonazione comica. Cosa che avrà entusiasmato i nuovi veronesi di “Musa triveneta”. Essi sono dei dilettanti e dei superficiali: magari simpatici come persone, ma molto impreparati e faciloni come letterati. Tu hai probabilmente le doti per metterli per una strada più seria. E, a questo proposito, ti consiglio senz’altro il Ginnasio e il Liceo: le difficoltà le supererai, non temere.
Son molto pochi i ragazzi che scrivono come scrivi tu, lo so per amara e scoraggiante esperienza. Ricorda comunque che non c’è niente di meglio che lottare con le “difficoltà”, e che la facilità, in generale, è la peggior nemica della poesia e anche della buona letteratura (se queste son cose che ti stanno veramente a cuore). Affettuosi saluti * dal tuo  
Pier Paolo Pasolini
* Anche per la tua mamma.
P.S. Andrò molto volentieri a visitare la tua mostra questo settembre. È incredibile, anch’io ho cominciato a dipingere alla tua età, e se non lo faccio più è perché non ho tempo… Dimenticavo di dirti che lì a Cervia ci sarà probabilmente in questi giorni l’on. Aldo Spallicci che è un buon poeta dialettale romagnolo; potresti cercar di vederlo e parlare con lui, presentandoti magari a mio nome.

Gli intellettuali italiani, ovvero: schierarsi sempre con la retorica più forte

La vita è un impegno, a volte gravoso, ma solo così ha un senso.

Ricorda comunque che non c’è niente di meglio che lottare con le “difficoltà”, e che la facilità è la peggior nemica della poesia : sono frasi che scolpiscono e, impresse nell’animo di un giovane, vi rimangono per sempre. Molto più incisive, a causa del dialogo confidenziale, di quanto furono quelle che rilessi, dopo qualche anno, nella poesia Al principe de Le ceneri di Gramsci: “Per essere poeti bisogna avere molto tempo; / ore e ore di solitudine sono il solo modo / perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono, vizio, libertà, per dare stile al caos. / Io tempo ne ho poco; per colpa della morte / che viene avanti, al tramonto della gioventù. / Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano / che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.”
È la colpa anche di questo nostro mondo umano che ci fa soffrire e ci rende al tempo stesso complici: “Ah, essere diverso — in un mondo che pure / è in colpa — significa non essere innocente…” , dirà ne La religione del mio tempo.
Così come è vero anche che occorre incessantemente, a costo di sofferenze, mettersi in discussione. Ecco: mettersi in discussione! Un coraggio civile che subito, o reciprocamente, si traduce in non-scelta ideologica. E nel bel mezzo degli anni ’60 era pressoché incomprensibile dichiararsi apertamente e non schierarsi, essere febbrilmente entusiasta delle proprie scoperte e soffrire delle proprie miserie e delle miserie del mondo. Così come diventava coraggioso — o pazzesco! — condannare la retorica di quel neorealismo antifascista che, soltanto cambiando il soggetto, sarebbe potuto diventare l’anacronistica apologia del suo rivale.
“Occorre un Nuovo Realismo”, tuonò Pasolini in quella primavera del ’64 al teatro Manzoni di Milano. Con non poche difficoltà, andai a sentirlo, senza capire fino in fondo, e al di là dello stile , quanto nella scelta di quel Nuovo Realismo ci fosse una scelta ben più radicale, che investe corpo e mente, l’esistenza intera, l’impegno dell’intellettuale ma anche la necessità di un cambiamento di rotta dei modelli politici. Una nuova lettura di sé e del mondo, insomma. Un’analisi che non gli darà più tregua, né quel tempo indispensabile alla poesia, il tempo della tregua, il tempo delle certezze: tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo canta con gioia disperata ne Le ceneri di Gramsci.
Gli strinsi calorosamente la mano, all’uscita, annunciandogli che avevo deciso di fare la mia tesi di laurea sulla sua “poetica”, presso la cattedra di Luciano Anceschi. Mi incoraggiò, mi parlò con affetto e con rispetto, dandomi alcuni preziosi consigli di lettura; e ci congedammo con l’impegno da parte sua di essere presente a Bologna alla discussione della mia tesi.
Ma questo non accadde; e qualche tempo dopo ricevetti queste poche righe frettolose:
[Roma, dicembre 1965]
La tua tesi era molto bella (1): ma non mancherà occasione di parlarne, prima o poi, meglio che in questo affannato biglietto. Vorrei poterne parlare a Legnago: ma anche questa volta devo essere negativo. È proprio “Uccellacci e uccellini” che mi occupa (deve essere pronto per la fine di gennaio, e non potrò staccarmi un giorno da moviole e microfoni). Sto scrivendo poi tanto, nottetempo e nelle mattine domenicali. Ti abbraccio con molto affetto, caro Cesare (e buon lavoro — ricordo come molto poetici i primi anni d’insegnamento, subito dopo la laurea), tuo
Pier Paolo Pasolini
1) La tesi di laurea presentata nel 1965 da Padovani all’Università di Bologna (relatori: Luciano Anceschi e Renato Barilli) è intitolata La poetica di Pier Paolo Pasolini.

Leggere e imparare come un pazzo

Stava dunque “tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo”, quella tregua che egli non ebbe e non cercò mai. La forza della sua tensione culturale, costantemente al punto in cui si rinnova il mondo , non gli concederà mai questa tregua, queste certezze, o questo “pensiero forte”. Non è più tempo di definizioni, perché “è morta un’epoca della nostra esistenza” (La religione del mio tempo) . Ecco il significato profondo, perché storico e personale insieme, di essere costantemente teso, o dilaniato, tra la Passione e l’Ideologia, tra emozioni e ragioni, tra abbandoni e impegni. Mi sento “con te e contro te… nel buio delle viscere”, canta a Gramsci ne Le ceneri . È lo stesso odio-amore che prova per i derelitti, per gli emarginati, per quel proletariato che va scomparendo, o che va corrompendosi, e soprattutto per quei ‘nuovi’ giovani che, ora, comprende nella sua Abiura :
[Timbro postale: Roma, 21 febbraio 1964]
Caro Cesare, ti ringrazio tanto per la tua lettera, che non esigendo da me, una volta tanto, una risposta immediata, ne esige in realtà una così piena e rifinita, come raramente mi è capitato nella mia esagitata vita di relazione.
Ti chiedo scusa se invece, per la burrascosa mancanza di tempo umano della mia professione, di uomo di cinema, mi limito a ringraziarti. Sono veramente felice e orgoglioso di avere sentito in te la “buona qualità” culturale in un momento della tua vita in cui bisognava essere un po’ profeti per farlo… Ti ho lasciato ragazzo, e ti ritrovo giovane uomo, con tutta la ricchezza della gioventù. Sei ricco, investi, adesso, bene la tua ricchezza. Ricorda che non avrai più tanto desiderio di sapere e di amare come in questi anni: e devi selvaggiamente approfittarne, leggere e imparare come un pazzo. Credo di capire che in te prevarrà la vocazione critica su quella poetica: forse per quel tanto di coatto distacco dalla vita che la tua vita ti impone (non considerare crudele questa sincerità da traumatizzato a traumatizzato), che è un distacco pieno di figliale amore quello che rende sacra la vita, o che sa dissacrarla senza perderla.
Scusami queste generiche parole, scritte in fretta, e ricevi un abbraccio affettuoso dal tuo 
Pier Paolo Pasolini

Immagine articolo Fucine MuteL’abbraccio affettuoso ha il sapore di un addio, un addio a un se stesso ma anche a una irritrovabile gioventù che sa rifiutare la compassione. La rabbia, la sua rabbia ma anche la mia e dei pochi che non accettano il sorriso ipocrita della comprensione, gli fa scolpire questa estrema memoria: E, come un giovane, senza pietà / o pudore, io non nascondo questo mio stato: non avrò pace, mai.


Da “La Repubblica”

Fonte:
http://www.fucinemute.it/1999/07/il-mio-profeta-pier-paolo-pasolini/


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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