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sabato 6 luglio 2013

Strategie comunicative e narrative tra romanzo e adattamento cinematografico - Il silenzio del mare (Melville), Il Vangelo secondo Matteo (Pasolini), Marianna Ucrìa (Faenza)

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Strategie comunicative e narrative tra romanzo e adattamento cinematografico

Il silenzio del mare (Melville), Il Vangelo secondo Matteo (Pasolini), Marianna Ucrìa (Faenza)
Giuseppe Melizzi

Parole ed immagini non rappresentano e non possono rappresentare il reale nello stesso modo, anche se contano numerose interferenze reciproche: la grammatica filmica nelle sue dimensioni culturali, cognitive, emotive e tecniche diverge infatti totalmente dalla grammatica narrativa: essa si serve, per esempio, di una pluralità di segni per produrre immagini in movimento, e quindi di una pluralità di codici fatti di suoni, parole, significati. Inoltre, può essere fruita a diversi livelli di lettura, contemporaneamente e collettivamente, dall’intellettuale e dall’analfabeta: l’uso delle immagini come canale privilegiato, favorisce una fruizione diretta ed immediata da parte di chiunque: e ciò spiega il grande successo di pubblico fin dai suoi esordi ma, anche la sua straordinaria capacità di influenzare l’immaginario collettivo. Il libro prevede invece una fruizione individuale, ma anche un’alfabetizzazione: dunque la lettura di un testo si presenta inevitabilmente ristretta ed elitaria rispetto alla visione del film.
Il film è poi un prodotto corale del regista, degli sceneggiatori, degli attori, dei costumisti, di tutti gli operatori che partecipano alla sua realizzazione; è fatto di inquadrature, montaggio, ritmo, strutturazione delle sequenze, di sviluppo narrativo e drammatico, di dissolvenze e stacchi, di allusioni e analogie ottenute con la contiguità di immagini o di scene, di colonna sonora: di una grammatica, insomma, complessa, articolata, globale e inglobante, ben diversa da quella lineare del testo scritto, peraltro prodotto generalmente individuale dello scrittore.
Diversamente dal testo scritto, Il film è poi il prodotto di una tecnologia raffinata e complessa che si avvale di luci, inquadrature, messa a fuoco, delimitazione e divisione degli spazi, regole di composizione e di movimento della cinepresa, uso del piano-sequenza, spostamento della camera, montaggio, colore, musica, movimento e di numerosi mixages con altre visioni del reale. La sua accessibilità e la sua diffusione sono enormemente più ampie rispetto al testo letterario.
Anche le modalità di fruizione del film e del testo scritto sono del tutto diverse: lo spettatore è coinvolto contemporaneamente con tutti i canali percettivi, tattile, visivo, uditivo e cinestetico; nel testo scritto, è il solo canale visivo che funziona da tramite per ‘aprire’ altri mondi, con esiti che però possono rivelarsi altrettanto efficaci: così, Proust, con la sola parola scritta, nella Recherche sapore e l’odore della , sarà in grado di farci sentire la madeleine bagnata nel thé, ed anche di evocarne l’immagine mentale, pur senza rappresentarla visivamente.
Il film inoltre rappresenta l’immaginario e/o la realtà: quest’ultima non neutra, perché mediata dal punto di vista di chi effettua le riprese, in un certo momento, in un certo spazio, da una certa angolatura, con una certa intenzione: tutto ciò che vediamo è il risultato di scelte ed interpretazioni emotive, creative e poetiche. Il libro, descrive il reale e/o l’immaginario tanto più efficacemente quanto più ampio sarà il potere connotativo delle parole e quindi, il respiro evocativo del testo.
Il film si serve poi, contemporaneamente, e proprio come l’uomo, della comunicazione verbale o digitale (fatta soprattutto di segni: parole, note musicali, simboli matematici) e di quella non verbale o analogica (fatta di elementi sopra segmentali del discorso: intonazione, ritmo, accento, elementi prosodici, ma anche della grammatica della comunicazione corporea) strutturata in modo dinamico e circolare, in contrasto con la linearità del linguaggio verbale o digitale. La comunicazione analogica, tipica del cinema, fa cioè ricorso anche e soprattutto ad elementi extra linguistici, come la cinesica (semantica dei movimenti del corpo) o la prossemica (semantica dello spazio, inteso come fatto comunicativo): essa è meno soggetta al controllo volontario e più direttamente connessa con il mondo delle emozioni e degli atteggiamenti spontanei. E’ costituita da categorie intuitive ed immediate, approssimative e sintetiche che presentano un alto grado di ambiguità(1), e sono dunque suscettibili di numerose interpretazioni. Il testo scritto si basa invece su una comunicazione verbale (scritta) e digitale, strutturata come sintassi lineare, logica, specifica ed analitica con forte codificazione e bassi gradi di ambiguità. E’ importante notare come, in caso di dissonanza cognitiva, (quando i due messaggi, l’analogico e il digitale sono discordanti) “passi” e prevalga la comunicazione non verbale.
Ora il film, a differenza del testo scritto, proprio come nella reale comunicazione interpersonale, è in grado di “rappresentare” questo processo nella sua totalità e far passare un messaggio chiaro e oggettivo (le parole, nella loro accezione denotativa), e uno soggettivo e diversamente interpretabile (le parole nella loro accezione connotativa) ma anche gli elementi analogici, non-verbali, paralinguistici e extralinguistici che, diversamente dalle parole, non sono soggetti a censura e perciò veicolano i nostri più nascosti sentimenti, intenti e sensazioni.
Il linguaggio analogico, che è uno dei più importanti tratti distintivi del film, è estremamente ambiguo, difficilmente interpretabile; tuttavia costituisce un metalinguaggio, cioè è la principale chiave di lettura del linguaggio verbale. Se qualcuno ci dice “sei simpatico” prima di ‘accettare’ il messaggio verbale, misuriamo la concordanza con il contesto, la presenza o assenza di occhiate di scherno, il tono, i gesti, ecc. Ogni sequenza filmica presenta dunque, proprio come la comunicazione interpersonale, tutti gli elementi indicati. Il testo è invece costruito su un processo narrativo lineare, sintagmatico, con elementi grammaticali e sintattici disposti in sequenza: la comunicazione analogica non verbale che il film è in grado di mostrare, di rappresentare, subisce, nel testo scritto, una sorta di transcodificazione, nel senso che viene a sua volta ‘verbalizzata’, descritta, con esiti a volte anche ottimali, più spesso insoddisfacenti, comunque sempre assai complessi e di incerto risultato.
Anche la colonna sonora assume, nel film, un preciso ruolo semantico: può creare un ritmo narrativo, dare il senso del tempo che scorre, potenziare la luce, le ombre, le ansie, le paure, il ricordo. Insomma, è un vero e proprio livello di significato che si aggiunge al montaggio, alla fotografia, allo spazio, al tempo. Il movimento, poi, inteso nella sua qualità dinamica peculiare insieme ad altre due categorie analogiche rappresentate dallo spazio e dal tempo, o per meglio dire, dall’unica categoria - che li compenetra entrambi, del tempo/spazio(2). Infatti è proprio nel tempo e nello spazio che il corpo si esprime, comunica, si relaziona. Ma il movimento può anche paradossalmente assumere un’ espressività , come fatto significante, che favorisce o allontana la comunicazione è rappresentato con efficacia totale dal film, ne è caratteristicastatica, nella postura per esempio, che rimanda al senso del tempo/spazio, e che rivela l’enorme espressività affettiva e relazionale delle strutture anatomiche del corpo.
Il tempo del film (due ore circa), inoltre, è quantitativamente molto più ristretto rispetto al tempo del racconto (che può occupare fino a duecento pagine ed oltre). Perciò, l’eliminazione di tutte le digressioni e degli episodi secondari è necessaria per la compressione temporale. Essa ha, tuttavia, una propria funzionalità semantica di sottolineatura di un evento, di un personaggio, di un intero episodio.
Il film presenta dunque non solo ritmi e luoghi di fruizione propri, ma anche una sua logica temporale interna non controllabile dal fruitore, che, per esempio, non può “fermare” l’immagine a suo piacimento se la proiezione è pubblica. Il testo letterario invece, presenta caratteristiche di permanenza che consentono l’attivazione di particolari strategie per favorirne la fruizione: il lettore può tornare indietro, o fermarsi per riflettere, o accelerare la lettura.
Il tempo filmico, poi, è diverso anche dal punto di vista cognitivo. Infatti esso condiziona anche la percezione dello spazio da parte del fruitore/spettatore: lo “spazio” filmico attiva modalità percettive e cognitive particolari: è come se la superficie dello schermo si ‘aprisse’ per inglobare lo spazio mentale di chi guarda, e immergerlo in uno ‘spaesamento’ cognitivo. Questa correlazione tra percezione spazio-temporale e cognizione, specifica del film, che si ottiene fondendo le diverse tecniche di ripresa (soggettiva, panning, zoom, ecc) con vari tipi di montaggio (fotogramma per fotogramma, sovrapposizioni, sfumato) in un unico flusso, consente di “far muovere” lo spettatore, ed immergerlo in una esperienza totalizzante, che dà corpo e forma al tempo, ma anche allo spazio che diventa così costruzione mentale, alla luce, al movimento, come se l’occhio della camera fosse un occhio umano, sensibile e in grado di produrre sensazioni in chi guarda e in chi è guardato.
Queste modalità di attivazione di connessioni spazio-temporali, di rappresentazione della memoria e del ricordo, del pensiero e delle emozioni, ottenute mediante elaborate strategie tecnico-estetiche, legando parametri spazio-temporali, comunicativi e, oggi, anche computazionali a modalità specifiche di percezione e cognizione, hanno prodotto, soprattutto con l’evoluzione dei media elettronici, una visione cinematica ed incorporea dello spazio e del tempo lontana anni luce dal tempo e dallo spazio della letteratura. Basti solo pensare al tempo ed allo spazio proustiani per rendersene conto.
Il film è dunque un’opera corale, tecnicamente complessa(3), che adotta un sistema di scrittura articolato, analogico, computazionale, e nel contempo, magicamente creativo. Unifica ed integra sul piano estetico, attraverso una struttura formale che emerge poco a poco le contraddizioni umane: bene, male, passato, futuro, vero, falso, libertà e divieti, in una sintesi totale di contenuto e forma.
L’immagine filmica è proprio agli antipodi della parola: come afferma G. Montesanto, «con essa, è l’oggetto stesso, o almeno una sua convincente effige, che diventa linguaggio [e dunque] la magia essenziale del cinema deriva dal fatto che il ‘dato reale’ diventa l’elemento stesso della propria fabulazione»(4).
Inoltre, se il film riproduce analogicamente il reale in termini di pensiero dialettico e circolare che compenetra e amalgama gli opposti, la specificità letteraria è invece digitale: una struttura grammaticale e sintattica di tipo lineare contraddistingue infatti il testo scritto, che si realizza attraverso una fitta rete di anafore, catafore, connettivi logici, spaziali, temporali, elementi deittici, sinonimi, parafrasi, iponimi, iperonimi, ripetizioni, sostituzioni, ellissi, figure retoriche(5) del tutto intraducibili, per le loro stesse caratteristiche in un altro medium.
Il testo letterario attiva poi, in modo speculare, un codice scritto, che presenta registri e livelli di lingua assai dissimili dal codice orale, peculiare invece del film.
La focalizzazione, poi, può essere interna, esterna, o interna e esterna nello stesso tempo (focalizzazione zero); nel film, la focalizzazione non può che essere esterna, e i sentimenti, i pensieri dei personaggi non possono essere “raccontati” ma devono in qualche modo, ‘trapelare’ essere ‘resi visibili’ da un gesto, uno sguardo, un movimento, una pausa. E i sofisticati mezzi tecnici di cui il cinema dispone permettono di modulare le più profonde sensazioni con sfumature a volte non concesse alle parole.
La produzione filmica e il testo letterario, pur presentando caratteristiche diverse, mostrano però anche numerosi punti in comune. Per esempio, sia la parola (nel testo scritto) che l’immagine, (nel film) denotano e connotano: denotano perché descrivono o mostrano un pezzo di realtà; connotano perché evocano, sul piano semantico, nel lettore e nello spettatore, mondi, sensazioni, emozioni connessi al vissuto di entrambi. In quanto simboli poi, permettono al fruitore di individuare il significato oltre il significante(6) perché sia l’immagine che la parola, nei loro esiti artistici, compendiano, riassumono e trasformano il reale e l’immaginario.
Inoltre, la lettura dell’immagine filmica esige, come la lettura di un brano, una decodifica strumentale degli schemi linguistici, etici, estetici, narrativi, processuali ma anche, e soprattutto, emotivi, perché è l’area emotiva che viene maggiormente sollecitata quando si guarda un film, o quando leggiamo un libro che ci avvince tanto da finirlo d’un fiato: quando si interagisce, insomma, con immagini o storie create apposta per implicare emotivamente il destinatario. Bisognerebbe però, per una fruizione più consapevole, che il fruitore possedesse, da un lato gli strumenti per l’analisi letteraria (elementi di retorica, linguistica, semiologia), dall’altra, gli strumenti di conoscenza necessari per decodificare il linguaggio filmico, che, per quanto di immediata fruizione, segue leggi, regole e codici propri come composizione dell’immagine, inquadratura, struttura delle sequenze e dello sviluppo narrativo e drammatico, elementi linguistici come dissolvenza incrociata e lo stacco, scelte di carattere metonimico (allusione e/o analogia realizzate attraverso la contiguità di immagini o scene) o di carattere metaforico (allusione e/o analogia realizzate attraverso la sostituzione di un’immagine con un’altra o la condensazione di due o più immagini, ecc…), o musicale e così via.
Il libro, e il film, se e quando sono opere d’arte, seppure diverse, possono liberare nuovi spazi, e generare dinamicamente nuove forme e nuovi processi trasformativi in grado di trasferirsi sui fruitori: l’opera d’arte, infatti, trascende e unifica gli opposti, i dualismi della realtà e dell’uomo in una sintesi armonica dinamica e creativa. Essa è infatti sempre il risultato di un processo di trasformazione inarrestabile che costringe l’uomo a affrontare prima e modulare poi i propri fantasmi e le proprie contraddizioni e ad assumere consapevolezza del proprio immaginario.
Per entrambi, infine, il rapporto con i rispettivi fruitori si stabilisce a diversi livelli, e quelli più profondi non sono immediatamente coscienti perché sia il libro -la cui lettura è proiezione e riconoscimento di noi stessi, proprio come la visione di un film- che il film, provocano in qualche parte della nostra coscienza una sorta di contaminatio che avviene in diversi livelli e in più direzioni.
Da ultimo, è infine importante notare che qualunque film e qualunque testo scritto, si inseriscono in un circuito comunicativo e perciò pongono il problema, non neutro, dell’identità e delle intenzioni dell’emittente, della natura del messaggio veicolato, del contesto referenziale, e, soprattutto, dell’impatto del messaggio sul destinatario -lettore o spettatore- e delle funzioni comunicative palesi o soggiacenti al messaggio.
Se dunque l’adattamento ‘fedele’ non è postulabile, per la complessità e la diversità dei diversi codici implicati, è però vero che il film può cogliere l’anima della letteratura per modificarla nei modi più diversi e dunque trasformarla in altra anima. Il Vangelo secondo S. Matteo, Il Silenzio del mare, Marianna Ucria, sono esempi straordinari e diversi di come il cinema può lavorare con modelli letterari, e restituirli come forma artistica creativa, compiuta, e del tutto autonoma dal testo di provenienza. 

L’adattamento come “trasposizione creativa e poetica” ne “Il Vangelo secondo Matteo”(7) di P.P. Pasolini

Il Vangelo secondo San Matteo è un chiaro esempio di come, pur restando ‘fedeli’ al testo(8), pur riproducendone alla lettera i dialoghi, se ne possa dare una lettura personalissima, creativa, poetica, connotata e contaminata artisticamente da un uso trasversale e “magmatico” della musica, della pittura, delle inquadrature, delle luci, delle ombre, dei primi piani, dei rumori e dei silenzi.
Pasolini stesso ha spiegato, a più riprese, come il film, pur aderendo pressoché alla lettera al Vangelo, più che una ricostruzione storica fedele di tipo illustrativo, voglia, da un lato rappresentare invece una trasposizione cinematografica della visione cristica di Matteo, dall’altro, dare il senso della poesia, che c’è, è presente, nel Vangelo: «[si tratta] di una specie di ricostruzione per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell’analogia che sostituisce la ricostruzione»(9). E, in altra occasione, aggiunge: «[…] la mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone, senza una omissione o un’aggiunta, il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo»(10).
Ma da cosa derivano la “creatività” e la “poeticità” che fanno dell’ ‘adattamento fedele’ una ‘trasposizione poetica’ unica e irripetibile? Quali tratti estetici confluiscono nella sintassi magmatica pasoliniana, in modo da determinarne una scrittura filmica tanto coinvolgente sul piano emotivo.

Sul piano stilistico, Pasolini, come egli stesso dichiara, abbandona la ‘sacralità tecnica’, la sintassi classica, che aveva contraddistinto i primi film, per uno stile “magmatico, caotico, asimmetrico(11)”, in analogia alla diversità linguistica, stilistica e tecnica che caratterizzano il testo evangelico: «eseguire il Vangelo con una tecnica sacrale, ieratica, religiosa, era far piovere sul bagnato, infatti mi venivano fuori delle immagini tradizionali: un Cristo ieratico non era un Cristo; una panoramica solenne, maestosa, su degli Apostoli che ascoltavano Cristo perdeva di significato, mentre poteva avere valore sulle facce dei giovinottastri romani che stavano ad ascoltare neghittosamente Accattone»(12). Questo “magma”, che produrrà un cinema non conformista, ribollente di vitalità, di libertà stilistica illimitata, che cattura e implica emotivamente lo spettatore, è fondato sulla ‘contaminatio’: «Il segno sotto cui lavoro è sempre la contaminazione: infatti, se voi leggete una pagina dei miei libri noterete che la contaminazione è il fatto stilistico dominante…»(13). A questo proposito, è opportuno notare che il film di questo regista ateo e marxista, non a caso è dedicato “alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII”- e non a caso, al film fu assegnato il prestigioso premio cattolico O.C.I.C.(14).
Il senso della morte – che rappresenta la costante ideologica di tutta la produzione pasoliniana è, poi, un altro elemento che avvolge e compenetra il film e che Pasolini ‘rende’ facendo “sentire lo stacco”, connotando espressivamente l’attacco di montaggio, perché «[La morte] compie un fulmineo montaggio della nostra vita [e] il montaggio opera sul materiale del film quello che la morte opera sulla vita»(15). Ugualmente, il ‘magma’ stilistico è reso attraverso coraggiose ed inusuali sperimentazioni tecniche, l’uso costante dello zoom, degli obiettivi deformanti, grandangolari e speciali, delle inquadrature a ‘spalla’, delle riprese tecnicamente imperfette (messe a fuoco particolari, composizioni squilibrate) degli attacchi di montaggio volutamente imperfetti. Il regista usa il teleobiettivo per ‘captare’ un’espressione, un gesto, uno sguardo; usa la macchina a mano per rendere la ‘realtà’ , per ‘drammatizzare’ per esempio, i processi davanti a Caifa e a Pilato.

Per mostrare poi come l’umanità sia la ‘sua’ chiave di lettura del Vangelo, il regista si preoccupa non tanto di rappresentare le azioni, quanto le loro conseguenze sugli uomini e sui loro destini. A questo fine, fa costante ricorso ai piani ravvicinati che sono preponderanti rispetto ai piani medi e ai campi del film. L’universalità del messaggio cristico passa poi in modo sublime da un lato, attraverso una sorta di “ecumenicità musicale(16), una banda sonora fortemente contaminata, che assembla Bach, a canti spirituali negri, a Mozart, ai canti rivoluzionari russi; dall’altro, attraverso una stilizzazione iconografica essenziale e anch’essa inglobante che si ispira a Giotto, al Masaccio, a Piero della Francesca, al Caravaggio. Le inquadrature di Pasolini - considerato egli stesso un grande “pittore” del cinema- costruite come scene dipinte, con riferimenti precisi alla grande pittura italiana del trecento e del quattrocento, spiegano e giustificano la preferenza del regista per la fissità del campo.
Per concludere, Pasolini, dopo aver proiettato se stesso nella lettura del testo sacro perché anche la lettura non è né può essere fenomeno univoco, universale e oggettivo ma, in quanto proiezione e riconoscimento, fortemente individuale e soggettivo, dopo essersi dunque appropriato ideologicamente,intellettualmente ed emotivamente del Vangelo di Matteo, lo ha restituito con altri mezzi ed altro codice, connotandolo fortemente di sé, della sua estetica, del suo vissuto, delle sue contraddizioni. Della sua creatività insomma, e della sua poesia.
L’adattamento come “ trasposizione iconica” ne “Il silenzio del mare”(17) di J.P. Melville(18)


Jean Pierre Melville realizza l’adattamento cinematografico de “Il silenzio del mare(19) nel 1947”(20) in clandestinità, con una grande povertà di mezzi, dopo aver avuto a fatica da Vercors l’autorizzazione alla trasposizione cinematografica a patto di far visionare il film, una volta realizzato, e prima di proiettarlo sugli schermi, da un comitato di resistenti e di averne l’approvazione. Così avviene e Vercors accorderà a Melville anche il permesso di girare il film nella sua casa, nel luogo stesso in cui il libro era stato scritto. La trascrizione cinematografica del testo di Vercors è del tutto fedele: i lunghi monologhi di Werner Von Ebrennac sono testuali, il racconto si svolge sulla voce off del Narratore, che coincide con il personaggio dello zio. Il film, girato in bianco e nero, si svolge, pressoché per intero, all’interno di una stanza, con tre soli personaggi: lo zio, la nipote, l’ufficiale tedesco. Lo scenario fisso dell’interno della casa vede svolgersi giorno dopo giorno, rotta solo dai lunghi monologhi dell’ufficiale, la muta interazione tra i tre: la diffidenza e l’ostilità si trasformano, progressivamente nello zio, in ammirazione per la cultura dell’ufficiale che rivela di essere un musicista e, nella ragazza in ammirazione prima, in amore poi, rivelato da una sola parola “Adieu” pronunciata nel momento in cui l’ufficiale parte per il fronte.
Gli esterni sono imprecisati, l’incertezza sulla regione vuole suggerire che un po’ dappertutto, in Francia persone anonime che non possono combattere vecchi e ragazze per esempio, oppongono il loro rifiuto di silenziosa dignità all’occupante nazista.

Melville resta fedele al racconto, lo replica quasi testualmente attraverso una vera e propria traduzione iconografica, in cui, come del resto inevitabile, proietta e definisce il suo stile personalissimo di esteta e fine narratore attraverso un’iconografia filmica algida, distaccata, essenziale. La sua macchina da presa narra, definendole in modo mirabile, le immagini in una serie di sequenze filmiche indimenticabili, come il primo piano sull’impercettibile tremore delle mani della ragazza nella sequenza in cui l’ufficiale dichiara che, per guarire dalla guerra, “è necessario l’amore…un amore condiviso”; o quando, sulle parole di Ebrennac, per registrare il forte, controllato coinvolgimento emotivo della ragazza, la telecamera, semplicemente, si sofferma a lungo, in primo piano, sulla sua nuca, leggermente china in avanti, immobile, tesa.
Melville realizza così, attraverso il suo stile asciutto, di assoluta tensione estetica, le immagini che già Vercors aveva disegnato con sicurezza e precisione, fin nei dettagli. Il film, in bianco e nero, è tutto giocato sui chiaro-scuri, sulle ellissi, sui silenzi, sui primi e primissimi piani che registrano il linguaggio non-verbale, su un montaggio di assoluta perizia.

La musica (Beethoven e Brahms) è una chiara allegoria della Germania migliore, la Germania umanista che ama le arti e la letteratura, che si nutre di musica. Non a caso l’ufficiale, il “migliore dei tedeschi possibile”è un musicista, e la musica unisce, avvolge e in qualche modo accomuna i tre personaggi; essa gioca un fortissimo ruolo emozionale quando, nei primissimi piani, accompagna il movimento della camera. Indimenticabile, in questo senso, la sequenza senza stacchi che accompagna l”Adieu”- unica parola pronunciata dalla ragazza al momento del commiato con l’ufficiale, che assume semanticamente la valenza della più forte, sentita e repressa dichiarazione d’amore d’amore.
Il film, di rara qualità, è emblematico dello stile di Merville. Ogni fotogramma è una perfetta traduzione del testo di Vercors, un perfetto clone iconografico: cupo, essenziale, rigoroso, tutto giocato sul non-verbale, su emozioni controllate e tuttavia palesate. Il film restituisce dunque in modo perfetto la misteriosa interazione che si stabilisce tra i personaggi, e che procede impercettibilmente ma in un continuo crescendo: dalla diffidenza, alla stima, all’amore. Ma, a nostro avviso, è proprio questo il limite del film, che rende, nel suo codice specifico, ciò che il codice della lingua scritta, proprio per la valenza drammaturgica e teatrale tipica del testo di Vercors, aveva già raggiunto in modo suggestivo, evocativo e coinvolgente.
Inoltre, i lunghi monologhi dell’ufficiale, restituiti fedelmente, appesantiscono il film, lo rendono, se così si può dire, ‘letterario’; ugualmente, la voce off dello zio che ricorda gli avvenimenti, rappresenta una sorta di lettura ad alta voce che assume una valenza solo didascalica, ben lontana dalla efficacia e dalla potenza evocatrice del testo scritto.
Dunque, per quanto il film sia magistralmente realizzato, per quanto sia, comunque, opera originale di Melville in quanto vi proietta se stesso con le sue scelte etiche ed estetiche, la sua visione non aggiunge, a nostro avviso, nulla alla lettura del testo che contiene già in sé elementi teatrali in grado di suscitare nel lettore quasi naturalmente e durante tutto il filo del racconto, delle immagini mentali di pregnante ed indelebile segno evocativo.
L’adattamento come prodotto autonomo dell’opera a cui si ispira, in “Marianna Ucrìa”(21) di R. Faenza


Marianna Ucrìa, “liberamente tratto” dal romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini, rappresenta appieno il prodotto “autonomo” del romanzo nel senso che il regista, pur ispirandosi a larghe linee all’”ossatura narrativa” del libro, se ne appropria metabolizzandolo, trasformandolo e restituendolo in forma affatto autonoma e originale.
Così Marianna Ucria non ha conservato, del testo della Maraini, che lo schema attanziale: l’eroe (Marianna) ha una missione da compiere (emergere dal suo grave handicap- che rappresenta metaforicamente la situazione femminile – grazie alla sua intelligenza ed alla sua volontà, e scoprirne la causa); Ma qualcuno ostacola l’eroe: è l’oppositore (il signor marito-zio) che, dopo averla stuprata ed essere la causa del suo stato, l’ha comprata con il matrimonio, reiterando lo stupro ogni volta, rendendola madre di cinque figli, e nascondendole la verità sul suo mutismo. Per contro, l’aiutante, colui che aiuta l’eroe nel compimento della sua missione, è rappresentato, da un lato, dalla bellissima figura del nonno, magistralmente interpretata da Philippe Noiret; dall’altro, dal precettore francese che inizia Marianna alle idee progressiste dell’illuminismo. Entrambi la sosterranno nel suo cammino verso la libertà: non a caso, “Freedom” è tra le prime parole, nel linguaggio dei segni, che il precettore insegna a Marianna e che Marianna insegnerà alle sue figlie.
ullo schema attanziale, che rappresenta l’idea di fondo, il regista ha poi costruito la “sua” storia, diversa, altra, con numerose aggiunte e/o omissioni : così, per esempio, il padre di Marianna, nel film, è morto, sostituito, come figura positiva, illuminata, che ha un particolare feeling con la nipotina “mutola”, dal nonno, uno straordinario e intenso Philippe Noiret. Lo stesso regista ha più volte spiegato la ragione di questo cambiamento: sarebbe apparso ben poco credibile un padre amorevole che però consegna la figlia tredicenne al cognato che l’ha stuprata. Neanche la morte del nonno, all’uscita di un postribolo, appare nel libro; così pure la figura del precettore francese. Altri personaggi, altri eventi, sono poi ridotti o sostituiti od omessi come, del resto, un ‘libero adattamento’ richiede e come, soprattutto richiede un fitto testo di duecentosessanta pagine circa.


Le scene più suggestive ed indimenticabili sono invece, a mio avviso, quelle che non sono presenti nel testo e nelle quali la creatività del regista si manifesta senza limite alcuno: penso, per esempio, alla straordinaria scena del matrimonio, sostituita, nel libro, da una lunga ellissi narrativa. Sequenze sontuose, imponenti, barocche di sicilianità. Lungo stacco del regista su Marianna che entra e appare ancora più minuta e bambina in un costume rigido, imponente scintillante di damasco dorato al braccio di suo nonno. Altro stacco sui due, fermi sull’altare, che girano il capo verso l’ingresso da dove sta arrivando lo zio Pietro.
Primo piano ravvicinato su dei piedi – scarpe rosse, calzamaglia rossa - che avanzano lentamente, ineluttabilmente. Primo piano sul viso atterrito, di Marianna.
E’ una scena che dà i brividi. I piedi sono notoriamente un simbolo erotico e feticista(22); il rosso evoca, oltre ad un aspetto trasmutativo ed alchemico, il passaggio da uno stato ad un altro, anche oscure simbologie sataniche ed emozioni amplificate e represse. Ma anche, e soprattutto, l’allarme, (il semaforo rosso è segno di pericolo) la reazione pronta a quanto sta per accadere: e infatti, a partire da questo momento, che appare il più buio, Marianna, come alcuni personaggi di Faenza – penso soprattutto a Pereira(23), e a Jona Oberski(24)- saprà contrastare non solo la propria menomazione, ma il proprio stato, la propria condizione di donna, grazie alla volontà, all’intelligenza, alla cultura, ma anche alla fiducia, alla vitalità, ad una personalità forte e vincente.
Un’altra sequenza memorabile per il suo potere evocativo e simbolico è quella che vede Marianna, dall’alto del balcone della sua nuova casa maritale, osservare un servitore che porta via le sue bambole e con esse, il resto della sua infanzia violata e, subito dopo, l’ingresso, il lungo corridoio deserto, il belare agghiacciante perché inaspettato di una capra, che appare subito dopo, dalla porta.
Primo piano sulla capra(25) -metafora di emozioni amplificate e represse, ma anche simbolo satanico di morte– che guarda fisso Marianna, con gli occhi tondi acquosi e inespressivi del signor marito-zio a cui somiglia stranamente quasi ne fosse la trans-posizione simbolica, nello sguardo (penso in particolare alla sequenza del rifiuto, quando lei si nega al marito che la guarda annichilito), nel volto triangolare, secco, scavato, malsano.
Tutto il film esprime, poi, la modernità di Marianna, che si sintetizza nelle sequenze in cui allatta al seno i suoi figli -avvenimento considerato all’epoca perfino scandaloso per una nobile- o in quella, davvero straordinaria, in cui, sillabando muta un NO riesce ad opporsi ad una penetrazione oscena, troppo a lungo subita, e a scostare dal suo ventre il corpo repellente del vecchio “signor marito-zio”. Chi, all’epoca, avrebbe osato tanto? Ma ancora di più nella sequenza a seguire, quando si avvicina a consolare, piena di umana pietà proprio lei, la vittima –il suo carnefice, quel signor “marito-zio” a cui è riuscita, comunque, a “voler bene”-, un mucchietto di ossa rannicchiato per terra, annichilito dal rifiuto.
Gli prende la mano, con tenerezza commovente.
Tra i due, è lei, - la piccola mutola, - la più forte, e Pietro pare averlo capito già il giorno del matrimonio, quando le aveva sussurrato, sull’altare, “la mia vita è nelle vostre mani”.
Un film bello e intenso, che invade chi lo guarda di colori e sapori – malgrado il regista abbia dichiarato che Marianna Ucria non è tra i suoi film preferiti”(26) - che soggioga per la modernità dei temi trattati, per la capacità del regista e della piccola straordinaria attrice di comunicare, attraverso la forte semanticità del non verbale l’intenso mondo interiore della protagonista.
La violenta sicilianità che emana dal film poi, e che invade lo spettatore di luci, di colori forti, di sapori, di odori, pervade anche Marianna. A differenza di sua madre, inetta, infelice, passiva, succube del laudano, incapace di reagire e isolata nei suoi piccoli spazi quotidiani, Marianna non tende alla chiusura e all’isolamento, ma anzi comunica, forse meglio e più di chi parla e sente, legge, si informa, è curiosa, avida di conoscenza, solare, pronta ad aprirsi agli altri, a osservarli, in un 'ascolto' empatico totale verso chi la circonda. Il regista restituisce alla perfezione, con scene di accurata delicatezza, questo complesso mondo silenzioso: e alla fine della proiezione, lo spettatore ha dimenticato che Marianna è sordomuta: resta invece l’immagine nitida e splendida di una donna che è riuscita a sottrarsi al suo destino di allevare figli, ubbidire, invecchiare precocemente, sottostare alle voglie del marito - sullo sfondo di una terra profumata , scintillante di colori, di opulenza e di miseria infinite.
Per concludere si può dunque affermare che non esiste un processo di codificazione universale dell’immaginario. Non è perciò in alcun modo possibile tradurre la produzione estetica letteraria basata su una grammatica lineare con peculiarità proprie, nella complessità alla base della produzione filmica.
Una straordinaria descrizione letteraria può essere distrutta da un’immagine che la rappresenti, perché perde il suo carattere di generalità, quel potere evocatore ed aperto all’infinito che immerge il lettore -qualunque lettore ed ognuno in modo diverso- in un mondo fantastico ed irreale, mai compiuto, mai definito. Così si esprime Flaubert: «una donna disegnata somiglia ad una donna: l’idea è chiusa, completa. Una donna descritta fa pensare a mille donne»(27).
Ma se è vero che il film, 'rappresentando', 'mostrando' l’immaginario lo chiude e lo delimita – e in questo senso l’immagine analogica può essere percepita come una violazione, che priva il racconto della sua virtualità testuale, è vero anche il contrario: se si assume cioè la descrizione letteraria solo come punto di partenza, il film, che riesce come nessun altro mezzo sa fare a trasformare il mondo in discorso servendosi del mondo stesso, e non sostituendolo con segni arbitrari, come fa la letteratura, o somiglianti come fa la pittura - darà - con l’aiuto e la progressione di altri procedimenti espressivi e tecnici quali il montaggio, visivo e sonoro, le tecniche di inquadratura (ripresa statica, panoramica, zoom, carrello, gru, dolly e inquadrature in movimento) i movimenti di macchina e l’impiego 'psicologico' e semantico del colore, della musica, delle pause, delle luci (fluorescenti, al quarzo, a riflessione interna, a scarica, ecc.), esiti estetici ancora impensabili, ma facilmente prevedibili non di 'riproduzione' del reale, ma della sua 'costruzione': della 'creazione', insomma, di una forma espressiva che coglie il punto di connessione in cui l’oggetto diventa concetto e il concetto diventa emozione: il film, appunto, 'altro' dal racconto.


Note
(1) P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.
(2) F. Casetti, F Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Bergamo 2007.
(3) Secondo Gaudreault, il racconto filmico rientra nel campo della complessità, scaturita dalla coesistenza all’interno dello stesso medium di due modi di comunicazione narrativa, la narrazione, tipica del cinema, e la mostrazione, tipica, invece, del teatro. A. Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto. Lindau, Torino 2000.
(4) G. Montesanto, Didattica dell’immagine e del linguaggio audiovisivo e processi cognitivi, in Educare al film, Franco Angeli, Roma 2005.
(5) C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985.
(6) R. M. Lombardo (a cura di), Pedagogia del cinema, in «Giornale di pedagogia», n. 2, giugno 2004.
(7) Film italo-francese 140 minuti, 1964. Regia e sceneggiatura: P.P. Pasolini; Scenografia: Luigi Scaccianoce; Fotografia: Tonino delli Colli; Musica: Luis E. Bacalov, Mozart, Bach, Prokofiev, Weber; Montaggio: Nino Baragli; Interpreti: Susanna Pasolini,Ninetto Davoli, Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Marcello Morante, Francesco Legnetti, Paola Tedesco , Natalia Ginsburg , Alfonso; Gatto, Rodolfo Wilcock, Enzo Siciliano.
Il film racconta la nascita di Gesù e la fuga in Egitto, la predicazione in Galilea, l’arrivo a Gerusalemme, i processi, la morte e la resurrezione: Pasolini non aggiunge nessun episodio e nessun dialogo che non siano contenuti nel testo sacro ma, contrariamente a quanto dichiarato da lui stesso (Cfr nota 16) l’ordine del racconto viene talvolta alterato perché il regista anticipa o posticipa, o dilata, o contrae gli episodi scelti.
(8) “Seguo l’ordine del racconto tale e quale a S. Matteo” in Una visione del mondo epico-religiosa, colloquio con Pier Paolo Pasolini, in “Bianco e Nero”, XXV, 6, giugno 1964.
(9) P.P.Pasolini, in «Quaderni di Filmcritica», Bulzoni, Roma 1977.
(10) Pier Paolo Pasolini, Sette poesie e due lettere, a cura di Rienzo Colla, Vicenza, La Locusta, 1985.
(11) P.P.Pasolini, Confessions Techniques, in «Jeune Cinéma», nn. 27-28, gennaio/febbraio 1968
(12) AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amm.ne Provinciale di Pavia – Comune di Alessandria, 1977.
(13) Una visione del mondo epico-religiosa, Intervista a P.P. Pasolini, in «Bianco e Nero», n. 6, giugno 1964.
(14) Office Catholique International du Cinéma.
(15) P.P. Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza, Garzanti, Milano, 1972.
(16) La definizione è dello stesso Pasolini.
(17) Film francese, in bianco e nero, 86 minuti, 1948. Regista: Jean- Pierre Melville; Interpreti: Howard Vernon (Werner Von Ebrennac, ufficiale tedesco), Jean-Marie Robain (lo zio), Nicole Stéphane (la nipote); Sinossi: Francia, 1941.
Un ufficiale tedesco requisisce la casa dove vivono un anziano signore e sua nipote, che, dovendo subire una forzata coabitazione, decidono di manifestare il loro sdegno e la loro resistenza all’invasore con un silenzio totale. Il loro ospite non è un tedesco come gli altri: è invece “il migliore dei tedeschi possibile”. E’ un musicista, sensibile, di grande cultura, che parla un francese perfetto e che crede in una sorta di unificazione “umanistica” tra Germania e Francia. Ogni sera, con dei lunghi monologhi, esprime i suoi ideali e la sua passione per la Francia ai suoi ospiti che gli oppongono un mutismo totale, unico mezzo per mostrare la loro ostilità verso l’occupazione tedesca. Un giorno l’ufficiale parte per Parigi, che rappresenta il sogno della sua vita, e torna dopo aver scoperto i veri intenti del sistema nazista. Tuttavia non si ribella, ma, deciso a morire, chiede di essere mandato al fronte.
(18) Melville è uno pseudonimo scelto da Jean-Pierre Grumbach durante la Resistenza, alla quale prese parte attiva.
(19) Il mare, è una metafora dello zio e della nipote: imperturbabili in superficie, in realtà agitati nell’intimo da sentimenti forti e contrastanti, proprio come il mare nasconde, sotto la superficie, un brulicante mondo vitale.
(20) “Il Silenzio del mare” è stato girato in 27 giorni, fra l’agosto e il dicembre del 47,con pochissimi mezzi finanziari, con resti di pellicola, nella casa dove Vercors aveva scritto il libro. É stato proiettato al pubblico nell’aprile del 1949.
(21) Film italo-franco-portoghese, a colori, 108’, 1997. Regista: Roberto Faenza; Sceneggiatori; Roberto Faenza, Sandro Petraglia; Interpreti: Bernard Giraudeau, Laura Betti, Lorenzo Crespi, Philippe Noiret, Roberto Herlitzka, Emmanuelle Laborit, Eva Greco, Olivia Magnani, Selvaggia Quattrini; Sinossi: Palermo, 1743.
Marianna Ucria, tredicenne bambina nobile sordo-muta, è costretta a sposarsi con lo zio materno, il vecchio duca Pietro. Madre di tre figli, dipinge, legge, scrive, apprende il linguaggio dei segni con l’aiuto di un giovane precettore francese che le fa anche conoscere le nuove idee filosofiche che percorrono l’Europa. Si sottrae poco a poco, con forza e determinazione, alla schiavitù della condizione femminile, acquisendo coscienza di sé e della sua sessualità, lottando contro le ingiustizie sociali , viaggiando. Conquista così la propria libertà, e scopre il segreto che l’ha resa sordomuta: è stata violentata a soli cinque anni, proprio da quello zio che è stata poi costretta a sposare.
(22) Non bisogna dimenticare che la psicoanalisi attribuisce spesso il feticismo al meccanismo di diniego-difesa che consiste nel rifiuto di riconoscere qualcosa di traumatizzante avvenuto nella realtà.
(23) Cfr. in: Sostiene Pereira.
(24) Cfr. in: Jona che visse nella balena.
(25) Questo episodio non c’è nel libro, ma la storia dello strano rapporto che lega l’animale a Pietro bambino è narrata in D. Maraini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, BUR, Bergamo, 2006, pp. 150-151.
(26) «Se devo essere sincero, Marianna Ucria è uno dei miei film che mi piace di meno», in R. Marra, V. Bertone, L’Italia di de Roberto nei fotogrammi di Faenza, in http://www.step1magazine.it/v2_open_page.php?id=2669.
(27) Tradotto da G. Flaubert, Lettre à Ernest Duplan du 12 juin 1862, Correspondance III, Paris, Gallimard 1991.
Fonte:
http://www.vg-hortus.it/index.php?option=com_content&view=article&id=137

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