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sabato 20 marzo 2021

"Ogni volta che sentivamo il rumore di un pallone ci fermavamo e cominciavamo a giocare"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



"Ogni volta che sentivamo il rumore
di un pallone ci fermavamo e cominciavamo a giocare"


[...] quando i ragazzini s’erano ormai stufati di giocare, un sabato, alcuni giovanotti più anziani si misero sotto la porta col pallone tra i piedi. Formarono un cerchio e cominciarono a fare del palleggio, colpendo la palla col collo del piede, in modo da farla scorrere raso terra, senza effetto, con dei bei colpetti secchi. Dopo un po’ erano tutti bagnati di sudore, ma non si volevano togliere le giacche della festa o i maglioni di lana azzurra con le strisce nere o gialle, a causa dell’aria tutta casuale e scherzosa con cui s’erano messi a giocare...

[...] Tra i passaggi e gli stop si facevano due chiacchiere. “Ammazzete quanto sei moscio oggi, Alvà!” gridò un moro, coi capelli infracicati di brillantina. “‘E donne”, disse poi, facendo una rovesciata. “Vaffan...”, gli rispose Alvaro, con la sua faccia piena d’ossa.

[...] Cercò di fare una finezza colpendo il pallone di tacco, ma fece un liscio, e il pallone rotolò lontano verso il Riccetto e gli altri che se ne stavano sbragati sull’erba zozza. Allora il Roscetto si alzò e senza fretta rilanciò il pallone verso i giovanotti. [...]


Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita


 
* * *

Una tra le più belle fotografie di Pasolini lo ritrae in strada. Dietro di lui un marciapiede non finito, solo un gradino di marmo e, oltre, un cumulo di erba e terra. Segni di quell’Italia dall’edilizia affaccendata e frettolosa, di una modernità sbrigativa e inconcludente. 
È una giornata di sole e Pasolini è vestito di tutto punto, indossa un abito scuro e le scarpe di cuoio, la cravatta e il pullover sotto la giacca. Nonostante l’abbigliamento, con l’interno del piede destro controlla un pallone, la gamba e il busto formano una sola linea assai inclinata, tutto il peso sull’altra gamba flessa e ben piantata a terra. I pugni sono stretti e le braccia larghe, tese come ali alla ricerca dell’equilibrio; lo sguardo fisso a terra sul suo gesto tecnico, concentratissimo come in una quantità di altre fotografie scattate sui campi da gioco. Dovrebbe esserci un’incongruenza tra quel vestito e l’impegno sportivo, tra quel vestito e il "gioco": sulle gambe i pantaloni si agitano in mille pieghe, sbalzati da cunei di ombra e luce, le code della giacca si aprono come un mantello e sventolano scomposte dietro la schiena. Invece tutto è naturale, in quella foto, la posa e lo sguardo, l’abito e la strada.
È la fotografia più bella del Pasolini calciatore perché il calcio al pallone è in essa un gesto di libertà e di gioia. A indovinare dall’esterno, non si direbbe neppure una partita vera e propria, con tutta probabilità si trattava piuttosto di un incontro non prestabilito: una di quelle occasioni offerte dal caso in mezzo alla strada che lo scrittore aveva accolto di buon grado, unendosi, com’era solito fare, a quelle situazioni in cui non si contrasta e non si segnano dei goal, ma si fa semplicemente volare e correre il pallone, si prova qualche finezza, si urla e si ride mentre la palla l’hanno gli altri.
Pasolini si prende la libertà di sporcarsi e di sudare quando non dovrebbe, di rovinare i suoi vestiti e magari di dimenticarsi di qualche appuntamento. Di sicuro quel mattino annodandosi la cravatta non prevedeva questa piccola occasione per scalmanarsi, ma quando essa si è presentata non ha avuto bisogno di prepararsi o cambiarsi, e neppure di togliersi la giacca. Ha chiamato, ha detto - passamela! - e via.
È il modo di essere libero e tipico del bambino, che può correre senza remore dietro al pallone anche fuori della chiesa, dopo la prima comunione, con il vestito della festa e i mocassini, perché a vedere una palla che salta e rotola non si può star lì a guardare. Oltre i quindici o sedici anni, la vita attenta e pulita opprime, nega la possibilità di un simile divertimento, così estemporaneo e "anarchico", e vedere il poeta in cravatta che gioca per strada a trenta e a quaranta mette addosso una qualche malinconia.

Altra foto. Lo scrittore col pallone tra i piedi sopra una pezza d’erba. Stavolta ha intorno parecchi ragazzi scamiciati. Ancora quella condizione libera, a profusione continua e quasi magmatica, del gioco del pallone, che nella periferia romana riempie le strade e i pomeriggi, tutti gli spiazzi i prati secchi e le comitive.
Tra Pietralata e Monteverde imbattersi in una "partitella" doveva essere cosa abituale e Pasolini partecipava, secondo la testimonianza di Ninetto Davoli, sempre volentieri e con un’accensione di entusiasmo, una sorta di piacevole impellenza alla quale era ben facile arrendersi. In borgata il calcio è continua "improvvisazione", qualche passaggio e qualche corsa, strilli risate e parolacce. Chiunque arriva può aggregarsi. Schiamazzi e polverone sono un basso continuo, sonoro e figurativo; tra sterri e immondizie, nel paesaggio urbano in costruzione di "case non ancora finite e già in rovina" c’è sempre un circolo di giovani o uno sciame di ragazzini che si riversa negli spazi desolati rincorrendo una palla.
Stukas, il nome di battaglia del Pier Paolo Pasolini mezzala, quello che uccellava Citti e Davoli nella polvere dei campetti romani o Reja e Galeone nelle spiagge assolate di Grado, quello fissato col "doppio passo" di Biavati, quello che delirava per Marchesi e Sansone, Reguzzoni e Andreolo, le colonne del "Bologna più potente della storia".
Perché Pasolini adorava il calcio. Lo giocava allo sfinimento, più volentieri di giorno perché senza occhiali non ci vedeva granché. Era tecnico, saettante, sempre nel vivo dell’azione. Circondato dal rispetto, dall’ammirazione dei compagni. E corretto, mai un insulto, uno sgambetto agli avversari. Ecco, magari se perdeva s’immusoniva di brutto, gli successe anche dopo averle sonoramente prese dalla troupe di Bernardo Bertolucci nelle pause delle riprese di Novecento e delle Centoventi giornate di Sodoma.
Pasolini ha catalogato il gioco e i suoi protagonisti. "Il linguaggio del calcio – sosteneva – è Rivera che tocca la palla in un certo modo". L’invenzione. Il ricamo. Il ghirigoro del genio. E’ solo in quell’attimo che si manifesta il linguaggio. Quello del rossonero, per lui, era un calcio in prosa, ma poetica, da "elzeviro". Come quello di Mazzola, con una differenza: "E’ piu’ poeta di Rivera, ogni tanto interrompe la prosa ed inventa lì per lì due versi folgoranti". E ancora: "Riva gioca un calcio in poesia, è un ‘poeta realista’, Bulgarelli gioca un calcio in prosa, è un ‘prosatore realista’".
E il dribbling, il gol, gli attimi che lo entusiasmavano come un appassionato qualsiasi. "Il gol è ineluttabilità, folgorazione, stupore. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Anche il dribbling è di per sé poetico. Infatti il sogno di ogni giocatore è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se si può immaginare una cosa sublime è proprio questa. Ma non succede mai. E’ un sogno, che ho visto solo realizzato nei ‘Maghi del pallone’ da Franco Franchi".
Pasolini si divertiva anche a tranciare giudizi impietosi ("Chinaglia è una mezza punta goffa e delirante, che in tal ruolo non vale neanche un decimo di quello che vale il delizioso, lampeggiante Bettega") e a confessare "sbandate" improvvise ("Capello è un grande. Perché sa fare rifiniture in velocità. Il segreto del gioco moderno, sul piano individuale, è l’esattezza massima alla massima velocità, correre come pazzi ed essere nello stesso tempo stilisti"). Sono concetti espressi quarant’anni fa. Ma luccicano come pepite appena dissotterrate. A conferma che la modernità del pensiero pasoliniano continua a spandersi ovunque. Persino nel calcio, persino nelle curve degli stadi. 


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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