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venerdì 26 aprile 2013

Lucciole, voci e pale d'altare. Pier Paolo Pasolini e l'etica del paesaggio culturale.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Lucciole, voci e pale d'altare.
Pier Paolo Pasolini e l'etica del paesaggio culturale.

di Serenella Iovino
"La democrazia non è né una
forma di governo, né un'opportunità
sociale, ma una metafisica della relazione dell'uomo e della sua esperienza con la natura".
(J. Dewey, Characters and Events, New York, 1929, 43)
"Chi non la conoscerà, questa superstite terra, come ci potrà capire? Dire chi siamo stati?"
(P.P. Pasolini, B, I, 544)

 Sin dalla gioventù, trascorsa a cavallo tra guerra e resistenza, Pasolini concepisce l'attività intellettuale come un compito civile: basta guardare agli articoli politico-culturali del periodo universitario o alle numerose lettere scritte dal '43 al '48 per cogliere in lui l'idea di una coincidenza di poesia e prassi, in vista di una "missione educatrice" della sua generazione (L, I, 156). Con gli anni questa consapevolezza si acuisce, e l'opera di Pasolini, intellettuale gramsciano e marxista "eretico", si fa sempre più attenta ai mutamenti storici, sociali ed economici, fino a diventare lo strumento di una aperta denuncia. Tale denuncia si condensa intorno a una proposta etica che potremmo definire "ambientalistica": per Pasolini l'artista deve, attraverso la sua opera, interpretare, custodire e proteggere un paesaggio culturale. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo ambiente geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio composito e stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d'immagini artistiche che questo ambiente elaborano e trasmettono. Ciò spiega perché, in un frammento d'autoritratto en poète, Pasolini veda se stesso come una "forza del passato":
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro sulla Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. (B, I, 619)


Dal Friuli a Roma: Pier Paolo Pasolini con la madre Susanna Colussi
Questo saggio è un tentativo di leggere l'opera di Pasolini in chiave etica e, più precisamente, di seguire in essa lo svilippo di un'etica del paesaggio culturale: un'etica, cioè, sorretta dall'idea che l'ambiente, quale deposito di storia, di lingua, di cultura, sia di per sé dotato di valore (1) . Dalle prime poesie in friulano all'epilogo di Salò, infatti, Pasolini ricrea questo paesaggio mostrandone la fragilità e, allo stesso tempo, la "forza rivoluzionaria": una forza politica, democratica, che proprio in quanto forza culturale, rappresenta la barriera naturale contro il sonno della ragione dei regimi totalitari. Con le sue prospettive talora unilaterali e provocatorie, allora, il messaggio dell'artista appare un invito a riappropriarsi della dimensione etica della cultura, e a vedere come oggetto e territorio di cultura un paesaggio concreto e ideale, un ambiente storico, naturale e umano.

I - Paesaggio, lingua, memoria.

Fontana di aga dal me paìs.
A no è aga pì fres-cia che tal me paìs.
Fontana di rùstic amòur.

(Fontana d'acqua del mio paese.
Non c'è acqua più fresca che nel mio paese.
Fontana di rustico amore.) (B, I, 13)

Il primo intreccio tematico che si presenta all'attenzione del giovane Pasolini, filologo e poeta, è il legame tra paesaggio, memoria e lingua. La lingua, nella sua pluralità di tradizioni e di volti, esprime una realtà molto più ricca e multiforme rispetto a quella del territorio "ufficiale" di un paese. Pasolini lo scopre con il dialetto friulano, la lingua della terra di sua madre, da lui utilizzato per la sua prima raccolta di versi, le Poesie a Casarsa (1942, poi ampliato come La meglio gioventù, 1954). Casarsa, il paese materno, è una "intatta provincia dell'atlante neolatino"(2): un atlante, dunque, non tanto geografico quanto soprattutto storico e linguistico.
Questo legame immediato tra linguaggio, storia e paesaggio ricorda alcuni passi delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein: "Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade dritte e regolari, e case uniformi. [...] Immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita"(3). È esattamente la vita di una lingua anteriore all'italiano e "infinitamente più pura" che Pasolini trova nel dialetto friulano. Una lingua che, nella sua natura arcaica, lo conduce in un percorso a ritroso "lungo i gradi dell'essere", in un avvicinarsi al mondo attraverso parole che sembrano essere state create insieme con le cose. E, soprattutto, in una dimensione in cui la storia si conserva immediatamente nel paesaggio:

...Ciasarsa
- coma i pras di rosada -
di timp antic a trima.

(...Casarsa
- come i prati di rugiada -
trema di tempo antico.) (B, I, 17)

In questo recupero non è tuttavia in gioco un'operazione localistica, "dialettale": Pasolini, in fondo, era "in parte straniero" alla realtà friulana (I parlanti, 229). Si tratta, al contrario, di un progetto estetico e culturale, in cui il friulano è l'esempio di una realtà linguistica che serba ancora intatta una verginità poetica: "Io continuo a sperare di far nascere in Friuli una corrente poetica viva, moderna, non vernacola", leggiamo in una lettera del 1946 (L, I, 235)(4). Si può anzi parlare, specie per le prime prove, di un "esperimento altamente recherché di "poesia pura"", in sintonia con il gusto ermetico di quegli anni(5).
Nel suo primo importante saggio critico, l'introduzione all'Antologia della poesia dialettale italiana, analizzando la poesia friulana, Pasolini scrive di sé: "egli si trovava in presenza di una lingua da cui era distinto: una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente: il suo regresso da una lingua a un'altra - anteriore e infinitamente più pura - era un regresso lungo i gradi dell'essere. [...] Conoscere equivaleva a esprimere. Ed ecco la rottura linguistica, il ritorno a una lingua più vicina al mondo" (PI, 116).
Pasolini e il Friuli sono dunque legati da un rapporto che è sì genetico, ma soprattutto d'elezione. Ben presto, allora, quasi per un'eterogenesi dei fini, l'estetismo si trasforma in realismo, e il realismo in volontà documentaria(6). Imparare a usare il dialetto come "strumento di ricerca" implicava però un passaggio preliminare: imparare il dialetto. Ciò è significativo, se si tiene presente che il friulano non era normalmente parlato dalla madre di Pasolini: la media borghesia, infatti, si esprimeva in veneto. Il friulano di Casarsa, invece, è una lingua materna, poiché arcaica, contadina, una sorta di mistero pre-istorico: di qui l'idea di un percorso a ritroso "lungo i gradi dell'essere". La situazione linguistica del Friuli si presenta a Pasolini come profondamente composita: oltre al friulano, con differenti sfumature locali, le lingue parlate sono infatti un veneto "bastardo", e un "incerto italiano": "Trilinguismo, dunque; e se poi si aggiunge che in molte zone di confine vigono dialetti slavi o tedeschi, si dovrà parlare addirittura di plurilinguismo" (SLA, I, 432).

Lo scenario come citazione: le architetture gotiche nel Decameron
Calarsi in questo territorio culturale significa calarsi in una realtà socialmente, oltre che linguisticamente, diversa rispetto a quella da cui Pasolini proveniva. Così ricostruito, però, il Friuli diventa un paesaggio linguistico, storico, estetico da contrapporre all'Italia fascista. In un'Italia di fatto priva di un'identità unitaria, ancora in gran parte rurale e dialettale, il regime fascista costruiva le sue astrazioni nazionalistiche anche sul rifiuto dei particolarismi linguistici. In questa Italia, la scelta di un dialetto di frontiera come lingua poetica è un primo, quasi involontario atto di disobbedienza civile. La realtà che Pasolini decide di rappresentare ha anch'essa un volto poeticamente provocatorio. È, infatti, una realtà lontana dalle retoriche dell'Italia fascista, piccolo-borghese e tristemente coloniale: l'Italia della miseria contadina, delle lotte dei braccianti contro i padroni, delle povere feste di paese o delle gite in bicicletta sul Tagliamento. È questo l'orizzonte delle prime prove narrative e del "diario linguistico" (in terza persona) I parlanti. E così, tra autobiografia e analisi sociale, Pasolini descrive il mondo che gli dà la sua prima coscienza politica: "ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra [...]. Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci" (Al lettore nuovo, 10)(7).


In questi primi anni della sua formazione ci troviamo quindi di fronte a un Pasolini che è insieme un poeta, un filologo, un attivista politico. Ma non solo: matura adesso, sotto l'impulso di Roberto Longhi, di cui Pasolini è allievo a Bologna(8), la grande passione per la tradizione figurativa italiana, da Giotto e Masaccio alla pittura italiana "minimalistica" del Novecento di Morandi e De Pisis. Ecco allora un altro importante elemento per la definizione del paesaggio culturale. Esattamente come una lingua, la rappresentazione pittorica dei luoghi è un'ulteriore elaborazione di una memoria storica e di un'identità civile. Anche questo si riverbera sul rapporto col Friuli, terra della "campagna dipinta da Palma il Vecchio e da Cima" (SLA, I, 458). Negli stessi anni, inoltre, Pasolini dipinge; e il suo stile non può che essere, anche in questo caso, "dialettale"(9). E alla Pittura dialettale, categoria applicata all'arte dei "macchiaioli" toscani, egli dedica un saggio e una serie di interventi critici (SLA, I, 563-65). Del resto, secondo le varianti della contaminazione, tale interesse per il linguaggio pittorico del genius loci si traduceva in versi già dalle Poesie a Casarsa (Per il "David" di Manzù, B, I, 21; B, II, 1196), fino a culminare in Quadri friulani (1955), scritta per una mostra dell'amico Giuseppe Zigaina e inclusa nelle Ceneri di Gramsci (B, I, 213-21). Negli anni successivi, sospesa tra l'incontro con nuove realtà e il riemergere nella memoria del Friuli, quest'attitudine si amplifica. E le opere di Pasolini appariranno, allora, una elaborazione poetica, cinematografica e narrativa dell'idea di una pittura di paesaggio.

II - Roma. La lingua delle cose.

Finito l'"idillio friulano", il mondo di Pasolini è Roma. Anche qui, il primo approccio è un approccio linguistico. L'ingresso nella lingua è una lettura creativa del reale, un'operazione determinante per inquadrare e "fotografare" un luogo e il suo paesaggio socio-culturale. E il romanesco affonda nella vita delle borgate, esattamente come il friulano saliva dalla vita del mondo contadino. Ma per Pasolini Roma è, in sé, l'icona del linguaggio delle cose. È la vitalità urlata dei ragazzi di vita; è la grandezza del passato che convive con la miseria delle periferie sottoproletarie; è la città del cinema, della cultura, dello squallore; del potere temporale e di un "Gesù corrotto nei salotti vaticani" (B, I, 515); una città papalina e atea, insieme nel tempo e fuori del tempo. Roma è il paesaggio culturale, la memoria della città, esattamente come il Friuli era il paesaggio culturale, la memoria del mondo contadino: tra i due universi non c'è frattura; essi sono complementari e contigui. Ecco che allora che nei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta (scritti in un pastiche italo-romanesco) le immagini di questi mondi talvolta si sovrappongono, e Casarsa rivive, parossisticamente, nella borgata(10); o ecco che il Tevere, o spesso l'Aniene, fiume "minore", più periferico, sono come il Tagliamento lo scenario delle avventure (letterarie ma anche erotiche) del poeta.

La scoperta di Roma e la scoperta del cinema: sul set di Accattone
Nella ricerca di nuovi linguaggi, Pasolini si avvicina al cinema, la "lingua scritta della realtà" (EE, 198-226). È il 1960 l'anno in cui firma la sua prima regia. Ma, esattamente come il suo esordio nella poesia era già percorso da precisi motivi teorici, così il suo approccio al cinema è già un'estetica cinematografica, un'estetica e un'etica insieme. Anche attraverso il cinema, infatti, Pasolini cerca di descrivere il paesaggio culturale della sua società. Questo paesaggio culturale non è però solo quello che, con una tecnica apparentemente neorealistica, egli trae dal presente (operazione, questa, messa in atto nei primi film, Accattone, Mamma Roma e, parzialmente, La Ricotta). Al contrario, proprio su quel presente, Pasolini proietta immagini culturalmente elaborate: e il cinema, come voleva Longhi, diviene così la continuazione ideale della tradizione pittorica delle origini, quella pittura che apprende l'uso della luce e del movimento. Attraverso il cinema, egli "cita" questa tradizione: di qui un realismo rovesciato, in cui l'elaborazione artistica è più vera del mondo che riproduce. Di questo mondo, infatti, tale elaborazione descrive l'essenza, la storia; ne rivela l'identità dimenticata come un monito, un dover essere. In un gioco di continue contaminazioni, Pasolini concepisce così l'idea di un "cinema di poesia": un cinema che, se da un lato si pretende linguaggio immediato della realtà(11), dall'altro ci ricorda che questa realtà è la somma delle sue immagini culturali. La tradizione figurativa del medioevo e del tardo Cinquecento diviene così il punto di partenza di un'ulteriore elaborazione: "Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto - che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca" (Le pause, 145). Rendere visibili i fili che legano la pittura al cinema è dunque un rendere visibile il passato attraverso il presente, mostrando che l'arte è un esercizio creativo di memoria.
La tradizione pittorica ritorna in tutti i film di Pasolini. Ecco allora che nella Ricotta, per esempio, il cinema entra nella realtà dell'Italia degli anni '60 proprio mentre gioca a "rifare" la pittura: tra scene di quotidiana miseria e uno sfondo ideologico su cui si esercita l'ironia del poeta, si recita la messa in scena di due tableaux vivants dalla Deposizione di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo al sepolcro di Pontormo. E, come una citazione nella citazione, risuona nella "passione" di Stracci l'eco di Giotto e Masaccio:
Il Santo è Stracci. La faccia di antico camuso
che Giotto vide contro i tufi e ruderi castrensi,
i fianchi rotondi che Masaccio chiaroscurò
come un panettiere una sacra pagnotta (B, I, 675).

E ancora Masaccio nel mondo sottoproletario e disperato di Mamma Roma ("vengono Mamma Roma e suo figlio, / verso la casa nuova, tra ventagli / di case, là dove il sole posa ali / arcaiche: che sfondi, faccia pure / di questi corpi in moto statue / di legno, figure masaccesche / deteriorate, con guancie bianche / bianche, e occhiaie nere opache": B, I, 614). O, con sovrapposizioni novecentesche, in Accattone e nel Vangelo(12).



Ma prima di diventare luogo di scoperta e creazione cinematografica, Roma era stata nelle Ceneri di Gramsci (1957) uno scenario di poesia civile: e qui la ricerca di radici politiche e culturali era sospesa tra il rifiuto e l'amore dell'Italia post-bellica, tra un presente immobile e un passato fatto soprattutto di occasioni perdute. Sicuramente uno dei momenti poetici più alti del Novecento italiano, la raccolta ci rivela tutto il travaglio ideologico di Pasolini: il rapporto critico con il marxismo, fino alla sua "abiura"(13); la ambigua identificazione con la figura di Gramsci, problematico e polemico alter ego; e, ancora, la contrapposizione - adialettica e tragicamente utopistica - tra la storia, "il più esaltante dei possessi borghesi" (B, I, 228), e il popolo, lontano nella sua preistorica purezza, nella sua vita inconsapevole.
Ma l'aspetto ideologico - controverso e discusso - emerge anche qui da una geografia ben precisa. Ognuna di queste undici poesie, infatti, ha luogo in un paesaggio storicamente abitato, in cui si muovono umanità, società, lingue e valori. Con una tecnica che è già cinematografica, Pasolini realizza lunghe carrellate storico-geografiche sull'Italia, che gli permettono la "continua, attentissima resa di una serie di quadri di paesaggio"(14). E quadri di paesaggio sono tutti i poemetti, visto che in ognuno di essi la presenza di un mondo-ambiente definito equilibra e corregge il soggettivismo della voce narrante. Troviamo dunque una Roma decadente, giallina e dolciastra di ideali e fiori in decomposizione, estetizzante e animale, nel poema che dà il titolo alla raccolta. Ancora Roma, ma la Roma post-bellica della ricostruzione e della speculazione, un immenso cantiere periferico in cui costruire il nuovo significa distruggere i valori della resistenza, nel Pianto della scavatrice. E l'Italia centrale, coi suoi territori d'arte e di lentezza, nell'Appennino, che si conclude con la visione "precristiana" del "golfo / affricano di Napoli, nazione / nel ventre della nazione" (B, I, 182). Terre desertiche, anch'esse africane e meridionali, nella Terra di lavoro; Roma e le sue piazze, i suoi giardini, i luoghi luminosi e oscuri in cui si raccoglie la vita del popolo, in Comizio, Picasso, e Il canto popolare. In quest'ultima lirica, il presente si confonde nel riverbero linguistico di un passato remoto, gotico e basso-medioevale:

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e, pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! (B, I, 186)

Tutta la raccolta è pervasa da un senso di nostalgia inquieta, dal rimpianto per un mondo che si vede mutare, allontanarsi dalla sua identità. È il paesaggio culturale che cambia, insieme all'immagine di un paese che irrimediabilmente, e quasi dolcemente, dimentica la sua storia:

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante
di ferirci [...]. (B, I, 262-63)
III - Auto-iconoclastia del presente. Dalla rappresentazione alla denuncia..

Dalla fine degli anni '60 quella di Pasolini risuona sempre più spesso come voce polemica. Questa volta la tribuna sono alcuni dei maggiori quotidiani italiani, a cui collabora più o meno stabilmente con rubriche e articoli. Da artista molto più che da moralista, Pasolini valuta l'evoluzione subita dalla situazione politica italiana dopo gli anni del "miracolo economico". La critica ai mutamenti imposti dal modello consumistico e neocapitalistico non è nuova. Ma il mondo che muta negli anni '50 è, alla fine del decennio successivo, un mondo perduto. Perduto è il paesaggio, cancellato nei suoi caratteri originari: alla devastazione della campagna e alla rovina dell'ecosistema si accompagna infatti anche la brutalizzazione del paesaggio urbano. E perduta è anche la lingua: l'italiano, da sempre "una lingua fondamentalmente espressiva" (SPS, 791), si appiattisce ora nella lingua incolore della televisione: un modello linguistico puramente comunicativo, in esatta antitesi con la vocazione poetica e letteraria che Pasolini aveva creduto di riconoscere nella lingua popolare italiana(15).



La rovina culturale dell'Italia, imputata a un potere più sottile e minaccioso di quello fascista (ora è "clerico-fascista"), coinvolge così tutto il paesaggio: il paesaggio naturalistico, quello urbano e, non meno profondamente, il paesaggio linguistico. Cambiare il paesaggio linguistico-culturale di un paese comporta una conseguenza ancora più drammatica: il nuovo potere "ha trasformato antropologicamente gli italiani". È questa "la prima, vera unificazione che l'Italia abbia mai avuto" (SLA, II, 2840)(16). Nella sua denuncia, Pasolini parla addirittura di "genocidio"(17).
Forte della sua funzione civile di artista e del suo ruolo intellettuale, è pronto a fare i nomi dei responsabili delle varie stragi che si sono susseguite nella storia sociale degli ultimi anni (SC, 88-93). Altrove, chiede un processo per i politici colpevoli di aver arrecato danni irreparabili, quali "distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, [...] degradazione antropologica degli italiani, [...] abbandono "selvaggio" delle campagne, [...] esplosione "selvaggia" della cultura di massa [...]" (LL, 114).
Anche qui la lucidità di giudizio si alterna alla nostalgia per la bellezza di un mondo che scompare. Particolarmente significativi sono, perciò, un articolo, pubblicato il 1° febbraio 1975 sul "Corriere della Sera", e un documentario "in forma di appello all'unesco".
L'Articolo delle lucciole è la denuncia drammatica di un vuoto di potere (il titolo redazionale fu infatti Il vuoto del potere in Italia). Un vuoto di potere che definisce la mancanza di uno spazio (anche linguistico) per l'agire politico, ormai ridotto a mera funzione del potere economico. La colpevole ignoranza della classe dirigente ha cancellato la specificità del suolo, ha inquinato aria e acque, ha devastato secoli di civiltà, di ricchezza e di valori che nemmeno il regime fascista era riuscito a scalfire (SC, 22-25). Il risultato è che in Italia le lucciole, simbolo di un paesaggio e di una cultura lontani, ormai non ci sono più. Ciò è vero anche nel caso di paesaggi urbani e storici. L'amore "estetico" per la bellezza deve trasformarsi in un amore "etico"; ed ecco che, in diverse interviste Pasolini paragona la perdita di un casale di contadini alla perdita di una chiesa o di un monumento (SPS, 1623-25; 1651-52). Ancora più grave, dunque, quando la perdita riguarda un'intera città: è questo l'appello lanciato all'unesco con Le mura di Sana'a. Qui sono le immagini a parlare, mentre la voce fuori campo (è quella dello stesso Pasolini) ricorda la minaccia incombente sulla capitale dello Yemen, splendida e primitiva, preziosa "come Venezia o Urbino, Amsterdam o Praga", completamente in balìa di una classe dirigente incapace di gestirne la bellezza. Di qui, il grido d'allarme dell'artista:
"Ci rivolgiamo all'Unesco - perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, cominciata con la distruzione delle mura di Sana'a.
Ci rivolgiamo all'Unesco - perché aiuti lo Yemen ad avere coscienza della sua identità e del paese prezioso che esso è.
Ci rivolgiamo all'Unesco - perché contribuisca a fermare una miseranda speculazione in un paese dove nessuno la denuncia.
Ci rivolgiamo all'Unesco - perché trovi la possibilità di dare a questa nuova nazione la coscienza di essere un bene comune dell'umanità, e di dover proteggersi per restarlo.
Ci rivolgiamo all'Unesco - perché intervenga finché è in tempo a convincere una ancora ingenua classe dirigente, che la sola ricchezza dello Yemen è la sua bellezza; che conservare tale bellezza significa, oltretutto, possedere una risorsa economica che non costa nulla, e che lo Yemen è in tempo a non commettere gli errori commessi dagli altri paesi.
Ci rivolgiamo all'Unesco - in nome della vera se pur ancora inespressa volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri.
IN NOME DELLA SCANDALOSA FORZA RIVOLUZIONARIA DEL PASSATO
"
(
Le mura di Sana'a, 265).

L'Italia, dunque, è solo un esempio particolarmente doloroso e significativo. Ma a essere in pericolo è l'intero paesaggio culturale della tradizione, sia esso un paesaggio africano, indiano o europeo. È in gioco, cioè, lo scontro tra due immagini del mondo: quella contadina, precapitalistica, multilinguistica, religiosa, "bella e umana" (ibid.), e quella capitalistica delle nuove ideologie.
Mettere l'uno di fronte all'altro, come due ipostasi storico-sociali, il mondo della tradizione e il mondo industriale neocapitalistico, non è un'operazione priva di pericoli. Evocare il passato per rifiutare il presente può significare abbandonare l'azione per una chiusura reazionaria in un tempo irreale. O, ancora, idealizzare come unica forma di palingenesi sociale una povertà che "mantiene puri"(18), cadendo in una sorta di eresia marxistica. Tutto ciò ha alimentato, e continua ad alimentare, dibattiti e polemiche intorno alle opere pasoliniane della maturità(19). Nonostante i limiti teorici, tuttavia, l'ideale nostalgia del poeta dev'essere letta piuttosto come una categoria dello spirito e una strategia creativa. Attraverso di essa, Pasolini cerca di mostrare la necessità di preservare nell'ambiente e come ambiente la memoria del passato; e, insieme, di indicare i luoghi in cui il passato si consegna alla memoria: la lingua, il paesaggio sociale nelle sue realtà urbane e rurali, la tradizione artistico-figurativa. Tutti questi elementi non contribuiscono soltanto a creare l'identità di un luogo. Al contrario, essi sono la base di un incontro tra culture diverse e, proprio perché ricchi di passato, condizionano la vitalità etica del presente.

IV. Parossismo e provocazione. Verso la fine del paesaggio

Pasolini aveva cercato di dar voce alla "scandalosa forza rivoluzionaria del passato", girando la Trilogia della vita. I tre film, Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il Fiore delle Mille e una notte (1974), esprimono l'immagine di un mondo mitico, in cui la vita s'incontra con le sue forme più immediate: il sesso (una lieta e pura fisicità), l'allegro caos del paesaggio culturale (campagna, città, lingua), forme tradizionali e popolareggianti di escatologia, il sogno, l'arte(20). Aldilà dei singoli personaggi, in questi film, come nei romanzi romani, protagonista è il mondo rappresentato. Un mondo retto da un suo interno equilibrio; un mondo in cui la vita umana e quella naturale si armonizzano proprio nell'idea di un orizzonte di forme culturali, che qui Pasolini rappresenta attraverso luoghi e linguaggi: Napoli e il dialetto napoletano ("l'unica lingua italiana, parlata, a livello internazionale": SPS, 1653) per il Decameron; un indefinito paesaggio gotico e un italiano calcato sul dialetto bergamasco nei Racconti di Canterbury; una cornice africana e ancora un italiano meridionaleggiante nel Fiore. Una esaltazione della vita, quindi, come dal titolo complessivo dato alla trilogia. E una esaltazione illuminata proprio dagli ultimi bagliori di quel paesaggio che irrimediabilmente scompare in quegli anni. Con la sua lingua, con la sua ricchezza di reliquie storiche e linguistiche, con le sue icone e le sue divinità intermedie, con la sua bellezza e la sua scandalosa forza rivoluzionaria.
La critica si è spesso interrogata sul significato effettivo di quest'operazione(21). A uno sguardo ulteriore, infatti, l'apparente gaiezza della Trilogia appare basata sull'immagine di una realtà idealizzata e provocatoria, tant'è che proprio in quel tentativo di mettere in scena la "forza rivoluzionaria del passato", Bernardo Bertolucci aveva visto l'opera di un "poeta reazionario"(22).
Comunque interpretati, tuttavia, questi film sono l'ultima tappa di una strategia espressiva da cui Pasolini si allontanerà definitivamente nelle ultime opere. Dal 1974, l'anno prima della morte, una forma di disillusione domina in un'arte stanca di argomentare, che prende i toni violenti del sarcasmo, e si muove nella cornice dell'atroce e dell'assurdo. Ecco allora che il mondo contadino del Friuli, con il suo linguaggio, e la sua freschezza, si imbeve di tinte cupe e atmosfere asfittiche. Nella raccolta La nuova gioventù (1974) Pasolini riscrive infatti tutte le sue giovanili poesie friulane, e ne capovolge totalmente il senso e la destinazione. Non c'è più una "saga dei giovani", come aveva scritto Michel Foucault(23), ma un paese fatto di morti e di estranei, un non-luogo, privo di amore e di cultura. Un vero e proprio anti-paesaggio, dunque. Anti-paesaggio che ritroviamo in Salò o le 120 giornate di Sodoma, l'ultimo film di Pasolini. In quest'opera, l'idea di ambientare nell'Italia della Repubblica Sociale il racconto del marchese de Sade, materializza come in un incubo un'immagine tridimensionale di vitalità negativa. Tutto è negazione: la gioventù, l'autorità, la maternità, l'amore, la religione, la patria, l'arte. In Salò il potere diviene una cupa e feroce caricatura di se stesso, mentre il sesso non rinvia più alla vita e alla sua immediatezza, e decade a scena di degradazione e disumanizzazione. Il racconto sadiano è la metafora di un totalitarismo che soffoca la vita, la natura, la cultura, e la lingua (i ragazzi imprigionati non parlano quasi mai; i "potenti" e le narratrici parlano invece un italiano di volta in volta ministeriale o da radiodramma dell'eiar). Non c'è più osmosi tra uomo e natura, tra interno ed esterno, tra storia e linguaggio, tra artista e mondo, in questo film e in queste nuove poesie friulane. Come dunque nella Nuova gioventù l'universo contadino è sparito o deformato, così gli esterni e le architetture vivaci e scalcinate della Trilogia scompaiono di fronte agli algidi interni di Salò.
Si badi bene: Pasolini non rinnega in questo modo il mondo contadino, o la tradizione di una cultura materna. Sta solo, ancora una volta, denunciando, con gli strumenti della poesia e del cinema, la fine assurda di quella tradizione e di quel mondo. Il mondo che rimane è solo un guscio straniante, riempito da incomprensibili rapporti di forza: incomprensibili, in fondo, sia per chi li gestisce che per chi li subisce. Ridotto a un'ombra, il poeta si aggira, solo, in uno spazio nemico(24). La fontana del paese è estranea, vecchia e stagnante, vuota d'amore e di significato:
Fontana di aga di un paìs no me.
A no è aga pì vecia che ta chel paìs.
Fontana di amòur par nissùn.

(Fontana d'acqua di un paese non mio.
Non c'è acqua più vecchia che in quel paese.
Fontana d'amore per nessuno.) (B, I, 1063)

Al posto dei sogni della Trilogia, c'è ora l'incubo di Salò.



Abbreviazioni e sigle utilizzate
Al lettore nuovo = P.P. Pasolini, Al lettore nuovo, introduzione a Poesie, Milano: Garzanti, 1970
B, I-II = P.P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, 2 voll., a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, prefazione di G. Giudici, Milano: Garzanti, 1993
EE = P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano: Garzanti 1981 (19721)
I parlanti = P.P. Pasolini, I parlanti (1947), appendice a Ragazzi di vita, Torino: Einaudi, 1979
L, I-II = P.P. Pasolini, Lettere, vol. I (1940-1954), a cura di N. Naldini, Torino: Einaudi, 1986; vol. II (1955-1975), a cura di N. Naldini, Torino: Einaudi, 1988
Le mura di Sana'a = P.P. Pasolini, Le mura di Sana'a, 1974 (ma girato il 18 ottobre 1970), cortometraggio. Testo parzialmente disponibile in L. Betti, L. Gulinucci (curr.), Le regole dell'illusione, Roma: Associazione "Fondo Pier Paolo Pasolini"
Le pause = P.P. Pasolini, Le pause di "Mamma Roma", in Mamma Roma, Milano: Rizzoli, 1962
LL = P.P. Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976
PI = P.P. Pasolini, Passione e ideologia [I. ed. Milano: Garzanti, 1960], Torino: Einaudi, 1985
SC = P.P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti 1990 (19751)
SLA, I-II = P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Milano: Mondadori, 1998.
SPS = P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano: Mondadori, 1999.
Le immagini che corredano l'articolo sono tratte dal sito: http://www.pasolini.net/immagini_raccolta.htm

NOTE
1) Mi avvicino, qui, a un'interpretazione in chiave etico-ambientale della letteratura, analogamente a quanto proposto dai teorici dell'ecocriticism (corrente attiva, in particolare, negli Stati Uniti, dove il centro-studi di riferimento è l'ASLE, "Association for the Study of Literature and Environment"). Per un orientamento bibliografico, si vedano tra gli altri: J.S. Hans, The Value(s) of Literature, Albany: State University of New York Press, 1990; C. Glotfelty, H. Fromm (curr.), The Ecocriticism Reader. Landmarks in Literary Ecology, Athens, London: University of Georgia Press, 1996; P.D. Murphy, Farther Afield in the Study of Nature-Oriented Literature, Charlottesville, London: University of Virginia Press, 2000; D.W. Gilcrest, Greening the Lyre. Environmental Poetics and Ethics, Reno, Las Vegas: University of Nevada Press, 2002; S. Rosendale (cur.), The Greening of Literary Scholarship. Literature, Theory and the Environment, Iowa City: University of Iowa Press, 2002.
2) Cfr. N. Naldini, Pasolini, una vita, Torino: Einaudi, 1989, p. 24.
3) L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford: Basil Blackwell, 1953, §§ 18-19, tr. it. a c. di M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino: Einaudi, 1967, p. 17.
4) Lo aveva ravvisato Contini nella sua recensione del '43: "Sembrerebbe un autore dialettale, a prima vista, questo Pier Paolo Pasolini, per queste sue Poesie a Casarsa [...]. E tuttavia [...] in questo fascicoletto si scorgerà la prima accessione della letteratura "dialettale" all'aura della poesia di oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell'attributo" (G. Contini, Al limite della poesia dialettale (1943), in Id., Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, a cura di R. Broggini, Bellinzona: Salvioni, 1981, p. 116).
5)Cfr. Z.G. Bara Dski, Pier Paolo Pasolini: Culture, Croce, Gramsci, in Z.G. Bara Dski, R. Lumley (curr.), Culture and Conflict in Postwar Italy, Basingstoke: Macmillan, 1990, p. 143.
6) "La frequentazione di questo dialetto mi diede il gusto della vita e del realismo. Per mezzo del friulano, venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il proprio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. [...]. Col passare del tempo avrei imparato [...] a usare il dialetto quale strumento di ricerca obiettiva, realistica" (Il sogno del centauro. Incontri con Jean Duflot, SPS, 1411-12). "Pasolini was well aware that by using Friulan in his poems he was initiating a cultured and literary operation [...]. But what Friulan offered him was [...] the possibility of using in a literary mode a linguistic heritage that was also used and experienced in the emotional and concrete life of every day" (T. De Mauro, Pasolini's Linguistics, in Z.G. Bara Dski [cur.], Pasolini Old & New. Surveys and Studies, Dublin: Four Courts Press, 1999, pp. 79-80).
7) Vedi pure Poeta delle Ceneri: "Fu così che io seppi ch'erano braccianti, / e che dunque c'erano padroni. / Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx". (B, II, 2026). Il romanzo più rappresentativo di questa fase è Il sogno di una cosa (Milano: Garzanti, 1962). Ma si vedano anche Romàns (a cura di N. Naldini, Parma: Guanda, 1994) e i racconti di Un paese di temporali e di primule (a cura di N. Naldini, Parma: Guanda, 1993).
8) Longhi è ricordato da Pasolini come la "Rivelazione", "il mio vero maestro". Non solo per la profonda lezione storico-artistica, ma anche per la sua capacità di avvicinare questa tradizione al cinema: in Longhi, "[i]l cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una "inquadratura" rappresentante un campione del mondo masoliniano - in quella continuità che è appunto tipica del cinema - si "opponeva" drammaticamente a una "inquadratura" rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco" (Descrizioni di descrizioni, SLA, II, 1977-82. Pasolini si riferisce ai Fatti di Masolino e di Masaccio¸il corso da lui seguito nel 1941-42, poi ristampato in R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, a cura di G. Contini, Milano: Mondadori, 1974). Sul rapporto con Longhi, si vedano: A. Marchesini, Longhi e Pasolini: tra "fulgorazione figurativa" e fuga dalla citazione, in "Autografo", 26, 1992; e D. Trento, Pasolini, Longhi e Francesco Arcangeli tra la primavera 1941 e l'estate 1943. I fatti di Masolino e di Masaccio, in D. Ferrari, G. Scalia (curr.), Pasolini e Bologna, Bologna: Pendragon, 1998.
9) "La mia pittura è dialettale: un dialetto come "lingua per la poesia". Squisito, misterioso, materiale da tabernacoli. Sento ancora - quando dipingo - la religione delle cose" (cfr. P.P. Pasolini, Le regole di un'illusione, a cura di L. Betti e M. Gulinucci, Roma: Associazione "Fondo Pier Paolo Pasolini", 1991 p. 258). Si veda pure la lettera a L. Ciceri, 13 gennaio 1953: "Sono i rapporti tra le parole che il poeta deve inventare: ossia la sintassi. [...] Quindi la mia sintassi non è friulana perché è mia: ma è la sintassi friulana che determina la mia, come il paesaggio friulano determina la mia sensibilità pittorica" (L, I, 527). Per il corpus grafico di Pasolini, si vedano I disegni 1941-1975, a cura di G. Zigaina, Milano: Scheiwiller, 1978 (il volume contiene uno scritto di G.C. Argan).
10) In particolare, si veda l'episodio del racconto La rondinella del Pacher (ora in Un paese di temporali e di primule) ripreso quasi integralmente nel cap. I (Il Ferrobedò) di Ragazzi di vita, dov'è ambientato sul Tevere. Altri esempi in Z.G. Bara Dski, Pasolini, Friuli, Rome (1950-51), in Id. (cur.), Pasolini Old & New, cit., pp. 256-66.
11) Cfr., tra gli altri possibili titoli di riferimento, I segni viventi e i poeti morti (1967), Res sunt nomina (1971), Il non verbale come altra verbalità (1971), Il cinema e la lingua orale (1969), tutti in EE (250-68); e Il sogno del centauro, cit., pp. 1493-94. Sul "cinema di poesia", EE, 167-87. Su quest'ultimo argomento, vedi N. Greene, Pier Paolo Pasolini: Cinema as Heresy, Princeton: Princeton University Press, 1990, che mette in luce il modo in cui Pasolini connetta l'immagine visiva a un "primal, non conceptual, world of matter and presence" (p. 109).
12) "In Accattone, [...] il piano in cui Stella viene rappresentata in mezzo a un mucchio di bottiglie, è là come omaggio privato a Morandi [...]. Accattone [...] ha la nudità, l'austerità di Masaccio o della scultura romanica". E ancora: "Nel Vangelo [...] la pittura del Rinascimento viene accostata alla pittura moderna (Rouault, per esempio [...]). Piero della Francesca mi ha ispirato un certo numero di elementi stilistici [...] E poi c'è [...] Giotto, la scultura romanica" (Il sogno del centauro, cit., p. 1519).Per un'analisi puntuale delle citazioni e degli elementi pittorici nei film pasoliniani, si vedano: F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, Roma: Bulzoni, 1994, e soprattutto A. Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini, Firenze: La Nuova Italia, 1994.
13)Cfr. V. Cerami, "Le Ceneri di Gramsci" di Pier Paolo Pasolini, in A. Asor Rosa (ed.), Letteratura italiana. Le opere, IV, 2, Torino: Einaudi, 1996, p. 658.
14) M.A. Bazzocchi, Pier Paolo Pasolini, Milano: Bruno Mondadori, 1998, p. 72.
15)"Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell'espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio" (Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, SC, 54).
16) Si vedano pure Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, SC, 39-44; e Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, SC, 45-50, in particolare p. 47.
17) Volgar'eloquio, SLA, II, 2830: "Fino a dieci anni fa [...] l'Italia aveva una cultura pluralistica, che in realtà non esisteva in quanto cultura italiana, [la quale] era una vera e propria astrazione [...]. In quell'Italia, la cui cultura era effettivamente una cultura pluralistica, in cui ciò che valeva era la cultura romana, la cultura napoletana o la cultura siciliana o quella piemontese o quella friulana, erano queste le culture reali [...]. Il vero problema di oggi è che questo pluralismo linguistico e culturale tende ad essere distrutto e omologato attraverso quel genocidio di cui parla Marx, e che viene compiuto dalla civiltà consumistica [...]". Di genocidio Pasolini parla pure in: L'articolo delle lucciole, SC, 131, Il mio "Accattone" in tv dopo il genocidio, e Le mie proposte su scuola e tv in LL, 152-158; 172-178. Infine, sul "genocidio" e sull'interpretazione pasoliniana del Manifesto del Partito Comunista, vedi M. Caesar, Outside the Palace: Pasolini's Journalism, in Z.G. Bara Dski (cur.), Pasolini Old & New, cit., pp. 363-90; in particolare pp. 381-82: "Pasolini's attachment to peasant culture, though not absolutely determining as his Communist critics made out, is quite at variance with the Manifesto's view of "the idiocy of rural life"".
18) Per citare un altro esempio tra i molti possibili, si leggano queste parole dall'Appunto per una poesia in terrone: "Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari" (B, I, 1165).
19) È nota la polemica con Calvino (che accusava il poeta di "rimpiangere l'Italietta"), cui Pasolini risponde con l'articolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, SC, 51-55 (su questo scontro vedi C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino: Bollati Boringhieri, 1996). Posizione polemica (anche se non del tutto convincente) è pure quella espressa da Edoardo Sanguineti, di cui si veda Radicalismo e patologia, "MicroMega", 4, 1995. Lucidissimi e sempre acuti, invece, gli argomenti di F. Fortini nel volume Attraverso Pasolini, Torino: Einaudi, 1993.
20) "La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni" è l'epigrafe scelta per Il fiore delle mille e una notte; e "Perché creare un'opera, quand'è così bello sognarla soltanto?", si chiede, nell'ultima scena, l'allievo di Giotto-Pasolini nel Decameron. "In The Decameron Pasolini's presence, pervasive in the second half of the film, allows to make a statement on the artist's condition and function in society" (J. Francese, "The latent presence of Crocean Aesthetics in Pasolini's "Critical Marxism"", in Z.G. Baranski, Pasolini Old & New, cit., 153).
21) Per Micciché, ad esempio, che - unendovi Salò - parla della Trilogia della vita come di una Tetralogia della morte, la "parossistica immersione delle cose", propria degli ultimi anni, è piuttosto il segno di una "fuga dal presente" (cfr. L. Micciché, Per un itinerario attraverso il cinema di Pasolini, in L. Betti, G. Raboni, F. Sanvitale (curr.), Pier Paolo Pasolini: "Una vita futura", cit., p. 149). In linea con questa interpretazione, anche G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano, 2 vols, Roma: Editori Riuniti, 1979, II, p. 662 e, sui Racconti di Canterbury, P. Rumble, Contamination and Excess: I racconti di Canterbury as a 'struttura da farsi', in Z. G. Bara Dski (cur.), Pasolini Old & New, cit., pp. 345-62.
22) Citato in J. Michalczyk, The Italian Political Film-makers, London-Toronto: Associated University Presses, 1986, p. 99. Si ricordi che Bertolucci aveva cominciato la sua carriera proprio con Pasolini, facendogli da aiuto-regista in Accattone (su questo, rimando a B.D. Schwartz, Pasolini Requiem, New York: Pantheon Books, 1992, p. 356).
23) Cfr. Le matin gris de la tolérance, in "Le Monde", 23 marzo 1977, ora in M. Foucault, Dits et écrits, 1954-1988, vol. III, Paris: Gallimard, 1994. L'osservazione di Foucault si trova in un articolo su Comizi d'amore, ma si riferisce in generale a tutta l'opera di Pasolini.
24) Della Nuova Gioventù come del "libro atroce di un morto vivente" scrive Fortini (I poeti del Novecento, Roma-Bari: Laterza, 1977; p. 188). G. Santato (Pier Paolo Pasolini. L'opera, Vicenza: Neri Pozza, 1980, p. 305) parla invece di "anti-poesia della disperazione".
Fonte:
 http://www.kainos.it/nonluogo/iovino.html

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