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lunedì 14 ottobre 2013

Sorridono, e pare che non sappiano far altro che ridere e accettare la vita come festa

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Sorridono, e pare che non sappiano far altro che ridere e accettare la vita come festa



di Vito Copertino

Con “l'autenticità”, che distrugge “l'inautenticità”, Pasolini descrive gli aspetti ibridi delle società africane. Da un lato l'arcaismo locale e la contaminazione consumistica occidentale. Dall'altro la felicità della vita, riflessa nei volti degli africani, pur impegnati nelle dure attività quotidiane, nei villaggi di paglia e fango, come per le strade enormi delle città. Volti che “sorridono, e pare che non sappiano far altro che ridere e accettare la vita come una festa”.

1. Arcaismo, contaminazione, felicità della vita

Arcaismo e felicità della vita, ma anche contaminazione occidentale: li ritrovo nei brani di una mia esperienza diretta. Li riprendo da un mio viaggio in Angola, per entrare così nella riflessione sul “terzomondismo” di Pasolini. Non un'analisi politica, ma una narrazione. Non è la Tanzania né l'Uganda, conosciute da Pasolini, ma gli assomiglia.

Rivivo l'Angola, quella che ho conosciuto nel 2003, alla fine della lunga guerra civile, durata fin dalla liberazione dal Portogallo trent'anni prima, e causata da fazioni in lotta interna alimentata dalla guerra fredda, per giungere alla situazione odierna, dominata dallo sfruttamento del capitale internazionale. Rivedo l'Angola, oggi, dell'intervento umanitario e sanitario delle organizzazioni non governative, un paese devastato dalla malaria, dall'aids, carestia e sete, povertà e morte, mine antiuomo, traffici illegali, commercio di diamanti, petrolio, armi. Da una parte rileggo la crudezza dei fatti, attraverso le atrocità delle guerre tribali, la dignitosa povertà dei mezzi per sopravvivere, la pienezza delle credenze e delle tradizioni religiose, in cui riconosco la sofferenza, il bisogno sofferto di vita. Dall'altra ritrovo lo sguardo estasiato del poeta, che in ogni angolo, in ogni volto, in ogni danza riconosce la felicità della vita.

2. L'Africa autentica

Giunsi in Angola nel dicembre del 2003. L'impatto immediato con la città di Luanda, fuori dell'aeroporto, fu con una povertà attiva e dignitosa: folle di persone per strada che provavano a guadagnare qualcosa per sopravvivere, vendendo di tutto, in un vero supermercato all'aperto, che insisteva sugli automobilisti incolonnati nel traffico. Fui colpito al cuore, alla vista di una giovane donna, senza piedi, che si muoveva agilmente sulle ginocchia e nella polvere, per elemosinare qualcosa ai passanti. Il traffico, confuso ma silenzioso, si svolgeva tra macerie e rifiuti urbani.

Macerie, spazzatura, fango, rivoli d'acqua sporca, buche, strade impolverate: è la nostra vergogna. Altro che perseguire la protezione dei beni universali dell'umanità: il vero patrimonio di umanità da salvaguardare è qui. Qui tra i fuochi, il fumo, la polvere, il fango, le macerie, le carcasse d'auto lungo i bordi della strada: un uomo rovistava nella spazzatura, alla ricerca di qualche rifiuto alimentare, e addentava un residuo di mango. Soprattutto, per strada, erano giovani uomini e giovani donne: non era ancora l'ora dei bambini, lo sarebbe stata più tardi; non era l'ora degli anziani, che qui in Angola non sono numerosi, non arrivano ad invecchiare.

Al mattino, lasciammo Luanda ancora al buio e addormentata, per un viaggio difficile verso il nord, poverissimo, verso Uige, verso Damba. Appena fuori dal centro e prima dell'alba, la strada ai bordi si fece piena di giovani angolani che venivano a piedi dalle periferie povere, a cercare un lavoro nella capitale, uno qualunque, in mezzo ai rifiuti dispersi lungo la strada e al fumo di fuochi per sbarazzarsene. Lungo chilometri e chilometri, uomini vigorosi andavano verso la città e tenaci donne giovanissime, poco più che bimbe, trasportavano sul dorso, stretti in un drappo, i figli di pochi giorni di vita e, in equilibrio sulla testa, ceste e conche cariche di poveri alimenti per la vendita. La povertà bussava alle porte della città metropolitana, con le sue contraddizioni e le sue miserie.

Era l'Africa autentica: la stessa dell'Orestiade africana, tra le più belle opere di Pasolini, un'Africa per niente esotica e perciò misteriosa, con i suoi vasti paesaggi da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati da un'umanità vera, contadina e primitiva.

Miseri villaggi e paesi poveri lungo il percorso accidentato: documentarli nei minimi dettagli è una dichiarazione d'amore. Raccontarli per rendere visibile la contraddizione tra i connotati primitivi, ancestrali, dell'Africa e la tensione dei suoi popoli, tutta nutrita di immaginario occidentale, verso la liberazione e l'emancipazione dal bisogno. Come ieri, così oggi, quarant'anni dopo. In più oggi, attraverso la narrazione, l'intensità delle emozioni e delle riflessioni, si capisce che la globalizzazione, nei suoi aspetti più pervasivi e a volte nefasti, investe questo mondo senza aiutarne il riscatto, ma soggiogandone l'immaginario, sussunto nei modelli di benessere dell'occidente.

3. I mercati all'aperto

In ogni centro abitato dell'Angola, in ogni quartiere delle città, c'è un mercato di merce povera, un suq all'aperto, con i venditori accovacciati per terra o seduti su bassi sgabelli, in mezzo a una grande confusione e miseria. È una scena aperta di tettoie provvisorie, quattro pali di legno e copertura in ferro e ruggine, con una folla di venditori e venditrici, mamme con bambini attaccati ai grossi seni o aggrappati alle loro schiene. Sono giovani donne e uomini, che vendono merce sparsa per terra tra la polvere e le mosche, oppure esposta su provvisori banchetti, alimenti poveri e suppellettili di prima necessità.

Il mercato all'aperto era proprio al centro di Uige, un mercato prevalentemente alimentare, con farina di mandjoca esposta in vendita in sacchi aperti all'invasione di mosconi e vespe. La carne era venduta a grossi pezzi sotto il sole. Pesce d'ogni tipo era esposto al caldo di una giornata torrida. Il riso e lo zucchero sparsi per terra.

Sui banchetti dei “curanderi” si vendevano anche erbe medicinali e altri espedienti curativi. Un giovane angolano ci indicò una radice, un tubero, in vendita, dicendo di proprietà afrodisiache e di riattivazione sessuale, e ce la segnalava forse perché ci vedeva vecchi e canuti, certo al di sopra della loro speranza di vita.

4. La salute

Qui, come in altri paesi africani, hanno successo le farmacie ambulanti, le bancarelle di medicinali provenienti da contrabbando, frodi, contraffazioni. Proliferano anche studi medici privati, informali, gestiti da infermieri incolti e sono anche frequenti i parti in casa aiutati da improvvisate ostetriche.

Non è soltanto l'inadeguata copertura sanitaria del mondo rurale, tipica di molti altri paesi dell'Africa, e con essa l'insufficienza dei mezzi umani e finanziari, la scarsa formazione sanitaria. C'è anche la cultura locale, ci sono le consuetudini, le abitudini, i riti, le pratiche popolari, c'è l'ignoranza della popolazione che dissuade i malati dal recarsi in tempo utile in ospedale o in altre strutture sanitarie, preferendo il ricorso a trattamenti tradizionali o a quelli dei guaritori. Ma c'è soprattutto la sfiducia nei confronti di una sanità, quella della medicina occidentale, avvertita come estranea e appartenente ad un mondo colonizzatore.

Dopo cena, vennero a cercare il medico dell'ospedale di Damba, perché una donna non stava bene e, dopo aver provato con un guaritore e false medicine, curanderos per ingenui e disperati, e precarie “cliniche private”, finalmente s'erano rivolti alle cure dell'ospedale pubblico. Andando in giro tra le baracche dei villaggi, vi avevo scorto un “posto di salute”, dove improvvisati curatori, in ambienti bui e malsani, vendevano medicinali o fingevano di curare ammalati disposti ad accettare un qualunque medicamento. Dunque nell'Africa angolana esistono davvero le cliniche gestite da infermieri privati, che approfittano del dolore e della disperazione. All'ospedale di Uige, mi trattenni con un medico per saperne di più. E seppi di curanderos presenti dovunque nel paese, di farmaci biologici venduti ai mercati all'aperto sui banchi di erboristeria, di pratiche demoniache pericolose e di esorcismi, il cui significato neppure i “valutatori” dei progetti umanitari inviati da Bruxelles volevano che gli operatori di sanità ignorassero.

Tanzania, Uganda, Angola, Mozambico, sono oggi gli scenari dell'intervento umanitario italiano ed europeo. Un intervento del tutto inefficace. Combattere gli anofeli della malaria, isolarli, introdurre nel loro habitat anofeli sani generati in laboratorio, bonificare le zone umide, curare la malattia: a quando l'inizio di un impegno serio da parte dell'umanità ricca e più fortunata? Quando la salute di tanti esseri umani sfortunati diventerà una priorità per i grandi centri del benessere mondiale?

5. Il pianto straziante dei bambini

Il medico del Cuamm, che all'ospedale di Uige lavorava nel reparto di maternità e servizio pediatrico, ci descrisse la drammatica realtà di duecentocinquanta bambini ricoverati ogni giorno, in una struttura senza mezzi dove morivano cinque bambini al giorno. Ma, ad uccidere, non sono soltanto le patologie specifiche, su cui si focalizza l'attenzione dei media. Ad uccidere è una complessiva situazione sanitaria che resta catastrofica, perché insufficienti sono i progressi compiuti negli ultimi anni.

Straziante, arrivava quel mattino dall'ospedale il pianto dei bambini, che sovrastava il canto lontano dei galli di tutte le mattine e quello delle cicale di tutte le sere. Anche a sera, come al mattino, come il giorno prima, ci sarebbe stato, fuori, il pianto disperato di un bambino affamato, di un bambino ammalato. E non erano i capricci dei bimbi occidentali!

Alle prime luci dell'alba, cominciavano ad arrivare all'ospedale di Damba le donne, portando sulla testa i vassoi pieni di vivande o di biancheria pulita. Erano le mamme dei piccoli pazienti, o le pazienti stesse, giovani con il loro carico, il loro minuto bagaglio per il ricovero, talvolta portando il bambino sul dorso, avvolto in un drappo colorato. Avevano camminato tutta la notte.

Nell'atrio esterno dell'ospedale, sotto una tettoia improvvisata, c'era la cucina, dove la gran parte delle pazienti ricoverate si cucinavano da sé il pasto quotidiano su fornelli, per terra e all'aperto. Donne e bambini si muovevano davanti ai fornelli sui carboni, e si davano da fare a cucinare qualcosa in uno stato di degrado che faceva spavento. All'aperto, c'era una fontanina d'acqua, l'unica risorsa idrica esistente, aperta all'erogazione solo un'ora al giorno. Con secchi e bacinelle, le stesse pazienti raccoglievano l'acqua per portarla all'interno dell'ospedale.

Eravamo a cena, povera e frugale come sempre, quando un infermiere venne a cercare il medico, perché un bimbo ammalato di aids stava molto male. Emergenza infinita. Il Cuamm non è soltanto l'organizzazione non governativa, il collegio che ha ospitato centinaia di studenti africani, né soltanto ha inviato nei paesi in via di sviluppo numerosi medici italiani, è soprattutto un organismo vivo che ha maturato sul posto una conoscenza unica in materia di sanità pubblica nel mondo del sottosviluppo. Sono medici e infermieri che “vivono dentro”.

Senza alcuna esitazione, il medico corse in ospedale per le impossibili cure, improbabili per i mezzi sanitari qui disponibili, dove non c'è diritto alla salute, non c'è diritto alla vita.

E così, poco prima di mezzanotte, quando eravamo già a letto, qualcuno bussò alla nostra porta, per comunicarci che il piccolo ammalato era morto. Aveva meno di un anno. Era la notte di natale. In tutto il mondo cattolico, nello stesso momento, si celebrava la nascita di un bimbo più famoso, il salvatore, che doveva portare la luce e la salvezza all'umanità.

Si sentivano, nel silenzioso e buio isolamento in cui vivevamo, i canti natalizi provenienti dalla chiesa lontana, in cui si stava celebrando la messa: i padri cappuccini avevano insistito a dare un segnale di rinascita, in questa prima notte di natale, la prima dopo quella che sembrava la vera fine della guerra civile.

6. Le tradizioni religiose, i canti, le danze, la felicità della vita

Pienezza delle credenze e delle tradizioni religiose: ero nella chiesa cattolica adiacente alla casa del medico italiano, alle sei del mattino colma di gente venuta per la messa domenicale, con canti e danze, di una dolcezza emozionante. La fede di un popolo che non è stato fortunato, vittima dei signori della guerra, un popolo povero e ammalato. Fu festa tutta la mattina, fuori e dentro la chiesa di San Francesco, con le messe celebrate in sequenza, alle nove quella dei bambini e più tardi quella dei giovani e delle giovani. La felicità della vita non abbandona i volti degli africani, volti che sorridono e accettano la vita come una festa.

Nell'aria c'era allegria, musica, partecipazione. Tutti avevano gli abiti puliti della festa. E' davvero incredibile il livello di pulizia che si riesce a mantenere nella scarsità d'acqua e nell'assenza di infrastrutture idriche. La chiesa era gremita di Angolani vestiti a festa, gli uomini in camicie bianchissime, anche in jeans, qualcuno più grande anche in cravatta, sempre pulitissimi e ben curati, le ragazze con i capelli intrecciati in mille modi diversi, con vestiti dai colori vivaci.

E poi a Capodanno. Giornata di pace e di speranza. Alle 10, la messa celebrata dal vescovo di Uige, un uomo coraggioso, il cui ruolo era stato fondamentale nel conseguire la tregua nell'ultimo conflitto civile. Davanti ad una grande effigie a colori di “Gesù, principe della pace”, si celebrò con canti e percussioni una messa gioiosa e molto partecipata. Durante il rito delle offerte, mi colpì la totale partecipazione dei fedeli che lasciavano i banchi per mettersi in fila a versare qualche spicciolo in un cesto proprio davanti all'altare. I banchi si svuotarono letteralmente, e rimasero seduti solo i bimbi più piccoli.

Alla fine della messa il vescovo salutò, con manifesta riconoscenza, le autorità militari che riempivano, in divisa, le prime file dei banchi. Salutò con una stretta di mano coloro che avevano contribuito a raggiungere la pace tra le parti in conflitto, quel giorno significativamente uniti per il primo giorno dell'anno. Dopo una lunga guerra civile, erano stati due generali a firmare il trattato di pace, i signori della guerra, ma poi la vera pace la costruiscono migliaia di persone semplici, i sopravvissuti alla guerra, i reduci, i rifugiati che tornano.

Tornavano a piedi. Gli Angolani sono un popolo di camminatori, attivi fin dalle prime luci del giorno, fieri nella ricerca di un lavoro, di alimenti, materiale e merce da vendere o da rivendere. E poi, hanno la musica nel sangue. Li vidi cantare, ascoltare musica tutto il giorno, danzare ritmi popolari con grazia ed eleganza, al suono di una bella canzone, un bel rap angolano, un inno alla felice “angolanità”.

7. L'estrazione di petrolio e il traffico di diamanti

Era dal 1963 che Pasolini aveva pensato di girare un film sulle trasformazioni in atto nell'Africa contemporanea. Ma, alle soglie degli anni Settanta, l'Africa era già cambiata, e forse aveva in parte già mutato il suo volto, occidentalizzandosi in qualche misura.

Ho colto dell'Angola due diverse immagini: quella dell'interno, più autentica, più radicata nelle tradizioni africane e quella della costa, meticcia, colta, che ha vissuto più a lungo sotto la dominazione coloniale portoghese.

Oggi, nei primi anni del terzo millennio, Luanda è capitale metropolitana e comincia ad assumere tutti i difetti della globalizzazione economica. Un terzo degli Angolani ormai vive nella capitale, attratti dagli irrefrenabili processi di urbanizzazione: sono quasi cinque milioni di persone, dei quattordici milioni che vivono in tutto il paese, dopo il rientro di tanti rifugiati, scappati via durante gli scontri della guerra interna.

Qui c'è il petrolio. Enormi investimenti vengono destinati allo sfruttamento delle risorse petrolifere, i cui proventi vengono spesi in buona parte in armamenti bellici. Ormai tutto si sa delle armi, così come delle risorse finanziarie che a tali fini vengono consumate. Che cosa succederà, nei prossimi anni, di Cabinda, l'enclave angolana, protettorato portoghese fino al 1975, un territorio ricchissimo di petrolio, sulla costa? Nella sua posizione, Cabinda interrompe la continuità fisica e geografica dell'Angola, incuneata com'è tra il Congo, con capitale Brazzaville, e la Republica Democratica do Congo, con capitale Kinshasa: due capitali sulle due sponde opposte del fiume Congo!

Lo scenario del mondo è inquietante: nuovi eserciti privati e vecchie logiche coloniali preparano sempre nuove guerre. Ex ufficiali dei corpi d'élite, baroni dello sfruttamento minerario e multinazionali del petrolio uniscono i loro interessi nel controllo delle risorse dell'Africa. Viene da chiedersi se l'Angola è oggi davvero libera, di fronte all'usurpazione occidentale.

Nulla si sta facendo per impedire il traffico diamantifero. In Angola, il commercio di diamanti ha fruttato ai ribelli armati dell'Unìta miliardi di dollari.

Negli anni della guerra civile, compagnie sudafricane di raccolta e commercio di diamanti, le stesse che controllavano l'80% del mercato mondiale, acquistavano gemme preziose nelle zone diamantifere in mano all'Unìta, una delle fazioni angolane in lotta. Erano le compagnie che negli anni '50 avevano sconfitto i competitori in Sierra Leone, servendosi dei massimi agenti del controspionaggio internazionale della seconda guerra mondiale, i quali arruolavano soldati e scatenavano conflitti per i diamanti a tutto campo. Nel traffico di diamanti furono coinvolti in Angola anche alti gradi dell'esercito governativo, ostili ad una spartizione delle risorse del paese con i ribelli.

Chi può affermare che nei traffici illegali non siano coinvolti oggi interessi dell'attuale dirigenza politica angolana? L'impenetrabilità di certe aree del paese in cui è difficile arrivare con mezzi normali di trasporto, la grave carenza di infrastrutture stradali, la pericolosità anche fisica dei trasferimenti, sono accettate come normali e ordinarie e continueranno ad esserlo finchè serviranno a coprire l'estrazione e il commercio illegali di diamanti.

8. Campi di mine

Rividi le atrocità delle guerre tribali. Spaventose erano le tracce di guerra che ci accompagnarono lungo il percorso. Cannoni abbandonati, carrarmati rovesciati, altri mezzi militari distrutti e lasciati ai bordi, croci di tombe e, poi, il pericolo costante delle mine, campi minati tutt'intorno alla strada, aree disseminate di mine lasciate dai guerriglieri dell'Unìta, le più pericolose perché abbandonate a caso in ritirata, in posti imprevedibili, tanto che anche la sosta per pisciare doveva farsi con grande attenzione, senza mai allontanarsi troppo dalla strada. L'unica garanzia era rappresentata da due basse aste verticali, infisse ai bordi della strada, che segnalavano il punto iniziale di una fascia di territorio disseminato di mine antiuomo, un'area estesa a destra e a sinistra della strada, fino ad un'altra coppia di aste che denotavano, decine di metri più in là, il punto finale della zona a rischio.

Una mattina, un bambino che giocava in un campo di un villaggio vicino, ad un centinaio di metri da noi, toccò involontariamente una mina, che scoppiò squarciandogli la mano. In ospedale, il medico gli ha estratto le numerose schegge dalla pancia e da tutto il corpo e gli ha medicato la ferita della mano.

Eravamo in una regione che, pochi mesi prima, era sconvolta da una guerra feroce. Una guerra con molte centinaia di migliaia di morti, voluta con la forte responsabilità del regime di Pretoria, che aveva finanziato e riarmato sia l'Unìta che l'Fnla, due fazioni contro il governo marxista-leninista dell'Angola, soprattutto nella prima fase, quella iniziata subito dopo la liberazione dal Portogallo e durata fino al 1991.

In seguito, la nuova fase della guerra civile ripropose vecchi scenari delle strategie neo-coloniali, aggiornandoli secondo le logiche del nuovo ordine mondiale: il disegno strategico era quello di impedire l'esperimento di uno Stato progressista in Africa e inserire l'Angola nella sfera d'influenza occidentale, un disegno pensato per ostacolare le trasformazioni politiche iniziate da un governo nazionale teso ad avviare il paese verso il pluralismo politico e la riconciliazione nazionale.

Dietro c'è sempre la nostra arrogante pretesa occidentale di traghettare il terzomondo dalla natura alla cultura, trasformare le Erinni in Eumenidi, passare dalla furia vendicatrice del diritto del sangue alla società fondata sulle norme e sulle regole, esportare modelli di democrazia, per Pasolini modelli di democrazia formale.

9. Sawimbi

Attraversammo una zona adatta alle imboscate, ai combattimenti tra le fazioni, alla guerriglia, atrocità che nel passato si erano perpetuate, fino all'aprile del 2002, quando finalmente la guerra si interruppe con una tregua che dura tuttora. Era una strada disseminata di morti, di testimonianze di una guerra feroce: piccoli campi di croci, frequenti cimiteri su piccole fasce di terra, in prossimità dei villaggi di capanne di paglia, frasche e mattoni rossi, alternati a piccole oasi palmizie. La natura è bellissima, sempre verde di vegetazione e rossa di argilla, in forte contrasto con la tristezza della ferocia dei comportamenti umani.

Con la morte di Sawimbi erano finiti i combattimenti. Era stato Sawimbi l'uomo di tutte le situazioni, abile opportunista che non aveva mai perso di vista il proprio scopo primario, il potere personale assoluto. Mi raccontarono che aveva fatto parte prima dell'Fnla, installato nel Nord. Aveva inseminato nelle popolazioni kikongo, riserva privilegiata di quel partito, odio e ostilità e soprattutto discriminazione verso i lavoratori umbundo. Dopo aver creato l'Unìtà, era stato alleato dei portoghesi colonialisti, e, durante la transizione verso l'indipendenza, non esitò ad appellarsi ai piccoli coloni bianchi sul tema dell'anticomunismo, nonostante tenesse pubblicamente discorsi razzisti incendiari anti-bianchi. Ciò non gli impedì affatto di cercare e di trovare un'alleanza con l'esercito del Sudafrica, il paese dell'apartheid, e di mostrare la propria amicizia con i più ferventi adepti delle teorie razziste. Donne e uomini, imbrigliati nell'Unìtà, raccontarono le loro sofferenze, le violenze, gli stupri, la sottomissione assoluta alla quale venivano costretti, spesso sotto minaccia di morte, per loro e i loro parenti. Sawimbi si accaniva contro i suoi potenziali rivali, contro i suoi militanti più brillanti. L'eroe della guerra fredda era in realtà un tiranno d'altri tempi. Chi poteva piangerlo, alla sua morte? In Angola, si è convinti che ad ucciderlo siano stati gli americani, liberatisi così di un alleato scomodo, e che l'imboscata in cui perse la vita fu organizzata in seguito ad una segnalazione degli americani stessi. Ad ucciderlo sembra sia stato uno degli umbundo, di cui era in gran parte composto l'esercito angolano.

Qualcuno ci ricordò che nel 2002, all'annuncio della sua morte, le strade di Luanda si riempirono di gente esultante di gioia che intonava canti di vittoria. Ma, non fu perché il popolo di Luanda provasse odio e disprezzo per gli umbundo del Centro-est del paese, da cui provenivano Sawimbi e la maggior parte dei suoi uomini armati. Era invece, e soprattutto, perché per molti anni Sawimbi aveva raffigurato il rifiuto di accettare un'alternativa alla guerra, una guerra crudele in cui la popolazione civile era diventata il bersaglio. La sua morte risvegliò la speranza nella fine della guerra e delle sofferenze.

C'è ancora chi pensa che siano etniche le ragioni che conducono all'odio ed alle guerre? Sopravviverà il popolo angolano al rullo compressore del neoliberismo?


Fonte:


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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