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martedì 28 dicembre 2021

Pier Paolo Pasolini,1972 I RACCONTI DI CANTERBURY

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Pasolini sul set dei Racconti di Canterbury 
Perché io sono giunto all’esasperata libertà di rappresentazione di gesti e atti sessuali, fino alla rappresentazione in dettaglio e in primo piano, del sesso? Ho una spiegazione che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura - che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e
quella della contestazione ad essa - mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancor più sintetico, il sesso. I rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è anche una sfida, contenuta nel mio cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico borghese e benpensante. Provocazione verso i critici, i quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire...
P.P. Pasolini, 
dall’intervento al convegno 
«Erotismo, eversione, merce», 
Bologna, 1972.

Pasolini/Cahucer - fotogramma dal film

1972
 
I RACCONTI DI CANTERBURY

 (tratto da The Canterbury Tales, di Geoffrey Cahucer); 

Scritto e diretto da
: Pier Paolo Pasolini; 
fotografia: Tonino Delli Colli; 
scenografia: Dante Ferretti; 
costumista: Danilo Donati; 
musica: scelta da P.P.P. con la collaborazione e l’elaborazione di Ennio Morricone; 
montaggio: Nino Baragli; 
aiuti regia: Sergio Citti, Umberto Angelucci; 
assistente alla regia: Peter Shepherd; 

Interpreti e personaggi: 


Hugh Griffith
(Sir January); 
Laura Betti (la donna di Bath); 
Ninetto Davoli (Perkin il buffone); 
Franco Citti (il diavolo); 
Josephine Cahplin (May); J
John Francis Lane (il monaco); 
Alan Webb (il vecchio) 
J.P. Van Dyne (Cook); 
Pier Paolo Pasolini (Geoffrey Cahucer); 

Doppiatori originali


Eduardo De Filippo
: vecchio
Francesco Leonetti: oste
Winni Riva: Mabel, donna della brocca ("Il racconto del frate")
Marco Bellocchio: frate avido

produzione: P.E.A. Produzioni Europee Associate, Roma;
produttore: Alberto Grimaldi;
pellicola: Kodak Eastmancolor; 
formato: 35 mm., colore, 1:1.85; 
macchine da presa: Arriflex; 
sviluppo e stampa
: Technicolor; 
sincronizzazione: Cinefonico Palatino; 
mixage: Gianni D’Amico; 
distribuzione: United Artists Europa; 

PRIMA PROIEZIONE:


2 luglio 1972: XXII Festival di Berlino (versione di lavorazione, ridotta rispetto a quella definiiva)

USCITA NELLE SALE:


2 settembre 1972
: Benevento, Cinema Sannio; 1
6 settembre 1972: Roma, Cinema Embassy, Eurcine, Moderno; 
Milano, Cinema Capitol, Ritz. 
Il film è stato proiettato il 3 settembre 1972 a Grado, nell’ambito della III settimana internazionale del cinema.
 
Premi: Orso d’Oro al XXII Festival di Berlino.

STORIA:


Film
girato dal 16 settembre al 23 novembre 1971
interni Safa Palatino (Roma)
esterni in Inghilterra di Canterbury, Maidstone, Cambridge, Bath, Wells, Hastings, Abbazia di Battle, Warwick, Chipping Campden, St. Osyth, Layer Marney, Lavenham, Paycocks Greenacrey, Ickleshan, Rolvenden, e in Sicilia (Etna).
 
Nella versione definitiva del film vennero
eliminate alcune sequenze e fu modificata la struttura dell’opera, che inizialmente prevedeva l’introduzione di ognuno degli otto segmenti da parte di un personaggio e una cornice generale ai racconti costituita dalla presenza “a posteriori” di Geoffrey Chaucer (interpretato da Pasolini) che rifletteva sul suo lavoro. Quest’ultima cornice narrativa venne parzialmente mantenuta, ridotta e inserita nel film soltanto al termine di quattro racconti.

Struttura del film:


Prologo

Primo racconto: Ser Gennaio e la sposa Maggio
Secondo racconto: il diavolo e l'inquisitore

 

Intermezzo

Terzo racconto: Perkin il festaiolo

 

Secondo intermezzo

Quarto racconto: Nicola e Alison
Quinto racconto: la donna di Bath
Sesto racconto: gli studenti e il mugnaio

 

Terzo intermezzo

Settimo racconto: i tre amici e "la 

Morte"

 Ottavo racconto: il frate avido

Epilogo


TRAMA:


Secondo film della Trilogia della vita. In
cammino verso Canterbury per onorare le spoglie dell’arcivescovo Thomas Beckett, Chaucer (Pasolini) e altri pellegrini raccontano storie e aneddoti. Tra i 24 che compongono la raccolta dei Canterbury Tales, il regista ne ha scelti 8, talvolta liberamente rielaborandoli o inventando: uno studente seduce la moglie di un superstizioso legnaiolo; due amici si vendicano di un mugnaio disonesto; le disavventure del candido e gaio Perkin; una donna insaziabile
“consuma” cinque mariti; un maturo scapolo sposa una moglie troppo giovane; la discesa agli inferi di un frate; gli insuccessi di un altro frate a cui nessuno vuole comprare le reliquie.








[...]
Gli domandammo perché avesse deciso di trarre un film dai Racconti di Chaucer, anche perché la sua ultima realizzazione è stato il Decamerone e un altro film in progetto è Le mille e una notte. Da dove viene l’interesse per questi antichi libri di storie e di favole? Sia Chaucer sia Boccaccio sono scrittori vissuti nel Quattordicesimo secolo, e Le mille e una notte risalgono ancora più addietro nel tempo.

   In questi casi non c’è mai un perché. Potrei darvi tutte le risposte razionali che volete. Potrei dire, ad esempio, che film come questo offrono a chi li fa una gamma anche di duecento personaggi, così che si ha modo di presentare un’ampia fetta della realtà. Al contempo posso essere, nonostante il soggetto, molto moderno. Questo è un periodo di crisi, per il «grande romanzo»: il libro di mille pagine come quelli di un Tolstoj o
di un Dickens. Ma il vecchio racconto ha lo stesso taglio narrativo di una cronaca di giornale. Se aprite un giornale, potete vedere questo, niente di più di una serie di racconti, come in Chaucer e nel Boccaccio.

   Metto queste storie in rapporto con il rimpianto che provo per la perdita del mondo di una volta. Sono un uomo disincantato. D’altronde sono sempre
stato ai ferri corti con la società del mio tempo. L’ho combattuta, mi ha perseguitato, ma mi ha dato anche il successo. Ora però non mi piace più. Non mi piace il suo modo di esistere, la sua qualità di vita. Per questo rimpiango il passato. Alla mia età, a questo punto della mia vita, penso che sia quasi un fatto convenzionale.

   Il mondo di Chaucer e del Boccaccio
non aveva ancora sperimentato l’industrializzazione. Non era una società consumistica, non c’erano catene di montaggio. Non c’era niente di analogo alla società di oggi. Tranne forse per questo: c’era una sorta di esigenza di libertà sessuale, nata dai prodromi della rivoluzione borghese nel contesto della società medievale. Qui potrebbe stabilirsi un parallelo. Ma periodi di libertà come quelli sono condannati a
finire presto. Da vecchio, Boccaccio divenne un bigotto. Quell’esplosione di libertà durò solo pochi anni. Lo stesso vale oggi: durerà solo pochi anni.

Pasolini ha scelto fra i Racconti di Chaucer soprattutto quelli di vita «plebea», non quelli di soggetto aristocratico. Gli abbiamo quindi domandato perché abbia fatto questa scelta, e se secondo lui vi sono forti elementi classisti nei Racconti di Canterbury.

   Ho scelto quei racconti che erano realistici – realistici, si intenda bene, non «naturalistici» – in senso poetico più che in senso fantastico o mitico. Chaucer si colloca a cavallo fra due epoche. Ha qualcosa di medievale, di gotico: la metafisica della morte. Ma spesso si ha l’impressione di leggere un autore come Shakespeare o Rabelais o Cervantes. È un realista, ma è anche un moralista e un pedante, e inoltre mostra
straordinarie intuizioni. Ha ancora un piede nel Medioevo, ma non è uno del popolo, anche se raccoglie i suoi racconti dal patrimonio popolare. In sostanza, è già un borghese. Guarda già alla rivoluzione protestante e perfino alla rivoluzione liberale, nella misura in cui i due fenomeni si combineranno in Cromwell. Ma mentre il Boccaccio, che era pure un borghese, aveva la coscienza tranquilla, con Chaucer si
avverte già una sensazione sgradevole, una coscienza turbata e infelice.

   Chaucer presagisce tutte le vittorie, tutti i trionfi della borghesia, ma ne presente anche il marciume. È un moralista, ma dotato anche del senso dell’ironia. Il Boccaccio non sente il futuro allo stesso modo. Egli coglie la borghesia nel momento di maggior gloria, cioè nel momento in cui nasceva.
Ma poi in Italia la borghesia fu bloccata. Nacquero i Principati, e poi venne la Controriforma. Non vi fu una vera rivoluzione borghese quale vi fu in Inghilterra. È quello che dice anche Gramsci. La borghesia italiana venne a trovarsi all’improvviso nel mondo moderno, dopo la fine del fascismo, trascinatavi da altri.

In genere Pasolini si serve di attori non professionisti nei suoi film, come ad esempio nel Vangelo secondo Matteo. Gli abbiamo domandato come aveva affrontato il problema del cast dei Racconti di Canterbury e che cosa si proponeva di fare per risolvere quelli del linguaggio.

   Ho cercato di fare la stessa cosa che nel Decamerone. Ho ambientato tutto il Decamerone a Napoli e nei dintorni, e vi ho fatto parlare i personaggi nel dialetto napoletano contemporaneo. Certo non potevo usare l’inglese di Chaucer, per cui ho fatto ricorso al più semplice vernacolo possibile, con alcuni elementi dialettali. Mi sono servito delle parole di Chaucer, ma le ho tradotte in un idioma moderno. Ad esempio, nel Racconto del
venditore di indulgenze, che è quello sui tre ragazzi ai margini della società, che vivono di espedienti e così via, i tre ragazzi li ho trovati per strada. Per puro caso, erano tutti e tre scozzesi, per cui parleranno con l’accento scozzese. Girerò il Racconto del cuoco, la storia di Peterkin o Pietruzzo, nei docks di Londra, e in questo episodio si parlerà in cockney, nel tipico dialetto londinese. Ne farò un omaggio a Chaplin, londinese
anche lui. E poi, quando mi sono trovato giù vicino a Bath, e a Wells, il modo di parlare di quella gente mi è piaciuto moltissimo, e quindi in qualche brano userò l’accento del Somerset. Io mi servo della lingua viva, mettendo insieme i più disparati dialetti.

   Una cosa che mi ha sorpreso, nei ragazzi e nelle donne della classe operaia che ho usato per le piccole parti,
in questo Paese, è che non sembrano avere lo stesso senso dell’umorismo della vostra privilegiata borghesia. Chaucer ha le caratteristiche borghesi del moralismo, del pragmatismo e del sense of humour. È già un inglese borghese e privilegiato, sotto questo aspetto. Forse l’umorismo in Inghilterra è un privilegio di classe. Prima di venire qui non me ne ero mai reso conto.

In Italia ogni giornale o rivista deve avere un «direttore responsabile», un cittadino in possesso di certi requisiti morali che risponde legalmente del contenuto del giornale, una specie di capro espiatorio, di uomo che prende gli schiaffi in caso di bisogno. Due dei direttori responsabili di «Lotta continua», pubblicato dall’omonimo gruppo extraparlamentare, hanno
già dovuto subire processi per incitamento alla sovversione. Uno di loro, Pio Baldelli, è coinvolto in parecchi procedimenti penali, in primo o in secondo grado. In segno di solidarietà molti eminenti intellettuali si sono dichiarati corresponsabili dei numeri del giornale incriminati. Fra questi, anche Pasolini, al quale abbiamo domandato perché abbia deciso di correre quel rischio e che cosa provi al pensiero di finire in tribunale, non per la prima volta.

   Finisco sotto processo perché il codice penale italiano è ancora quello fascista, mai cambiato dalla fine della guerra in qua. Vi sono ancora delitti «politici» come sotto la dittatura fascista. La legge non garantisce una vera libertà di stampa. Ho messo il mio nome come corresponsabile di «Lotta continua» semplicemente per senso di democrazia. Non vado d’accordo con quella gente. Non concordo con loro in molte cose, a
dire la verità, ma sono convinto che abbiano il diritto di esprimere la propria opinione. Il processo verte su delitti di opinione.

   Si sono resi colpevoli di varie specie di «sobillazione» e «vilipendio». Hanno diffamato la polizia e sono accusati di aver insultato le forze armate. Il giornale ha usato un linguaggio volgare, quale io stesso non avrei usato, ma non
attaccava degli individui, il capitano X o il tenente Y. Attaccava solo il corpo degli ufficiali in generale. A mio parere, chiunque ha il diritto di manifestare le proprie opinioni, a proposito delle forze armate, nel modo e secondo lo stile che più gli aggradano. Per questa ragione appoggio quelli di «Lotta continua» e sono con loro senza riserve.

   Nel 1968 ho pubblicato Il PCI ai
giovani!!, una specie di manifesto poetico che per un certo tempo mi ha reso estremamente impopolare presso le sinistre italiane. Posso essermi espresso male, ma quello che dicevo si è dimostrato vero, purtroppo, come possiamo constatare oggi. Provavo una sorta di impulso isterico, di crisi, un’impazienza verso quella grigia massa di giovani ribelli di allora, che in realtà hanno ormai completamente
abbandonato la lotta. Non sono stati capaci di avanzare. Il PCI ai giovani!! non era rivolto contro quelli di «Lotta continua», anzi, specificamente li escludeva. Si riferiva ad altri gruppi con i quali solidarizzo anche adesso, mentre gli altri si sono rassegnati. Io mantengo la mia posizione ed essi le loro, che possono essere diverse dalle mie, ma c’è fra esse qualcosa in comune, per cui necessariamente dovevamo incontrarci
in qualche modo.

   Ora sono imputato e dovrò andare in tribunale, ma in questo non c’è proprio niente di intollerabile. Non c’è modo, d’altronde, di evitare il problema. Ma non è poi così brutto come essere un operaio della Fiat o un immigrante meridionale. La gente come me ha molte altre cose con cui riscattarsi. Ho fatto tanto. La mia vita è così piena. Non
è certo così per un povero lavoratore immigrato dal Sud. Che cosa significa per me un processo? Se mi mettono in carcere non me ne importa affatto. È una cosa di cui non mi curo. Per me non fa nessuna differenza, nemmeno dal punto di vista economico. Se finirò in prigione, avrò modo di leggere tutti i libri che altrimenti non sarei mai riuscito a leggere.

Pasolini su Pasolini 
Conversazioni con Jon Halliday



Uno dei film più tormentati dell’opera di Pier Paolo Pasolini è probabilmente I racconti di Canterbury (1972), secondo segmento della Trilogia della vita. Infatti il film, ispirato all’omonimo capolavoro di Geoffrey Chaucer, fu girato da settembre a novembre del 1971 ma venne presentato soltanto il 2 luglio del 1972 al XXII festival di Berlino. 
Alla prima proiezione del festival, fu proiettata una versione della durata di
due ore e venti minuti, quindi più lunga di quasi mezz’ora rispetto a quella definitiva che ne assomma centodieci. 

Secondo una testimonianza del responsabile dell’edizione, Enzo Ocone, il film venne tagliato da Pasolini e dallo stesso Ocone di circa venti minuti dopo l’anteprima per la stampa, per essere proiettato l’indomani alla giuria del festival (che gli attribuì l’Orso d’oro).
Venti giorni più tardi, Pasolini, insoddisfatto anche di quella versione, ritornò nuovamente in moviola a lavorare al montaggio del film. Lo attesta una sua lettera del 25 luglio 1972 a Guido Aristarco: 

«Solo pochi giorni fa ho finito il lavoro massacrante di sistemazione del Canterbury Tales (malgrado Berlino, dove ho mandato una prima stesura) e
non ho potuto occuparmi di altro». 
Le fotografie di scena, in parte inedite, il copione di lavorazione del film, che reca le indicazioni di tutte le inquadrature girate da Pasolini, e un secondo copione, preparato successivamente, che reca le tracce di ulteriori, importanti modifiche, destinate ad altre trasformazioni prima di approdare alla versione definitiva, documentano quanto sia stato complesso e tormentato l’itinerario
seguito dal poeta-regista nelle diverse fasi di montaggio del film.

A differenza delle scelte effettuate per Il Decameron e di quelle che avrebbe operato per il successivo Il fiore delle Mille e una notte, Pasolini decise di modificare l’intera struttura de I racconti di Canterbury, eliminando quasi completamente la cornice che reggeva l’architettura degli otto racconti: il
viaggio dei pellegrini a Canterbury e il loro avvicendarsi come narratori durante il percorso. Tra situazione comiche o aspre, l’oste interpellava il mugnaio, il fattore, il cuoco, Chaucer stesso, la donna di Bath, il mercante, il frate, il cacciatore di streghe e il venditore di indulgenze, perché raccontassero a turno una storia durante le soste sulla strada per l’abbazia di Canterbury. Ogni racconto, così, era introdotto dalla voce
e dal volto di un personaggio diverso.
Questa cornice era racchiusa all’interno di un’altra, calata in un tempo posteriore, dominata dalla presenza di Chaucer, chiuso nella solitudine nel suo studio e assorto a ricordare le storie udite e a scriverle. Pasolini conservò esclusivamente quest’ultima cornice narrativa, ma riducendola e inserendola nel film solo al termine di quattro racconti.

«Ho girato delle scene per mostrare come i pellegrini incominciavano a raccontare le loro storie... Ma ho eliminato questi intermezzi perché non si adattavano al film. In Chaucer costituiscono effettivamente un libro dentro il libro, mentre nel film diventavano una soluzione automatica, meccanica. È una delle principali correzioni che ho fatto al film. Per me, in
quanto autore, il principale problema posto dal film era quello della sua struttura».
Attualmente, i trenta minuti complessivi di tagli non sono reperibili: questo dossier è un’ipotesi di ricostruzione, basato sui testi della sceneggiatura e del copione originale con le annotazioni di Beatrice Banfi, segretaria di edizione, sulle splendide fotografie di scena di Mimmo Cattarinich e sulle testimonianze
video e audio, inedite, di Laura Betti, Mimmo Cattarinich, Nico Naldini e Enzo Ocone. Fra i documenti ritrovati, anche una rara intervista radiofonica rilasciata da Pasolini sul set del film.
Nella sequenza del viaggio, un rilievo particolare lo avrebbe assunto proprio l’apparizione dello stesso Chaucer, pellegrino fra i pellegrini, e il suo racconto incompiuto.

Nelle pagine dei Canterbury Tales, lo scrittore inglese aveva raffigurato se stesso con divertita autoironia: così timido e goffo da attirare lo scherno dell’oste e così noioso e maldestro come narratore da subire una brusca interruzione e l’ingiunzione di raccontare un’altra storia. In realtà, la sua narrazione in versi (sulle avventure del nobile fiammingo Sir Thopas) era
talmente ridondante da diventare una parodia delle ballate cavalleresche. Non senza protestare, Chaucer narra allora la lunga storia di Melibeo e madonna Prudenza, che riuscirà a condurre a termine.

Pasolini, inoltre, accentuò il disagio dello scrittore, le cui incertezze sono acuite dal disinteresse dei pellegrini, distratti dalle loro libidini, dai rancori e dalla noia
che ispira loro quella narrazione.

All’improvviso, Chaucer/Pasolini veniva zittito definitivamente. Non gli si offriva la possibilità di “riscattarsi” con una nuova storia e doveva accontentarsi di mugugnare a bassa voce, mentre la donna di Bath (impersonata nel film da Laura Betti) avvinceva l’uditorio con la sua novella e il suo linguaggio vivacemente sboccato. 
La decisione di sopprimere quella scena umiliante (e il racconto parodistico di ser Thopas, che Pasolini investì di maggior sarcasmo rispetto ai Canterbury Tales), modificò la fisionomia di Chaucer come personaggio di se stesso. Il suo ruolo, nel tessuto della rievocazione del viaggio, fu così circoscritto all’inizio della “cornice” rimasta, allo spazio di una breve gag comica e a poche altre fugaci apparizioni. A differenza del “discepolo”
di Giotto del Decameron, Chaucer è isolato da Pasolini ai margini della realtà evocata nei racconti, o appare addirittura del tutto estraneo e appartato, nel silenzio del proprio laboratorio di scrittore. Nella prima versione del film, invece, la solitudine di Chaucer avrebbe avuto una chiave rivelatrice: un artista impotente a conquistare un uditorio popolare e a calare la sua arte nella materia della
vita.

Al termine delle riprese, Pasolini aveva dichiarato: 

«Sento la perdita del mondo del passato. Sono un uomo deluso. Sono sempre stato in lotta con la società. Mi sono battuto contro di essa e da essa sono stato perseguitato, ma mi ha anche dato una misura di successo. Ora, non mi piace più. Non mi piace il suo modo di vivere, la qualità della sua vita. E per ciò, rimpiango il passato. Alla mia età, suppongo, è quasi convenzionale». (intervista a cura di Renato Proni, “La Stampa”, Torino, 23 novembre 1971).
Roberto Chiesi




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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