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martedì 23 aprile 2013

PASOLINI TEOREMA - Dalla logica della narrazione alla narrativa per immagini.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




PASOLINI TEOREMA
Dalla logica della narrazione alla narrativa per immagini. Appunti provvisori



«È probabile che il tempo abbia già impreso a sfoltire l’opera di Pasolini. Né qui si è voluto discorrere della sua narrativa più nota, che ci sembra di affannoso respiro; mentre alcune pagine di fierissima compattezza stilistica, poemi in prosa, più intensi, spesso, di quelli delle raccolte di versi, si leggono in Alì dagli occhi azzurri; dove si avverte l’incontro di Pasolini con l’onirismo ‘infame’ di uno scrittore come Jean Genet. Ma la sua opera che, in un suo senso, è mostruosa, ossia obbediente a uno dei precetti di Rimbaud (“bisogna farsi un’anima mostruosa”, 1870), in un altro senso si richiama perfettamente al passaggio fra manierismo e barocco. Là dove quasi tutti i poeti suoi contemporanei o immediati predecessori si mantenevano una via d’uscita, una via di salvezza mediante il riserbo, il silenzio o la cosiddetta ‘decenza’, di cui Montale aveva parlato, egli aveva avvertito la necessità morale dell’ ‘indecenza’, del “testimoniare lo scandalo”, del trionfo dell’indegnità e dell’eccesso. Alla sua morte alcuni autori e critici della ‘Nuova Avanguardia’ invecchiata, che già lo avevano combattuto in vita, hanno scritto o detto che con lui era morto l’ultimo rappresentante dell’equivoca simbiosi di vita e di opera. Certo. Ma perché quella convivenza, tardoromantica e decadente, non si dia più, troppe cose devono scomparire nella struttura sociale e nell’organizzazione culturale; fra cui la stessa possibilità di una letteratura “d’avanguardia”. In attesa, anche chi, per coerenza a una propria idea di poesia e di rivoluzione, credette di dover opporre alla disperata voracità e genialità di Pasolini una masschera di insensibilità filistea, onora quella sua fulminea parabola autodistruttiva e disprezza la prudente amministrazione di sé, che è stata di tanti suoi critici».
(Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, pp. 171-172)

1. Il teorema del cinema: racconto o espressività?

Qual è il compito del cinema? Rappresentare o raccontare? Mostrare attraverso immagini di puro flusso visuale il desiderio poetico racchiuso nel suo autore o narrare in maniera anche ellittica o disincarnata una storia esemplare (non foss’altro che per il piacere che dà a chi lo guarda)? Far vedere o far guardare (riprendendo una determinata e classica dichiarazione di Jean-Luc Godard) (1)? L’accusa rivolta a Pasolini di essere un “burocrate” (2) non deve far pensare a un possibile disprezzo di Godard nei suoi confronti; tutt’altro. Solo che alla domanda su che cosa sia più importante se guardare o vedere, se raccontare o mostrare, i due registi risponderebbero in modo totalmente diverse: se Godard non raccontava storie ma le mostrava soltanto concentrandosi sulle immagini (si pensi all’assenza di narrazione di Pierrot le fou del 1965, ad esempio), in Pasolini la narrazione non può prevalere sulla poesia (anche se finisce per fare corpo con essa) ma è, tuttavia, la sostanza della scrittura cinematografica. Il caso di Teorema (1968) è a questo riguardo esemplare. Questo film controverso e bellissimo è, in realtà, a mio avviso, il vero turning point nella produzione cinematografica di Pasolini. In esso, per la prima volta, le immagini fanno vedere qualcosa e non mostrano soltanto. In realtà, dimostrano una tesi (poeticamente dispiegata) che fa corpo con il dispiegarsi del film. A che conclusioni era, infatti, arrivato Pasolini nelle sue riflessioni sul “cinema di poesia” (quelle che poi saranno consegnate al corpus dottrinario di Empirismo eretico del 1972)? :

«Il “cinema di poesia” – come si presenta a qualche anno alla sua nascita – ha dunque in comune la caratteristica di produrre film dalla doppia natura. Il film che si vede e si accepisce normalmente è una “soggettiva libera indiretta” (3) , magari irregolare e approssimativa – molto libera, insomma: dovuta al fatto che l’autore si vale dello “stato d’animo psicologico dominante nel film” – che è quello di un protagonista malato, non normale – per farne una continua mimesis – che gli consente molta libertà stilistica anomala e provocatoria. Sotto tale film, scorre l’altro film – quello che l’autore avrebbe fatto anche senza il pretesto della mimesis visiva del suo protagonista: un film totalmente e liberamente di carattere espressivo-espressionistico. Spia della presenza di tale film sotterraneo non fatto, sono, appunto, come abbiamo visto nelle analisi particolari, le inquadrature e i ritmi di montaggio ossessivi. Tale ossessività contraddice non solo la norma del linguaggio cinematografico comune, ma la stessa regolamentazione interna del film in quanto “soggettiva libera indiretta”. È il momento, cioè, in cui il linguaggio, seguendo un’ispirazione diversa e magari più autentica, si libera dalla funzione, e si presenta come “linguaggio in se stesso”, stile. Il “cinema di poesia” è in realtà, dunque, profondamente fondato sull’esercizio di stile come ispirazione, nella maggior parte dei casi, sinceramente poetica: tale da togliere ogni sospetto di mistificazione alla pretestualità dell’uso della “soggettiva libera indiretta”. Tutto questo, cosa significa? Significa che si sta formando una tradizione tecnico-stilistica comune: una lingua, cioè, del cinema di poesia. Tale lingua tende a porsi ormai come diacronica rispetto alla lingua della narrativa cinematografica: diacronia che sembrerebbe destinata ad accentuarsi sempre più, come accade nei sistemi letterari. Tale tradizione tecnico-stilistica nascente si fonda sull’insieme di quegli stilemi cinematografici, che si sono formati quasi naturalmente in funzione degli eccessi psicologici anomali dei protagonisti scelti pretestualmente: o meglio in funzione di una visione sostanzialmente formalistica del mondo (informale in Antonioni, elegiaca in Bertolucci, tecnicistica in Godard ecc. ecc.). Esprimere tale visione interiore richiede necessariamente una lingua speciale, coi suoi stilismi e i suoi tecnicismi compresenti all’ispirazione, che, essendo appunto formalistica, ha in essi insieme il suo strumento e il suo oggetto. La serie degli “stilemi cinematografici”, così nati e catalogati in una tradizione appena fondata e ancora senza norme se non intuitive e direi pragmatiche – coincidono tutti con dei processi tipici dell’espressione tipicamente cinematografica. Son fatti linguistici puri, e quindi richiedono espressioni linguistiche specifiche. Elencarli significa tracciare una possibile “prosodia” non ancora codificata e funzionante, ma la cui normatività è già potenziale (da Parigi a Roma, da Praga a Brasilia) » (4).

Il linguaggio del cinema, dunque, è fatto di figure stilistiche il cui significato è mutuato dalla letteratura e il cui senso è dato dalla realtà che mostrano: un insieme di rapporti tra oggetti rappresentati e modalità di funzionamento della rappresentazione che costituiscono il modo in cui il cinema rimanda la realtà al suo spettatore. Non rivelazione mimetica né pura metafora del reale, il cinema affronta e si confronta con una realtà fatta di ambiguità stilistiche: ne faranno fede successivamente le “passeggiate nei boschi cinematografici” di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini del 1966 e la riflessione altrettanto meta-cinematografica di Edipo re del 1967. In essi le icone del reale si inseguiranno in un percorso metaforico
conseguente alla natura stessa del rapporto esistente tra immagini e realtà. Ma quale sarà la differenza tra questi film e Teorema di due anni dopo? Fino a che punto Teorema sarà soltanto “cinema di poesia” e non nasconderà tra le sue pieghe una più precisa “volontà narrativa”?

2. Il corpo seduttivo e l’epifania del sacro

Teorema viene realizzato nel cuore del Sessantotto e ne subisce (apparentemente) tutte le vicissitudini sociali, politiche e ideali. Ma non è un film del Sessantotto e/o sul Sessantotto. E’ un film sulle contraddizioni del Sessantotto, semmai – ma è soprattutto un film sull’impatto del Sacro su una società ormai de-sacralizzata e de-mitizzata come quella che la borghesia prepara all’interno della cultura italiana di quegli anni (e i cui esiti si vedranno meglio in futuro). L’occasione della sua uscita nelle sale sembra tanto importante a Pasolini che per l’occasione decide di non pubblicare soltanto la sceneggiatura del film (come era accaduto con tutti i suoi film precedenti – da Accattone in poi) ma di trasformarla in un romanzo (5). Era dal 1959 (l’anno di Una vita violenta (6) che Pasolini non utilizzava questa forma linguistica che all’inizio (con Ragazzi di vit del 1955) gli era sembrata la più congeniale ai suoi intenti e al suo progetto stilistico di scrittura:

«Il 1968 cinematografico di Pasolini si apre con la realizzazione di Teorema, un film che, nella sua disarmata e feroce provocazione, verrà attaccato con violenza da ogni parte: dallo Stato, che lo porrà sotto sequestro intentando nei confronti dell’autore un processo per oscenità; dai benpensanti e dalle destre, accomunati dal disgusto per l’uso spregiudicato e “perverso” della sessualità; dalla critica della sinistra “militante”, da cui sarà accusato di “misticismo”, “reazionarietà” e “religiosità”; e infine anche dal mondo cattolico, che dopo aver conferito al film a Venezia il premio dell’OCIC (Office Catholique International du Cinéma), ha successivamente preso le distanze dalle dichiarazioni dell’autore, soprattutto riguardo all’associazione tra sessualità e senso del sacro. Teorema è insomma il film che più di ogni altro traccia con definitiva nettezza la posizione di progressivo, totale isolamento intellettuale di Pasolini, che sarà trasformato di lì a poco in una specie di “mostro del dissenso” da esorcizzare “facendolo parlare”. Dell’importanza cruciale che l’autore attribuiva al “teorema” che è alla base del film, è segno il fatto che egli abbia esitato a lungo sulla forma attraverso cui esprimerlo: nato come una tragedia in versi (7), Teorema si sviluppa poi come abbozzo letterario composito, a cavallo tra la versificazione e il racconto-inchiesta per frammenti, per assumere infine autonomia dall’opera letteraria in quanto traccia cinematografica, traccia nella quale Pasolini approfondisce ed estremizza la ricerca formale già intrapresa con Edipo re, quella della rinuncia progressiva all’espressione verbale, e alla preponderanza dell’immagine silenziosa, piena, liberata dal vincolo didascalico borghese» (8).

Non a caso Teorema (prima che scorrano i titoli di testa del film) si apre sulla visione di un intervistatore (il recentemente scomparso Cesare Garboli) che chiede angosciato agli operai di una grande fabbrica che si recano al lavoro se la borghesia possa redimere e riscattare se stessa: “Un borghese, anche se dona la sua fabbrica, in qualsiasi modo agisca, sbaglia?”. Poi scorrono i sobri titoli di testa. Un postino che significativamente si chiama Angelo (Ninetto Davoli ancora una volta) porta un telegramma alla villa di un industriale milanese, corteggia un po’ la domestica Emilia (una splendida e ancora giovane Laura Betti) e va via: è l’annuncio (la notizia che aprirà la strada all’evento) dell’arrivo dell’Ospite, un giovane bellissimo e misterioso che verrà tra poco a risiedere presso la famiglia che abita nella grande casa in campagna. I membri di essa sono quelli che tradizionalmente ne permettono (e da sempre) la sopravvivenza in tutte le epoche del dominio della borghesia: un padre, una madre, un figlio e una figlia.
L’Ospite arriva: l’icona prescelta da Pasolini per incarnarlo è il corpo allora ancora prestante di Terence Stamp. Il giovane (che dalle dispense che consulta risulta forse essere uno studente in ingegneria) più che dallo studio sembra però maggiormente attirato dalla lettura dell’edizione Feltrinelli delle Oeuvres/Opere di Arthur Rimbaud nell’edizione e traduzione a cura di Ivos Margoni (l’unica allora ad essere disponibile, peraltro, in un testo decente). Singolare destino di un attore come Stamp! (sfiorito poi assai in fretta e passato a ruoli di uomo maturo): due anni dopo, nel 1970, interpreterà proprio il ruolo di Arthur Rimbaud in Una stagione all’inferno, un film del poeta Nelo Risi sullo scrittore francese e sul suo sodalizio letterario ed erotico con Verlaine dal risultato incerto (una pellicola non perfettamente riuscita e un po’ troppo aneddotica con una sceneggiatura scritta in collaborazione con Raffaele La Capria).
La prima ad essere soggiogata, dominata, affascinata dalla vista del giovane bellissimo è la domestica Emilia che rivela il proprio desiderio di essere posseduta da lui mediante un goffo tentativo di suicidio attuato attaccandosi maldestramente al tubo del gas:

«Un po’ alla volta la contemplazione di quel corpo diventa insostenibile. Ed essa si rivolta inferocita contro la propria tentazione. Torna a scappare, ma questa volta in maniera ancora più clamorosa: ossia piangendo e quasi urlando, come presa da un attacco di isteria. Calpesta l’erba del giardino, come una pecora matta, rientra affannosamente in casa. Riattraversa il soggiorno, si precipita dentro la cucina, e, con un gesto violento ma un po’ sognante e idiota, stacca il tubo del gas, come se volesse addirittura ammazzarsi. Il giovane, stavolta, per forza di cose, ha dovuto accorgersi di lei, e interessarsene. Non può non aver sentito quel pianto e quei singhiozzi pazzi, non può aver intravisto la fuga della donna, che chiaramente pretendeva di essere guardata e presa in considerazione da lui. Quindi la segue quasi correndo, come lei, e la raggiunge nella cucina. Qui la vede, appunto, compiere quei suoi gesti esaltati di pazza protesta. La soccorre. Le strappa il tubo del gas dalle mani, cerca di animarla, di confortarla, di trovar modo di interrompere quel seguito inconsulto di dolore che non riconosce più nulla. La trascina nella sua stanzetta e la distende sul letto: la distende, mentre già Emilia comincia ad agitarsi e a sospirare con meno folle affanno e a mostrare il desiderio di essere calmata e consolata»(9) .
L’Ospite dormirà in casa dividendo la camera con il Figlio Pietro (Andrès José Cruz Soublette) che è suo coetaneo. Quest’ultimo apprenderà dalle proprie difficoltà di rapporto con l’Ospite (farà fatica a spogliarsi davanti a lui prima di andare a letto) della propria vera “vocazione” e finirà per avere un rapporto sessuale (timido e incerto) con lui:

«Piano piano egli tira giù la leggera coperta posata sul corpo nudo dell’ospite, facendola scivolare lungo le sue membra. La mano gli trema, e gli esce quasi un gemito dalla gola. Ma a quel gesto, che lo scopre fino al ventre, l’ospite di colpo si risveglia. Guarda il ragazzo curvo che compie su di lui un atto così assurdo, e subito i suoi occhi si riempiono di quella luce che già gli conosciamo... di quella luce di padre pieno di una confidenza materna... che insieme è comprensiva e dolcemente ironica. Pietro alza gli occhi dal ventre, già scoperto fino alla prima peluria del grembo, e incontra quello sguardo. Non fa in tempo a comprenderlo: la vergogna e il terrore lo accecano. Piangendo e nascondendosi il viso, va a gettarsi sul suo letto e si rintana con la testa contro il cuscino. L’ospite si alza, allora, e va a sedersi sul bordo del letto di Pietro: sta lì un poco immobile a guardare quella nuca scossa dai singhiozzi, poi – col cameratismo di un coetaneo – l’accarezza» (10).

Sarà poi la volta della Madre, di Lucia (una splendida Silvana Mangano): stesa in costume da bagno a prendere il sole sul terrazzo grande della villa, osserva l’Ospite che fa il bagno e gioca con un cane a rincorrersi e a farsi riportare degli oggetti. Presa da un improvviso desiderio di farsi vedere nuda, si strappa il costume di dosso e si offre allo sguardo e poi al corpo eccitato del suo ospite tanto più giovane di lei:

«Con un rapido gesto, quasi sgarbato, Lucia afferra allora il costume, come per infilarselo. Ma poi, quella certa luce d’un calcolo appena divinato le torna negli occhi fissi sulle mattonelle rosse del terrazzino: la decisione di rimanere nuda, e di mostrarsi nuda a lui, era già presa: con la stessa ingenuità quasi isterica e l’acquiescenza di bestia insensibile che avevano dominato la determinazione di Emilia, o quella di Pietro, qualche giorno prima (o dopo). Naturalmente, a differenza di Emilia, essa combatte contro questa determinazione: il pudore e la vergogna – che la sua classe sociale vive in lei – stanno per riprendere il naturale sopravvento; e allora essa deve lottare contro quel pudore e quella vergogna. E ancora una volta, per vincere gli ostacoli della sua educazione e del suo mondo, deve agire prima di caspire. Improvvisamente, stringe in pugno il costume, si alza e lo getta giù, fuori dal parapetto della terrazzina, dall’altra parte dello stagno, verso la boscaglia. Lo guarda, là in fondo, tra erba e rovi, irrecuperabile: il suo stare là è profondamente significativo, la sua perdita e la sua inerzia hanno la violenza espressiva che hanno gli oggetti nei sogni. Ora Lucia è nuda: si è costretta ad esser. Non può avere più pentimenti o ripensamenti. Si volta: il ragazzo è ormai sulla terra cosparsa di ciuffi d’erba sotto lo chalet. Lei lo vede. Lo vede entrare nello chalet, e poi lo vede riuscire, guardarsi intorno, chiamarla. Come una martire, sporgendosi appena dal parapetto Lucia gli grida: “Sono qui!”. Egli si volta, le sorride, con tutta l’inncenza e la normalità della suac giovinezza: e sale agile la scaletta che porta al terrazzino. Compare così contro cielo con i suoi occhi che la guardano subito» (11).

Anche Odetta, la Figlia (l’allora moglie di Jean-Luc Godard, l’attrice francese Anne Wiazemsky), che vive già l’epoca dei suoi primi turbamenti sessuali, dei primi toccamenti e amoreggiamenti “borghesi” (quelli dove poi non si riesce mai ad andare fino in fondo) è attratta e presa dal fascino “paterno” dell’Ospite:

«Essa alza i grossi globi dei suoi occhi su di lui, con la sua boccuccia semiaperta di adenoidea incantata, e lo interroga: poi riabbassa gli occhi sull’album e lo sfoglia a cercare, con una meticolosità pari all’assenza, gli altri pezzi forti dei suoi ricordi famigliari. E l’ospite le sorride. Ma ecco che una sua mano, in un gesto naturale e inavvertito, si posa sopra la coscia, sul grembo, dietro la schiena di Odetta. Essa, a quel gesto, si volta, e guarda la mano – con quella sua assenza meticolosa: poi alza gli occhi su di lui attenta a non cambiare espressione, a mantenere in essi la stessa luce. Ma egli le sorride, paterno e materno, più caldamente, e, come se essa fosse una cosa morta e inerte, l’afferra sotto le ascelle, e la tira su da terra, sollevandola fino alla sua altezza. L’album delle fotografie rotola sul pavimento, e le due bocche si incontrano. È il primo bacio di Odetta, ed essa lo riceve rigida e piena della sua carne intensa, in ginocchio, sostenuta dalle braccia potenti del ragazzo, per cui è così leggera...» (12).

Infine, Paolo (Massimo Girotti), il Padre, pur spesso ammalato ma sempre trionfante agli occhi dei figli come il pater familias per eccellenza, è preso anche lui dal desiderio di congiungersi sessualmente con l’Ospite:

«Eppure il corpo dell’ospite, ricco di carne ma senza alcuna mollezza, abbondante ma puro, tutto, insomma, fecondità figliale, arde lì accanto, al volante, come fosse nudo, dalla grazia del torace e delle braccia tese, alla violenza delle cosce rinserrate tra le grinze della tela quasi estiva. Il padre – Paolo! – lo guarda, e, prima di averlo deciso, lo accarezza. Gli passa la sua mano – che non ha mai accarezzato che la propria moglie o una serie di amanti belle ed eleganti, nel modo dovuto – appena appena, sui capelli, il collo, la spalla. L’ospite sorride lieto; senza nessuno stupore, col suo sorriso infantile e generoso. Si volta, anzi, raggiante, verso Paolo, dando subito alla carezza che ha ricevuto da lui una festosa naturalezza; gli si mostra grato; e lo ricompensa con la sua giovanile allegria; quasi umilmente, come appunto uno nato da una classe inferiore – gli fa capire che non c’è alcuna violazione ad alcunché in quel gesto, che per un borghese è insensato. Tuttavia, in quel sorriso, non balena neanche per un istante la dolcezza di chi si dona. Al contrario, non c’è che la sicurezza di chi dona. Ciò rende Paolo ancora più figlio. Quella indecisa carezza (da cui la mano si è subito ritirata) non è segno di possesso, ma preghiera a chi possiede. Ora, Paolo è uno di quegli uomini abituati da sempre al possesso. Egli ha sempre, da tutta la vita (per nascita e per censo) posseduto; non gli è balenato neanche mai per un istante il sospetto di non possedere» (13).

Dopo essersi congiunto carnalmente con tutti i membri della famiglia, l’Ospite se ne tornerà da dove è venuto. La sua presenza non sarà più indispensabile per avvertire e comprendere l’immanenza del Sacro.
I membri di essa a questo punto vanno pesantemente in crisi. La sola che si salverà sarà Emilia, la domestica: abbandonata la famiglia presso cui lavorava, ritornerà nel borgo rurale da cui proveniva. Cibandosi solo di ortiche, aspetterà il ritorno dell’Ospite nel quale ha ormai riposto tutta la sua fede e la sua fiduciac del futuro. Dopo un’esperienza mistica che la porterà a lievitare oltre i tetti delle case (come avveniva al San Giuseppe Desa da Copertino in A boccaperta di Carmelo Bene (14)), la donna farà dono al mondo delle sue lacrine e si farà seppellire viva per poter ritornare alla Madre Terra da cui è venuta, rinunciando sacrificalmente anche ad attendere il ritorno dell’Ospite per diventarne a sua volta la legittima incarnazione. La domestica Emilia, l’unico personaggio non-borghese, incarnerà, dunque, la speranza in un mondo migliore che c’è già e non è ancora (come avrebbe detto Ernst Bloch). E d’altronde, Egli “era venuto, non era ritornato e forse non tornerà mai più” (è uno dei passi del Rimbaud delle Illuminations letti dall’Ospite durante il suo soggiorno nella villa).
Pietro, presa coscienza della propria omosessualità e divenuto artista dell’avanguardia più outré, finirà con il pisciare platealmente sui propri quadri e giungere alla conclusione che l’artista come tale “non vale niente, è un essere inferiore, un verme che si contorce e striscia per sopravvivere”. Lucia finirà per vivere la propria sessualità in modo assolutamente ed eccessivamente promiscuo cercando di ritrovare in innumerevoli coiti con uomini più giovani di lei le sensazioni provate con l’Ospite ma invano. Odetta finirà in manicomio dopo essersi chiusa in se stessa e aver ceduto a una paralisi isterica che le impedisce di comunicare con nessuno. Il Padre, infine, dopo essere divenuto simile all’ Ivàn Il’ìc di Tolstoj (di cui alcune significative pagine sono richiamate nel romanzo di Pasolini nella bella traduzione di Tommaso Landolfi), dona la propria fabbrica agli operai (sono quelli cui l’intervistatore – Cesare Garboli rivolge la domanda con cui si apre il film) e vaga per Milano in cerca di una risposta alla propria inquietudine. Giunto alla Stazione Centrale, in preda a un improvviso raptus, si denuderà completamente e regalerà tutto ai poveri, quasi un novello San Francesco (15). Poi fuggirà nel deserto a gridare il proprio nulla e la propria impossibilità a essere quello che vorrebbe, condannato, invece, soltanto al proprio annichilimento. Tutti i membri della famiglia, dunque, dopo la visita dell’Ospite e la sua parousia, sono condannati a morire nell’anima e a non manifestare il cambiamento che quella visita avrebbe fatto sperare. L’Ospite giunge invano: il suo tocco guarirà soltanto chi è già fuori dai parametri morali e culturali della borghesia.
Teorema non è però neppure quello che i critici di Pasolini schierati “a sinistra” vollero fargli dire e mostrare. Non è un film “ambiguo” – come continuò a definirlo un critico (pure avvertito e certo qualificato) come fu Adelio Ferrero:

«La conferma viene da Teorema-film, dove l’autore avverte il bisogno di trasporre un discorso molto ripiegato e personale su un piano più largo e, al limite, “esemplare”: quanto più, insomma, la sua esperienza esistenziale preme verso una trascrizione immediata, in termini di confessione e di “urlo”, tanto più egli sente l’esigenza di una mediazione costituita, in questo caso, da un’improbabile borghesia e dalla sua crisi d’identità. La pretesa estrazione e struttura borghese dei personaggi di Teorema è così astratta e programmatica da indurre il regista a questa singolare “spiegazione” programmatica: “L’indignazione e la rabbia contro la borghesia classica, come la si è sempre intesa, non ha più ragione di essere dal momento in cui la borghesia sta cambiando rivoluzionariamente se stessa, cioè sta identificando tutto l’uomo al piccolo borghese”. Dove la sovrapposizione “ideologica” risulta particolarmente fragile e scoperta, pur nel tono apodittico e asseverativo della “conclusione”. La verità è che tutti i personaggi di Teorema, da quelli dichiaratamente borghesi all’ospite misterioso alla domestica miracolata, sono le provvissorie e labili figure di una metafora lirico-autobiografica, a mezza strada tra il referto psicoanalitico e la confessione per poesia, di cui è protagonista assoluto l’autore stesso. Il quale però, non avendo, o non avendo ancora, l’audacia di situare il suo apologo, come sarebbe giusto, fuori di ogni riferimento spazio-temporale determinato e di farlo recitare davanti a fondali neutri (non a caso a questa idea di teatro – “il teatro di Parola” – Pasolini stava pensando e lavorando negli stessi anni), ricorre appunto alla mediazione di un’”estrinseca” trama, mutuata in parte da Pinter e dal “teatro della minaccia”, e di un ambiente al quale non è estranea la suggestione del Deserto rosso di Antonioni (16): la fabbrica con i suoi casermoni squallidi e funzionali, un silos perduto nel silenzio dei campi e, in genere, tutto il paesaggio “industriale”, lievemente sporcato da un velo di nebbia e di smog. Ma bastano pochi, rapidi scorci di una quotidianità allontanata e sospesa, sui quali il film si apre, ad avvertire lo spettatore che quella cui sta per assistere è una sorta di allucinazione poetica, come accadeva appunto in Edipo re»(17) .

Ferrero non coglie la natura mutata della scrittura cinematografica di Pasolini. Il nodo che Teorema esplora in maniera radicale, invece, riguarda proprio il rapporto tra il Sacro e la società borghese nel l’epoca del neo-capitalismo trionfante. Come ha scritto Giuseppe Conti Calabrese:

«Il suo ‘empirismo’ scaturisce anche dalla volontà di trovarsi, sempre partecipe, sul fronte degli avvenimenti, sulla “linea del fuoco” e, come diceva, gettando “il corpo nella lotta”. Il suo modo di procedere, così eterodosso, è per intuizioni contigue attraverso la continua formulazione di nuove ipotesi: far nostro il rischio della scienza. Pasolini non vuole comprendere la realtà nel senso di riconoscervi una verità in quanto ‘corrispondenza’ tra un soggetto della conoscenza e gli oggetti a cui essa si rivolge, finendo con l’affermarsi come unica, con pretese di validità universale. Dichiara, invece, di battersi solo per verità parziali di cui preferisce fare esperienza quali diversi modi di essere al mondo che devono guidarlo alla scoperta della realtà, immerso in essa in maniera lacerante e indifesa. Libertà di un pensiero decisamente ‘eretico’ che a partire dal suo sentimento del sacro, lo conduce nella percezione della realtà, a quella cognizione del diverso antitetica a ogni forma di sintesi teorica, lasciandolo sempre in una disposizione problematica. Non per questo i risultati a cui le sue riflessioni approdano si sottraggono a qualsiasi dimostrazione: Pasolini stesso è disposto a verificarli pubblicamente, inscrivendoli provocatoriamente in formulazioni “teorematiche” da comprovare. Un esempio, del resto, lo si ha proprio con il film Teorema che “come indica il titolo si fonda su un’ipotesi che si dimostra matematicamente per absurdum. Il quesito è questo: se una famiglia borghese venisse visitata da un giovane dio, fosse Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe?”. Quest’opera è tutta nel tentativo di mostrare come in epoca moderna una potente e violenta manifestazione del sacro rivelerebbe un ‘sapere’, altrimenti inccessibile, generalmente negato dalla cultura dominante, ma in grado di metterla irrimediabilmente in crisi. Il “teorema” pasoliniano, dotato di una carica eversiva, si sviluppa in alcuni precisi passaggi che consentono di osservare il mutamento che avverrebbe in un nucleo familiare (visto quasi come un laboratorio) nel trovarsi a fare esperienza del sacro. E’ perciò necessario ripercorere e analizzare le varie fasi della dimostrazione tanto nel romanzo quanto nel film, per comprendere caratteristiche e significato attribuiti a un eventuale contatto tra uomo e divino, qualificato come “l’incontro con l’alterità che non ha nulla a che fare con la psicologia. La religiosità non è vista come religio catto-cristiana, ma in assoluto”. Quello che a Pasolini interessa è la rilevanza fenomenologica della manifestazione divina, indipendentemente da qualsiasi confessione, credenza e istituzione religiose, di cui offre una visione quasi affine a quella teorizzata da Rudolf Otto, in particolare laddove lo studioso tedesco individua nel tremendum il predicato che meglio descrive la violenta apparizione della divinità, determinata da quel carattere demoniaco avvertibile quando si manifesta con la sua ira: qualcosa che “divampa e si rivela misteriosamente come una forza recondita della natura – come si usa dire – come una corrente elettrica la quale si scarica su chiunque si faccia vicino”(Rudolf Otto, Il sacro, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 27)»(18).

Nei diversi episodi che lo compongono, Teorema trova le proprie diverse forme-sens (19) nell’esplorazione dell’impossibile redenzione di una borghesia che vuole cambiare il proprio mondo (interiore ed esteriore) senza cambiare se stessa. L’analisi di questa assoluta impossibilità della borghesia a riformare internamente se stessa per riuscire a riconciliarsi con i propri conflitti intestini e con le forme economico-sociali che l’hanno preceduta diventerà poi il tema principe delle proposte filmiche e letterarie che contraddistingueranno il Pasolini successivo, non ultimo il grande “elenco delle perversioni umane” verificato nei fotogrammi di Salò-Sade del 1975 e in quello che avrebbe dovuto essere il suo film più devastante e apocalittico se fosse stato realizzato: il Porno-Teo-Kolossal di cui ci restano soltanto le sinossi provvisorie (20).



1) “Ci sono grosso modo due generi di cineasti. Quelli che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che camminano con la testa alta. I primi per vedere quel che avviene attorno a loro sono costretti ad alzare spesso e d’improvviso la testa e a girarla ora a sinistra ora a destra, e cogliere con una serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi vedono. I secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro attenzione sul punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film, le inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle dei secondi precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi sdi troverà un découpage senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di macchina non solo di straordinaria precisione in teatro di posa ma con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang). Bergman fa parte piuttosto del primo gruppo, quello del cinema libero. Visconti del secondo, quello del cinema rigoroso. Per conto mio, preferisco Monika a Senso e la politica degli autori a quella dei registi” (“Bergman contro Visconti”, in J. – L. GODARD, Il cinema è il cinema, trad. it. e cura di A. Aprà , Milano, Garzanti, 19812, p. 102).
2) Dalla Premessa di Pier Paolo Pasolini a J. – L. GODARD, Il cinema è il cinema cit., pp. 13-14: “Godard ha colto il “significato” del “significante” burocrate, come un ornitologo che infilzi con l’ago un insetto al volo. Perché l’ha fatto, nei miei confronti? Perché io mi occupo di linguistica e di semiologia (male, da dilettante, come peraltro asseriscono alcuni professori universitari, autori – cronologicamente dietro mia iniziativa – di fumosi e illeggibili scritti di semiologia del cinema, forse culturalmente esatti, ma senza un’idea). Nel momento in cui mi occupo di linguistica e di semiologia sono, per Godard, dunque, un rompiscatole. E quindi un burocrate. Perché l’università è burocratica; perché l’accademia è burocratica; perché la specializzazione è burocratica; perché il lavoro è burocratico. E Godard, temendo di essere mangiato da tutta questa burocrazia, sospende ogni “distinguo” e si difende in blocco dai rompiscatole. In cosa consiste, insomma, l’evidente equivoco del mio dolce, umanissimo amico Godard? Consiste nel credere ingenuamente che ogni linguistica e ogni semiologia siano normative…”.
3) Pasolini mutua questa figura stilistica dalla tradizione novecentesca più classicamente “sperimentale” (Verga, Pirandello, Svevo, ad esempio, ma soprattutto l’amato Gadda e il forse insospettabile Bassani). Il ricorso è deliberatamente “letterario” e salta a piè pari tutti i possibili modelli di riferimento neorealistico: il Visconti di La terra trema, ad esempio, o il Rossellini “didattico” degli ultimi film per la TV. Il punto di riferimento stilistico-retorico di Pasolini è, ovviamente, Lo stile indiretto libero in italiano di Giulio Herczeg (Firenze, Sansoni, 1963).
4) P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 19812, pp. 183-184.
5) P. P. PASOLINI, Teorema, Milano, Garzanti, 1968 e sgg.
6) Una vita violenta esce presso Garzanti di Milano in quell’anno e sarà al centro di un violentissimo dibattito sulla natura della narrativa cosiddetta “populista”che vedrà campeggiare la figura polemica e criticamente negativa di Alberto Asor Rosa (cfr. le parti centrali di Scrittori e popolo, Roma, Savonà e Savelli, 1965 e sgg.)
7) Interessanti spunti su questa primitiva “possibilità” dell’opera pasoliniana sono contenuti nella parte centrale del bel saggio di Stefano Casi dedicato ai Teatri di Pasolini (Milano, Ubulibri, 2005).
8) S. MURRI, Pier Paolo Pasolini, Roma, Il Castoro, 1994, p. 97.
9) P. P. PASOLINI, Teorem cit. , pp. 28-29.
10) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp. 38-39.
11) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp. 44-45.
12) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp. 72-73.
13) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp
14) C. BENE, A boccaperta, Milano, Linea d’Ombra Edizioni, 1993 (la prima edizione di questo straordinario testo di Carmelo Bene è però del 1976).
15) In Cuore sacro, un film di Ferzan Ozpetek di trentasei anni dopo fortemente debitore al Teorema di Pasolini, sarà l’attrice Barbara Bobulova, nel ruolo di Irene Ravelli, una ricca e precedentemente spietata imprenditrice-strozzina, a compiere questo stesso gesto che fu del Poverello di Assisi.
16) Questa ipotesi è del tutto improbabile: Pasolini amava quel film e lo difese spesso a spada tratta ma i suoi temi, i suoi modi e l’approccio stilistico di Antonioni non gli erano certo congeniali (cfr. Pier Paolo Pasolini, I film degli altri, a cura di T. Kezich, Parma, Guanda, 1996, soprattutto pp. 78-82).
17)A: FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 19942, pp. 99-100.
18) G. CONTI CALABRESE, Pasolini e il Sacro, Milano, Jaca Book, 1994, pp. 89-91.
19) Per questo concetto chiave dell’analisi critica dei film, cfr. F. VANOYE – A. GOLIOT-LÉTÉ, Introduzione all’analisi del film, trad. it. di D. Buzzolan, Torino, Lindau, 1998, p. 132.
20) Su quello che avrebbe dovuto essere il film successivo a Salò-Sade e che non è stato mai realizzato al modo in cui Pasolini avrebbe voluto – I magi randagi di Sergio Citti del 1996 non essendone che la pallida ombra fiabesca – cfr. Laura Salvini, I frantumi del tutto. Ipotesi e letture dell’ultimo progetto cinematografico di Pier Paolo Pasolini, Porno-Teo-Kolossal, Bologna, CLUEB, 2005.


Fonte:
 http://www.graffinrete.it/dismisura/articolo.php?a=1&f=3&p=10



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