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domenica 28 ottobre 2012

Punti di vista: Oscar Wilde, Pier Paolo Pasolini (Essere seri col gioco).

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Punti di vista: Oscar Wilde, Pier Paolo Pasolini...
Essere seri col gioco
di Ilde Mattioni, "Communitas"

Non franco, non fedele, non onesto, ma serio. Era il 14 febbraio 1895, un giovedì, giorno di San Valentino con la luna che si apprestava a entrare nell’ultimo quarto, e al St. James’s Theatre di Londra, in King Street, andava in scena la prima di The Importance of Being Earnest di Oscar Wilde. L’importanza di essere (to be) earnest. Esser serio, appunto, non solo chiamandosi “Ernest”, Ernesto, come il protagonista. Quando – Atto primo, parte seconda – incalzata da Jack sul nome di un potenziale, gradito marito Gwendolen risponde che «the only really safe name is Ernest», la posta è già chiara. Earnest, Ernest: il pubblico – che non legge, ascolta – coglie e non coglie la sfasatura, il décalage maliziosamente lo spinge oltre l’omofonia e gli accenti sembra cadere apposta per farsi gioco di lui – il pubblico – e confonderlo. Consegnato alla pura scansione fonetica, Earnest sarebbe Ernest e Ernest sarebbe Earnest. Ma non è così, anche se tutti giocano a credere, e oltre un certo limite davvero credono che sia così.
Earnest: non l’onesto, non il franco, non il fedele. Ma il serio, ciò che è really safe. Un al di là del nome, che in quel nome, tuttavia, si condensa – rassicurandoci. Anche quando si scopre che non c’è nessun uomo che si chiami Ernest sulla scena e l’onestà, che credevamo circoscritta nel nome, scompare col nome stesso. Rimane allora un cerchio vuoto, ipocrita, che circoscrive innominabili vizi e nominatissime virtù. La sicurezza del nome era come lo smalto steso sul nulla, certezza tutta borghese e vittoriana – questo smalto – di essere seriamente al mondo.
  • Jack?… No, there is very little music in the name Jack, if any at all, indeed. It does not thrill. It produces absolutely no vibrations… I have known several Jacks, and they all, without exception, were more than usually plain. Besides, Jack is a notorious domesticity for John! And I pity any woman who is married to a man called John. She would probably never be allowed to know the entrancing pleasure of a single moment’s solitude. The only really safe name is Ernest.
  • Jack?… No, c’è pochissima musica nel nome Jack; anzi, non ce n’è nessuna. Non dà il minimo fremito. Non produce la più piccola vibrazione… Ho conosciuto molti Jack, ed erano tutti, senza eccezione, anche più banali del solito. E poi lo sanno tutti, Jack è solo un nomignolo per John! E provo soltanto compassione per la donna sposata con un uomo che si chiama John. Probabilmente non conoscerà mai l’estasi di un solo attimo di solitudine. L’unico nome veramente sicuro è Ernest. (Wilde, 1895)

Il Novecento, ebbe a scrivere pochi anni dopo lo stesso Wilde, avrebbe inaugurato il tempo della menzogna. Una menzogna di secondo grado, potenziata e differente da quella – per noi – ancora ingenua e seducente dell’Era Vittoriana, dove le apparenze contavano più delle virtù e i nomi più delle sostanze e delle cose. La menzogna sopravanza il reale, nell’arte. Capovolge il reale ipocrita della vita. Ma non aveva fatto i conti, il buon Wilde, con una menzogna più grande, con un simulazione di grado ulteriore, con quella società dello spettacolo il cui unico grado di permanenza sembra essere rappresentato da una simulazione infinita. E infinitamente seria, appunto. 
Anche se, avrebbe annotato un secolo dopo Pier Paolo Pasolini, «la serietà è la qualità di coloro che non ne hanno altre: è uno dei canoni di condotta, anzi, il primo canone, della piccola borghesia! Come ci si può vantare della propria serietà? Seri bisogna esserlo, non dirlo, e magari neanche sembrarlo! Seri si è o non si è: quando la serietà viene enunciata diventa ricatto e terrorismo!» (20 dicembre 1969)
Eppure, la serietà – in inglese: earnestness  ha un prezzo e un luogo precisi nella nostra storia. La serietà sarebbe il limite. L’uomo non se ne appaga ma, in un modo o nell’altro, che lo accetti o no, ne sconta il prezzo. 
La serietà, lontana dal «primo canone» cui fa cenno Pasolini, sarebbe il canone ulteriore e ultimo, attraverso il quale opporsi all’irreversibile. Esser seri, possedere il «senso dell’irreversibile», avere coscienza che oltre una certa posta non è più possibile «ricominciare la propria vita» (Jankélévitch, 1966). 
Serietà è riconoscere dunque che il gioco è a somma zero. Per questo, non meno del gioco, la serietà ha a che fare col tempo in un rimando di contrari che nella coppia platonica serietà-gioco, spoudé-paidià risulta evidente. 
Come evidente risulta, nei suoi nessi semantici, anche il significato germanico di «ernest, ernust, eornost», comunemente inteso come lotta. Una lotta col tempo. Tre tonalità affettive ci rapportano al tempo. Le modalità dell’avventura, della noia e, appunto, della serietà. Se l’avventura è un’apertura al futuro, nella noia domina il tempo presente. Una noia che non si ridurrebbe alla paura o al timore, ma a un consumo smodato di un tempo presente e all’attesa spasmodica di un tempo a venire che, svuotando preventivamente il futuro di ogni senso, retroattivamente priverebbe di senso il presente stesso. La noia come chiusura del futuro, dunque. La serietà non si presenta, invece, come una modalità per vivere il tempo, ma per inquadrarlo nel suo insieme, per questa ragione «predilige l’intervallo di tempo più lungo possibile e, al limite, quello della totalità della vita e persino della nostra discendenza» (Jankélévitch, 1963). La serietà fa economia del futuro, è il tempo del lavoro e della perseveranza, del «buon uso» del mondo  scrive Jankélévitch.
Negli anni Trenta, ritornando sul termine ernest, Huizinga ricordava che è «lecito forse concludere in generale che i termini per serietà, sia in greco, sia in germanico o altrove, rappresentino uno sforzo secondario del linguaggio per esprimere di fronte al concetto comune di gioco quello del non-gioco. Tale espressione fu trovata allora nell’ambito della “diligenza”, dello “sforzo”, della “pena”, benché questi concetti presi in sé possano anche loro unirsi al gioco. Il sorgere del termine “serietà” significa che la nozione “gioco” si è fatta pienamente cosciente come categoria generale autonoma. Ecco perché proprio le lingue germaniche che hanno concepito l’idea del gioco in forma notevolmente ampia e positiva, hanno denominato anche il suo opposto con tanta insistenza». Eppure, tralasciando i problemi linguistici, è sulla coppia di concetti “gioco-serietà” che conviene insistere. Ancora Huizinga: «”Gioco” è il termine positivo, “serietà” il termine negativo. Il contenuto semantico di “serietà” è definito ed esaurito con la negazione del gioco: “serietà” è non-gioco, e nient’altro. Il contenuto semantico di “gioco” invece non è affatto circoscritto né esaurito dalla non-serietà. “Gioco” è una cosa a sé. Il concetto “gioco” come tale è d’un ordine superiore a quello di serietà. Perché la “serietà” cerca di escludere il “gioco”, ma il “gioco” può includere benissimo la serietà» (Huizinga).


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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