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giovedì 7 gennaio 2021

Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini, di Fulvio Panzeri

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini
Fulvio Panzeri



Il volume postumo di Pier Paolo Pasolini 'Lettere Luterane' si presenta come la parte finale e conclusiva degli Scritti corsari: raccoglie infatti gli articoli che vanno dal marzo 1975 all'ottobre dello stesso anno. Il titolo della raccolta è stato scelto dall'editore. La prima parte del volume è composta da un "trattatello pedagogico" destinato a Gennariello, un immaginario ragazzo napoletano, scelto "perché in questo decennio i napoletani non sono molto cambiati: sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia". Nel "trattatello" Pasolini analizza le "fonti educative" del ragazzo e ne mette in rilievo gli errori e gli orrori, le armonie e le disarmonie, passando in rassegna il linguaggio pedagogico delle cose, i compagni ("che sono i veri educatori"), i genitori ("gli educatori ufficiali"), la scuola ("insieme organizzativo e culturale della diseducazione"), la stampa e la televisione ("spaventosi organi pedagogici privi di qualsiasi alternativa").

Il "trattatello" è incompleto: gli argomenti di cui Pasolini si sarebbe occupato nel seguito sono il sesso, la religione e la politica. La seconda parte del volume, invece, è la vera e propria continuazione della raccolta degli Scritti corsari. Il più celebre di questi scritti è indubbiamente quello incentrato sulla metafora del Palazzo, con la distinzione tra "dentro" e "fuori" e quindi tra "potere (dentro)" e "Paese (fuori)". Scrive in proposito Pasolini: "Fuori dal Palazzo, un Paese di cinquanta milioni di abitanti sta subendo la più profonda mutazione culturale della sua storia (coincidendo con la sua prima vera unificazione: mutazione che per ora lo degrada e lo deturpa". Tra le due realtà, la separazione è netta, e al suo interno agisce il "Nuovo Potere", che, con la sua "funzione edonistica" riesce "a compiere "anticipatamente" i suoi genocidi". Su questa linea, in un altro articolo lo scrittore ipotizza, con un'altra immagine metaforica, il Processo ai potenti democristiani. Le provocazioni pasoliniane continuano con due proposte che gli sono suggerite dalla contestazione "della perdita da parte dei giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento". Pasolini chiede infatti l'abolizione della scuola media dell'obbligo e della televisione, e giustifica le sue richieste così: "La scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l'immediata cessazione delle lezioni alla scuola d'obbligo e delle trasmissioni televisive". Poi, in un successivo articolo lo scrittore chiarisce che la sua proposta prevede "un'abolizione provvisoria, in attesa di tempi migliori: e cioè di un altro sviluppo" e suggerisce quello che a suo giudizio si potrebbe fare per migliorare tali istituzioni. Il discorso svolto da Pasolini nei suoi ultimi articoli risulta ancor più coinvolgente del solito punto di vista della scommessa polemica. Il centro su cui esso si fonda è rappresentato dalla delineazione dei caratteri di quello che lo scrittore chiama "genocidio": un fenomeno che, all'interno della società italiana, ha prodotto solo coscienze caratterizzate da "un'atroce infelicità o da un'aggressività criminale".Del resto, quella che dapprima era solo una constatazione dello scrittore o una sua supposizione, ora, come dimostrano gli episodi di cronaca nera, è diventata una tragica e dolente conferma. Comunque, Pasolini, nelle Lettere luterane, non assume il tono di "colui che grida nel deserto", ma si presenta con l'ansia e l'ossessione di chi vuole persuadere di una amara "verita'", delineata in frammenti di realtà storiche concomitanti e causali della stessa "verità" messa a nudo. Gli assunti espressivi di questi ultimi scritti pasoliniani, tra l'altro, sembrano denotare lo sfinimento dell'intellettuale che deve continuamente, quasi nevroticamente, insistere sulle stesse argomentazioni per rendere più evidente il male oscuro che si espande dal consumismo ormai eletto a nuovo e unico valore. Le Lettere luterane sono così il gesto di rivolta di un uomo che si sente estraneo dal mondo in cui vive, ma per questo non smette di guardarlo e di osservarlo, al fine di carpirne i dolenti segreti. Di fatto, nei Giovani infelici, che introduce la raccolta, scrive: Per me la vita si può manifestare egregiamente nel coraggio di svelare ai nuovi figli ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell'imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà. (Pier Paolo Pasolini)

di Fulvio Panzeri http://www.italyday.net/

Fonte:
http://fenjus.blogspot.it/2008/11/lettere-luterane-di-pier-paolo-pasolini.html




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Quel reazionario di Pasolini

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Quel reazionario di Pasolini

Di Luigi Firpo, pubblicato da “La Stampa”
(anno 109 – Numero 200 – Domenica 31 agosto 1975.)




In una lettera aperta pubblicata sul Mondo del 28 agosto e già pubblicata sul Corriere del 24 agosto 1975, Pier Paolo Pasolini lancia una proposta politica radicale. Una distanza ormai incolmabile separa il potere democristiano (il «Palazzo», come egli lo chiama) dal Paese reale. Una visione settoriale degli innumerevoli problemi che ci affliggono e ci illudiamo di poter risolvere uno per uno, viene artificiosamente suggerita da chi ha tutto l'interesse a dissociare le responsabilità e ad evitare una presa di coscienza dell'insieme. Solo la follìa e l'omertà dei commentatori politici e degli intellettuali impedisce agli italiani di capire a qual punto sia giunta la degenerazione del nostro sistema politico.Non si tratta di affrontare questioni specifiche, come il sottogoverno o la delinquenza minorile, Bensi il male ignobile che ci corrode, la nostra peste globale; Pasolini la identifica con la DC, una << mafia oligarchica provenuta dal fondo della provincia più ignorante>>. La risposta vincente, il toccasana, sarebbe un grande processo penale indetto da PSI e PCI, che chiamasse sul banco de gli accusati «Andreotli, Fanfani, Rumor e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche Presidente della Repubblica)».
L'ipotesi, lo confesso, è suggestiva; la tiratura dei rotocalchi aumenterebbe, se ne verrebbero a sapere delle belle. Ma non avrà seguito e resterà come una ipotesi fantapolitica, un sogno poetico. Uno degli interlocutori che Pasolini chiama in causa, l'unico vero «politico», cioè Leo Valiani (gli altri, Moravia a parte, sono giornalisti oppure — chissà perché? — letterati democristiani), ha già risposto col solito garbo, ma respingendo al mittente: i poeti facciano i poeti e non escano dai boschi di Elicona. Né giova a Pasolini mescolare ai propri interventi la sua sensitiva carica esistenziale, diluire il discorso con richiami alla propria ascetica e provvisoria solitudine campestre, preludio certo di nuovi ciak e di nuovi comizi.
Pure il discorso ha un risvolto serio, che merita di essere analizzalo. Quali dovrebbero essere i capi d'imputazione nel grande processo ai notabili DC? Pasolini getta nel calderone, alla rinfusa, «una quantità sterminata di reati». Si va da voci generiche e mal definibili, come l'«indegnità» o il «disprezzo per i cittadini», al plateale «allo tradimento a favore di una nazione straniera », che sarebbe poi l'adesione italiana alla Nato, cioè un capo d'accusa che presuppone totale assenza di senso della realtà storica e, semmai, chiamerebbe sul banco degli accusati anche Moro (che Pasolini considera invece «rispettabile») e lo stesso De Gasperi.
Fra le accuse più concrete bisognerebbe poi distinguere quelle di inettitudine politica dalle altre, che implicano gravi responsabilità morali e non di rado anche penali. Tra le prime stanno la colpevole incapacità di reprimere il neofascismo, la distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, il caos nella scuola, negli ospedali, nei pubblici servizi, l'esodo «selvaggio» dalle campagne, «la stupidità delittuosa della televisione», in una parola l'insufficienza, il provincialismo, il venir meno dell'efficienza che è lecito esigere da chiunque abbia posto la propria candidatura alla gestione del potere democratico. In questo senso, e in quanto portatori di questi valori, Pasolini dice che i comunisti sarebbero i veri democristiani, gli eredi di questa vocazione tradita.
Al secondo gruppo di accuse sono da ascrivere le manipolazioni del denaro pubblico, gli intrallazzi con petrolieri e industriali (a torto Pasolini aggrega anche i banchieri, perché questi sono democristiani di nomina governativa), le connivenze con la mafia, la collaborazione col servizio segreto americano e gli illeciti impieghi di quello italiano, la «distribuzione borbonica delle cariche pubbliche ad adulatori », in sostanza, la -abe del sottogoverno e del privilegio corporativo.
Resta infine una triade di accuse enigmatiche sinché non se ne sia decifralo il significato pasoliniano, esoterico o gergale che sia. Si tratta delle responsabilità democristiane nella «degradazione antropologica degli italiani, nell'esplosione (anche questa selvaggia) della cultura di massa e dei suoi mezzi di comunicazione, infine — nientedimeno — nel «decadimento della Chiesa».
Quando parla di degradazione antropologica, Pasolini allude alla civiltà dei consumi, alla vorticosa produzione del superfluo, che distrugge al tempo stesso la natura e i valori umani. Qui un fenomeno mondiale, collegalo all'incremento del reddito pro capite, all'identificazione incolta del benessere con lo spreco e con i vani simboli di promozione sociale, viene addebitalo alla DC, come se davvero il suo potere giungesse a tanto e senza riflettere sul fatto che un'inversione di tendenza sarà possibile solo mediante una profonda quanto improbabile rivoluzione (o rieducazione) culturale, oppure mediante una drastica repressione dei consumi...

Luigi Firpo 


(Continua a pagina 2 in quarta colonna)


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Quel reazionario di Pasolini

(Segue dalla 1" pagina) 


...imposta dalla crisi mondiale o da una dittatura, sia pure moralistica.
Lamentare l'esplosione «selvaggia» della cultura di massa, proprio mentre si denuncia il servilismo della pseudo-cultura televisiva, è non solo contraddittorio, ma, nell'intimo, reazionario. Una cultura non selvaggia è una cultura pianificata, una cultura asservita; anche l'ultimo settimanale languoroso, scandalistico, pornografico, è pure un progresso per chi non leggeva altro che didascalie di santini e cartoline precetto. Meglio una cultura di massa selvaggia ma libera, che una cultura « civilizzata » dai ministeri e dalle censure.
Infine è del tutto grossolano l'equivoco che imputa alla DC il decadimento della Chiesa. Pasolini non ha mai celato le sue nostalgie con l'antico mondo rurale, con le sue masse <<ignoranti>>, le sue tradizioni suggestive, i suoi valori schietti ed elementari. Di quel mondo la Chiesa era il centro, ma è un mondo tramontato per sempre, travolto dall'istruzione elementare, dai trattori, dalla nuova realtà sociale. Credere che la DC abbia danneggiato la Chiesa significa non comprendere che in realtà so è ridotta a rilevarne in modo inconscio ma palese, talvolta impudico, il decadimento: ne ha rappresentato la parte nuda ed esposta, la parte più compromessa col mondo, la fornicazione con gli idoli di Mammona.
Se qualche volta i notabili DC rinfrescano le loro aure in Vaticano e ne traggono suggestioni o divieti, ben più spesso sì vedono le anticamere dei ministeri, degli stessi Parlamenti, formicolale di tonache in cerca di esenzioni, elargizioni, deroghe, privilegi. Se per Chiesa si intende quella che Cristo fondò sulla roccia, non dovrebbero bastare quattro untorelli a scalzarla: Non praevalebunt! Quella che è finita invece, o sta finendo, in Italia, è la Controriforma, il paternalismo di una gerarchia che una fedeltà ottusa e una cultura arretrata hanno dissociato da tempo dalla comunità degli uomini vivi e pensanti. La DC, arrogandosi temerariamente il nome di «cristiana>> così arduo da reggere per chi non sia disposto a portare con esso anche il peso della Croce, non ha fatto che mettere a nudo tale progressione irreversibile.
Questo processo dunque non si farà, e ingenua mi pare anche la fiducia di Pasolini, che da esso spererebbe di veder balzare alla luce, sotto gli occhi del cittadino ignaro, la <<Verità storica inconfutabile>>. Da Socrate a Dreyfus l'esperienza insegna che i verdetti processuali sono, tra le verità storiche, le più confutabili. E poi, quale il tribunale, quali i giudici? Processi del genere possono essere soltanto postumi, cioè legittimazioni a posteriori di un nuovo regime. Se il paragone con il processo a Papadopulos calza, è perché si tratta, per l'appunto, di un processo a un dittatore caduto. Come si può processare chi ancora detiene il potere?
Ebbene, questo mezzo c'è, ed è molto più silenzioso, radicale, implacabile, definitivo, di quello astratto e metaforico che Pasolini vagheggia: è il processo quotidiano, lento, sofferto, che si celebra nel profondo delle coscienze oneste, nel segreto di ciascuno di noi, là dove l'esperienza dell'oltraggio, del mule, della vergogna, matura in indignazione crescente, si assoda nel consapevole rifiuto, assume la durezza irrevocabile della condanna. Finché c'è libera stampa e libera discussione, non occorrono giudici togati: sempre se ne trovano per stilare sentenze di morte contro i dittatori caduti e petizioni servili ai nuovi padroni. Verona insegni. Non occorrono gabbie né manette, carabinieri né giurati: bastano le poche assi di una cabina elettorale, una piccola scheda. Basta la presa di coscienza di tutti gli uomini di buona volontà.

Luigi Firpo 



Luigi Firpo in quest'articolo del 31 agosto 1975 risponde in modo polemico a due articoli scritti da Pasolini e pubblicati uno sul settimanale Mondo il 28 agosto del 1975 ( "lettera aperta di Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi DC" ) e l'altro apparso sul Corriere il 24 agosto 1975 ( Il Processo ), nel quale Pasolini dice che è necessario fare un Processo alla DC elencando dei veri e propri capi d'imputazione


Una cosa che non trova una chiara risposta, è il fatto che sia apparso prima l'articolo numero 2, cioè “ Il processo “ ( il 24 agosto 1975 sul Corriere ) e successivamente ( il 28 agosto 1975 su Il Mondo), l'ipotesi di “processo” avanzata da Pasolini nella sua lettera aperta al direttore Ghirelli - Sembra lecito presupporre che Pasolini abbia inviato prima l'ipotesi di processo alla Dc al direttore Ghierelli per farla pubblicare in anticipo rispetto alla pubblicazione apparsa sul Corriere.

All'articolo di Luigi Firpo del del 31 agosto 1975, Pasolini risponde il 9 settembre del 1975 dalle pagine del Corriere, con un articolo titolato “ Risposte”, e 28 settembre 1975, sempre dalle pagine del Corriere, risponde ad un articolo di fondo apparso sul quotidiano La Stampa il 14 settembre 1975 ( il Processo: e poi? ), affermando che “ I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” ( Perchè il processo ).

Luigi Firpo riprende a polemizzare con Pasolini il 27 settembre 1975, sempre dalle pagine del quotidiano La Stampa, con un articolo dal titolo “ Il “processo al consumismo, Risposta a Pasolini” nel quale sferra un attacco deciso e determinato, Pasolini replica il 16 ottobre 1975, dalle pagine di «Il Mondo», con un articolo titolato “Come sono le persone serie?”.


Circa due settimane dopo, Pasolini verrà assassinato All' idroscalo di Ostia in circostanze ancora da accertare e quindi il Processo da lui ipotizzato non ha avuto un seguito.

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Pasolini - Come sono le persone serie?

"Le pagine corsare " 
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Scena film Porcile 


Porcile o no, tiriamo le somme su Pasolini
di PIERO SANAVÌO

(SEGUE INTERVISTA  "INEDITA")


La prima cosa che lessi mai di Pier Paolo Pasolini fu "Le ceneri di Gramsci". Gli echi del successo critico m’erano giunti anche negli Stati Uniti, dove ormai abitavo da anni: su riviste e giornali nazionali. Il libro arrivò più tardi, per posta normale, impigliandosi tra i colli più eterogenei che una nave può trasportare tra due continenti, non per via aerea come i quotidiani o magari via radio come le notizie. Me lo depositò il postino al numero 10 di Linnaean Street, e tornando da un seminario mattutino su Sceve e i petrovchisti me lo portai in biblioteca. Quando non insegnavo, vi passavo i pomeriggi a leggere i Puritani. Quelli veri, non l’opera: quelli che impiccarono le streghe a Salem, pacifica cittadina costiera dove un secolo dopo, due anzi, Hawthorne doveva mangiarsi il cuore, salvando (loro: gli assassini) la legittimità dello Stato e preparando l’indipendenza delle Colonie. Gente tutta d’un pezzo, lungimiranti. Con quei tragici nasi romani che neppure l’accademismo degli incisori riusci a raddolcire sui risguardi dei libri. Riapparivano in carne e ossa tra le strade di Boston, quelle che strisciano giù dalla collina, camuffati da vecchi rentiers o banchieri o più semplicemente pensionati (ex capitani di marina, ex mercanti, ex qualsiasi cosa: in attesa del sole, a Louisville Square, che sul loro volto pareva coincidere con l’approssimarsi della morte), e in realtà non erano ne banchieri ne rentiers ne pensionati: solo un’altra generazione, vecchi yankees stolidi, bellissimi e un po sospettosi, sopravvissuti all’ondata di irlandesi abbattutasi sulla Nuova Inghilterra l’anno della carestia delle patate e alle invasioni successive. Guardavano nel vuoto e i loro occhi, tra le rughe del viso, esprimevano un misto d’orgoglio, indifferenza e stanchezza. Ombre d’un altro clima.
Non aspettavano la morte : aspettavano qualcosa. Qualsiasi cosa? una causa, nella quale giustificarsi. J.F.K. passo loro sul capo come un fenomeno della corruzione dei tempi : un irlandese nuovo-ricco, cattolico per di più, e d’una famiglia che loro non avevano mai frequentato. Si mossero poco prima della sua morte, alle esplosioni dei negri. La madre del governatore del Massachusetts, una Peabody (come dire, in Inghilterra, una cugina della regina), fini in galera nel Sud, a ottant’anni, nel corso d’una marcia con Luther King, in favore della integrazione.
Una volta al mese, da Cambridge di gusto falso-inglese, scendevo a Washington per visitare un vecchio, rinchiuso in manicomio. Ezra Pound, dal quale ho imparato quel poco che so,  tolta la politica (ma questa e un’altra storia), almeno nel senso d’un certo gusto e interessi specifici, dalla letteratura all’economia e viceversa, sparava i suoi tic verbali da sotto la visiera di celluloide, verde come d’un telegrafista del vecchio West: caustico e buffonesco e con la capacita di toccar giusto pur partendo da presupposti che talvolta erano tanto sbagliati da parere impossibili. In ogni caso, offrendo l’esempio umano più assoluto del rifiuto d’ogni compromissione, anche nell’errore.
Pagato fino in fondo, questo, e nel modo più spietato : e di cui, dietro il paravento in fondo al corridoio, dove riceveva, o sdraiato su una chaise longue in giardino, più tardi, tra le urla dei pazzi, non raccontava mai. Parlava dell’Italia, di Londra, di Parigi. Di tanto in tanto mi dava dei consigli su ciò che dovevo leggere. In una lettera, per esempio, mi esortava a lasciar perdere la ≪ STEW-pi-DI-taaaaaa dei puritani ≫ e concentrarmi invece su un certo Matt Quay, ≪ che leggeva i classici greci nell’originale e nascondeva il fatto ai suoi elettori, per paura di perderne i voti ≫.
Doveva essere un novembre. Il cielo era grigio, dietro i vetri della Widener Library, e l’umidità che veniva dal Charles, dal Mystic, dalla baia o chissadove, s’estendeva più definitiva d’una macchia d’olio in un bicchier d’acqua. Dalla finestra contro cui Increase Mather, John Cotton, Governor Winthrop, John Hooker, Cotton Mather, che credeva nelle streghe, e il fedelissimo Cartesio (cioè : i loro libri), spalla a spalla, appoggiavano il peso dei propri dubbi, rigidi del pari che i minutemen di Lexington quel giorno famoso (che permise a Emerson di inventare una frase e a John Reed di migliorarla), vedevo i soliti camini di Cambridge, e il Main Street di Cambridge, Mass Ave, e l’intrico di fili elettrici che marcava l’inizio di Harvard Square. Sudavo, nel mio cubicolo in biblioteca, per l’umido: e imprecavo contro gli obblighi universitari, ma a pensarci adesso dall’ignobile piazza di Spagna, quegli anni sembrano straordinari. Mitologici, addirittura. Perché erano la libertà.
Ognuno, da dovunque venisse, era non chi conosceva o ciò che era stato : piuttosto, quanto poteva dare. Molto spesso il ≪ dare ≫ si riduceva a una specifica curiosità : un fatto abbastanza piacevole che implicava molta onesta, anzitutto l’ammissione della propria ignoranza. Forse era per questo che quegli anni avevo persino l’impressione che servisse qualcosa parlare. 
Fu pensando al vecchio nella casa dei pazzi, dal quale avevo appena ricevuto una lettera irritata e irritante, ma che pareva una poesia, che cominciai a leggere Pasolini. Avevo allora, bisogna dirlo, delle idee abbastanza precise sul come scrivere certe cose : anche sulla politica. Quanto a Gramsci, m’ero già accorto che ciò che si pubblicava in Italia su di lui nasceva da presupposti idealistici, per non dire ottocenteschi, uscissero le glosse al classico dalla penna di irreprensibili membri del Partito che, magari, in Spagna, s’erano imboscati dalla parte di Franco. Sicché, nell’edizione Einaudi, me l’ero riletto tutto con pazienza. Per quanto importante possa essere stato per me, non me n’ero fatto un dio: ne un padre o una madre o un fratello maggiore cui chiedere la risposta a problemi che non riuscissi a risolvere da solo. Il dogma, o l’attaccamento sentimentale a un’ideologia, m’hanno sempre fatto paura. 
Non che a questo non creda anche adesso, incluso ciò che si riferisce al modo di scrivere certe cose : tutte. So pero, adesso, che parlarne serve poco. E che scrivere rimane un atto privato, come lo e ogni tipo di scoperta artistica e, per noi occidentali perlomeno (da Vladivostok ad Anchorage, passando per l’Europa), ogni forma di ≪ cultura ≫ : privato, ovviamente, nel senso che la ricerca e strettamente personale e non implica, ne richiede, nessun ≪riconoscimento≫ : hegeliano o meno, questo. E un'attività sotterranea, simile allo scavar gallerie due centimetri più giù del livello dell’asfalto o dell’erba. Un bel giorno si avrà scavato tanto, ognuno per conto suo, che i due centimetri di spessore cederanno e molte cose che ancora esistono in superficie andranno in fumo. L’arte e il solo nemico naturale dello Stato. 
Dunque leggevo Pasolini. Lessi un bel pezzo prima di alzare gli occhi e guardar fuori, le luci nel buio, adesso : e prima di confessarmi il mio stupore e una certa ilarità. Non provavo nient’altro. Pareva assurdo, tutto qui. Qualcuno dal nome attraente, siglabile all’americana, nascondeva la propria ignoranza di periferico maestro di scuola in una scrittura pseudoautomatica, da poveracci, mediata attraverso uno squallido sentimentalismo piccolo borghese. Con qualche bel verso : e molto gesticolare e cattivo gusto e autoamore. Non capivo davvero cosa avessero inteso, o vi avessero visto, i critici. Vi pensai per un po’. Non con la dovuta attenzione. L’avessi fatto, forse mi sarei accorto che la pubblicazione e il successo di quel libro segnavano una data importante nella cultura italiana del dopoguerra: l’inizio di certa politica culturale, mediata attraverso una compromissione dell’intelligentia con l'industria del libro (e non solo del libro). Che il paese, insomma, entrava in un conformismo di tipo New Deal: con qualche ritardo sugli Stati Uniti. 
Mi illudo. Anche se v’avessi pensato per mesi, v’erano cose che non avrei capito, della penisola. Ero assente da troppo tempo. E non potevo sospettare che dopo avere esitato tra America e Russia, e aver subito la dittatura di quell’idealista staliniano che, fino all’entrata in Bucarest dei carri armati khruscioviani, fu Lukacs - un Croce dei paesi d’oltrecortina - il paese scopriva la tecnologia, e nell’euforia del boom dei frigoriferi gli uomini di cultura mescolavano tutto, Hegel e Heidegger, Lukacs e Merleau-Ponty, Goldmann e Sartre, l’800 romantico e Gramsci, vivendo per citazioni e riducendo il discorso  critico al solipsismo d’un pendolare moderatamente bibliofago, in moto perpetuo tra Roma, Milano, Palermo e Forte dei Marmi. Ne potevo immaginare, e qui pero la colpa era  mia, la storia d’Italia la conoscevo, che sotto la patina di populismo, neorealismo, libertarismo e mammistico ingaggio politico (tutte tendenze che dovevano presto sfociare nel recupero del gusto liberty, in loro logica morte e trasfigurazione: in attesa d’una prossima riproposta del gusto dannunziano, per il ritorno emblematico delle immagini del poeta-eroe come nostra realtà quotidiana: magari sulla pubblicità d’un detersivo), la scrittura in Italia fosse rimasta ≪ufficiale≫. Avrei dovuto saperlo. Dante che sogna l’incoronazione con fronde d’alloro e Petrarca che l’ottiene, non sono degli esempi isolati d’epoche di barbarie. Hanno come corrispettivi tutti quegli artisti che tra le due guerre accettarono il ≪ regime ≫ per un posto all’Accademia, e questi altri, più recenti, vivi adesso, che alla spada e alla feluca (peraltro abolite) han preferito più remunerate compromissioni. Sicché diventava ridicolo, non aveva neppure la venatura d’un calcolo prestabilito, parlare (come molti inseriti già facevano, negli anni Cinquanta) di tradimento della Resistenza e simili cose. Era perdita di fiato. Tutto non poteva non essere come era sempre stato. Non si può trasformare una cultura senza far piazza pulita di molte situazioni. Non basta far ritoccare la fotografia dell’avo, sottufficiale piemontese, nascondendo collo duro, bottoni e medaglie sotto un fazzoletto d’ispirazione garibaldina: fidandosi, per mascherare il falso, che sia soldati regi che truppe irregolari amavano le lunghe barbe.
Credo che il nostro sia il solo paese dove anche i discorsi programmatici dell’avanguardia posseggono ormai il tono pedante di tesi di laurea e l’ambiguità filologica delle dichiarazioni di un politico in cerca di voti. Per contrasto, uno tende a pensar con affetto, direi con tenerezza, all’umorismo, alle ingenuità, alla freschezza e alla fondamentale serietà dei primi futuristi.
Stiano comunque quieti i turisti stranieri in viaggio di nozze a Posillipo o a Venezia: nella terra del sole, dove tutto si muove solo nell’ombra, nessuno si sognerà mai d’uccidere il chiaro di luna. 
Ma ritorniamo a Pasolini : anche se ho l’impressione di non aver parlato che di lui. Dopo Le ceneri lessi gli altri libri, vidi anche i film: in Europa, questi. A poco a poco cominciai a nutrire verso di lui una sincera ammirazione. Per il suo genio del luogo comune, l’impudicizia di elevare presunzione e provincialismo a canoni estetici nazionali, la capacita di sfoderare la più piatta banalità al momento giusto (chi altri avrebbe pensato di rispolverare negli anni Sessanta la vieta immagine d’un Cristo populista?), come un figlio unico viziato, che in una prima elementare frequentata solo da bambine voglia imporre la propria virilità alzando il tono di voce. Son qualità abbastanza tipiche di quell’artista fatto in casa che egli e, in definitiva : pronto a vendere sentimentalismo per indignazione sociale e imprecisione stilistica per intenti rivoluzionari; una specie d’acqua piovana mescolata a polvere Idriz, offerta in bottigliette di gazzosa (con la pallina al posto del tappo) agli ignari indigeni. Per far tutto questo, ce ne vuole di immaginazione. 
Anche mi divertiva. Con quella scrittura cachettica e per il suo narcisismo entusiasta, da chierico dèfroquè, sempre esitante tra la bestemmia e l’autopunizione e che pero richiedeva la medaglia di finecorso ad attestato ufficiale che in ogni caso s’era comportato bene. Pensavo ai miei Puritani, per i quali l’entusiasmo, anche in materia di religione, era condannabile con il confino a vita o l’impiccagione, o al vecchio nella casa dei pazzi, adesso in esilio a casa nostra, e al suo rigore, la sua assoluta dignità d’artista. Pasolini non ha tutto questo, e naturale. Ma d’altra parte, siamo in another country, un altro paese : and besides the wench is dead. Marlowe non ci pensava ma possiamo farlo noi : interpretare arbitrariamente wench (ragazza) come sinonimo di ≪ coerenza ≫. La coerenza e morta. E pero, nel paese degli artisti ≪ ufficiali ≫, serviva proprio? Mi si dirà che con questo atteggiamento ero forse la persona meno indicata per intervistare Pasolini, ed e possibile. Seppure, quando lo feci, lo feci con molta discrezione, tentando di dimenticare ciò che pensavo di lui. Fu abbastanza facile perché ero in Italia da un mese e mi sentivo un po’ sconvolto dalla realtà della penisola, un po’ depresso. Mi chiedevo se non fossi io ad aver sbagliato tutto. In definitiva, forse chi aveva ragione era proprio Pasolini. 
Fu all’EUR, casa sua, un bel giorno ventoso di fine marzo. Nel soggiorno campeggiava un elmo rinascimentale, un elemento decorativo mi figuro. Lui stava seduto, rispondendo a domande che qualcun altro, un giovane tedesco che parlava italiano, incideva su un registratore identico al mio. Era tutto molto comico : l’uno dopo l’altro, il tedesco e io, a confessare una terza persona e portarne via la voce. Come se la testa non ci servisse più. Dopo un poco fu il mio turno. Pasolini stava in profilo, come Antonito el Camborio quando mori. Parlava in tono molto serio, decisamente professorale, mi istruiva. Aveva ragione, ce n’era bisogno : ad ascoltarmi adesso, nel registratore, non sembro tanto brillante. Non lo sono mai stato.



PIERO SANAVÌO

SEGUE INTERVISTA  "INEDITA"


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Risposta a Pasolini - IL "PROCESSO,, AL CONSUMISMO - di Luigi Firpo

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IL "PROCESSO,, AL CONSUMISMO 
Risposta a Pasolini 
LA STAMPA Anno 109 - Numero 223 
Sabato 27 Settembre 1975 

Ben tre colonne, sul Corriere del 9 settembre, occupano le « risposte » di Pasolini a Leo Valiani, interlocutore invocato, ed a me, contraddittore imprevisto e sgradevole. Non meritavo tanto, per aver semplicemente fatto notare quanto la proposta pasoliniana di sottoporre a processo una dozzina di notabili democristiani fosse paradossale, inconsistente e, se gettata là per scherzo, troppo pubblicitaria, se detta sul serio, puerile. 

Per quanto mi riguarda, la replica è così debole, sconnessa, quasi nevrotica, che non meriterebbe di essere raccolta, se non offrisse il destro per approfondire il discorso su quella che è ormai diventata la bestia nera di Pasolini, l'onta suprema del mondo, e cioè il consumismo. Pel rimanente, egli incomincia con lo spiegare a me, che da anni insegno all'Università Metodologia della ricerca storica, quali sono le nuove discipline ausiliarie dello storico moderno. Il tono è quello del bambino saccente, d'una sprovvedutezza quasi patetica. Segue poi, martellante, l'accusa di non aver letto i suoi Scritti corsari, venendo meno con ciò ai miei doveri, comportandomi « poco onestamente » ed esponendomi all'ingiunzione severa, ripetuta « ossessivamente », di leggerli subito. 

Da tanti anni cerco di leggere in media un libro al giorno, e se mi basterà la vita, se mi reggeranno gli occhi, so che riuscirò a leggerne in tutto un ventimila: quanti se ne pubblicano oggi in Italia in poco più d'un anno, in qualche giorno nel mondo. Perché, fra quei pochi, avrei dovuto leggere obbligatoriamente gli Scritti corsari di Pasolini? Per ricordare a qualcuno che due più due fa quattro, debbo prima chiosare le sue opere complete? Di fronte alla proposta di un processo fanta-politico, mi sono limitato ad osservare che si trattava appunto di fantasie, di una pura divagazione, ma più di altre arrischiata e rischiosa perché camuffata da cosa seria, e perciò fuorviante e mistificatoria, in un momento grave e in un Paese che ha un bisogno tremendo di uscire dal mondo dei sogni e dall'inconcludenza verbosa, per rimettere i piedi sulla terra e riprendere contatto con la dura realtà della storia.

Nel mio tentativo di sdrammatizzare « furbescamente » la furia anti-consumistica di Pasolini io avrei rivelato « tutta la volgarità della classe intellettuale italiana ». Tralascio il rozzo modo di inveire senza aver ben capito di che cosa si parla, né insisto nel sottolineare che la classe intellettuale italiana non è tutta volgare (per chi scriveremmo, se no?), né domando a Pasolini a quale rude ceto di lavoratori del braccio vaneggi di appartenere. Parliamo di consumismi, con calma. 

Condivido appieno la ripugnanza profonda per questo sperpero volgare, per l'oggettivazione triviale d'una presunta e illusoria felicità, per questo dissipare tempo e risorse, lavoro e attenzione in cose inutili e frivole, quando non sono addirittura degradanti o segnate dalla turpitudine ultima e suprema, che è quella dell'idiozia. Ma il consumismo va pure scrutato e notomizzato senza passione, con occhi di scienziato. Pasolini che propone? Tornare alle diligenze a cavallo, al secchio del pozzo, all'olio della lucerna, alla processione del santo patrono? Di lodatori nostalgici del passato non sappiamo che farcene, perché il compito della generazione nostra, di tutte le generazioni, è di guardare avanti, di « progettare » (magari inconsapevolmente) il futuro. 

So bene che Pasolini non è, e che gli è intollerabile essere definito, un reazionario. Ma cosa importa che non lo sia, se nelle conclusioni ultime, nelle finali proposte (o nel l'assenza di proposte attendibili) il suo atteggiamento è arcaizzante, sanfedista, intinto di falso folclore e di rimpianti d'un passato irrecuperabile? Guardare con occhi impietosi, con orrore e disgusto, il mondo che ci sta d'attorno a poco giova se non si hanno validi modelli alternativi da suggerire, e capacità di analisi seria della realtà e delle sue radici storiche profonde. 

Il circolo vizioso del consumismo (e la parola « vizioso » suona qui nel suo duplice senso di ottusa circolarità ripetitiva e di passiva degradazione), oggi, può essere spezzato soltanto in virtù di una rieducazione di massa, radicale e capillare, cioè attraverso una tirannia moralistica che abbia prestigio e forza bastanti ad instaurare un nuovo monachesimo sociale. Per rieducare ai consumi « buoni » (e che non siano solo visite guidate ai musei, campionati di scacchi e cori campestri) bisogna reprimere radicalmente i consumi in genere, rendere coattiva l'uniformità, diffondere una povertà di Stato austera e idealistica, imporre una dittatura del Bene (presunto), in una parola: incatenare la libertà. 
Ma se gli italiani capissero questo, non so quanti sarebbero disposti a pagarne il prezzo fino in fondo. Quel giorno, un'ipotetica elezione darebbe al partito comunista soltanto qualche migliaio di voti (compreso il mio, magari) e tutti gli altri voterebbero per la motoretta, il frigo-bar, i ponti lunghi, le settimane corte, gli aperitivi, i digestivi, i lassativi, i censori permissivi, i porno-western distensivi, i falsi agonismi sportivi, gli stracci decorativi, gli ebetismi televisivi: tutto ciò, in una parola, che nutre l'illusione di esistere delle anime morte. 

Quando vedo il volto di Berlinguer, così giovanile e pur tanto segnato, cosi triste nel profondo, d'una tristezza che non è solo quella lunga e chiusa della sua Sardegna, penso che soprattutto questo io accori: l'idea di dover educare al comunismo un popolo godereccio, individualista e anarcoide anche più di quello della Georgia, che pur tanto fa penare gli uomini di Mosca, e troppo abituato a credere che la disciplina sociale si esaurisca nei cortei e nelle adunate, dopo di che ogniuno ritorna a farsi allegramente gli affari suoi. E tutti gli intellettuali insicuri, che dopo il 15 giugno fan la coda per staccare la tessera, debbono aver aggiunto a quella tristezza una goccia amara di commiserazione.
Ci sarebbe, dirà qualcuno, un'altra via per estirpare il consumismo: quella dell'educazione aperta e mite, degli esempi edificanti, della spontanea redenzione. Ma è un rimedio che può funzionare, ammesso che funzioni, soltanto a tempi lunghissimi. Se non c'è riuscito in duemila anni il cristianesimo, temo che le tante religioni novelle pullulanti, mistiche o magiche, filosofiche o sociologiche, siano destinate a fallimenti clamorosi. Prima di aver raggiunto qualche risultato, le bombolette spray dei fissatori per capelli o degli insetticidi avranno già distrutto la sfera d'ozono che ci protegge e saremo tutti morti. 

Dunque Pasolini straparla: fra le tante accuse gravi che da più parti si muovono a Fanfani, a Moro, ai loro amici, quella di non aver saputo estirpare il consumismo è solo una freddura: ci vuol altro che qualche notabile democristiano per contenere un fenomeno planetario, una ecumenica follia suicida. Basti un esempio del suo modo impressionistico, frivolo, occasionale, di affrontare problemi di tanta portata: a suo dire, uno sconvolgimento radicale avrebbe squassato l'Italia negli ultimi sei o sette anni, al punto che gli sarebbe toccato di vedere « la più simpatica gioventù d'Italia trasformarsi nella più odiosa ». Si tratta, per chi non lo sapesse, della gioventù romana proletaria e sottoproletaria delle « borgate », quella che un tempo, se ho ben capito, aveva la faccia allegra e sfaticata di Ninetto Davoli e adesso si sarebbe trasmutata in un'accolta di criminali « impietriti in una ferocia da SS ». Con l'emotività propria dell'artista che confonde le parvenze mutevoli con la realtà profonda, l'attimo con l'eterno, Pasolini dimentica che quella gioventù « simpatica » (ma a me ed a molti simpatica non fu mai, anche se merita pietà e soccorso) già nel passato aveva fornito ai suoi film e ai suoi clan un discreto drappello di ceffi patibolari, e ai suoi romanzi copia di non edificanti esempi. 

La verità è che la triste e trista gioventù delle baracche cresce, ora come allora, alla scuola della miseria e del vizio precoce, ma le sue radici di cinismo, violenza, avidità sono cosi profonde, che risalgono al paganesimo latente nel mondo contadino, alla tracotanza romanesco-papalina, pronta al coltello e usa ad insultare anche i morti,  cioè ad uno dei più grevi impasti di materialismo, sensualità e indolenza della nostra storia. E sono secoli ch'esso fermenta, non sette anni. E solo una sciagurata retorica patriottarda ha fatto sì che d'una tale argilla si foggiasse il crogiolo e il modello di quello sterminato aggregato composito che è oggi Roma. 

Non voglio continuare. Ma questa è, in ultima istanza, la contraddizione suprema: nel mondo che Pasolini vagheggia non ci sarebbe posto per lui, per il suo modo di vivere, per i suoi film lirici e scatologici, per i suoi ragazzi di vita, per la sua sconfinata libertà di egocentrico complessato che sentenzia a diritta ed a manca, su tutto e su tutti, pasticciando, contraddicendosi, ma anche stimolandoci con la sua tensione poetica, il suo impegno ringhioso, l'indignazione confusa ma sincera. Si goda, fin che può, questo poco di libertà che ci resta e che altri difende, anche per lui.  Non si creda onnisciente e infallibile. Misuri il senso delle parole. E rimedi, di questo suo ultimo articolo, una frase in cui afferma, parlando di se stesso: 


<< Si è ironizzato, si è riso, si è anche accusato. Ciò che dico è indegno di altro: io non sono una persona seria>>. 

Bene, è già qualcosa. Forse, finalmente, gli sta sorgendo il dubbio.

Luigi Firpo

* * * * *

Luigi Firpo nell'articolo del 31 agosto 1975 risponde in modo polemico a due articoli scritti da Pasolini e pubblicati uno sul settimanale Mondo il 28 agosto del 1975 ( "lettera aperta di Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi DC" ) e l'altro apparso sul Corriere il 24 agosto 1975 ( Il Processo ), nel quale Pasolini dice che è necessario fare un Processo alla DC elencando dei veri e propri capi d'imputazione


Una cosa che non trova una chiara risposta, è il fatto che sia apparso prima l'articolo numero 2, cioè “ Il processo “ ( il 24 agosto 1975 sul Corriere ) e successivamente ( il 28 agosto 1975 su Il Mondo), l'ipotesi di “processo” avanzata da Pasolini nella sua lettera aperta al direttore Ghirelli - Sembra lecito presupporre che Pasolini abbia inviato prima l'ipotesi di processo alla Dc al direttore Ghierelli per farla pubblicare in anticipo rispetto alla pubblicazione apparsa sul Corriere.

All'articolo di Luigi Firpo del del 31 agosto 1975, Pasolini risponde il 9 settembre del 1975 dalle pagine del Corriere, con un articolo titolato “ Risposte”, e 28 settembre 1975, sempre dalle pagine del Corriere, risponde ad un articolo di fondo apparso sul quotidiano La Stampa il 14 settembre 1975 ( il Processo: e poi? ), affermando che “ I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” ( Perchè il processo ).

Luigi Firpo riprende a polemizzare con Pasolini il 27 settembre 1975, sempre dalle pagine del quotidiano La Stampa, con questo articolo dal titolo “ Il “processo al consumismo, Risposta a Pasolini” nel quale sferra il suo attacco contro il Poeta-Intellettuale. Pasolini replica il 16 ottobre 1975, dalle pagine di «Il Mondo», con un articolo titolato “Come sono le persone serie?”.


Circa due settimane dopo, Pasolini verrà assassinato All' idroscalo di Ostia in circostanze ancora da accertare e quindi il Processo da lui ipotizzato non ha avuto un seguito.


Curatore, Bruno Esposito

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martedì 5 gennaio 2021

Pasolini pedagogo - Gennariello, prima parte

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare
Gennariello
Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini
Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999


Paragrafo primo: come ti immagino
6 marzo 1975



Poiché tu sei il destinatario di questo mio trattatello pedagogico, che qui esce a puntate - rischiando naturalmente di sacrificare l'attualità all'esecuzione progressiva del suo progetto - è bene, prima di tutto, che io ti descriva come ti immagino.
È molto importante, perché è sempre necessario che si parli e si agisca in concreto.
Come il tuo nome immediatamente suggerisce, sei napoletano. Dunque, prima di andare avanti con la tua descrizione, poiché la domanda sorge impellente, dovrò spiegarti in poche parole perché ti ho voluto napoletano.
Io sto scrivendo nei primi mesi del 1975: e, in questo periodo, benché sia ormai un po' di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono appunto, in concreto, e, per di più, ideologicamente, simpatici. Essi infatti in questi anni - e, per la precisione, in questo decennio - non sono molto cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. E questo per me è molto importante, anche se so che posso essere sospettato, per questo, delle cose più terribili, fino ad apparire un traditore, un reietto, un poco di buono. Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l'ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po' naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani, alle scenette della televisione della repubblica italiana. Coi napoletani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. Coi napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l'hanno con me.
Coi napoletani posso presumere di poter insegnare qualcosa perché essi sanno che la loro attenzione è un favore che essi mi fanno. Lo scambio di sapere è dunque assolutamente naturale. Io con un napoletano posso semplicemente dire quel che so, perché ho, per il suo sapere, un'idea piena di rispetto quasi mitico, e comunque pieno di allegria e di naturale affetto. Considero anche l'imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un napoletano, durante un'effusione di affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel'ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto.
Potrei continuare così per molte pagine, e, anzi, trasformare questo intero mio trattatello pedagogico in un trattatello dei rapporti tra un borghese settentrionale e i napoletani. Ma per ora mi trattengo, torno a te.
Prima di tutto tu sei, e devi essere, molto carino. Magari non in senso convenzionale. Puoi anche essere un po' minuto e addirittura anche un po' miserello di corporatura, puoi già avere nei lineamenti il marchio che, in là con gli anni, ti renderà fatalmente una maschera. Però i tuoi occhi devono essere neri brillanti, la tua bocca un po' grossa, il tuo viso abbastanza regolare, i tuoi capelli devono essere corti sulla nuca e dietro le orecchie, mentre non ho difficoltà a concederti un bel ciuffo, alto, guerresco e magari anche un po' esagerato e buffo sulla fronte. Non mi dispiacerebbe che tu fossi anche un po' sportivo, e che quindi fossi stretto di fianchi e solido di gamba (quanto allo sport, preferirei che tu amassi il pallone, così ogni tanto potremmo fare qualche partitella insieme). E tutto questo - tutto questo che riguarda il tuo corpo, sia ben chiaro - non ha, nel tuo caso, nessun fine pratico e interessato: è una pura esigenza estetica, un di più che mi mette meglio a mio agio. Intendiamoci bene: se tu fossi bruttarello, proprio bruttarello, sarebbe lo stesso, purché tu fossi simpatico e normalmente intelligente e affettuoso come sei. Basta, in tal caso, che i tuoi occhi siano ridarelli: come, del resto, se anziché essere un Gennariello, tu fossi una Concettina.
Qualcuno potrebbe pensare che un ragazzo come quello che sto descrivendo sia miracoloso. Infatti tu non puoi essere che un borghese, cioè uno studente che fa la prima o la seconda liceo. Sarei disposto ad ammettere la miracolosità nel caso che tu fossi un milanese, un fiorentino o anche ormai un romano. Ma il fatto che tu sia napoletano esclude che tu, pur essendo borghese, non possa essere anche interiormente carino. Napoli è ancora l'ultima metropoli plebea, l'ultimo grande villaggio (e per di più con tradizioni culturali non strettamente italiane): questo fatto generale e storico livella fisicamente e intellettualmente le classi sociali La vitalità è sempre fonte di affetto e ingenuità. A Napoli sono pieni di vitalità sia il ragazzo povero che il ragazzo borghese.
Dunque, come io ti ho scelto, tu mi hai scelto. Siamo pari. Ci stiamo scambiando dei favori. Naturalmente, se letto da altri, questo mio testo pedagogico è bugiardo, perché ci manchi tu: il tuo dialogo, la tua voce, il tuo sorridere. Ma tanto peggio per i lettori che non sapranno immaginarti. Se non sei un miracolo, sei un'eccezione, questo sì. Magari anche per Napoli, dove tanti tuoi coetanei sono schifosi fascisti. Ma cosa potevo trovare di meglio per rendere almeno letteralmente eccezionale questo mio testo?





Paragrafo secondo: come devi immaginarmi

13 marzo  1975



Potrei dirti tante cose che è necessario che tu, Gennariello, sappia del tuo pedagogo.
Non voglio fare un elenco di particolari, che verranno certamente fuori un po' alla volta, necessitati dalle occasioni (infatti il nostro discorso pedagogico sarà pieno di parentesi e di divagazioni: appena qualcosa di attuale sarà così urgente e significativo da interrompere il nostro discorso, noi lo interromperemo).
Vorrei scegliere un solo punto: cioè ciò che la gente dice di me, e attraverso cui tu mi hai dunque finora conosciuto (ammesso che tu sappia della mia esistenza). Ciò che attraverso la gente hai saputo di me si riassume eufemisticamente in poche parole: uno scrittore-regista, molto «discusso e discutibile», un comunista «poco ortodosso e che guadagna dei soldi col cinema», un uomo «poco di buono, un po' come D'Annunzio».
Non polemizzerò con queste informazioni che hai ricevuto, con commovente concordanza, da una signora fascista e da un giovane extraparlamentare, da un intellettuale di sinistra e da un marchettaro.
Questo elenco è un po' qualunquistico: lo so. Ma ricordati: non bisogna temere nulla, e soprattutto non bi sogna temere quelle qualificazioni negative che possono essere ritorte all'infinito.
Tutti gli italiani infatti si possono dare dei «fascisti» a vicenda, perché in tutti gli italiani c'è qualche tratto fascista (che, come vedremo, si spiega storicamente con la mancata rivoluzione liberale o borghese); tutti gli italiani, per ragioni più ovvie, si possono dare a vicenda dei «cattolici» o dei «clericali». Tutti gli italiani, infine si possono dare a vicenda dei «qualunquisti». È ciò appunto che ci riguarda in questo momento. Non perché io e te abbiamo rotto quello che dovrebbe essere ormai il tacito patto tra persone civili, consistente nel non dar si mai dei «fascisti» o dei «clericali» o dei «qualunquisti» a vicenda, ma perché sono io stesso che mi accuso, qui, di un certo qualunquismo.
Che cos'è che io vedo (qualunquisticamente) accomunare «una signora fascista e un extraparlamentare, un intellettuale di sinistra e un marchettaro»?
È una terribile, invincibile ansia di conformismo
Succede spesso, in questa nostra società, che un uomo (borghese, cattolico, magari tendenzialmente fasci sta) accorgendosi consapevolmente e inconsapevolmente di tale ansia di conformismo, faccia una scelta decisiva e divenga un progressista, un rivoluzionario, un comunista: ma (molto spesso) a quale scopo? Allo scopo di poter finalmente vivere in pace la sua ansia di conformismo Egli non lo sa, ma l'essere passato con coraggio dalla parte della ragione (uso qui la parola ragione con temporaneamente in senso corrente e in senso filosofico) gli permette di sistemarvisi con le antiche abitudini che egli crede rigenerate, reificate. Mentre non sono altro, appunto, che l'antica ansia di conformismo.
Ciò durante questi trent'anni postfascisti ma non antifascisti, è sempre accaduto. Ma le cose si sono aggrava te dal '68 in poi. Perché da una parte il conformismo, diciamo così, ufficiale, nazionale, quello del «sistema», è divenuto infinitamente più conformistico dal momento che il potere è divenuto un potere consumistico, quindi infinitamente più efficace - nell'imporre la propria volontà - che qualsiasi altro precedente potere al mondo. La persuasione a seguire una concezione «edonistica» della vita (e quindi a essere dei bravi consumisti) ridico lizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione: per esempio quello di seguire una concezione religiosa moralistica della vita.
D'altra parte le grandi masse di operai e le élites progressiste sono rimaste isolate in questo nuovo mondo del potere: isolamento che, se da una parte ha preserva to una certa loro chiarezza e pulizia mentale e morale, ha anche rese conservatrici. E il destino di tutte le «isole» (e delle «aree marginali»). Dunque il conformismo di sinistra - che c'era sempre stato - in questi ultimi anni si è fossilizzato.
Ora, uno dei luoghi comuni più tipici degli intellettuali di sinistra è la volontà di sconsacrare e (inventiamo la parola) de-sentimentalizzare la vita. Ciò si spiega, nei vecchi intellettuali progressisti, col fatto che sono stati educati in una società clerico-fascista che predicava false sacralità e falsi sentimenti. E la reazione era quindi giusta. Ma oggi il nuovo potere non impone più quella falsa sacralità e quei falsi sentimenti. Anzi è lui stesso il primo, ripeto, a voler liberarsene, con tutte le loro istituzioni (mettiamo l'Esercito e la Chiesa). Dunque la polemica contro la sacralità e contro i sentimenti, da parte degli intellettuali progressisti, che continuano a macinare il vecchio illuminismo quasi che fosse meccanicamente passato alle scienze umane, è inutile. Oppure è utile al potere.
Per queste ragioni sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c'è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci.




Paragrafo terzo: ancora sul tuo pedagogo
20 marzo 1975


Vorrei aggiungere ancora qualcosa a ciò che ti ho detto nell'altro paragrafo intitolato «Come devi immaginarmi».
Sul sesso ci soffermeremo a lungo, sarà uno dei più importanti argomenti del nostro discorso, e non perderò certo occasioni di dirti, in proposito, delle verità, sia pure semplici che tuttavia scandalizzeranno molto, al solito, i lettori italiani, sempre così pronti a togliere il saluto e a voltare le spalle al reprobo.
Ebbene: in tal senso io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un «tollerato».
La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente no minale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. E questo perché una «tolleranza reale» sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si «tolleri» qualcuno è lo stesso che lo si «condanni» La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata Infatti al «tollerato» - mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio - si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua «diversità» - o meglio la sua «colpa di essere diverso» - resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della «diversità» delle minoranze. L'avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi - certo - il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori - certo - dal «ghetto» fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato.
Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive in vincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un «ghetto mentale», e guai se uscirà da lì.
Egli può uscire da lì solo a patto di adottare l'angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza.
Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere «tinta» dall'esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i li miti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l'esperienza sia un'esperienza normale, cioè maggioritaria.
Poiché siamo partiti dal nostro rapporto pedagogico (cioè, in particolare, da «ciò che sono io per te»), esemplificherò quanto ti ho detto un po' aforisticamente, attraverso un caso concreto che mi riguarda.
In queste ultime settimane ho avuto modo di pronunciarmi pubblicamente su due argomenti: sull'aborto, e sull'irresponsabilità politica degli uomini al potere.
Chi è a favore dell'aborto? Nessuno, evidentemente. Bisognerebbe essere pazzi per essere a favore dell'aborto. Il problema non è di essere a favore o contro l'aborto, ma a favore o contro la sua legalizzazione. Ebbene io mi sono pronunciato contro l'aborto, e a favore della sua legalizzazione. Naturalmente, essendo contro l'aborto, non posso essere per una legalizzazione indiscriminata, totale, fanatica, retorica. Quasi che legalizzare l'aborto fosse una vittoria allegra e rappacificante. Sono per una legalizzazione prudente e dolorosa. Cioè, in termini di pratica politica, condivido, stavolta, piuttosto la posizione dei comunisti che quella dei radicali.
Perché io sento con particolare angoscia la colpevolezza dell'aborto? L'ho detto anche questo chiaramente. Perché l'aborto è un problema dell'enorme maggioranza, che considera la sua causa, cioè il coito, in modo così ontologico, da renderlo meccanico, banale, irrilevante per eccesso di naturalezza. In ciò c'è qualcosa che oscuramente mi offende. Mi mette davanti a una realtà terrorizzante (io son nato e vissuto in un mondo repressivo, clerico-fascista).
Tutto ciò ha dato al mio discorso sull'aborto una certa «tinta»: «tinta» che proviene da una mia esperienza particolare e diversa della vita, e della vita sessuale.
Come cani rabbiosi, tutti si sono gettati su di me non a causa di quello che dicevo (che naturalmente era del tutto ragionevole) ma a causa di quella «tinta». Cani rabbiosi, stupidi, ciechi. Tanto più rabbiosi, stupidi, ciechi, quanto più (era evidente) io chiedevo la loro solidarietà e la loro comprensione. Perché non parlo di fasci sti. Parlo di «illuminati», di «progressisti». Parlo di persone «tolleranti». Dunque, ecco provato quanto ti dicevo: fin che il «diverso» vive la sua «diversità» in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati della tolleranza che gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di «diverso», oppure, semplicemente, osa pronunciare delle parole «tinte» dal sentimento della sua esperienza di «diverso», si scatena il linciaggio, come nei più tenebrosi tempi clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più goliardico, l'incomprensione più feroce lo gettano nella degradazione e nella vergogna.
Ebbene, caro Gennariello, alla gazzarra nata sulla questione dell'aborto ha fatto riscontro il più assoluto silenzio sulla questione degli uomini di potere democristiani. E, in proposito (sia ben chiaro), non ho fatto certo un discorso di comune amministrazione, cioè di costume... Ma, su questo punto, parleremo nel prossimo paragrafo, il cui tema sarà il linguaggio



Paragrafo quarto: come parleremo

27 marzo 1975

Dunque dicevamo l'altra volta che mentre sulla questione dell'aborto si è fatta una grande confusione, sulla questione dell'inettitudine - al limite del criminale - dei potenti democristiani, silenzio sepolcrale. Oppure trasformazione del discorso in un discorso corrente e noioso sul malgoverno e sul sottogoverno, magari con una oscura invocazione all'intervento dei comunisti, cioè a quel «compromesso storico» che altro non farebbe che codificare una situazione di fatto.
Vedi, Gennariello, la maggioranza degli intellettuali laici e democratici italiani si danno grandi arie perché si sentono virilmente «dentro» la storia: accettano realisticamente il suo trasformare le realtà e gli uomini, del tutto convinti che questa «accettazione realistica» sia frutto dell'uso della ragione.
Io no, invece, Gennariello. Ricorda che io, tuo maestro, non credo in questa storia e in questo progresso. Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l'individuo che le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua «accettazione realistica» è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti. È cioè il contrario di un ragionamento, anche se spesso, linguisticamente, ha l'aria di un ragionamento.
La regressione e il peggioramento non vanno accettati: magari con indignazione o con rabbia, che, contraria mente all'apparenza, sono, nel caso specifico, atti profondamente razionali. Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile.
Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano. Chi invece protesta con tutta la sua forza, anche sentimentale, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama quegli uomini in carne e ossa. Amore che io ho la disgrazia di sentire, e che spero di comunicare anche a te.
I più colpevoli nel non amare questi uomini degradati dal falso progredire della storia, sono, appunto, i potenti democristiani.
Lasciamo stare la prima fase del loro regime che è stata decisamente la continuazione del regime fascista; e veniamo subito alla seconda fase, quella in cui hanno continuato a esistere e ad agire allo stesso modo di prima, ben ché il potere che essi servivano non fosse più il potere paleocapitalistico (clerico-fascista), ma un nuovo potere: il potere consumistico (con la sua pretesa tolleranza). In questa seconda fase si è avuto un atroce seguito di stragi e di criminalità politiche. Ed è di questo che i potenti democristiani sono, nella fattispecie, anche formalmente colpevoli, perché i casi possono essere solo tre.
Primo: i potenti democristiani (o un gruppo di loro) so no i diretti responsabili o mandanti della «strategia della tensione» e delle bombe: lo scandalo del Sid starebbe a dimostrare inequivocabilmente la validità di tale ipotesi. E del resto essa è da leggersi anche tra le righe delle recenti - sia pure in altro senso esplicite - accuse di De Martino.
Secondo: se i potenti democristiani - pur non essendo affatto responsabili né direttamente né indirettamente delle stragi - non sapessero tuttavia tutto, o quasi tutto, o molto, o almeno un poco, su di esse, sarebbero degli incapaci che non si accorgono di ciò che accade sotto il loro naso.
Terzo: i potenti democristiani sanno tutto delle stragi, o quasi tutto, o molto, o almeno un poco, ma fingono di non saperlo e tacciono.
In tutti e tre i casi i potenti democristiani che in questi anni hanno detenuto il potere, dovrebbero andarsene, sparire, per non dire di peggio.
Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie.
Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quel lo di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare punto per punto tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l'Italia.
Invece, quasi tutti gli intellettuali all'opposizione accettano sostanzialmente quello che accettano i potenti democristiani. Essi non sono affatto scandalizzati dalla mostruosità della lingua dei potenti democristiani.
Il mio sogno, nel nostro rapporto pedagogico, caro Gennariello, sarebbe di parlare napoletano. Purtroppo non lo conosco. Mi accontenterò dunque di un italiano che non abbia nulla a che fare con quello dei potenti e de gli oppositori ugualmente potenti. L'italiano di una tradizione colta e umanistica: senza temere una certa «maniera», che in un rapporto come questo nostro è inevitabile.
I preamboli così sono finiti. La prossima volta ti delineerò sommariamente un abbozzo del piano dei nostri lavori - una specie di indice - e poi finalmente cominceremo le lezioni.
 

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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