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mercoledì 15 maggio 2013

Attualità e strumentalizzazione di Pier Paolo Pasolini: il caso Israele - Palestina

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Attualità e strumentalizzazione di Pier Paolo Pasolini: il caso Israele - Palestina

di Francesco Mancini


Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi quanto mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là. Nessuno dei miei amici comunisti lo farebbe, per un vecchio, ormai tradizionale e mai ammesso odio contro i sottoproletariati e le popolazioni povere. Inoltre forse tutti i letterati italiani possono essere accusati di scarso interesse intellettuale per il Terzo Mondo: non io. Infine, in questi versi, scritti nel '63, come è fin troppo facile vedere, sono concentrati tutti i motivi di critica a Israele di cui è ora piena la stampa comunista.
Ho vissuto dunque, nel '63, la situazione ebraica e quella giordana di qua e di là del confine. Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del '43, '44: ho capito, per mimesi, cos'è il terrore dell'essere massacrati in massa. Così da dover ricacciare le lacrime in fondo al mio cuore troppo tenero, alla vista di tanta gioventù, il cui destino appariva essere appunto solo il genocidio. Ma ho capito anche, dopo qualche giorno che ero là, che gli israeliani non si erano affatto arresi a tale destino. (E così, oltre ai miei vecchi versi, chiamo ora a testimone anche Carlo Levi, a cui la notte seguente l'inizio delle ostilità, ho detto che non c'era da temere per Israele, e che gli israeliani entro quindici venti giorni sarebbero stati al Cairo). È dunque da un misto di pietà e di disapprovazione, di identificazione e di dubbio, che sono nati quei versi del mio diario israeliano. Ora, in questi giorni, leggendo “l'Unità” ho provato lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese. Possibile che i comunisti abbiano potuto fare una scelta così netta? Non era questa finalmente, l'occasione giusta per loro di “scegliere con dubbio” che è la sola umana di tutte le scelte? Il lettore dell'“Unità” non ne sarebbe cresciuto? Non avrebbe finalmente pensato – ed è il minimo che potesse fare – che nulla al mondo si può dividere in due? E che egli stesso è chiamato a decidere sulla propria opinione? E perché invece “l'Unità” ha condotto una vera e propria campagna per “creare” un'opinione? Forse perché Israele è uno Stato nato male? Ma quale Stato, ora libero e sovrano, non è nato male? E chi di noi, inoltre, potrebbe garantire agli Ebrei che in Occidente non ci sarà più alcun Hitler o che in America non ci saranno nuovi campi di concentramento per drogati, omosessuali e… ebrei? O che gli ebrei potranno continuare a vivere in pace nei paesi arabi? Forse possono garantire questo il direttore del-l'“Unità”, o Antonello Trombadori o qualsiasi altro intellettuale comunista? E non è logico che, chi non può garantire questo, accetti, almeno in cuor suo, l'esperimento dello Stato d'Israele, riconoscendone la sovranità e la libertà? E che aiuto si dà al mondo arabo fingendo di ignorare la sua volontà di distruggere Israele? Cioè fingendo di ignorare la sua realtà? Non sanno tutti che la realtà del mondo arabo, come la realtà della gran parte dei paesi in via di sviluppo – compresa in parte l'Italia – ha classi dirigenti, polizie, magistrature, indegne? E non sanno tutti che, come bisogna distinguere la nazione israeliana dalla stupidità del sionismo, così bisogna distinguere i popoli arabi dall'irresponsabilità del loro fanatico nazionalismo? L'unico modo per essere veramente amici dei popoli arabi in questo momento, non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e più disperata?
Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?”.

Il 6 novembre 2005, sul giornale L'Opinione, diretto da Arturo Diaconale e Renato Brunetta, il secondo in qualità di “direttore politico”, l'intervento di Pasolini, di cui si è riportato il testo, è stato ripubblicato e fatto precedere dalla seguente presentazione: “I dittatori arabi fanno orrore. Comunisti italiani svegliatevi! Un'invettiva ormai dimenticata del poeta assassinato il 2 novembre 1975 contro i miti antisraeliani della sinistra. Fu scritta all'indomani della Guerra dei Sei Giorni sulla rivista Nuovi Argomenti, aprile-giugno 1967, diretta da Alberto Moravia”.
L'articolo di Pasolini era, altresì, seguito da questo commento del giornalista Dimitri Buffa: 
“Se escludiamo il riferimento alla “stupidità” del sionismo, scusabile se consideriamo il testo nel suo insieme, possiamo tranquillamente affermare che Pasolini, al di là di qualunque giudizio letterario, fu un intellettuale onesto e profetico. Invitiamo i nostri lettori ad inviare questo articolo, largamente sconosciuto, a giornali, amici, diffonderlo il più possibile, particolarmente in questi giorni nei quali ricorrono i trent'anni dalla uccisione di Pasolini”1.
Sarebbe appena il caso di sottolineare che scopo dello scritto di Pasolini è condannare le scelte degli esponenti e della stampa del Partito comunista italiano, che vede totalmente ed acriticamente sbilanciate in favore dei paesi arabi e contro lo stato di Israele. Egli non si schiera, cioè, con nessuno dei contendenti o, più esattamente, prende le distanze da entrambi ed esprime solidarietà ed amore per i popoli coinvolti.
Il commentatore Buffa ritiene, invece, di sorvolare sul rigetto pasoliniano della stupidità del sionismo, scusandolo – bontà sua – con un oscuro riferimento a considerazioni di contesto non meglio precisate o comprensibili.
Analogamente, egli ritiene di ignorare del tutto come, nello stesso testo, Pasolini rammenti di aver espresso con largo anticipo “tutti i motivi di critica a Israele di cui è ora piena la stampa comunista”.
Inoltre, non rileva come Pasolini affermi che “Israele è uno Stato nato male”, pur sottolineando, come circostanze attenuanti, come ciò lo accomuni ad ogni altro Stato e come esso costituisca una garanzia contro il sempre incombente pericolo di nuovi olocausti e campi di concentramento.
Con buona pace del giornale L'Opinione, il giudizio negativo di Pasolini sullo Stato di Israele, con le attenuanti già rilevate, accompagnato da commoventi espressioni di amore e simpatia per il popolo israeliano, si riscontra anche in altri interventi del poeta.
Lo si trova chiaramente enunciato, in particolare, in una intervista del 1968 a Jon Halliday, largamente conosciuta, eppure – chissà – forse davvero ignota al commentatore Buffa.
L'argomento è proprio l'intervento su Nuovi Argomenti e il contenuto ne è sostanzialmente una sorta di interpretazione autentica, con cui vengono esplicitati concetti già espressi l'anno prima:
Le poesie pubblicate su Nuovi Argomenti sono poesie che non ho incluso nel volume Poesia in forma di rosa, dove c'è una sezione intitolata Israele nella quale si rende l'idea dell'impressione che ha destato in me quella società. È stata un'impressione contraddittoria, nel senso che io la disapprovo radicalmente in quanto si fonda su un'idea sostanzialmente razzista, messianica e religiosa, l'idea di una Terra Promessa basata su ragioni religiose vecchie di tremila anni, cosa completamente folle. Non accetto la premessa, che è nazionalistico-religiosa: è una cosa orribile, anche se in fondo è lo stesso principio su cui si fondano tutti gli stati.
Però, su questa premessa, è stata costruita una nazione che ispira grande simpatia; ad esempio i kibbutzim, benché siano luoghi tristissimi che fanno venire in mente i campi di concentramento, e la propensione degli ebrei per il masochismo e l'autoesclusione, nello stesso tempo sono qualcosa di nobilissimo, uno degli esperimenti più democratici e socialmente avanzati che abbia mai visto. Inoltre, ho sempre amato gli ebrei perché sono stati degli emarginati, perché sono tuttora oggetto di odio razziale, perché sono stati costretti a restare estranei alla società.
Ma una volta fondato il loro proprio stato non sono più dei diversi, non sono più una minoranza, non sono degli emarginati; sono la maggioranza, sono i normali. E questo mi ha dato una piccola delusione, non saprei esattamente come spiegarla. Loro, che sono sempre stati i paladini della diversità, del martirio, della lotta dell'altro contro il normale, ora sono diventati la maggioranza, i normali: questa è stata una cosa che ho trovato un po' difficile da digerire2.
A ben vedere, il giornalista Buffa incorre, 38 anni dopo, nella stessa scorrettezza che Pasolini rimprovera alla stampa comunista del 1967: non si sogna minimamente, cioè, di “scegliere con dubbio” e, in più, si sforza di “creare” nei suoi lettori l'opinione che gli sta a cuore.
Con un subdolo espediente da illusionista, lascia surrettiziamente credere che il punto di vista sostenuto non sia suo, ma scritto e pensato in epoca non sospetta da Pasolini, di cui sottolinea onestà intellettuale e capacità profetiche, per rafforzare e rendere più credibili le tesi propagandate.
Un tale tentativo di arruolamento postumo a fianco dello Stato di Israele appartiene al tipo di operazioni per le quali Pasolini era solito andare su tutte le furie.
Nello stesso tempo esso costituisce l'implicita conferma della perdurante autorevolezza della figura e del pensiero del poeta-regista a tanti anni dalla scomparsa.
Sulla natura e la portata di tale sua autorevolezza, Pasolini ebbe modo di esprimersi sul Corriere della Sera del 6 ottobre 1974, reagendo in termini altrettanto duri ad un pesante attacco portatogli dal giornale del Vaticano Osservatore Romano (“Non sappiamo donde il suddetto tragga tanta autorevolezza se non da qualche film di un enigmatico e riprovevole decadentismo, dall'abilità di uno scrivere corrosivo e da taluni atteggiamenti alquanto eccentrici”); così rispondeva Pasolini: 
“[…] Ciò che prima di tutto vi si nota è un'idea che a una persona normale sembra subito aberrante: l'idea cioè che qualcuno, per scrivere qualcosa, debba possedere “autorevolezza”. Io non capisco sinceramente come possa venire in mente una cosa simile. Ho sempre pensato, come qualsiasi persona normale, che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba essere qualcosa di sociale e di ufficiale che “fissi” l'autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante, dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più concepire verità al di fuori dell'autorità.
Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta; dall'essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca.
Ma supponiamo, per ipotesi assurda, che una mia “autorevolezza” esista: malgrado me stesso, mettiamo, e decretata oggettivamente nel contesto culturale e nella vita pubblica italiana.
In tal caso la proposizione vaticana è ancora più grave. Infatti essa mette sotto accusa non solo le cerchie culturali, entro cui io opero come scrittore, ma, a questo punto, anche le centinaia di migliaia e, in qualche caso, i milioni di italiani “semplici”, che decretano il successo delle mie opere cinematografiche. Insomma sono colpevoli i critici che mi giudicano e sono degli sciocchi gli spettatori che vanno a vedere i miei film. […]3.
Sembra di poter dire che la autorevolezza di Pasolini era quella stessa dei profeti, priva di ogni autorità o ufficialità o potere di tipo istituzionale, perché così egli stesso aveva voluto che fosse.
È da presumere che non fosse solo per modestia che il poeta-regista attribuisse le proprie capacità ed attitudini all'analisi socio-politica alle caratteristiche del mestiere svolto: 
 Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere4.
Non è, però, che egli si facesse soverchie illusioni circa una qualche esclusività o superiorità delle proprie doti intellettuali e conoscenze, perché proseguiva affermando: “Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere”.
Queste parole di Pasolini contengono un implicito, ma imperituro rimprovero a quanti, in ogni tempo, pur avendo le sue stesse capacità di analisi e fonti di conoscenza, non le esercitano al servizio della verità che pure conoscono.

1 D. BUFFA, Contro i miti antisraeliani della sinistra, in “L'Opinione”, 6.11.2005, p. 3 (l'articolo è rintracciabile su www.informazionecorretta.com/main.php?mediald=21&sez=120&id=14531).
Il testo di Pasolini è disponibile in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 143-146.
2 P. P. PASOLINI, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday (1968-1971), in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1330-1331.
3 P. P. PASOLINI, Scritti corsari, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 356-357.
4 Ivi, p. 363.
Fonte:
http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/attualita.htm


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Curatore, Bruno Esposito

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