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martedì 23 marzo 2021

"La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema", di Massimo Fusillo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema
di Massimo Fusillo

Il rapporto di Pasolini con la Grecia antica è stato molto profondo e rigoroso. Lo sa perfettamente Massimo Fusillo, noto e apprezzato studioso pasoliniano, che fornisce uno degli studi più attenti e appassionati sull’argomento con la riproposizione (Editore Carocci, luglio 2012) di La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema. Questa nuova edizione - dedicata alla memoria di Laura Betti e aggiornata con piccole modifiche nei saggi e un apparato delle note alleggerito - ripropone nelle analisi il rapporto tra il teatro greco antico e l’immaginario pasoliniano. Sembra opportuno riproporre questo libro fondamentale di Massimo Fusillo e farne una sorta di "invito alla lettura" poiché lo stile dell'Autore è assolutamente accessibile a tutti i lettori e oltretutto è uno strumento ricco di contenuti, indispensabile per avvicinarsi alla lettura pasoliniana del mito greco. Ciò che più impressiona positivamente del libro è il continuo confronto tra testo e immagini, tra mito e letteratura. L’impaginazione è di taglio accademico, arricchita da 18 foto (in b/n) ; nonostante la complessità degli argomenti trattati, la lettura si rivela molto stimolante anche per il carattere interdisciplinare delle analisi.

*  *  *

Pier Paolo Pasolini durante una pausa di lavorazione di Medea

Pochi artisti si sono espressi in una gamma così ampia di linguaggi come Pasolini: dalla poesia al teatro, dal romanzo al film, dalla sceneggiatura alla pittura, affiancandovi inoltre un’intensa attività critica e teorica. Questo eclettismo ossessivo e questa tendenza alla contaminazione svelano comunque un tratto più profondo: il desiderio edipico di violare i codici, con una carica vitale che ricorda le avanguardie storiche da lui tanto amate (mentre non amava le avanguardie tecnologiche degli anni Sessanta). 

Il passare da un linguaggio all'altro non esclude affatto la presenza di alcune costanti tematiche, che ricoprono spesso tutto l'arco della sua attività multiforme: potremmo dire, per usare una parola cara a Pasolini, di alcune «ossessioni». Il mito antico e la tragedia greca appartengono senz’altro a queste ossessioni: le opere direttamente ispirate dalla grecità ricoprono tutto il decennio più fecondo di Pasolini, dal 1960, anno in cui appare la traduzione dell'Orestea di Eschilo, al 1970, anno in cui esce il film Medea (tenendo conto degli inediti e delle opere incompiute l'arco si allarga in entrambi i sensi).
Fra le Poesie mondane incluse nella raccolta Poesia in forma di rosa compare uno dei brani pasoliniani più citati e anche autocitati (sulle colonne di «Vie Nuove» e poi nella Ricotta per bocca del regista impersonato da Orson Welles): 



Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle chiese, 
dalle pale d'altare, dai borghi 
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, 
dove sono vissuti i fratelli. 



Tutta l'opera pasoliniana si può facilmente schematizzare in una serie di opposizioni binarie, che ruotano intorno ad un'opposizione primaria, biografica: quella cioè tra il mondo (amato) della madre, e il mondo (odiato) del padre. Il Passato esaltato in questi versi si può allineare quindi sull'asse materno assieme al mito, al Friuli contadino, al sottoproletariato urbano, al Terzo Mondo, e in genere a tutta la sfera emotiva, viscerale, corporea, prerazionale e prelinguistica; mentre sull'asse paterno si possono allineare il presente neocapitalistico, l'illuminismo, la borghesia, la civiltà industriale. Da un lato il mondo di Edipo e degli oppressi, oggetto primario del suo eros, e dall'altro il mondo oppressivo di Laio, contro il quale Pasolini si comportò fino alla morte come «sfidatore e lottatore» (così secondo le parole con cui Gianfranco Contini concluse una toccante testimonianza umana). Lo stesso contrasto che si crea, per passare dal mito greco al mondo cristiano, fra il Cristo umano e diverso e il Dio autoritario e oppressivo. 

Ho detto per l'appunto «schematizzare»: sarebbe infatti assolutamente riduttivo contrapporre il polo positivo della maternità e quello negativo della paternità in una sorta di visione manichea. In ogni testo artistico interagiscono continuamente istanze contraddittorie, forze della repressione e forze del represso per dirla in termini freudiani. Ciò è particolarmente vero in un artista che ha elevato la contraddizione a cifra idiosincratica, rivendicandone il diritto contro ogni dogma ideologico; basta rileggere i famosi versi delle Ceneri di Gramsci: «Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere / con te e contro te; con te nel cuore / in luce, contro te nelle buie viscere», dove le «buie viscere» sono una ovvia figura della maternità, come è altrettanto ovvio che il «cuore» e la «luce» ottengono un pari rilievo. In tutta l'opera pasoliniana, soprattutto nell'ultima fase, la paternità gioca infatti un ruolo complesso, assai variegato, per nulla riducibile all'oggetto di una libido parricida; allo stesso modo, Pasolini non abbandonò mai i modelli di lettura razionale del mondo appresi dalla psicanalisi freudiana e dal marxismo, anche nei periodi più 'regressivi', anche quando inseguiva le religioni misteriche, le alchimie junghiane. 

La stessa ambivalenza la si ritrova anche nei confronti dell'origine borghese e perfino della tanto odiata civiltà industriale. E' insomma una continua polarità fra corpo e storia, fra caos e istituzioni, fra carne e potere, per usare una serie di termini pasoliniani: polarità presente in tante poesie (ad esempio ne Il glicine), e poi radicalizzata nel romanzo-summa rimasto incompiuto, Petrolio, cupo e negativo come gli ultimi film (Porcile, Salò): opere che ritraggono ogni forma di società come una violenza perversa.

Una polarità di questo genere anima anche il rapporto con il mondo greco, che oscilla tra una lettura viscerale e barbarica (senz'altro dominante) e una lettura ideologica e didascalica: due poli che corrispondono grosso modo ai due media con cui Pasolini ha riscritto i modelli greci, il cinema e il teatro.

Vittorio Gassman è in scena nell'Orestea
tradotta da Pier Paolo Pasolini
Il primo approccio di Pasolini al dramma greco (la traduzione dell'Orestea) coincide più o meno con un momento capitale del suo itinerario creativo: la conversione al cinema. Si tratta di una coincidenza fortuita (la traduzione gli fu commissionata da Vittorio Gassman per uno spettacolo a Siracusa), ma possiamo attribuirvi comunque un valore quasi simbolico: nel cinema Pasolini trovò infatti la sua idea di linguaggio del mito e del sacro. Il passaggio all'attività di regista cinematografico, che rappresentò un momento di rottura con il purismo umanistico della società letteraria italiana, coincide anche con una svolta nell’attività di poeta: Pasolini abbandona il suo espressionismo in favore di uno diarismo spoglio; come nota Walter Siti, il cinema rappresenta per lui una forma esasperata di espressionismo, una violenza più diretta al reale. Nel Poeta delle ceneri, una sorta di autointervista in versi, Pasolini risponde alla domanda inevitabile «Perché sono passato dalla letteratura al cinema» elencando prima una serie di risposte parziali e insufficienti - cambiare tecnica per dire la stessa cosa, o usare una nuova tecnica per dire cose nuove - e aggiunge poi di aver capito solo in seguito che si trattava non di una semplice tecnica letteraria, ma di un'altra lingua, e quindi di una nuova «esperienza filosofica». In realtà sono tutte motivazioni concomitanti, che corrispondono a diverse fasi e a diverse componenti dell'universo pasoliniano. Non c'è dubbio che all'inizio il cinema fu soprattutto un mezzo per trascrivere con una tecnica nuova il mondo dei romanzi: Accattone è molto vicino a Ragazzi di vita (e meno edificante di Una vita violenta). 

Subentra poi l'insoddisfazione per la realtà italiana degli anni Sessanta e per la sua modernizzazione selvaggia: in un articolo giornalistico del 1974, poi ripubblicato negli Scritti corsari con il titolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, Pasolini dichiara di non rimpiangere come invece lo si accusava - l'Italietta piccolo borghese, fascista e democristiana, che lo ha perseguitato per due decenni; oggetto del suo rimpianto è invece l’«illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa». In quanto arte transnazionale, il cinema rappresentò appunto un modo per evadere dall'Italia ormai irriconoscibile, e per ritrovare il suo mondo contadino perduto nei paesi del Terzo Mondo, soprattutto nell'Africa vissuta come «unica alternativa». Esiste infine una motivazione meno contingente, espressa da una serie di scritti teorici che vedono nel cinema, con ingenua provocazione, «la lingua scritta della Realtà». Con il dialetto friulano nelle prime liriche, e poi con quello romanesco nei romanzi, Pasolini aveva già cercato di liberarsi dalla prigione simbolica del linguaggio verbale, dalla sua asfittica convenzionalità, per cercare una fisicità della parola. 
Nell'esperienza del cinema confluisce quindi la sua sfiducia nel logos, la ricerca dell'immediato, del primitivo, del primigenio, che corrisponde, a livello psichico, alla nostalgia della simbiosi con il corpo della madre. Nei saggi di Empirismo eretico leggiamo: «Il mondo non sembra essere per me che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose». La realtà è dunque per Pasolini qualcosa di sacro, di ontologicamente poetico, che in quanto tale gli suscita un desiderio di possesso totale; ma nello stesso tempo è anche la realtà che lo ha escluso in quanto omosessuale: la violazione dei codici non è quindi che un'affermazione della propria diversità (o una maniera per esorcizzarla). Il cinema offre la possibilità preziosa di rispondere a queste due esigenze solo apparentemente contraddittorie: grazie alla sua immediatezza, permette un possesso del reale nel suo carattere di infinito; essendo poi un'arte giovane e poco codificata, concede una libertà stilistica quasi assoluta. 

Fotogramma da una sequenza tagliata di Medea

Per Pasolini il cinema è un'arte irregolare, onirica, barbarica, pregrammaticale, corporea: insomma un'arte in cui si esprime al massimo grado la sua tendenza regressiva verso lo stadio infantile, prima del complesso di Edipo, cioè prima dell’obbligo di conoscere, verso un eden fuori della storia. Un mondo che non può che avere i caratteri del sogno, come nel finale del Decameron («perché realizzare un'opera quando è così bello sognarla soltanto?"). Dopo la crisi dell'impegno marxista, nel cinema trova dunque espressione una sfiducia crescente nel logos, e una passione altrettanto crescente per i linguaggi non verbali, per il gesto, per il rito, unita alla vecchia «folgorazione figurativa» dovuta a Roberto Longhi (il critico d’arte a cui è dedicato Mamma Roma). Tutto ciò vale ovviamente di più per un cinema che si liberi dalla convenzionalità narrativa; in proposito Pasolini cita spesso una serie di classici: Dreyer, Mizogouchi, Chaplin, Rossellini, su cui modella uno stile di ripresa tutto peculiare, che si distanzia sia dalla grande stagione neorealistica, sia dal grande modello postneorealista, Fellini, considerato troppo artificioso, sia infine dalla ricerca contemporanea di Antonioni e della nouvelle vague, da lui stesso codificata come «cinema di poesia» e con cui i contatti erano certo consistenti, ma che in ultima analisi gli sembrava cristallizzarsi in un nuovo codice della trasgressione. A tutto ciò contrapponeva un cinema apertamente primitivo e povero, basato sulla fissità ieratica dei primi piani, sull'impianto figurativo delle inquadrature frontali, sull'uso insistito di campi e controcampi, sull'assenza di movimenti di quinta, sulle lunghe panoramiche, sul procedere per frammenti, sul predominio di immagini semisoggettive, e soprattutto - come novità più dirompenti, anche se ereditate dal neorealismo - sull'uso di attori non professionisti e sul rifiuto della ricostruzione nel set, in favore della ripresa in luoghi esotici. Un cinema che oscilla quindi fra una tendenza onirica - talvolta più programmatica che reale - e una tendenza documentaria («un film o è un sogno o è un documento», secondo la suggestiva espressione di Ingmar Bergman): tra il recupero di una visione arcaica e la fascinazione feticistica dei corpi e dei luoghi, o, meglio, del corpo come luogo di passione, come fondamento di una nuova estetica. L'arte più tecnologica doveva servire dunque all'espressione del mito e del sacro. 
Proprio un cinema così inteso era la forma più adatta per una rilettura della tragedia greca, fortemente innovativa sia rispetto ai cliché classicistici che dominavano ancora la cultura italiana degli anni Sessanta, sia rispetto alle trasposizioni sullo schermo del teatro non solo greco, in genere verbose e letterarie (come i pur apprezzabili film di Cacoyannis, o l'Oedipus the King di Philippe Saville uscito nello stesso anno dell'Edipo re), mentre i film pasoliniani sono prevalentemente visivi e assolutamente antiletterari. O meglio: sviluppano una drammaturgia originale, che riscrive liberamente quella dei modelli greci e in cui la parola non gioca un ruolo dominante, ma coopera con tutti gli altri codici: suono, immagine, gesto, musica, costumi, riducendo quindi il ruolo del logos in favore di una poetica barbarica. 
«Grecia barbarica» è certo un ossimoro, che sarebbe risultato incomprensibile a un greco della classicità, per il quale tutto ciò che non era greco era automaticamente barbaro (una parola che suggeriva per onomatopea il balbettio di lingue incomprensibili). Ma la Grecia secondo Pasolini è una Grecia barbarica perché rifiuta ogni idealizzazione neoclassica: ogni immagine di olimpica freddezza e di equilibrio razionale. 
Una visione barbarica dell'antico si era già propagata nella cultura europea grazie all'influsso di Nietzsche (Hofmannsthal-Strauss, Hauptmann, e vari altri); più però che a questo filone, Pasolini si ispira invece apertamente a due scienze che frequentò molto negli anni Sessanta, e che presero sempre più il posto di Marx (mai comunque rinnegato): l'antropologia e la psicanalisi. Pasolini enunciava con passione la propria poetica barbarica: «La parola barbarie - lo confesso - è la parola al mondo che amo di più». 
C'è senz'altro un sostrato romantico e decadente in questa esaltazione della barbarie, come anche nell'illusione di possedere la realtà al di là dei codici grazie al mezzo cinematografico. Oltre all'amato Rimbaud, gioca un ruolo incisivo la figura di Pascoli, con la sua regressione ossessiva verso lo stadio infantile, e forse anche il vitalismo di D'Annunzio, poeta invece tanto detestato. Ma si tratta per l'appunto di un sostrato, ampiamente rielaborato in una chiave per nulla decadente e irrazionalistica. Pasolini non giunge mai alla celebrazione anarcoide di un desiderio illimitato, di una visceralità senza freni, ma è attratto piuttosto da tutto ciò che rientra, per citare un famoso titolo di Freud, nel «disagio della civiltà». I valori della razionalità e della storia non sono mai abbandonati del tutto; ma, a partire da Le ceneri di Gramsci e ancor più, da Uccellacci e uccellini, geniale apologo sulla crisi dell'ideologia, il suo interesse si concentra sempre più su tutto ciò che si pone al di fuori di questi valori: sul sogno, sul mito, sul sacro, sull'eros fuori dalle norme. La sua identificazione poetica si orienta perciò verso i fenomeni regressivi che negano il principio di realtà, che rifiutano il contratto sociale, che si pongono fuori dalla temporalità lineare del progresso: fenomeni che la letteratura e l'arte hanno sempre privilegiato. 
Ma è un'identificazione controllata: la barbarie va sempre e comunque integrata nella dinamica sociale, secondo una metafora-guida tratta da Eschilo, la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, vista come sublimazione della furia ossessiva. Il nemico per eccellenza è il razionalismo pseudoilluminista della società neocapitalista, che si illude di poter rimuovere per sempre questi fenomeni imprescindibili dell'esperienza umana. 
Una rappresentazione di Orestiade
al teatro greco di Siracusa
La stessa metafora è utilizzata comunque anche per la critica al marxismo ortodosso: nei dialoghi con i lettori del settimanale comunista «Vie nuove» Pasolini cita appunto l'Orestea per sottolineare come la Russia abbia conosciuto l'intervento razionale di Atena, ma non abbia ancora trasformato le Erinni, non abbia cioè ancora sublimato l'elemento irrazionale (questi temi proromperanno poi nella polemica con la sinistra non solo italiana sul Vangelo secondo Matteo). Bisogna infatti ricordare che la cerchia di intellettuali di cui Pasolini era un protagonista attivo (Moravia ma assai più Elsa Morante) ha svolto un ruolo di continuo stimolo e di provocazione rispetto ai dogmi del marxismo ufficiale: basta pensare alla recensione di Pasolini al Mondo salvato dai ragazzini, considerato un possibile manifesto della nuova sinistra. Questo tipo di rapporto con l'«irrazionale» viene splendidamente evocato nella Lettera aperta a Silvana Mangano del 1968, servendosi di una metafora greca, Dioniso e le Baccanti, un mito alla base del film Teorema dello stesso anno: chi ha conosciuto la grazia, la dolcezza, ma anche l'orrore e la violenza di questo dio della libertà e del mutamento non può che vivere isolato, rifiutando il buon senso della maggioranza, chiuso o nella nevrotica rinuncia (così Silvana Mangano) o nel nevrotico impegno (così Pasolini). 
Edipo (a destra) e la Sfinge.
Paris, Musée du Louvre
Le tematiche della barbarie creano un filo rosso tra le varie opere ispirate dalla tragedia greca. Incastonato in una cornice contemporanea autobiografica – un prologo che narra liricamente il proprio complesso di Edipo, e un epilogo che sintetizza la propria vita di artista – il film Edipo re del 1967 rappresenta tutta la potenza del desiderio parricida e incestuoso, e quindi tutta la tragicità dell'«obbligo di conoscere», cioè del patto sociale che istituisce i tabù. Edipo passa dalla fisicità di barbaro e di sottoproletario alla sublimazione nella poesia (simboleggiata dal flauto, strumento suonato anche dal profeta Tiresia impersonato da Julian Beck), mentre Giocasta incarna ancor più l'eros scandaloso, la sensualità pura che non vuole sapere. Come in molte rielaborazioni del Novecento (Hofmannsthal, Cocteau, Berkoff), Edipo non è più l’eroe razionale di Sofocle, famoso per aver risolto l’enigma della Sfinge (che in questo film è eliminato), ma è un giovane incosciente, in preda a pulsioni violente, e che si affida al caso. 
Con Medea (1970) si passa dal piano ontogenetico della persona al piano filogenetico della storia culturale: tutto costruito in forma bipolare, dall’incipit con il sacrificio umano officiato da Medea in un silenzio sacrale alla vendetta della protagonista narrata due volte, prima in forma onirica e poi reale, il film esalta il mondo arcaico come un mondo dotato di una sua diversa temporalità, di un suo pensiero peculiare; un mondo che viene violato dall'aggressione colonialista di Giasone, dettata da un cinico pragmatismo. Per opera di un violento eros fisico Medea perde così il legame profondo con il suo ambiente magico: come in Teorema, il sesso è il sostituto della sacralità. La problematica colonialista costituisce ancor più il centro degli Appunti per un'Orestiade africana, film-documentario di enorme fascino visivo, in cui Pasolini cerca un’ultima volta in Africa quella sintesi fra cultura arcaica magico-sacrale e cultura moderna e razionale simboleggiata nella trasformazione della Erinni in Eumenidi che chiude l’Orestea; un programma poetico e ideologico che aveva enunciato nel 1961 quando aveva tradotto il testo di Eschilo, e che gli sembrerà sempre più utopico.

Ad una tematica barbarica corrisponde un'ambientazione barbarica, con piena solidarietà tra forma dell'espressione e forma del contenuto. I film di Pasolini sono quanto di più lontano si possa immaginare dalla ricostruzione archeologica (che, nel caso di soggetti antichi, scade quasi inevitabilmente nel kitsch): alla solarità accecante del Marocco (dove è girata la parte mitica dell'Edipo re), alle architetture arcaiche in pietra della Cappadocia (la Colchide di Medea), ai bastioni di una città siriaca, Alep (Corinto in Medea, contaminata con la piazza dei Miracoli di Pisa) sono associati costumi in cui si incrociano svariate culture arcaiche, e musiche provenienti per lo più da aree non occidentali (africane, tibetane, giapponesi, rumene); mentre a più riprese vengono raffigurati riti, feste, danze, e altri momenti sociali arcaici (matrimoni, funerali) grazie all'andamento quasi picaresco che assume talvolta il racconto nelle parti indipendenti dal dramma greco, cioè negli antefatti (soprattutto quello di Edipo re). D'altronde il cosiddetto cronotopo del viaggio gioca un ruolo vitale in tutta l'opera pasoliniana: in Uccellacci e uccellini, nella Terra vista dalla luna ancora con Totò, nella Trilogia della vita. 
Sono dunque ambientazioni che mirano a creare un effetto di lontananza cronologica, sfruttando innanzitutto il potenziale cromatico del cinema. Ciò significa andare alle radici del teatro greco, verso quel livello del 'prima della storia' che lo ha sempre affascinato fino all'ossessione: amava infatti ripetere, con senso del paradosso, che il mondo sottoproletario viveva ancora nell'antica preistoria, mentre la borghesia neocapitalistica si avviava invece verso un'atroce Nuova Preistoria. L'ossessione della preistoria si incrocia di continuo con un'altra ossessione che attraversa tutta l'opera pasoliniana: il Terzo Mondo; prima mito decadente, poi modello politico da contrapporre al neocapitalismo, infine - quando anche i paesi socialisti dell'Africa si avviarono verso la modernizzazione e verso il consumo - memoria utopica da preservare con disperata nostalgia, in una prospettiva quasi preecologista. 
Pasolini durante la lavorazione di Medea
Con le armi della contaminazione e del pastiche Pasolini vuole dunque ricreare il linguaggio atemporale del mito, un linguaggio primario in cui si inscrive quella civiltà contadina «illimitata» e «transnazionale» oggetto del suo amore più antico. Questo rapporto tra il mito greco e il mondo contadino ruota principalmente intorno al concetto di ciclicità. Sia Edipo re che Medea (in parte anche il dramma Affabulazione ) sono caratterizzati da un forte senso ciclico: «la vita finisce dove comincia», come suona l'ultima battuta pronunciata da Edipo. Negli Scritti corsari Pasolini teorizza più volte la ciclicità del mondo contadino, che ha assorbito e vanificato la novità del pensiero cristiano, di per sé «unilineare» e non ciclico; così scrive, ad esempio, in un articolo del 6 ottobre 1974: «Nell'universo contadino Cristo è stato assimilato a uno dei mille adoni o delle mille proserpine esistenti: i quali ignoravano il tempo reale, cioè la storia. Il tempo degli dèi agricoli simili a Cristo era un tempo "sacro" o "liturgico" di cui valeva la ciclicità, l'eterno ritorno». Sono concezioni ispirate soprattutto da Mircea Eliade (da cui prese poi le distanze per motivi politici), oltre che ovviamente, a monte, dal Ramo d'oro di Frazer. Di Eliade viene spesso citato il saggio sull'eterno ritorno, mentre il suo Trattato di storia delle religioni è stato una fonte primaria della Medea
Pasolini ne parla nella sua rubrica "Il caos" in un articolo intitolato I problemi della Chiesa, per sottolineare come per dodici mellenni la storia e la religione umana sono stati dominati dai ritmi ciclici della civiltà agricola, che si basano sul continuo alternarsi di principio e fine, morte e resurrezione, alba e tramonto; una lezione che deriva dalla pratica della seminagione e che gli appare ora del tutto annientata dal neocapitalismo. 
L'opera di Eliade è ricordata ancora a proposito del «terreno comune al mondo del sogno» -che non conosce «il principio di non contraddizione e gli altri principi aristotelici» -e allo stato della veglia; un mondo «dionisiaco» che non può essere separato e accantonato così facilmente come fa la cultura laica. Di nuovo dunque il riferimento al mito greco e alla metafora dionisiaca, sempre mediati dalla cultura psicanalitica, sono un monito contro gli eccessi del razionalismo, non un'evasione escapistica. Quest'immagine prerazionale, barbarica, atemporale (o meglio ciclica), della Grecia non è comunque l'unica che ci trasmetta Pasolini.

Nello stesso periodo in cui concepisce la prima trasposizione cinematografica del più celebre dramma greco, si dedica anche alla stesura di sei tragedie, accompagnate da uno scritto programmatico, il Manifesto per un nuovo teatro (1968). Pasolini stesso ha raccontato la genesi atipica di queste opere teatrali: nel 1966, costretto a restare a letto per due mesi di fila da una violenta ulcera, ne compose di getto la prima versione, stimolato fra l'altro dalla lettura dei dialoghi di Platone. Una lettura che ha certo lasciato la sua impronta su questi testi dal chiaro impianto ideologico: le tesi mai perentorie si costruiscono per gradi, nell'interazione dei dialoghi. Il teatro di Pasolini è infatti un teatro di parola, che si scaglia tanto contro l'accademismo vuoto della scena tradizionale quanto contro l'avanguardia dell'«Urlo e del Gesto». Il modello di questo Nuovo Teatro è proprio il teatro greco, imitato non solo nella struttura a episodi, ma anche e soprattutto nell'idea base di rito sociale, di assemblea civile. 
A questo punto si potrebbe scorgere una contraddizione fra la visione della Grecia proposta dal cinema pasoliniano, 'prerazionale' e dominata dai linguaggi non verbali, e quella proposta dal teatro, affidata interamente alla parola, e ad una parola ideologica e razionale. Come si è già accennato, la contraddizione è la cifra dell'opera pasoliniana, apertamente rivendicata e felicemente messa in luce per il Pasolini poeta già nel 1959 da Franco Fortini. In questo caso però si tratta solo in parte di una contraddizione. 
Anche il teatro esprime infatti l'insufficienza del linguaggio verbale e la fascinazione del linguaggio corporeo: in Affabulazione, ad esempio, viene rievocato il finale delle Trachinie di Sofocle, sottolineando come l'impatto emotivo dell'azione tragica resterebbe uguale anche ignorando la lingua in cui gli attori recitano. A questa esaltazione della presenza corporea come linguaggio più alto e più pregno di senso, si può affiancare un altro testo assai significativo, Orgia, che nel primo episodio rievoca il linguaggio muto delle cose e del pragma in un arcaico paese agricolo, e drammatizza in generale il linguaggio del corpo e della sessualità sadomasochistica. 
In secondo luogo bisogna distinguere in Edipo re e soprattutto in Medea fra le parti liberamente inventate sulla falsariga del mito sintetizzato nei dizionari (gli antefatti) e le parti che seguono invece il dramma greco: la poetica del silenzio sacrale, del gesto e del rito, domina infatti soprattutto nelle prime, mentre nelle seconde prende uno spazio maggiore la parola, anche se spesso è una parola più emotiva che referenziale, e anche se il dialogo dei testi originali viene ampiamente tagliato, sostituito spesso dall'immagine e dall'azione muta. Bisogna insomma distinguere fra raffigurazione del mito e rappresentazione del dramma.
Il teatro greco è dunque per Pasolini un teatro del logos, nella duplice accezione del termine come «parola» e come «ragione»; un teatro quindi alle origini di quella razionalità occidentale da cui Pasolini non volle mai uscire, nemmeno nei momenti di nichilismo più disperato. Ma nello stesso tempo è un teatro che permette di recuperare gli strati più arcaici della cultura occidentale, i livelli più profondi della psiche umana, le forme viscerali ed emotive della comunicazione non verbale; tutti elementi che l'ideologia pasoliniana ha sempre voluto preservare contro gli attacchi del neocapitalismo, e contro il dogmatismo marxista, e che la sua poetica barbarica ha privilegiato sempre di più nel corso del tempo. Il secondo versante, quello barbarico, ottiene perciò alla fine un predominio netto. 
Mentre i drammi - di cui Pasolini non ha mai curato una versione definitiva - risentono un po' di una certa confusione ideologica e di una certa verbosità, i tre film tratti dalla tragedia greca sono da annoverare, a mio parere, fra le sue opere più mature e più riuscite (soprattutto Edipo re), anche se hanno avuto un'accoglienza critica controversa, soprattutto in Italia. I tre grandi miti a cui Pasolini si è dedicato, Oreste, Edipo, Medea, corrispondono alle tre opere più celebri dei tre tragici greci, e nello stesso tempo corrispondono anche ai tre assi tematici su cui procede la rilettura pasoliniana della Grecia classica: politico, psicanalitico, antropologico. 
Ovviamente i tre assi interagiscono tra loro, ma non c'è dubbio che vi sia sempre una dominante. La rilettura dell'Orestea di Eschilo non si è mai concretizzata in un'unica opera, ma solo nella traduzione del dramma, nell'ideale continuazione del plot di Eschilo concepita nel Pilade e nel film-documentario Appunti per un'Orestiade africana. Queste tre esperienze sono comunque accomunate da un filo rosso chiaramente politico: come la democrazia moderna possa assimilare gli elementi della civiltà primitiva; una sintesi che al momento della traduzione (1960) gli sembrò ancora un modello proponibile, e che già nel 1966, al momento cioè della prima stesura di Pilade, appariva invece un'utopia lontana (salvo a ricercarla poi un'ultima volta nel 1969 nell'Africa nera), scalzata dall'aggressività del potere consumista. Nell'affrontare l'Edipo re di Sofocle il centro tematico si sposta invece al campo psichico, e alla famosa interpretazione freudiana, utilizzata soprattutto per leggere la propria esperienza biografica e la propria diversità di artista (anche se non mancano nel finale suggestioni marxiste). Infine, con la Medea di Euripide viene ripreso il problema politico della sintesi fra le culture, universalizzandolo nei termini di un conflitto antropologico, e giungendo ad una tragica conclusione sospesa (la stessa sospensione che chiude il Pilade), prima che, dopo la parentesi ambiguamente gioiosa della Trilogia della vita, non prevalga la cupa negazione di ogni storia e di ogni società, l'orrore per il potere di Salò e di Petrolio (già preannunciati da Porcile).

Porcile. Pierre Clementi e Pier Paolo Pasolini in una pausa di lavorazione del film

Il mito greco è un tema in cui si condensa un tratto radicato in tutto l'universo multiforme di Pasolini: la ricerca di un linguaggio che potesse cogliere il mistero ontologico del reale, quel mistero che, a differenza dell'enigma, non può essere decodificato dalla ragione. Un linguaggio che non mira alla riproduzione meccanica del reale, ed è dunque assai lontano dal naturalismo (rischio latente forse solo nei romanzi). La poetica pasoliniana si inserisce in modo assai personale e innovativo nell'ossessiva ricerca di 'realismo' che accomuna buona parte della cultura italiana di quegli anni: personale e innovativo proprio grazie alla frizione continua fra mitico e realistico. Pasolini si vuole infatti appropriare della poeticità già inscritta nel reale; quella struggente ambiguità delle cose che le parole riducono a mere convenzioni. Da qui scaturisce l'interesse semiologico per i linguaggi non verbali, e l'idea eretica di una «semiologia della Realtà» (oggi si direbbe di una testualità del reale). Nella splendida autointervista del Poeta delle ceneri Pasolini attribuisce questo potere espressivo - da lui cercato soprattutto nel mito e nel cinema - all'unico grande linguaggio in cui non si è espresso, alla musica, esaltata in termini che richiamano Schopenhauer: 

Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti,
che io vorrei essere scrittore di musica,
[…] e lì comporre musica 
l'unica azione espressiva 
forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà. 

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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