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lunedì 22 aprile 2013

Pasolini e Gramsci - Crisi e declino dell’intellettuale organico

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Claudio Valerio Vettraino
Crisi e declino dell’intellettuale organico
Pasolini e Gramsci

In una personale ma allo stesso tempo radicalmente sociale riflessione, amara e pessimistica, Pasolini analizza l’ineludibile metamorfosi che sta trasfigurando il Paese da agricolo a industriale-terziario (nel breve arco di dieci anni, dal 1955-1965) e in cui si riflette la totalità dell’azione intellettuale dell’epoca, certificandone l’incapacità di attecchire e di preconizzare una possibile utopia, foss’anche artistica e di ridefinizione complessiva di un linguaggio, di uno spazio comunicativo orizzontale e democratico, in cui tutti possano dire la loro e denunciare il proprio stato di minorità e sottomissione. Nella progressiva emarginazione del suo essere coscienza “illuminata” d’avanguardia, Pasolini iscrive attentamente il processo storico attraverso cui il soggetto fino allora idealisticamente dominante e cioè la volontà-coscienza dell’autore o dell’intellettuale nel suo rapporto con la realtà, cede inesorabilmente il passo all’oggetto stesso del divenire storico, ai processi epocali che quotidianamente lo ridefiniscono agli occhi di chi lo sa carpire e comunicare attraverso l’arte, il cinema e la poesia.
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La funzione dell’intellettuale organico - Pasolini coscienza “illuminata d’avanguardia”: il feticismo del denaro e l’omologazione consumistica - La metamorfosi dell’intellettuale: da Gramsci all’afasia etico-comunicativa.

La funzione dell’intellettuale organico
In quasi dieci anni, da Uccellacci e Uccellini del 1966 a Salò del 1975, si consuma la parabola umana, artistica ed intellettuale di Pier Paolo Pasolini.
Uccellacci e Uccellini rappresenta a tutti gli effetti il tentativo di una riflessione pasoliniana non solo dell’esaurirsi oggettivo di un mondo politico e sociale (o viceversa il suo acuirsi barbarico e perciò regressivamente trasfigurante dello stesso), del sottoproletariato urbano espulso dalle campagne, con tutta la sua millenaria cultura e simbolismi tradizionali, ormai in stato confusionale, assoggettato alle logiche della “civiltà dei consumi” e dell’alienazione di massa, ma della funzione dell’intellettuale come elemento organico ad un determinato blocco storico-sociale, di chiara impronta gramsciana . E’ emblematica di questa precisa metamorfosi storico-linguistica, di questa profonda rivoluzione antropologica oltre che psicologica e sociale – come asserirà lo stesso Pasolini riflettendo sull’onnipervasività del boom economico italiano –, una battuta sussurrata con amarezza in Uccellacci e Uccellini dal corvo-intellettuale di sinistra che segue il pellegrinaggio tragicomico di Totò e Ninetto Davoli attraverso le baraccopoli, le rovine, i vecchi casali caduchi dell’estrema periferia romana, posta anch’essa (non sappiamo se volontariamente) al confine tra città e campagna, simbolo stesso del limite che separa intellettuali e classe operaia, “complessità dell’autore” e “semplicità degli uomini che descrive”: «Non vi chiedo neppure dove andate..Le mie parole cadono nel vuoto, parlo a uomini che non sanno più dove andare..».
In questa personale ma allo stesso tempo radicalmente sociale riflessione amara e pessimistica di Pasolini, sull’impotenza del verbo poetico e filmico nel proporre un argine critico concreto a questa ineludibile metamorfosi che sta trasfigurando il Paese da agricolo a industriale-terziario (nel breve arco di dieci anni, dal 1955-1965), si riflette la totalità dell’azione intellettuale dell’epoca, certificandone l’incapacità di attecchire e di preconizzare una possibile utopia, foss’anche artistica e di ridefinizione complessiva di un linguaggio, di uno spazio comunicativo orizzontale e democratico, in cui tutti possano dire la loro e denunciare il proprio stato di minorità e sottomissione.

Pasolini coscienza “illuminata d’avanguardia”: il feticismo del denaro e l’omologazione consumistica.
L’incontenibile eros vitale e di gaia incoscienza nel dolore, la millenaria abilità nel mantenersi “semplici” creature del mondo connessa alla lotta brutale per la sopravvivenza dei sottoproletari e in genere “della gente del popolo” (senza vedere in questa definizione alcuna retorica ottocentesca o risorgimentale), si contrappone e demolisce nei fatti, la centralità strategica del pedagogismo intellettuale degli anni ’50 e ’60.
Nella progressiva emarginazione del suo essere coscienza “illuminata” d’avanguardia, Pasolini iscrive attentamente il processo storico attraverso cui il soggetto fino allora idealisticamente dominante e cioè la volontà-coscienza dell’autore o dell’intellettuale nel suo rapporto con la realtà, cede inesorabilmente il passo all’oggetto stesso del divenire storico, ai processi epocali che quotidianamente lo ridefiniscono agli occhi di chi lo sa carpire e comunicare attraverso l’arte, il cinema e la poesia. In questa dialettica ormai sbilanciata verso l’oggettività operante del processo storico (non sempre progressivo ), diretta a valorizzare gli agenti che soggettivamente – attraverso la formula hegeliana dell’eterogenesi dei fini o “della mano invisibile di Smith” – articolano un percorso e un destino comune nell’elaborazione di un tessuto economico-sociale determinato, il ruolo tradizionale della riflessione intellettuale viene meno, la coscienza preconizzante (o forse qualsiasi forma di coscienza) viene meno, non riuscendo più a interloquire con i bisogni reali di quelle stesse masse o soggettività rivoluzionarie che pretenderebbe di risvegliare ed organizzare oltre che a ritagliarsi un determinato spazio di linguistico-comunicativo meticoloso ed efficace per definirli e riqualificarli, renderli vivi, concreti ed auspicabili, porli come premessa di quella che Agnes Heller, nel suo La teoria dei bisogni in Marx, definisce rivoluzione sociale totale, il ritorno dell’umanità a sé dopo il superamento dell’alienazione capitalistica.
Nell’afasia e nel mal celato scherno che intercorre tra il corvo-intellettuale (che rappresenta, dobbiamo dirlo, una determinata tipologia e funzione storica dell’intellettuale e non l’intellettuale tout court) e i due protagonisti Totò e suo figlio Ninetto, vi è non solo il cronico distacco, ormai millenario, tra coscienza soggettiva e realtà oggettiva, che neppure le rivoluzioni borghesi e quella russa di Lenin sono riuscite a colmare, data la forza schiacciante della scissione capitalistica mondiale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, segnalando con ciò l’impossibilità di un effettivo ritorno dell’umanità a sé auspicato dalla Heller, ma la tragica consapevolezza dell’impotenza storica dell’intellettuale nell’indicare un’utopia per quanto possibile concreta, una prospettiva comune, preconizzare un linguaggio critico condiviso e comprensibile, comunicabile, avvertire di un pericolo ritenuto – forse ingenuamente – imminente, la fine di un mondo che probabilmente è la fine del mondo, emancipare – con lo sforzo artistico - le masse dalla propria alienazione, dal feticismo del denaro e dell’omologazione consumistica; le masse vivono nell’alienazione, si riflettono nella loro stessa essenza-esistenza alienata ed alienante, seguendo le indicazioni di Marcuse, come fosse la loro stessa quotidiana normalità, o meglio, è la loro quotidiana normalità, ne respirano l’aria senza accorgersene, costruiscono i loro simbolismi, le loro abitudini, le loro tradizioni, il loro modo di essere al mondo nell’alienazione, nel loro costante proiettarsi al di fuori di sé, rendendosi in qualche modo complici oggettive de suo ridefinirsi sociale complessivo; viceversa se decidono di uscirne lo fanno autonomamente, istintivamente, intuitivamente, irrazionalmente (recuperando la loro stessa dimensione etico-naturale “primitiva” ed elementare di soggetti irriducibilmente antagonisti al piano di sviluppo capitalistico ), senza ricorrere alle fantasie analitiche, alle necessità scientifico-filosofiche dell’intellettuale.

La metamorfosi dell’intellettuale: da Gramsci all’afasia etico-comunicativa
Per riassumere, l’intera stesura di Uccellacci e Uccellini, con tutta la pletora dei suoi personaggi tratti, se vogliamo, dalla cruda commedia della vita , permette a Pasolini di preconizzare il passaggio epocale dall’intellettuale organico gramsciano (in base alla convinzione che non vi sia più un mondo storico-sociale e un soggetto rivoluzionario determinato da rappresentare ) all’osservatore critico, all’opinionista disorganico , all’intellettuale soggettivo, anche se non meccanicamente individualista e soggettivista, che può ricostruire con enorme fatica (in epoca di totale omologazione e reificazione del Logos in quanto pensiero-parola), un vocabolario che non miri idealisticamente ad essere omogeneo all’estro creativo dell’autore, all’invenzione stilistica, ad un’estetica spiritualistica audace e provocatoria (D’Annunzio), ma che riesca nel miracolo dialettico di porsi orizzontalmente in ascolto dei bisogni popolari, delle sue istanze di trasformazione, per rielaborare verticalmente, e cioè artisticamente, concettualmente, i dati raccolti.
L’organicità gramsciana può essere mantenuta nel non smarrire mai il nesso storico – indicato dal marxismo – tra teoria e prassi, concetto e storia, realtà e pensiero, bisogni e volontà.
Con Salò il discorso si acuisce e si complica enormemente. Salò non solo certifica ma radicalizza il pessimismo pasoliniano (divenuto cosmico), nella certificazione di un’afasia comunicativa ormai divenuta cronica ed irreversibile tra il suo voler essere intellettuale organico in una società sempre più disorganica e disomogenea, lacerata e scissa al suo interno e in precario equilibrio come quella italiana , e masse popolari, oltre che tra intellettuale e classe politica e fra intellettuale e intellettuale. La violenza cinica e barbara del fascismo, il sadismo grottesco e autenticamente disumano e disumanizzante dei notabili vittime-carnefici (secondo le indicazioni di Sade ), rappresentano a pieno la drammaticità indicibile (sebbene così comunicabile) del passaggio ulteriore e quanto mai definitivo di Pasolini nel cogliere – nell’esaurirsi oggettivo della funzione tradizionale dell’intellettuale organico gramsciano come espressione di un determinato blocco storico-sociale – l’annichilimento soggettivo di un’ideologia, di un progetto radicalmente alternativo al dominio capitalistico vigente, alla primitività delinquenziale, all’istinto autodistruttivo ed alienante del potere (paradossalmente “impotente”, paleo-industriale, ancora feudale, baronale) della borghesia italiana.
La sconfitta soggettiva, dettata dall’afasia etico-comunicativa dell’intellettuale , viene inscritta ed esasperata nel rapporto dialettico con l’intempestività (unzeitgemasse), l’anacronismo spazzante di un’ideologia burocratizzata d’emancipazione dell’intera umanità dalle catene della servitù antropologica, sociale ed economica Nell’orrore banale del male (Hannah Arendt), nell’infliggere patetiche sofferenze ai servi, i padroni realizzano la propria stessa alienazione, il loro essere soggettività brutale ed anonima, strumento fine a sé stesso del potere che esercitano e che rappresentano come elementi attivi del Thanatos (istinto di morte) nei confronti dell’Eros popolare irriducibile. La violenza cieca elevata a sistema di gestione sociale delle popolazioni, tema caro a Michel Foucault , serve sì a Pasolini per marcare le differenze antropologiche oltre che ideologiche tra servi e padroni e dunque aprire un piccolo barlume di speranza o d’illusione pietosa in una possibile presa di coscienza della natura di classe irriducibile della società borghese, sottolineare l’ipocrita dualità del potere fascista (e forse di ogni potere), nell’esibirsi come pomposa retorica di perfezione civile e di ingegneria sociale indiscutibile, e allo stesso tempo clownesca recita di un corpo trafitto e abusato come luogo privilegiato in cui – per dirla con Gilles Deleuze – si scrive la grammatica del potere, oltre a sigillare l’impossibilità di essere compresi e dunque opportunamente criticati, dai soggetti etico-sociali a cui il film dovrebbe essere indirizzato, cioè quei giovani, quelle masse proletarie e popolari, soffocate dall’omologazione consumistica imperante, impregnate di una medesima coscienza reificata, di medesimi costumi alienati, impossibilitate a comprendere qualcosa che va al di là di questo piano d’immanenza. Il dovrebbe è d’obbligo anche secondo le indicazioni stesse di Pasolini, convinto in una celebre intervista che i giovani non possano capire nulla del suo film, perché la società gli ha privato – attraverso la crisi della scuola, dell’università e della cultura sociale e delle tradizioni popolari millenarie – degli strumenti critici adatti ad apprendere e giudicare quanto emerso dal film. L’orrore che inghiotte tutto e che fa da sfondo mistico-simbolico al trauma barbarico di un cieco sadismo, rappresenta indubbiamente il buco nero comunicativo, l’afasia non artistico-espressiva (anzi, sempre più alta ed evocativa) ma linguistica, verbale, grammaticale, concettuale in cui cade l’intellettuale organico e la sua idea di società, annichilendo nei fatti «come l’arte sia sempre più legata ad una determinata cultura o civiltà, e lottando per riformare la cultura, si lotta a creare una nuova arte, perché si modifica l’uomo», come lo stesso Gramsci ci aveva più volte indicato. La violenza fascista come radicalizzazione dell’impotenza borghese nel gestire le sue stesse contraddizioni interne, diviene il contesto generale e la leva dello scollamento oggettivo delle masse dalla propria ansia di cultura ed arte, dal bisogno filosofico ed etico di trasformarsi, evolversi per trasformare ed evolvere la realtà capitalistica che le circonda e le aliena quotidianamente.

Claudio Valerio Vettraino
Fonte:
http://www.storiaestorici.it/index.asp?art=239&arg=6&red=2

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Curatore, Bruno Esposito

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