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sabato 30 gennaio 2021

1963 SOPRALLUOGHI IN PALESTINA

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




«Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è sole e non è luce. Giorni dolci e chiari volano via, io sono di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi chiama, ma senza luce ».



1963 


SOPRALLUOGHI IN PALESTINA

(Per il Vangelo secondo Matteo)





Documentario

Produzione: Arco Film
Soggetto: Pier Paolo Pasolini
Commento e montaggio: Pier Paolo Pasolini
Fotografia: Aldo Pennelli
Interventi: Don Andrea Carraro e Pier Paolo Pasolini

PRIMA PROIEZIONE:

15 dicembre 1963: Milano, Cine Club Il Barcone

USCITA NELLE SALE:

Il film non è uscito nei circuiti commerciali. E’ stato proiettato l’11 luglio 1965 nella serata conclusiva del Festival del Cinema di tendenza, promosso dalla rivista FILMCRITICA nell’ambito dell’VIII Festival dei Due Mondi di Spoleto.


STORIA:

Dal 27 giugno all’11 luglio 1963 si recarono in Israele e in Giordania, per visitare i luoghi originari del Vangelo,
Pier Paolo Pasolini, don Andrea Carraro e il dottor Lucio Settimio Caruso della Pro Civitate Christiana, Walter Cantatore dell’Arco Film, la casa produttrice di Alfredo Bini, l’operatore Aldo Pennelli. Lo scopo era duplice: da un lato riconfermare un’ispirazione che in Pasolini era già profonda e angosciosa, ricontrollare da vicino cose e momenti visti solo nella lettura, nella fantasia, nell’arte figurativa, nella musica; dall’altro esaminare la possibilità di girare là il film, del tutto o in parte, di controllare i costumi, la scenografia esistente e quella «possibile», per un 
film ispirato alla  
vita di 
Cristo attraverso il Vangelo. Pasolini ritornò da Israele con sei rulli di documentario sui luoghi visitati, con una grandissima quantità di suggestioni morali nuove, con un’
«impressione estrema di desolazione, di umiltà, di povertà», 
con una nuova spinta fermissima, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, a realizzare il film; ma anche con l’assoluta convinzione che non fosse possibile utilizzare in nulla il paesaggio di Israele e di Giordania, o i visi di
Israele e di Giordania.
 I duemila anni trascorsi dall’età di Cristo hanno profondamente modificato la scenografia naturale, 
«c’è sempre qualcosa di troppo moderno e industriale». 
E Pasolini si trovava così a cercare di identificare continuamente quanto incontrava e che fu , ma che non poteva assolutamente ritornare ad essere, con qualcosa di simile, conservato più genuinamente, più immoto, che potesse quindi rappresentare il passato, i luoghi
e lo scenario del Vangelo. L’Italia meridionale, Matera, Crotone, la Puglia, e altre zone ancora, si fecero strada, sempre più prepotentemente, nella impostazione scenografica e ambientale del film, anche perché avevano la possibilità di offrire, oltre al paesaggio di Terrasanta mutato, anche quello immutato: 
«Il monte delle Beatitudini sembra uno dei luoghi più desolati della Calabria e delle Puglie (...) mi aspettavo luoghi favolosi, ho avuto una lezione di umiltà, la vita, la
morte di Cristo sta tutta dentro in un pugno (...) ci sono montagne molto simili a quelle sullo Jonio, fra Cutra e Crotone, ci sono tipici uliveti pugliesi (...) Bari vecchia può essere il luogo di uno dei miracoli di Cristo (...) ma mi occorrerà una grotta dell’Annunciazione sulla quale non sia in costruzione una chiesa moderna, e dovrò trovare una Betlemme “vera” che sia il surrogato delle Betlemme di oggi (...) forse
l’unico problema sarà la ricostruzione del deserto, con questa luce, questa immensità di orizzonti, queste zolle spelacchiate, che ricordano un po’ l’Etna (...) e la ricostruzione delle rive del Mar Morto, uno dei pochissimi paesaggi che abbia in sé la grandiosità, un tremendo paesaggio lunare». 
In sostanza, il viaggio in Terrasanta aumentò la carica spirituale (spirituale-estetica,  
dice Pasolini),
proprio mentre allontanò materialmente il film dai luoghi delle sue origini. Israele è troppo moderno. La Giordania è patinata di varie incrostazioni architettoniche, che si sono susseguite nel tempo, dovute specialmente ai Crociati e agli Arabi. Le grandi chiese cristiane moderne, che non piacciono a Pasolini, impediscono comunque la rappresentazione genuina della grotta dell’Annunciazione e di quella della Nascita, del Calvario, del Sepolcro.
 In un Paese, come ci ha detto il dottor Caruso, che ha da anni un’
«aria di provvisorietà armistiziale», 
Pasolini è riuscito a osservare le cose in un oggi immediato, andando nello stesso tempo al clima testuale dell’epoca di Gesù Cristo. Osservava infatti Lucio Caruso, nei giorni stessi del viaggio: 
«Davanti alla basilica costantiniana del Santo Sepolcro mi ha colpito un leggero moto di Pasolini, come
di ripulsa. Il motivo – l’ho capito subito e poi lui stesso me lo ha confermato – è nel suo voler ricercare, al di sotto delle stratificazioni architettoniche successive, il volto della Terra santa quale Gesù lo vedeva. Mi sembra sempre più chiaramente che il film vuol farlo nella viva prospettiva del contemporaneo, non in quella svaporata del lontano postero che attinge alla ricostruzione storica o che indulge alle
fantasie popolari»
.
Le visioni dei campi, la semplice operazione della «battitura» del grano sollevando in alto i chicchi e la pula, ad esempio, suggerivano a don Andrea Carraro di riferire a Pasolini l’immagine evangelica dei farisei paragonati appunto al frumento, per uscire indenni da una rigorosa selezione, il grano buono da un lato, la pula dall’altro. E il regista ascoltava con profonda attenzione il riferimento, e quelle che egli chiama le «reazioni
perfette» di don Andrea, con cui si intende «anche perché don Andrea è veneto, parla con accento veneto», e ha avuto un’infanzia simile alla sua, «un’educazione cattolico-veneto-liturgica», e può dare una misura delle reazioni del futuro pubblico cattolico. Non per niente, infatti, nel corso del documentario – che a Pasolini è servito come ricerca, come prova, come testimonianza – don Andrea, rivolto al regista, dichiarava che si sarebbe dovuto assorbire lo spirito della situazione anche geografica della Terra santa, per sentirlo, reinventarlo. D’altronde anche
Pasolini sentiva in sé degli avvertimenti stilistici: 

«Gerusalemme è indubbiamente grandiosa e sublime. Se il film sarà semplice e scandito, in precedenza, all’arrivo a Gerusalemme dovrò mutare registro, per riassorbire l’allegria e la varietà dei luoghi sottoproletari e poveri e la grandiosità di una folla e di una capitale».

 Un altro problema che sarebbe rimasto insoluto, qualora il film si fosse girato in
Israele e Giordania, e che appunto il sopraluogo ha contribuito ad eludere, sarebbe stato probabilmente quello delle comparse, della impossibilità di trovare comparse in Israele, dove il lavoro in prevalenza industriale assorbe pressoché tutta la popolazione; e in Giordania dove 
«le faccie degli arabi sono precristiane: indifferenti, allegre, animalesche, e un po’ funeree, su di esse non è passata, neanche da lontano, la predicazione di Cristo».
Pasolini era sempre colpito, in modo vivissimo, dall’«assoluto, estremo ordine della testa di don Andrea»,
il quale non si sorprendeva di niente, nel nuovo come nel vecchio, nel noto e nell’ignoto, nello straordinario e nel consueto. «Don Andrea», aggiunge Lucio Caruso, 
«con precisione di studioso dava sobrie spiegazioni traducendo in linguaggio
semplice la sua complessa terminologia esegetica. Quasi non riconoscevo più in lui il mio severo professore di Bibbia. Mai una concessione al sentimento, neppure nell’inflessione della voce. Dava soltanto una spiegazione a quei luoghi, faceva udire la loro voce. E dall’espressione dei volti mi accorgevo che a parlare all’intimo di ognuno erano proprio quelle pietre che duemila anni fa furono
bagnate dal sangue dell’Innocente. Via dolorosa: per qui è passato Gesù, l’uomo-Dio, con la croce sulle spalle in mezzo a una umanità allora come oggi indifferente. Ho chiesto a Pasolini»,
aggiunge Caruso, 
«se ancora gli sembrasse attuale la frase del Battista: “In mezzo a voi è qualcuno che voi non conoscete”. Mi ha risposto di sì.»
E Pasolini tendeva continuamente a sottolineare – ricevendo da don Andrea la conferma di un pensiero di san Paolo – che quanto più le cose apparivano, erano piccole e brulle («le solite ristrette misure di tutto il Vangelo»), tanto più erano per lui belle esteticamente.
 «Pasolini», osserva ancora nelle sue impressioni immediate Lucio Caruso, 
«ha una capacità di lavoro impressionante. Sembra non accorgersi del caldo atroce, anzi appare freschissimo, teso nell’attenzione, pronto a cogliere i più minuti particolari e a commentarli. Mi ha fortemente sorpreso in lui un interesse, più che sociologico, psicologico. Di fronte a questa gente misera, in ambienti malsani, lui non pensa agli enormi loro problemi sociali, alla mortificazione di tutta
questa cenciosa comunità presa nel suo insieme, piuttosto sente il dramma del singolo individuo, il suo mondo spirituale, il rapporto individuo-alimentazione, individuo-stracci, ricerca i sintomi esteriori del loro fatalismo orientale, rileva che l’allegria della gente di qui poggia su un sottofondo o di mestizia o di bestialità, mai di serena gioia. Abbiamo visitato l’orto del Getzemani e quindi
abbiamo proseguito per Emmaus, a un’ora d’auto. Il Getzemani è il luogo della paura e dell’angoscia di Gesù, qui sudò sangue, fu tradito da Giuda, abbandonato dagli apostoli. Pasolini ha ammirato gli ulivi, enormi, millenari, con i loro tronchi accartocciati e contorti che sono gli stessi di duemila anni fa. Ha parlato degli ulivi e non d’altro. Sembra un atteggiamento di difesa di fronte alla forte
carica spirituale che questi luoghi sembrano emanare.» 
Per parte sua Pasolini, nel commento al documentario (sempre esposto in forma di piana relazione-lettera a Bini), a un certo punto, giustificando indirettamente l’osservazione di Caruso, nota: 
«Essere qui brutalmente e fisicamente davanti al Giordano mi dà un senso di imbarazzo e di mancanza di
rispetto: sono imbarazzato soprattutto per ragioni estetiche». 
Continua Caruso: 
«Gli ho detto che proprio qui, nell’orto del Getzemani, Gesù “si è fatto peccato”, si caricò cioè di tutti i nostri peccati per poi espiarli sulla croce. Nel suo sguardo mi è sembrato di notare un lampo di commozione». Il documentario
del «sopraluogo» termina sull’ambiente dell’Ascensione, che Pasolini, per parte sua, identifica con «il momento più sublime di tutta la storia della Chiesa, il momento in cui Egli ci lasciò soli a cercarlo».

(Tratto da: Il vangelo secondo Matteo, 
Edipo Re, Medea - Garzanti)  




H. – In origine, Sopralluoghi in Palestina era destinato alla proiezione in pubblico, o era invece concepito come un film di ricerca ad uso personale?

P. – Fu una cosa del tutto casuale, e in realtà io non ebbi alcuna parte nella scelta dei luoghi o nei movimenti di macchina o nel girare e tutto il resto. Quando andammo in Medio Oriente c’era con noi un operatore inviato al nostro seguito dalla casa produttrice. Io non gli suggerii mai niente, anche perché non pensavo affatto di servirmi del materiale
c
he lui girava per farne un film; volevo solo raccogliere un po’ di documentazione che mi aiutasse a impostare Il Vangelo. Quando tornai a Roma, il produttore mi chiese di mettere assieme un po’ del materiale girato e di farci su un commento, in modo da poter mostrare il tutto ad alcuni distributori e capoccia democristiani che avrebbero potuto essere utili ai produttori. Io non controllai neppure il montaggio. Lo feci fare da qualcuno e mi limitai a dargli un’occhiata, ma lasciai tutto quello che c’era, compresi certi brutti tagli fatti da quello che avevo incaricato, e che non
era nemmeno uno specialista. Me lo feci portare in sala di doppiaggio e improvvisai un commento. Insomma, è stata una faccenda così, ripeto, improvvisata.

   
H. – Le conversazioni fra lei e don Andrea devono essere state registrate in quel periodo.
   

 
 P. – Sì, quelle erano vere, ma fu sempre l’operatore a decidere quali registrare e quali no.  
  
   
H. – Dopo la faccenda della Ricotta avrà avuto qualche difficoltà nel ristabilire buone relazioni con i rappresentanti della Chiesa, immagino.  
  

P. – Ero stato in buoni rapporti con don Giovanni Rossi e altri della Pro Civitate Christiana, e con alcune persone della sinistra cattolica, ma questo, diciamo, prima dell’affare della Ricotta. Tutto fu reso più facile, però, grazie all’ascesa al soglio di Papa Giovanni XXIII , che obiettivamente rivoluzionò la situazione. Se Pio XII fosse vissuto altri
tre o quattro anni, non sarei mai stato in grado di fare Il Vangelo.
 
   

  
 H. – Un punto che a me è sembrato un po’ strano, in Sopralluoghi, è quello in cui lei trova alcuni bambini arabi e dice qualcosa come: «Questi non andranno bene per il film, perché si vede che la parola di Cristo non è passata sui loro visi». Non l’ho capito, veramente.
   

   P. – La cosa è piuttosto difficile da spiegare; è una di quelle cose che
vengono dal cuore. Ma storicamente è vero, non può dirmi che non lo è. È una cosa che ho detto così, per ispirazione, anche se nel contempo è banale; è vera nel senso più pratico e brutale della parola, come è vera per noi nell’Italia meridionale: si vede che la parola di Cristo non è passata di là perché la loro moralità non è evangelica, non è fondata sull’amore ma sull’onore. Non c’è pietismo; fondamentalmente non c’è nemmeno pietà, nell’accezione cristiana del termine... cioè in senso lievemente ricattatorio. Se la pietà c’è è perché c’è, non perché dovrebbe esserci e ci si aspetta che ci sia. E questo lo si vede meglio negli arabi che nei nostri meridionali.
 
   
 H. – Quanto tempo ci ha messo a capire che quel materiale era tutto inutilizzabile? Nel film, credo che sia don Andrea Carraro a dirlo per primo, ma si ha la netta impressione che lei se ne fosse già reso conto.
 

  P. – Quando atterrai a Tel Aviv, non distinsi niente, naturalmente. Era notte.
Tutto quello che riuscii a vedere fu un aeroporto e una città. Noleggiai una macchina e mi recai nell’interno. All’inizio, proprio all’inizio, fissai alcune immagini di un mondo antico, prevalentemente arabo. In un primo tempo ho pensato che avrei potuto servirmene, ma subito dopo cominciarono a comparire i kibbutzim, e cantieri di rimboschimento, industrie leggere e così via, e allora mi resi conto che era inutile: lo capii dopo poche ore di auto.

  
 H. – Di recente, dopo la guerra dei Sei Giorni,23 lei ha pubblicato delle poesie che aveva scritto durante il suo soggiorno in Palestina ma che non aveva pubblicato a quell’epoca, insieme con un testo su Israele che era più o meno un attacco all’«Unità». È un po’ difficile dedurne che cosa ha pensato di Israele come società; perciò me lo dica adesso, per favore.
   

   P. – Le poesie pubblicate su «Nuovi Argomenti» sono poesie che non ho incluso nel volume Poesia in forma di
rosa, dove c’è una sezione intitolata «Israele» nella quale si rende l’idea dell’impressione che ha destato in me quella società. È stata un’impressione contraddittoria, nel senso che io la disapprovo radicalmente in quanto si fonda su un’idea sostanzialmente razzista, messianica e religiosa, l’idea di una Terra Promessa basata su ragioni religiose vecchie di tremila anni, cosa completamente folle. Non accetto la premessa, che è nazionalistico-religiosa: è una cosa orribile, anche se in fondo è lo stesso principio su cui si fondano tutti gli stati.

   Però, su questa premessa, è stata costruita una nazione che ispira grande simpatia; ad esempio i kibbutzim, benché siano luoghi tristissimi che fanno venire in mente i campi di concentramento, e la propensione degli ebrei per il masochismo e l’autoesclusione, nello stesso tempo sono qualcosa di nobilissimo, uno degli esperimenti più democratici e socialmente avanzati che abbia mai visto. Inoltre, ho sempre amato gli ebrei perché sono stati degli emarginati, perché sono tuttora oggetto di odio razziale, perché sono stati costretti a restare estranei alla società.
 Ma una volta fondato il loro proprio stato non sono più dei diversi, non sono più una minoranza, non sono degli emarginati; sono la maggioranza, sono i normali. E questo mi ha dato una piccola delusione, non saprei esattamente come spiegarla. Loro, che sono sempre stati i paladini della diversità, del martirio, della lotta dell’altro contro il normale, ora sono diventati la maggioranza, i normali: questa è stata una cosa che ho trovato un po’ difficile da digerire...
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Curatore, Bruno Esposito

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