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lunedì 5 novembre 2012

Sostituzione e oggetto del desiderio nella Medea di Pasolini - 2. Medea come crocevia tra sacrificio e desiderio

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




"Niente è più possibile, ormai"
Sostituzione e oggetto del desiderio nella Medea di Pasolini
2. Medea come crocevia tra sacrificio e desiderio



Medea come crocevia tra sacrificio e desiderio Pasolini si confronta col testo di Euripide, ridefinendolo e dislocandolo secondo le esigenze e i pensieri di un uomo che pensa e lavora decine di secoli dopo.

In mezzo ci sono la maturazione e la fine del mondo antico, l’avvento del cristianesimo e dell’Europa cristiana, la rottura del mondo moderno, fino agli sconvolgimenti dell’epoca contemporanea. Lo scrittore-regista non se ne dimentica mai, solo che in lui questa constatazione non prende le tinte di un’ovvietà storicistica.

Pasolini è guidato dall’acuta intuizione che i problemi sono gli stessi, ma con una diversa consapevolezza da parte nostra, con una percezione diversamente ricca della loro mancanza di soluzione. Infatti, i problemi del desiderio non si risolvono ma si vivono, si traducono cioè in un’esperienza immediata, e diventano propriamente problemi nel momento in cui sono pensati, cioè non sono risolti. Il desiderio rimanda da un lato a un’immediatezza animale, ma dall’altro richiede una mediazione, che è come dire uno stacco, una frattura che lo stacca dall’immediatezza, dal soddisfacimento appagante. L’uomo moderno, che è più consapevole, è perciò più lontano dal soddisfacimento, ma questo evidenzia nella sua consapevolezza una frattura che è originaria. Più la modernità pensa autenticamente se stessa, e più pensa l’antico. Euripide percepisce già con forza codesta frattura, sia pur all’interno di un insieme sacrale che vuol essere naturale e che egli non può violare apertamente, non avendo del resto alternative alle quali ricorrere. Il cristiano Pasolini riprende la frattura della coscienza, senza più nessun avvolgimento e paludamento sacrale, perché il cristianesimo ha introdotto il pensiero del significato e dell’origine storica di tale frattura.






Se il desiderio è mediazione è perché presuppone sempre qualcuno che già desidera: esso è dunque un processo sostitutivo e rimanda alla sostituzione. La sostituzione non può però essere naturalistica, poiché è una matrice di significato.

Essa infatti era anticamente un rito, e il rito sostitutivo per eccellenza è il sacrificio: qualcuno che muore al posto di qualcun altro. La sostituzione deve avvenire con l’immediatezza di un istinto animale, ma con una tale intensità da rompere la soglia istintuale e da diventare fonte del significato, cioè della cultura. Sia Freud sia Bataille sia Girard pongono il sacrificio alla base della cultura. Freud però non coglie l’universalità del meccanismo sostitutivo in quanto egli resta legato all’oggetto sessuale, e quindi al padre edipico inteso come entità naturalistica; Bataille si pone il problema culturale dell’oggetto sessuale come oggetto del sacrificio, ma non definisce con chiarezza il meccanismo della sostituzione; Girard definisce con forza il meccanismo della sostituzione, ma pensa di poter prescindere dall’oggetto come problema. La mia teoria del desiderio e del sacrificio consente di tenere insieme tutti questi aspetti. Per essere immediato il meccanismo sacrificale dev’essere collettivo; esso consente di deviare su un solo obiettivo la violenza interna derivante dall’indecidibilità dell’oggetto, che ancora non si configura come tale mentre tutti ne disegnano il contorno nella relazione reciproca che diventa rivalità; il sacrificio infine trasforma, mediante l’uccisione della vittima unica, l’obiettivo comune in oggetto sacrale, che si trasforma in punto comune di mediazione capace di definire gli oggetti, e di costituire così un mondo. La lacerazione fonda l’oggetto, e l’oggetto si potrà confermare ripetendo la lacerazione. Questa lacerazione è lacerazione di un corpo, di una vittima, che viene lacerata e smembrata. Prima delle metafore e dei concetti esiste la realtà che li ha generati. Anche il pensiero infatti è sostituzione, che rimembra ciò che è stato smembrato, allontanando lo sguardo dai suoi resti sanguinanti.


Il tema della sostituzione è il motore interno della vicenda del film, e Pasolini non fa che riprendere, con chiarezza modernamente didascalica, un motivo che innerva la tragedia di Euripide. Da subito la protagonista di Euripide è presentata dalla sua nutrice nei panni di colei che desidera e uccide. Sconvolta dalla passione per Giasone, la donna fa successivamente tagliare a pezzi un suo nemico, Pelia, per mano delle sue figlie, introducendo il tema dello sconvolgimento dei rapporti parentali e affettivi. Poco dopo la nutrice anticipa le conseguenze immediate di questo stravolgimento, esternando il suo allarme sulla sorte dei figli della stessa Medea.

Queste le sue parole rivolte ai fanciulli e al pedagogo: Bambini, rientrate in casa: sarà meglio. Tienili più che puoi in disparte, lontani dalla madre così esasperata. Mi sono accorta che li guardava in modo torvo, pronta a chissà cosa. E l’ira non le sbollirà, lo so bene, prima di scatenarsi contro… i nemici, mi auguro, e non gli amici [4].

Furente per il tradimento dell’amato, Medea desidera infliggergli per sostituzione il ruolo di vittima a cui è lei a vedersi consegnata. Ma, essendo Giasone altrove, in un nuovo "imeneo", la donna non può che sfogarsi contro gli oggetti sostitutivi più a portata di mano, i figli, efficaci in quanto generati con Giasone e quindi a lui assimilabili. La nutrice si augura che Medea si scagli contro i nemici, ossia contro Giasone e chi lo sottrae ai suoi impegni amorosi, ma la distruzione si propagherà per contagio su tutti, perché la sostituzione stessa non agisce più ritualmente, altrimenti la stessa sostituzione rappresentativa del palcoscenico tragico, che prende il posto del rito, non potrebbe sussistere. Le ragioni del disastro rappresentato vengono tendenzialmente a coincidere con le ragioni della rappresentazione, a stento controllate nella cornice pararituale del teatro. La crisi è perciò radicale, e il testo tragico non ha soluzioni che non siano volutamente convenzionali e finalizzate a rendere la rappresentazione accettabile al pubblico.

Euripide è perciò un antesignano di Pasolini, anche se quest’ultimo, con una specie di riflesso condizionato comune a quasi tutti i moderni (a cominciare da Nietzsche), ama di più frequentare Eschilo, di cui traduce l’Orestiade, ispirandovisi per il progetto di Orestiade africana, e Sofocle, di cui riprende e varia l’Edipo re fin dal giovanile Edipo all’alba, arrivando a fare del tragediografo uno dei suoi personaggi citazionali in Affabulazione. Eschilo e Sofocle mostrano a Pasolini, e ai moderni, un’idea più "classificabile" di tragedia classica, perché i due tragediografi sono maggiormente protesi nello sforzo di trovare una soluzione, un ubi consistam, pur non riuscendovi del tutto ed esibendone sulla scena le ragioni. Eschilo si presenta a Pasolini come più utilizzabile in chiave politico-marxista, e Sofocle si presta con facilità sospetta a variazioni sul tema incestuoso e freudiano. Mentre Euripide, il più modernamente irrisolto e fecondo, il più audace nell’esibire le dinamiche dionisiache del desiderio e del sacrificio, si sottrae a più facili categorizzazioni, rivelandosi troppo moderno per essere fino in fondo antico e troppo antico per essere fino in fondo moderno. Una presenza anomala da cui Pasolini è attratto secondo modalità più sotterranee, come dimostra la ripresa da Alcesti del mediometraggio La terra vista dalla luna [5], e su cui si sente indotto a tornare, non a caso – ritengo – dopo l’Edipo re e il tentativo di Appunti per un’Orestiade africana [6]. È Euripide a rendere maggiormente visibili le ragioni profonde dell’interesse pasoliniano verso i tragici greci.


Pasolini porta a chiarezza etnografica e cinematografica ciò che Euripide deve far trasparire nella tessitura testuale della sua tragedia. La sostituzione sacrificale domina tutta la prima parte del film dedicata al mondo arcaico della Colchide, dapprima con la ricostruzione del sacrificio di smembramento di un ragazzo che non potrebbe essere più pasoliniano, sacrificio celebrato dalla sacerdotessa Medea, e poi con l’uccisione del fratello Apsirto da parte di lei durante la fuga. Apsirto viene ucciso come vittima sostitutiva al posto della sorella che ha rubato il vello d’oro, e gli inseguitori si fermano non semplicemente perché inorriditi, ma perché vincolati dalla mossa rituale che Medea ha effettuato. Il sacrificio di Apsirto sostituisce lo stesso vello d’oro, con cui il ragazzo era stato posto ritualmente in contatto allorché la sorella gli aveva chiesto di prenderlo. La sostituzione porta a compimento il furto perché il furto era già sostituzione, e questo furto-sacrificio disvela la vera natura del vello stesso, la sua funzione di sostituto sacrificale, indispensabile per la conferma sacrale del potere (esso è stato chiesto a Giasone da Pelia per ridargli il trono che gli spetta).


Ma, una volta portato nell’universo razionale di Giasone, il vello si rivelerà inefficace. Pelia, che nel film rimane in vita per testimoniare la logica del potere, si rifiuta di abdicare dopo la realizzazione dell’impresa, e Giasone risponde snobbando il suo potere sacrale: "…se vuoi che ti dica quello che secondo me è la verità, questa pelle di caprone, lontano dal suo paese, non ha più alcun significato" [7]. L’aspetto illuministico del personaggio, illustrato subito dopo dal colloquio con il "doppio" centauro, non si limita però a testimoniare la giustapposizione di un’antinomia irrisolvibile, il che resterebbe una constatazione estetizzante perché priva di impegno esplicativo, ma evidenzia il manifestarsi dello stesso problema del mondo originario di Medea a un livello diverso di coscienza e di storicità, con Euripide a fare da tramite sotterraneo e ipotestuale. Lo stesso problema è appunto quello dell’oggetto del desiderio, come realizzazione più psicologica di una struttura antropologica fondatrice.

Nel tema del desiderio e del corpo la versione pasoliniana rivela tutta la sua modernità, con una declinazione soggettiva nuova rispetto al testo euripideo. Sarebbe tuttavia un errore non rendersi conto che Pasolini può fare questo proprio perché coglie i punti di forza della tragedia antica, la quale è la prima a compiere dei decisivi passi verso l’interiorizzazione e personalizzazione della vicenda del mito. La protagonista di Euripide è strutturalmente collegata con l’eros, col letto, che anche nel suo mero venir nominato continuamente sulla scena teatrale acquista un valore sottile e persistente di trasgressione. È Medea in persona a sottolineare il ruolo centrale dell’oggetto sessuale quando, nel suo discorso fatto a nome di tutte le donne, qualifica il marito come "padrone del nostro corpo" (despóten te sómatos) [8], descrizione dispregiativa che sarebbe anacronistico interpretare in chiave femminista, giacché proprio squalificando in tal modo le relazioni famigliari il personaggio certifica di non appartenere al consesso civile, di rappresentare un’estraneità anomica da tenere lontana. E il Giasone di Euripide le ricorda con durezza come sono andate veramente le cose: "Ma visto che esalti un po’ troppo i tuoi meriti, ti dirò che la salvezza nella mia impresa la devo a Cipride, e solo a lei fra tutti i celesti e i mortali. Tu hai una mente sottile: ed è un brutto discorso per te ammettere che Eros con le sue frecce infallibili ti ha costretto a salvare la mia persona" [9]. La donna ha agito solo perché dominata dal desiderio per l’uomo, ma il personaggio mantiene le spiegazioni divine del mito, quasi per lasciare all’avversaria una dimensione numinosa in cui rifugiarsi, senza far precipitare il suo desiderio fino

alle ultime conseguenze. Ma la partita aperta fra la vecchia teologia e la nuova psicologia individuale è in sostanza già persa, poiché la percezione del desiderio individuale disvela ormai troppo, e non rende credibili gli antichi simulacri, le antiche storie. Il discorso che rivela il potere di Eros rimane "brutto" (epíphthonos, odioso, oggetto o fonte attiva di invidia), attestando di aver perso ogni potere trasfigurante e risolutivo. La divinità potrà intervenire solo come faticoso deus ex machina, che fornisce una finale conferma alla crudezza del desiderio scoperto. Nell’epilogo Giasone denuncia apertamente, dinanzi alla catastrofe ormai realizzata, il movente puramente sessuale di ciò che ha compiuto Medea: "…hai sposato quest’uomo, gli hai generato dei figli e li hai massacrati per un letto, per un connubio" [10]. Oggi si direbbe: "Hai fatto tutto questo solo per qualche scopata", e la constatazione che la più volgare espressione moderna si sovrappone comunque egregiamente all’antica indica una convergenza che è sostanziale. A differenza di un partner moderno, Giasone sente però il bisogno di ribadire, al verso successivo, l’estraneità di Medea alla compagine sociale civilizzata, estraneità che è sacrale e imbevuta di sacrificio: "Questo non lo avrebbe osato mai nessuna donna greca". Euripide ammicca al pubblico più facile a scandalizzarsi, anche se la verità del desiderio di Medea non lascia dubbi sull’universalità del meccanismo testé disvelato.


Pasolini riprende e sviluppa puntualmente questo importantissimo passaggio presente nella tragedia di Euripide, allorché i due protagonisti del film si rinfacciano le rispettive colpe. Non tener conto del dialogo ravvicinato e segreto di Pasolini con il modello antico sul quale riflette e lavora con grande penetrazione, espone a interpretare la difesa di Giasone nei termini di una negazione sfacciata della verità, quando invece il personaggio pasoliniano è ancor più scarnamente obiettivo del suo omologo greco: "… È ora che tu ti convinca infine, chiaramente, che io devo soltanto a me stesso la buona riuscita delle mie imprese. Anche se tu non vorrai mai riconoscere che, se hai fatto qualcosa per me, lo hai fatto solo per amore del mio corpo. Tu mi rimproveri di essere ingrato. Ma io, anche se forse senza molta fatica e magari, lo ammetto, non volendolo, ti ho dato infine molto più di quello che ho ricevuto".

Pasolini soggettivizza, ma soggettivizzando in nome del corpo come oggetto del desiderio, compie un altro passo in avanti nel rivelare le condizioni costitutive dell’oggettività, dell’oggettualità. Il suo Giasone si presenta in modo quasi disarmante come "uomo oggetto", che non ha dovuto fare molta fatica a lasciarsi concupire e desiderare, e che ha dato "molto" anche "non volendolo". Quest’ultimo accenno è segretamente interpretabile in chiave omosessuale; il circuito desiderativo tra uomo e donna facilmente si inceppa, invertendo i ruoli: l’atteggiamento di Giasone, nelle sue parole apparentemente decise, si dimostra femmineo e vulnerabile, dato che egli si è fatto prendere passivamente dal desiderio dell’altra, e si è fatto strappare molto di più di quanto abbia ricevuto, quasi si trattasse di uno stupro. Il corpo del protagonista è l’"oggetto", e Pasolini ha scelto a tale scopo un atleta, non un attore professionale o un intellettuale. Non dobbiamo però farci fuorviare da piste troppo psicanalitiche, per quanto possano essere interessanti. Il punto essenziale resta quello dell’indifferenziazione e delle condizioni originarie di criticità che essa rivela. Il proprio desiderio interessa a Pasolini, al livello più profondo, quello generatore del testo, soprattutto come fonte insostituibile di informazioni su un’indifferenziazione più originaria, in cui la sostituzione resta l’unica via di scampo.

Pasolini sperimenta e osserva in se stesso il convergere strutturale tra l’epifania del corpo nel desiderio e le manifestazioni disvelative del sacro arcaico, la ierofania che si pone al centro del pensiero di Mircea Eliade. Il desiderio sessuale è il rivivere l’esperienza arcaica del sacro, solo maggiormente individualizzata, fino a staccarsi dalla sua cornice inglobante e totalizzante nel razionalismo illustrato dal lato illuministico di Giasone e del doppio centauro. Attraverso l’esplorazione dei fenomeni sacri del desiderio, Pasolini attinge a una sua dimensione originaria, che si rivela essere quella di un venir meno delle differenze culturali, indifferenziazione a cui solo il sacrificio conferisce espressione e nuovi confini, analogamente all’erotismo secondo Bataille. Medea è l’incarnazione di questa dimensione fondante, che non è alle nostre spalle ma agisce dentro l’uomo moderno. A conferma di questa contaminazione rivelatrice fra arcaico e moderno, leggiamo com’è presentato l’incontro di Medea con Giasone nel testo delle Visioni della Medea: "Medea si sente piena dello spirito della sua terra – del dolce sole – dell’Antichità: ed è presa come da un rapimento. Cade in ginocchio, davanti all’alberello umile e sublime, a cui è appeso il Vello, simbolo della continuità e dell’assolutezza di una condizione umana: e prega.

Mai ha pregato con tanto fervore e quasi beatitudine…

Ma d’un tratto, come lacerata, la musica che accompagna Medea, s’interrompe.

Un profondo, innaturale, silenzio cade sulle cose.

Medea, come strappata a un sogno, pare risvegliarsi di colpo: e si guarda intorno incerta, interrogativa, come qualcosa si fosse strappato dentro di lei, ed essa ne ricercasse i segni nel mondo esteriore.

Che le appare in tutto il suo mistero originario, antecedente a ogni significato umano; cioè impenetrabile.

Ed ecco che nel silenzio innaturale si sente un rumore, di passi. Medea si volta verso il fondo della valletta scoscesa, in mezzo a cui rameggia l’Albero sacro divenuto una delle tante forme indecifrabili che la circondano, in seguito alla folgorazione…

È un giovane, che avanza: un giovane alto, aitante come un levriero, bruno, dall’occhio piccolo, opaco, avido e sensuale, in cui brilla un’ironia resa dolce da un’intima gentilezza, infantile.

Forse è il giovane di cui parlano le romanze delle serve… il leggendario distruttore della città, barbaro e nuovo, venuto a por fine a un mondo… Certo: è Giasone.

Egli avanza, lento, senza fretta, fin sotto l’albero: e guarda fisso Medea. La sua ironia (carezzevole) sembra volerla spogliare, e non solo materialmente: esprimendo qualcosa che a lei sfugge, e che pure la determina…

Medea fa per alzarsi, andargli incontro, chiedergli chi è… Ma l’apparizione, così com’è comparsa, scompare.

Un’espressione di dolore e di delusione profonda s’imprime nel viso di Medea: fa per cercarlo, per seguirlo… Invece cade, di schianto, piombando a terra priva di sensi" [11].


Il brano è estremamente complesso, perché raccoglie tutti i diversi spunti del film e li fa confluire in un unico insieme stranamente coerente e composito. Intanto l’albero sacro col vello viene simbolicamente a coincidere con il ragazzo fatto a pezzi nel sacrificio iniziale. Pasolini si ispira al sacrificio di fecondità della popolazione dei Khond, nel Bengala, che riguardava una vittima umana dapprima legata ad un palo, e infine perlopiù uccisa incastrandone le testa in un ramo tagliato in due, dopodiché "la folla si accalcava intorno al disgraziato e gli tagliava via la carne dalle ossa, lasciando intatte solamente la testa e le interiora" [12]. Questa è la versione di una delle fonti da lui utilizzate, Frazer, anche se il regista rielabora visivamente la versione meno cruda e dettagliata riportata dall’altro autore al quale è ricorso, Eliade [13]. In ogni caso Pasolini fa trasparenti riferimenti alla simbologia arborea presente nel sacrificio, anche se non è semplicemente quest’origine orrorosa a rendere l’alberello del testo pasoliniano "umile e sublime". La presentazione del testo risulta sacrificalmente ambigua, e l’ambiguità in Pasolini sta quasi sempre al suo posto, ma qui c’è dell’altro, come ora dirò.

L’aggettivo "innaturale" si riferisce in primo luogo alla coscienza che Pasolini, con Bataille, ha del carattere assolutamente culturale dell’universo che da tale evento ha preso inizio. Ma, con un vero corto circuito rappresentativo, Pasolini colloca di colpo, "di schianto" (ricorrono le espressioni indicanti uno strappo, una lacerazione), l’epifania del desiderio, che si sostituisce all’epifania divina che dovrebbe essere garantita dal vello. La soggettività moderna fa irruzione ad un tratto, insieme a un principium individuationis ormai incompatibile col sacro arcaico, e solo imperfettamente accennato in Euripide.

Questa sensibilità creaturale e affettiva presuppone il "salto" del cristianesimo, poiché solo Cristo disvela la vittima umana per quello che è, senza più nessuna trasfigurazione divina. Il secondo passaggio ad essere "innaturale" non è altro che questo, ed è questo a rendere "umile e sublime" l’alberello sacrificale, che a questo punto si sovrappone indirettamente alla croce, con una coppia di aggettivi che acquista significato e leggibilità esclusivamente in chiave cristiana. La reazione viscerale di Pasolini al sacrificio del ragazzo è trasparente nel film e viene espressa con voluta, calcolata "ingenuità", quando ci è mostrata la vittima che smette di sorridere inebetita, non appena si rende conto di ciò che le stanno per fare. Questo, che sembra essere un mero dettaglio, e che non riceve particolare attenzione nei commenti dell’opera, è invece un momento di capitale importanza.

Il disvelamento della vittima innocente in Cristo è l’affermazione centrale del pensiero di Girard, sulla scorta di Nietzsche che afferma la differenza tra Dioniso e Cristo proprio sulla base delle somiglianze tra le rispettive vicende; una differenza non veramente affrontata da Freud, che vede più che altro le somiglianze, e confusamente avvertita da Bataille, che sente la potenza rivelatrice della sovrapposizione, ma non riesce davvero a pronunciarsi. Girard non si accorge della smisurata ricchezza di questa diversità nella somiglianza perché troppo assorbito dal compito di definirla in termini razionali, categoriali, come se sacrificio e desiderio potessero essere ridotti al loro semplice lato "illuministico". Pasolini non affronta questo enorme problema con piglio filosofico, ma ne descrive i fenomeni in sé, e nei personaggi che rivisita e crea. Il risultato è una strana commistione, molto alla Bataille se vogliamo, tra l’epifania dell’eroe come portatore del corpo desiderabile, e l’epifania del Risorto dopo essere stato crocifisso all’albero della croce. Si crea così un’oscillazione simbolica e rappresentativa in cui si dipana il dramma dell’uomo moderno, lacerato fra la rivelazione della propria natura e la salvezza di Cristo venuto per riscattarla.


I simboli di duplicazione del film vanno tutti in questa direzione, io credo, e specialmente la duplicazione centrale del sogno in cui Medea vede l’esito della sua vendetta su Glauce e Creonte secondo la narrazione di Euripide, mentre la realizzazione del piano della donna assume una significativa sfumatura suicidaria, con Glauce e Creonte che si gettano nel vuoto. C’è qualcosa di intellettualistico e faticoso in questa ripetizione non immediatamente decifrabile per lo spettatore, ma la sua stessa insistenza didascalica ne esprime il ruolo cruciale, unitamente a una ravvisabile nostalgia che il mito desiderativo di Giasone e Medea non finisca, in un fantasmatico eterno ritorno del desiderio a cui la catastrofe reale e non più meramente sognata mette inesorabilmente fine. La fatica e perplessità dello spettatore riproduce la fatica e perplessità dell’autore, e la difficoltà e drammaticità del passaggio, in cui si consuma una volta per tutte la tragedia di Pasolini e dell’uomo contemporaneo stavolta, non più quella di Euripide.

Lo stesso salto scenografico dall’antichità al Campo dei Miracoli di Pisa risulta perfettamente interpretabile come simbolo evidente/nascosto di questo irrisolto contrasto e passaggio fra arcaicità e universo cristiano. Non c’è nulla di estetizzante in questa magnifica contaminazione poiché essa contiene un’allusione storica e culturale precisa, una soluzione di continuità che tutto nel nostro mondo e nella nostra soggettività contribuisce a occultare e insieme a portare alla luce. Il film ci consegna un enigma che il regista per primo vive, senza soluzioni diverse dal viverlo.






4 Medea, 89-95; Euripide, Medea, Ippolito, a cura di U. Albini, Garzanti, Milano 1994, p. 9.

5 Cfr. E. Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini, Le Lettere, Firenze

1997, p. 215.

6 Gli Appunti per un’Orestiade africana sono girati fra il dicembre ’68 e il febbraio ’69, mentre la

Medea è girata tra il maggio e l’agosto ’69: la precisazione cronologica non mi pare del tutto superflua, visto che ad esempio non è riportata con chiarezza in F.S. Gérard, Pasolini ou le mythe de la barbarie, Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1981, pp. 82-83, dove il documentario africano viene presentato come successivo a Medea.

7 P.P. Pasolini. Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2001, tomo I, p. 1279.

8 Medea, 233 (Medea, Ippolito, cit., pp. 20-21).

9 Medea, 526-31 (Medea, Ippolito, cit., pp. 32-33).


10 Medea, 1336-38 (Medea, Ippolito, cit., p. 79).


11 P.P. Pasolini. Per il cinema, cit., pp. 1226-27.


12 J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, tr. it. di L. Conte, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 523.


13 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, tr. it. di V. Vacca, Boringhieri, Torino 1988, § 131, pp. 357-58.





Giuseppe Fornari, Università di Bergamo -
Fonte: INDA




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Curatore, Bruno Esposito

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