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sabato 6 febbraio 2021

Le ceneri di Gramsci, dalla voce di Pier Paolo Pasolini.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Pier Paolo Pasolini
Le ceneri di Gramsci


I
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale 
pace, disamorata come i nostri destini,
tra le vecchie muraglie l'autunnale 
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo, 
la fine del decennio in cui ci appare 
tra le macerie finito il profondo 
e ingenuo sforzo di rifare la vita; 
il silenzio, fradicio e infecondo... 
Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore 
era ancora vita, in quel maggio italiano 
che alla vita aggiungeva almeno ardore, 
quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri - non padre, ma umile 
fratello - già con la tua magra mano 
delineavi l'ideale che illumina 
(ma non per noi: tu morto, e noi 
morti ugualmente, con te, nell'umido 
giardino) questo silenzio. Non puoi, 
lo vedi?, che riposare in questo sito 
estraneo, ancora confinato. Noia 

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine 
dalle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi 
mucchi di latta, ferrivecchi, dove 
cantando vizioso un garzone già chiude 
la sua giornata, mentre intorno spiove.
II
Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno 
ormai che questo del giardino gramo 
e nobile, in cui caparbio l'inganno 
che attutiva la vita resta nella morte. 
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno 
che mostrare la superstite sorte 
di gente laica le laiche iscrizioni 
in queste grige pietre, corte 
e imponenti. Ancora di passioni 
sfrenate senza scandalo son arse 
le ossa dei miliardari di nazioni 
più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti, 
i cui corpi sono nell'urne sparse 
inceneriti e non ancora casti. 
Qui il silenzio della morte è fede 
di un civile silenzio di uomini rimasti 
uomini, di un tedio che nel tedio 
del Parco, discreto muta: e la città 
che, indifferente, lo confina in mezzo 
a tuguri e a chiese, empia nella pietà, 
vi perde il suo splendore. La sua terra 
grassa di ortiche e di legumi dà 
questi magri cipressi, questa nera 
umidità che chiazza i muri intorno 
a smorti ghirigori di bosso, che la sera 
rasserenando spegne in disadorni 
sentori d'alga... quest'erbetta stenta 
e inodora, dove violetta si sprofonda 
l'atmosfera, con un brivido di menta, 
o fieno marcio, e quieta vi prelude 
con diurna malinconia, la spenta 
trepidazione della notte. Rude 
di clima, dolcissimo di storia, è 
tra questi muri il suolo in cui trasuda 
altro suolo; questo umido che 
ricorda altro umido; e risuonano 
- familiari da latitudini e 
orizzonti dove inglesi selve coronano 
laghi spersi nel cielo, tra praterie 
verdi come fosforici biliardi o come 
smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie 
invocazioni...
III
Uno straccetto rosso, come quello 
arrotolato al collo ai partigiani 
e, presso l'urna, sul terreno cereo, 
diversamente rossi, due gerani. 
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza 
non cattolica, elencato tra estranei 
morti: Le ceneri di Gramsci... Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato 
per caso in questa magra serra, innanzi 
alla tua tomba, al tuo spirito restato 
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa 
di diverso, forse, di più estasiato 
e anche di più umile, ebbra simbiosi 
d'adolescente di sesso con morte...) 
E, da questo paese in cui non ebbe posa 
la tua tensione, sento quale torto 
- qui nella quiete delle tombe - e insieme 
quale ragione - nell'inquieta sorte 
nostra - tu avessi stilando le supreme 
pagine nei giorni del tuo assassinio. 
Ecco qui ad attestare il seme 
non ancora disperso dell'antico dominio, 
questi morti attaccati a un possesso 
che affonda nei secoli il suo abominio 
e la sua grandezza: e insieme, ossesso, 
quel vibrare d'incudini, in sordina, 
soffocato e accorante - dal dimesso 
rione - ad attestarne la fine. 
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito 
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito 
la sporcizia delle più sperdute strade, 
delle panche dei tram, da cui stranito 
è il mio giorno: mentre sempre più rade 
ho di queste vacanze, nel tormento 
del mantenermi in vita; e se mi accade 
di amare il mondo non è che per violento 
e ingenuo amore sensuale 
così come, confuso adolescente, un tempo 
l'odiai, se in esso mi feriva il male 
borghese di me borghese: e ora, scisso 
- con te - il mondo, oggetto non appare 
di rancore e quasi di mistico 
disprezzo, la parte che ne ha il potere? 
Eppure senza il tuo rigore, sussisto 
perché non scelgo. Vivo nel non volere 
del tramontato dopoguerra: amando 
il mondo che odio - nella sua miseria 
sprezzante e perso - per un oscuro scandalo
della coscienza...
IV
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel cuore, 
in luce, contro te nelle buie viscere; 
del mio paterno stato traditore 
- nel pensiero, in un'ombra di azione - 
mi so ad esso attaccato nel calore 
degli istinti, dell'estetica passione; 
attratto da una vita proletaria 
a te anteriore, è per me religione 
la sua allegria, non la millenaria 
sua lotta: la sua natura, non la sua 
coscienza; è la forza originaria 
dell'uomo, che nell'atto s'è perduta, 
a darle l'ebbrezza della nostalgia, 
una luce poetica: ed altro più 
io non so dirne, che non sia 
giusto ma non sincero, astratto 
amore, non accorante simpatia... 
Come i poveri povero, mi attacco 
come loro a umilianti speranze, 
come loro per vivere mi batto 
ogni giorno. Ma nella desolante 
mia condizione di diseredato, 
io possiedo: ed è il più esaltante 
dei possessi borghesi, lo stato 
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato: 
ma a che serve la luce?
V
Non dico l'individuo, il fenomeno 
dell'ardore sensuale e sentimentale... 
altri vizi esso ha, altro è il nome 
e la fatalità del suo peccare... 
Ma in esso impastati quali comuni, 
prenatali vizi, e quale 
oggettivo peccato! Non sono immuni 
gli interni e esterni atti, che lo fanno 
incarnato alla vita, da nessuna 
delle religioni che nella vita stanno, 
ipoteca di morte, istituite 
a ingannare la luce, a dar luce all'inganno. 
Destinate a esser seppellite 
le sue spoglie al Verano, è cattolica 
la sua lotta con esse: gesuitiche 
le manie con cui dispone il cuore; 
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie 
la sua coscienza... e ironico ardore 
liberale... e rozza luce, tra i disgusti 
di dandy provinciale, di provinciale 
salute... Fino alle infime minuzie 
in cui sfumano, nel fondo animale, 
Autorità e Anarchia... Ben protetto 
dall'impura virtù e dall'ebbro peccare, 
difendendo una ingenuità di ossesso, 
e con quale coscienza!, vive l'io: io, 
vivo, eludendo la vita, con nel petto 
il senso di una vita che sia oblio 
accorante, violento... Ah come 
capisco, muto nel fradicio brusio 
del vento, qui dov'è muta Roma, 
tra i cipressi stancamente sconvolti, 
presso te, l'anima il cui graffito suona 
Shelley... Come capisco il vortice 
dei sentimenti, il capriccio (greco 
nel cuore del patrizio, nordico 
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco 
celeste del Tirreno; la carnale 
gioia dell'avventura, estetica 
e puerile: mentre prostrata l'Italia 
come dentro il ventre di un'enorme 
cicala, spalanca bianchi litorali, 
sparsi nel Lazio di velate torme 
di pini, barocchi, di giallognole 
radure di ruchetta, dove dorme 
col membro gonfio tra gli stracci un sogno 
goethiano, il giovincello ciociaro... 
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne 
d'erbasaetta in cui si stampa chiaro 
il nocciolo, pei viottoli che il buttero 
della sua gioventù ricolma ignaro. 
Ciecamente fragranti nelle asciutte 
curve della Versilia, che sul mare 
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi, 
le tarsie lievi della sua pasquale 
campagna interamente umana, 
espone, incupita sul Cinquale, 
dipanata sotto le torride Apuane, 
i blu vitrei sul rosa... Di scogli, 
frane, sconvolti, come per un panico 
di fragranza, nella Riviera, molle, 
erta, dove il sole lotta con la brezza 
a dar suprema soavità agli olii 
del mare... E intorno ronza di lietezza 
lo sterminato strumento a percussione 
del sesso e della luce: così avvezza 
ne è l'Italia che non ne trema, come 
morta nella sua vita: gridano caldi 
da centinaia di porti il nome 
del compagno i giovinetti madidi 
nel bruno della faccia, tra la gente 
rivierasca, presso orti di cardi, 
in luride spiaggette...
Mi chiederai tu, morto disadorno, 
d'abbandonare questa disperata 
passione di essere nel mondo?
      VI
Me ne vado, ti lascio nella sera 
che, benché triste, così dolce scende 
per noi viventi, con la luce cerea 
che al quartiere in penombra si rapprende. 
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto, 
intorno, e, più lontano, lo riaccende 
di una vita smaniosa che del roco 
rotolìo dei tram, dei gridi umani, 
dialettali, fa un concerto fioco 
e assoluto. E senti come in quei lontani 
esseri che, in vita, gridano, ridono, 
in quei loro veicoli, in quei grami 
caseggiati dove si consuma l'infido 
ed espansivo dono dell'esistenza - 
quella vita non è che un brivido; 
corporea, collettiva presenza; 
senti il mancare di ogni religione 
vera; non vita, ma sopravvivenza 
- forse più lieta della vita - come 
d'un popolo di animali, nel cui arcano 
orgasmo non ci sia altra passione 
che per l'operare quotidiano: 
umile fervore cui dà un senso di festa 
l'umile corruzione. Quanto più è vano 
- in questo vuoto della storia, in questa 
ronzante pausa in cui la vita tace - 
ogni ideale, meglio è manifesta 
la stupenda, adusta sensualità 
quasi alessandrina, che tutto minia 
e impuramente accende, quando qua 
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina 
il mondo, nella penombra, rientrando 
in vuote piazze, in scorate officine... 
Già si accendono i lumi, costellando 
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero 
Testaccio, disadorno tra il suo grande 
lurido monte, i lungoteveri, il nero 
fondale, oltre il fiume, che Monteverde 
ammassa o sfuma invisibile sul cielo. 
Diademi di lumi che si perdono, 
smaglianti, e freddi di tristezza 
quasi marina... Manca poco alla cena; 
brillano i rari autobus del quartiere, 
con grappoli d'operai agli sportelli, 
e gruppi di militari vanno, senza fretta, 
verso il monte che cela in mezzo a sterri 
fradici e mucchi secchi d'immondizia 
nell'ombra, rintanate zoccolette 
che aspettano irose sopra la sporcizia 
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette 
abusive ai margini del monte, o in mezzo 
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi 
leggeri come stracci giocano alla brezza 
non più fredda, primaverile; ardenti 
di sventatezza giovanile la romanesca 
loro sera di maggio scuri adolescenti 
fischiano pei marciapiedi, nella festa 
vespertina; e scrosciano le saracinesche 
dei garages di schianto, gioiosamente, 
se il buio ha resa serena la sera, 
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio 
il vento che cade in tremiti di bufera, 
è ben dolce, benché radendo i capellacci 
e i tufi del Macello, vi si imbeva 
di sangue marcio, e per ogni dove 
agiti rifiuti e odore di miseria. 
È un brusio la vita, e questi persi 
in essa, la perdono serenamente, 
se il cuore ne hanno pieno: a godersi 
eccoli, miseri, la sera: e potente 
in essi, inermi, per essi, il mito 
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente 
di chi soltanto nella storia ha vita, 
potrò mai più con pura passione operare, 
se so che la nostra storia è finita? 
1954
Le ceneri di Gramsci è una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini pubblicata da Garzanti nel 1957.
Il volume, che riporta il sottotitolo "Poemetti", raccoglie undici poesie già pubblicate su riviste o in plaquette tra il 1951 e il 1956.
il poemetto che dà il titolo alla raccolta, Le ceneri di Gramsci, datato 1954 e pubblicato sul n. 17-18 di "Nuovi Argomenti" del novembre- febbraio ''55-'56.



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La voce di Pier Paolo Pasolini: Le ceneri di Gramsci








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Curatore, Bruno Esposito

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