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venerdì 22 gennaio 2021

Ignoti alla città

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Cecilia Mangini 
"Ignoti alla città" 
1958


Adalgisa Carella
14 giugno 1958



"Oltre la città nasce una nuova città, nascono nuove leggi dove la legge è nemica, nasce nuova dignità dove non c’è più dignità, nascono gerarchie e convenzioni spietate nelle distese di lotti, nelle zone sconfinate dove credi finisca la città, che ricomincia, invece, ricomincia nemica per migliaia di volte, in polverosi labirinti, in fronti di case che coprono interi orizzonti.
Essere poveri, essere umili, dormire in una cameretta in dieci, avere un padre con abiti di dieci anni, avere una madre che urla per la casa come i maschi, avere fratelli con cui parlare solo per litigare e bastonarsi, non sapere che il proprio rione, non avere che quattro sbandati amici, non riconoscere nessuna fede.
Non avere due soldi per il tram, strisciare i piedi sui selciati, sedersi sull’erba sporca e i cocci, consolarsi con l’essere spietati.
Essere caduti dal seno della madre sul fango e sulla polvere di un deserto che li vuole liberi e soli, essere cresciuti in una foresta dove i figli lottano coi figli per educarsi alla vita dei grandi, essere ragazzi in una città fatta per la pietà e la ricchezza, senza sapere altro che la propria fame.
Il lavoro: cento lire alla madre e cento lire per divertirsi. Non c’è altro che la voglia di divertirsi in cuore. La città è una sola tentazione.
Al ragazzetto di vita che sgobba per guadagnarsi qualche lira, non va di lavorare: è nato stanco.
Nessuno sa dei ragazzi di vita che anima leggera e allegra hanno. Essi sono cinici, troppo esperti, pronti a tutto, ma basta una maglietta e un paio di scarpini, perché si scopra che anche il più bullo trema.
Qualche furto, qualche rapina. Così finiscono qualche volta a Porta Portese, nella loro prigione. Là dentro si sfiatano dal fumare. I compagni fuori lo sanno che farebbero qualsiasi cosa per un pacchetto di sigarette".


P.P.Pasolini


Regia di Cecilia Mangini

Produzione: A. Carella
Soggetto: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa


Sceneggiatura: Cecilia Mangini

Commento: Pier Paolo Pasolini
Fotografia: Mario Volpi
Musica: Massimo Pradella



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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lunedì 11 gennaio 2021

Loriente di Pasolini - 'UN RAPPORTO FISICO CON LE IMMAGINI - Intervista a Beatrice Banfi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Le immagini sono di Roberto Villa 
Roberto Villa ha donato il suo archivio alla Cinteca di Bologna.


UN RAPPORTO FISICO CON LE IMMAGINI
Intervista a Beatrice Banfi 


Beatrice Banfi ha collaborato con Pier Paolo Pasolini come segretaria di edizione per oltre sette anni, dal 1968 al 1975, dalla lavorazione di Porcile a quella del suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, passando attraverso titoli quali Medea (1969), Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). Dopo la morte di Pasolini, ha lavorato, sempre come segretaria di edizione, con altri prestigiosi cineasti italiani come Marco Ferreri (Storie di ordinaria follia, 1981, e Storia di Piera, 1983) e Franco Brusati (Il buon soldato, 1982). Intorno alla metà degli anni Ottanta diviene aiuto regista e collabora ancora con Ferreri per Il futuro è donna (1984), quindi con Margarethe Von Trotta (Paura e amore, 1988; L‟africana, 1990; Il lungo silenzio, 1993) e con Michelangelo Antonioni e Wim Wenders per Al di là delle nuvole (1995).

Lei ha lavorato per molti anni accanto a Pasolini. Come ricorda la sua personalità e la collaborazione con lui?

L‟incontro con Pasolini è stato uno degli eventi più importanti della mia vita. Lo ammiravo come intellettuale e come artista e ritengo una fortuna aver potuto conoscere l‟uomo. Era una personalità unica, di una creatività e un‟energia inesauribili, ma era anche un uomo che aveva un rispetto profondo per gli altri, per le loro esigenze, per la loro realtà. Un rispetto che si esprimeva in tutte le sue parole e gesti, sempre accompagnato da una profonda sicurezza e determinazione. Immagino che dentro di sé avesse molti dubbi, ma come regista aveva trovato un suo stile, un suo metodo, anche per quanto riguarda la sfera pratica, che gli creava intorno un‟aura di rispetto spontaneo e immediato. Non dava mai il tu ma sempre il lei, a chiunque, me compresa. Era un piccolo espediente efficace e semplice per mantenere quelle distanze che il suo ruolo imponeva. In generale, mi ha sempre colpito la sua enorme pazienza, la tolleranza che aveva con la gente, che però non era mai debolezza o arrendevolezza. Anche perché era una pazienza motivata. Per esempio nel Fiore delle Mille e una notte aveva scelto come attori dei pescatori siciliani che ovviamente non sapevano nemmeno l‟abc della recitazione e li seguiva con una pazienza infinita. Non perché facessero dei gesti da attori ma perché si comportassero davanti alla macchina da presa con la stessa spontaneità che avevano nella vita.

Lei ha lavorato accanto a Pasolini fin dal 1968 e da

Porcile. Durante la lavorazione del Fiore delle Mille e una notte ha notato dei cambiamenti nel suo modo di dirigere la troupe? No, direi di no, aveva acquisito però una maggiore padronanza della tecnica rispetto ai tempi di Porcile. Cambiava sempre obiettivo dal 25 al 75, anche il 18 e preferiva fare l‟operatore di se stesso. Col 100 o 75 doveva usare il cavalletto. Eravamo diventati velocissimi a cambiare obiettivo e mi cimentai anch‟io per velocizzare i tempi. Pasolini aveva la necessità di un rapporto diretto, anche fisico, con le immagini che voleva riprendere e questo accadeva già da anni, ma durante le riprese del Fiore ancora di più. Era quasi sempre lui stesso alla mdp. Due anni dopo, quando girammo Salò, Pasolini fece sempre da solo le riprese. L‟esigenza che aveva Pasolini, sempre, era di non perdere tempo. Non voleva assolutamente sprecarlo e trasmetteva, con i suoi stessi movimenti, con l‟azione stessa direi, più che con le parole o gli ordini, questa esigenza prioritaria. Ricordo un aspetto di Pasolini che mi colpì durante le riprese del Fiore rispetto ai film precedenti: era felice in quei luoghi, felice come non l‟ho mai visto né prima né dopo (sul set di Salò, al contrario, dominava un clima di estrema tensione). Credo che provasse un piacere totale a vivere le giornate in quegli spazi, in quelle città, circondato da popolazioni che amava. Ricordo anche che rideva più spesso del solito. Era come pacificato, disteso, nel suo elemento, cioè immerso in un mondo popolare e antico che corrispondeva a quello che amava di più.

Immagino che sarà stato un film molto faticoso, per la lunghezza delle riprese, i viaggi, i disagi...

Sì, Il fiore è stato senz‟altro l‟impresa più epica che io abbia affrontato in vita mia. Il direttore di produzione, Mario Di Biase, ci aveva avvertiti che sarebbe stata una lavorazione difficile, che avremmo dovuto affrontare molti disagi. C‟erano anche Ferretti, il grande Ferretti, Umberto Angelucci, Shepherd, ovviamente il direttore della fotografia Ruzzolini. Danilo Donati invece era rimasto a Roma. Non credo che avrebbe potuto sopportare quell‟avventura. Partimmo da Roma che nevicava e la prima tappa fu l‟Eritrea, dove era caldissimo. Non avemmo neanche il tempo di abituarci al clima e riprenderci dal viaggio che iniziarono le riprese a Burji, un altopiano scomodissimo da raggiungere. Era uno dei tipici luoghi che Pasolini sceglieva, luoghi straordinari, ma impossibili. Quando ci arrivammo eravamo distrutti dalla fatica e dal caldo. Lì girammo la sequenza in cui Franco Citti, il demone, trasforma in scimmia Alberto Argentino, alias Shazhanmàn. Provammo sulle prime a truccare Argentino da scimmia ma non funzionava. Allora ricorremmo a una scimmia vera che però morì, poverina, e dovemmo sostituirla con un‟altra. Se si fa attenzione, nel film appaiono scimmie di dimensioni diverse e tutte interpretano Shazhanmàn trasformato... Ricordo che a Keren, in Eritrea, le piccole oasi nel deserto erano meravigliose. Improvvisamente ti trovavi in mezzo a una vegetazione favolosa e credo che Pasolini avesse scelto quei luoghi proprio per questo e il contrasto con il deserto.

Nelle fotografie di scena scattate in Eritrea, compare anche Sergio Citti, che però non è accreditato...

Sergio aveva già girato il suo primo film come regista e stava preparando il secondo, Storie scellerate. Venne per alcuni giorni in Eritrea ad aiutare per il casting. Inizialmente Pasolini avrebbe voluto girare anche in Nigeria tutto un blocco di storie. Ma aveva deciso di rinunciarvi, perché il film sarebbe venuto lunghissimo. Non era un pazzo che s‟impuntava, era molto saggio e attento ai problemi pratici. Dopo l‟Eritrea andammo nello Yemen e i disagi aumentarono. I viaggi per spostarci da una località all‟altra, prima l‟aereo (aerei non proprio tali da rassicurare...) poi la jeep, anche un giorno o due di viaggio. I viaggi erano pericolosi perché le linee aeree erano traballanti, e bisognava trasportare i costumi, le scenografie, quindi era davvero difficile. C‟erano molti disagi, era difficile mangiare e ovviamente alcuni della troupe protestavano, si lamentavano. Non erano abituati a quel genere di problemi, a quelle scomodità. Io ero giovane e talmente innamorata del progetto, che potevo soffrire qualsiasi difficoltà. La PEA aveva messo a disposizione una notevole larghezza di mezzi ma nello Yemen era appena finita la guerra e non c‟era niente. Devo dire che da parte di Grimaldi esisteva una fiducia incondizionata verso Pasolini e Mario Di Biase. Nemmeno sapeva dov‟eravamo, non interveniva mai, non chiedeva nulla. La produzione era forse la più discreta che io abbia mai visto. Non hanno mai fatto pressioni su nulla e ogni decisione è stata presa da Pier Paolo in totale autonomia.

Pasolini come affrontava i disagi?

Devo dire che ero sempre impressionata e ammirata dalla sua energia fisica. Non si lamentava mai. Ho visto gente disidratata e distrutta. Lui non l‟ho mai visto stanco, era indistruttibile. Non si fermava mai. Durante le pause, l‟avrò visto una volta o due rimanere assorto e non fare nulla, perché di solito leggeva o scriveva. Infatti viaggiava con una borsa stracolma di libri e la Olivetti piccola. Fisicamente, sembrava fatto solo di muscoli e ossa. Era però silenziosissimo, forse quello era il suo modo di riposarsi. Era concentratissimo sulle riprese, che lo assorbivano totalmente. Non perdeva mai le staffe. Non l‟ho mai sentito offendere qualcuno o alzare la voce. Al massimo diceva: "Che salame" e batteva i piedi per insofferenza. Ma non andava oltre. Insomma aveva un controllo assoluto di se stesso.

Come erano organizzate le giornate di ripresa?

Tolte quelle girate a Roma, le sequenze erano tutte con la luce naturale. Si giravano prima i primi piani poi le sequenze importanti all‟alba o al crepuscolo. Nello Yemen giravamo all‟alba. Verso mezzogiorno la luce non è più buona, troppo cruda. Alle tre del mattino si vestivano gli attori e le comparse e alle quattro e trenta, con le prime luci, si iniziava, per finire nel primo pomeriggio. Pasolini era velocissimo e sicuro, quindi non si perdeva mai tempo, si approfittava di qualsiasi momento. 

Che cosa ricorda delle riprese a Sana’a?  

Il contrasto fra la bellezza magica, incredibile della città, degli edifici, degli spazi e il fetore. L‟aria era irrespirabile perché i gabinetti erano fuori dalle case, poi c‟erano i cammelli ovunque con quello che lasciavano per strada e la gente non è che si lavasse molto, diciamo. Per andare avanti, tenevamo i fazzoletti davanti alla bocca. C‟era da svenire. Sorgevano sempre molte complicazioni e problemi continui, ma Di Biase era molto abile a facilitare il più possibile le cose, a scegliere le persone che potessero facilitarle. Ricordo che alcuni abitanti erano delle apparizioni magiche, per esempio le donne con gli abiti neri e sotto intravedevi l‟oro. A Hal Hudaydah, dove risiedevamo, mi accadde una brutta avventura. Avevo la febbre ed ero rimasta indietro rispetto agli altri della troupe. Sono passata dietro a una casupola. Fuori da ogni casa era appesa un‟anfora e anche lì ce n‟era una, quindi mi fermai per prendere un po‟ d‟acqua. All‟improvviso si è aperta la porta e sono apparse tre streghe che mi hanno trascinato dentro. Sono stati dieci minuti da incubo. Volevano trattenermi, mi ghermivano da tutte le parti. Scalciando e divincolandomi e picchiando con tutte le forze e anche col copione in mano, sono riuscita a fuggire. Ma ho avuto veramente paura. Evidentemente era un harem. Avranno visto questa creatura, per loro esotica, che girava da sola, a portata di mano, e avranno pensato di aggiungerla al serraglio umano. In Persia fu molto più comodo e ricordo le riprese realizzate nella moschea di Esfahan. C‟era il sostegno dello Scià e di sua sorella. Eravamo dei privilegiati. Dopo la Persia, Pasolini, Ferretti e Di Biase fecero un sopralluogo in Afghanistan e gli altri, me compresa, ritornarono a Roma. Ma pare che l‟Afghanistan non fosse piaciuto a Pasolini e vi rinunciò. Dopo avere fatto qualche ripresa a Roma, siamo ripartiti per il Nepal, dove si verificò anche un episodio molto spiacevole con una maestranza. In Nepal c‟era un‟atmosfera straordinaria ed è rimasta nel film, nella parte finale dell‟episodio di Shazhanmàn e in quella iniziale di Yunàn. In un primo tempo Pasolini avrebbe voluto girare anche in India, ma rinunciò. Dopo il Nepal girammo ancora a Roma agli stabilimenti della Dear alcune sequenze di interni della storia di Azíz e Aziza.

Intervista realizzata da Roberto Chiesi il 18 marzo e il 15 maggio 2011





Tratto dal volume pubblicato in occasione della mostra L’oriente di Pasolini. Il fiore delle Mille e una notte nelle fotografie di Roberto Villa 26 maggio - 7 ottobre 2011, Sala Espositiva Cineteca di Bologna a cura di Roberto Chiesi
© 2011 Edizioni Cineteca di Bologna via Riva di Reno 72 40122 Bologna

Le immagini, per gentile concessione di Roberto Villa.

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Curatore, Bruno Esposito

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L'oriente di Pasolini - IL MIO LUNGO VIAGGIO

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Le immagini sono di Roberto Villa
Roberto Villa ha donato il suo archivio alla Cinteca di Bologna.
 
 


IL MIO LUNGO VIAGGIO

È stato il mio tentativo più ambizioso, quello che mi è costato più attenzione formale e impegno stilistico. È facile il film politico-ideologico. Assai più difficile è fare il film puro, ricercare la pura affabulazione come nei classici, tenendosi fuori dalle ideologie ma evitando al tempo stesso di cedere all'evasione. Più di un elemento ideologico è nascosto in questi miei tre film: il principale è la nostalgia di quel passato che ho cercato di ricreare sullo schermo. Visti dall'interno, visti da me, devo dire che questi miei ultimi film, i film della Trilogia della vita costituiscono per me un'esperienza affascinante. L'enorme maggioranza dei racconti delle Mille e una notte consistono in un viaggio. Quando il racconto è talmente breve da non consentire la possibilità della descrizione di un vero e proprio viaggio, allora si tratta di un aneddoto successo a un viaggiatore: e quindi, anche se il racconto è tutto lì, in quel crocevia, in quel mercato, siamo comunque in un "altrove‟. I viaggi delle Mille e una notte sono sempre l'effetto di un'iniziale anomalia del destino. Tutto è normale: il destino è normalità: ed ecco che succede la cosa inaspettata: il destino si „manifesta‟ improvvisamente in modo anormale. Si tratta di una forma parzialmente dissacrata e, in genere, scherzosa, di ierofania. La normalità è così interrotta dall'intervento del Dio (o del suo Meccanismo, il Destino), e alla prima anomalia ecco che ne segue un'altra. Nasce una catena di anomalie. E questa catena si dispone poi narrativamente secondo lo schema del viaggio, ossia lo schema della conoscenza e della conquista dell'‟altrove‟. L'eroe è destinato a ritornare; e a ritornare, per la precisione, alla normalità. Però ci ritorna evidentemente diverso. La sua scoperta dell'‟altrove‟ è stata una forma di iniziazione. Anche il mio film Il fiore delle Mille e una notte è un lungo viaggio, e l'eroe (o gli eroi) sia pure molto passivamente, hanno il passo eroico di chi si sottopone a una grande prova. Lo schema strutturale del „viaggio‟ era anche lo schema di Uccellacci e uccellini; e, se si vuole, anche lo schema del Vangelo (il viaggio verso Gerusalemme): tanto che, infatti, tutto realmente comincia con l'inizio del viaggio di Cristo ("Cristo alla sua prima uscita sembrava un pittore che per la prima volta nella storia della pittura andasse a dipingere "au plein air", mi ha detto Roberto Longhi a proposito di questa scena del Vangelo: e queste sue parole me le tengo chiuse e care in fondo al cuore come un inestimabile tesoro). Ora, finite le Mille e una notte sono incerto tra due progetti: il San Paolo, e un film sull'Ideologia. Il San Paolo significa i "viaggi‟ di San Paolo: sarà dunque anche questo un film di viaggi. Ma per San Paolo l'iniziazione è già avvenuta, fulminea: egli è nato per la seconda volta, cioè è veramente nato, sulla strada di Damasco (in viaggio!). I viaggi successivi sono viaggi organizzativi, o elettorali, o catechistici. Perciò sono viaggi antipatici. Il mio film su San Paolo è infatti un film contro la Chiesa (fondata da San Paolo, non dal buon San Pietro). Ai viaggi di San Paolo prete si contrappone l'immobilità del San Paolo santo. Il film è dunque anche la rappresentazione di una dissociazione: netta fino alla schizofrenia. Da una parte il fondatore della Chiesa, forte, vitale, sicuro di sé, fanatico (e quindi odioso), e dall'altra l'umile creatura "rapita al Terzo Cielo", malata, debole, tormentata dal problema di Dio. Ma anche l'altro progetto, quello sull'Ideologia, è la storia di un grande viaggio. Una cometa (l'Ideologia) trascina dietro a sé un Re Magio, il quale seguendola, viaggia a lungo, facendo dunque esperienza dell'intera realtà, da un "altrove‟ all'altro. Napoli, Roma, Milano, Parigi: che sono metafore, però, di altre città, archetipe. Non so, ripeto, quale dei due film farò per primo. Sostanzialmente però, so appunto che rappresenterò dei viaggi: proprio adesso che giunto verso la conclusione dei miei viaggi, non sono nello stato d'animo, certo, di chi ricorda, né, per la verità, di chi ha imparato qualcosa. 

Pier Paolo Pasolini
"Tempo illustrato", 31 maggio 1974





Tratto dal volume pubblicato in occasione della mostra L’oriente di Pasolini. Il fiore delle Mille e una notte nelle fotografie di Roberto Villa 26 maggio - 7 ottobre 2011, Sala Espositiva Cineteca di Bologna a cura di Roberto Chiesi
© 2011 Edizioni Cineteca di Bologna via Riva di Reno 72 40122 Bologna
Le immagini, per gentile concessione di Roberto Villa
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sabato 9 gennaio 2021

Adele Cambria, Diario di Accattone - La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961



Adele Cambria, Diario di Accattone
La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961


La vestaglia, lavata, rilavata, uno straccio: ma la sporcizia dura, è ormai intessuta dentro. Sotto il petto, una spilla di sicurezza. La sarta, bonacciona, con preoccupazioni igieniche, mi dice che ha bollito ogni cosa… Sarebbe facile, dunque, l’ironia su questa miseria ricostruita con accanimento, con dolcezza, e Pasolini che fa addobbare di altri stracci i bambinetti che le madri gli hanno portato, qui, in via Tiburtina, mirabilmente vestiti a festa. Lui, inesorabile, gentile, condanna le sottovesti piccolissime di nylon, le sottane di panno blu coi pupazzi, le giacchette a uomo, dei maschi, con la cravatta a farfalla della Prima Comunione. Si stanno girando alcune scene del primo film diretto dallo scrittore: Accattone (o Stella, come piace di più al produttore). Io sono Nannina. Pasolini, una volta che ero andata a chiedergli un’intervista, mi ha detto che ero Nannina: dunque, se volevo lavorare nel film. Diceva: “Lei ha la faccia di Nannina”. Ora, come è normale, mi incuriosiva quest’altra mia faccia che non sospettavo di avere. Ho letto la sceneggiatura: “…Nella stanza c’è anche un’altra donna, piccola come una gatta, Nannina la Napoletana, con i suoi cinque figli, il più piccolo le sta attaccato al petto…”. Ed ancora: “…Nannina, spaventata dal fatto che qualcuno la chiami, come se non avesse il diritto di essere chiamata, ecc.”. Poi le battute che il Napoletano mi dice: “Beh, Nannì! Vuje site ‘na femmina oro dieciotto! Voi siete una femmina intrepida!”. Esattamente il tipo di donna che mi ha fatto, da sempre, compassione e rabbia: che ho odiato, nella sua soggezione meridionale (schiavitù devota, animalesca, verso i figli, verso un marito almeno irriconoscente, e fatica, botte, tradimenti, ogni cosa accettata come naturale).
Questa Nannina del film è una sposata forse a quattordici-quindici anni, e da allora, un figlio dietro l’altro, con il marito fuori e dentro dal carcere, che sfrutta un paio di prostitute eccetera.
E lei, salda, con questa cintura di figli intorno, che la divorano, a faticare, ad aspettare. Chi sa mai perché sono io che ho la faccia di Nannina, pensavo, certamente, puerilmente offesa: si vede che il Sud – poiché sono meridionale – rimane attaccato alle ossa. Allora ho detto di sì: e soprattutto mi incuriosiva quest’esperienza, di vedere girare un film dall’interno: e mi divertiva, proprio nel senso di distrarmi, per l’assoluta irresponsabilità del mio compito, il non rischiare nulla – poiché faccio un altro mestiere – interamente affidata ad altri.
Negli stabilimenti cinematografici della De Paolis, sulla Tiburtina, si girano le scene della baracca. Mi tirano i capelli lisci dietro, con molte rozze forcine, niente trucco, ed i cinque bambini che non ne vogliono sapere di starsene attaccati a me.
Anche il piccolo, di otto mesi, che devo tenere sulle braccia, piange e sbava con gargarismi allucinanti; e mi sembra una specie di buffa, dispettosa rivincita sull’idea che il regista ha della mia faccia: madre inesausta intorno alla quale i bambini vengono come mosche al miele…
Il più piccolo ha la testa che gli scotta come ferro da stiro.
Dico alla madre: “Ma ha la febbre”. Lei prima dice che non è vero, poi mi supplica di non parlarne a Pasolini, se no ne prendono un altro. “Ma la pagano lo stesso”, dico. Inutile, vuole restare. Mi sento colpevole. Pasolini ha la pazienza – e la crudeltà – di un santo. Con tutti questi bambini che strillano (ce n’è uno, Roberto, di tre anni, che mi annuncia: “Mo’ io te meno”, e subito incomincia una giostra di calci e pugni): con le madri, che li riempiono di baci e sberle, perché siano buoni e si lascino fare la fotografia: “che gliela mandiamo allo zio in Australia…”, dice una.
[…] Franco Citti ‒ Accattone ‒ sta qui ora a recitare, “ tutto bello e malandro”, come lo descrive Pasolini nella sceneggiatura: con un cuore d’oro appeso al collo, che gliel’ha fatto Maddalena, ed anche gli anelli, che gli incrostano d’oro la mano, e il bracciale, il maglione bianco e tutto. Maddalena (Silvana Corsini) sta distesa su un lettone putrido, con la gamba fasciata, i capelli neri, come serpi, sulle spalle magre: io, Nannina, sto da un canto, nella baracca, con i quattro bambini che alla fine si sono decisi a farsi la fotografia, ed il più piccolo in braccio, che strilla, ossessivo. Ciak, azione, si gira: l’operatore Delli Colli sistema la macchina da presa, una ‘bandiera’ (cioè un tendone nero stinto) è messo fuori della porta, perché non venga dentro troppa luce: un solo ‘gruppo’ da ottomila, poche carrellate. Accattone traversa la stanza con passo indolente: sembra un ragazzetto, smilzo e impavido, ma è già sui ventisei anni: scarpe a doppia suola, abbronzatura, e le rughe che gli bruciano improvvise la pelle, intorno agli occhi, alla bocca piccola, quando parla. Pasolini gli suggerisce le battute […].
La scena, per girarla, si divide in due parti. Prima, la macchina da presa punta Accattone, poi si sposta su Maddalena, vestita di giallo, in mezzo al gran letto, spaventata e becera, e giovane.
È lei, per ora, la donna di Accattone: quella che va “a produce”, la notte, sul viale delle Mura Ardeatine: quella che lo ricopre di povero oro, come usano le prostitute col magnaccia, e gli permette di tenere la “mille e quattro” di seconda mano. Ma oggi Maddalena non può andare a lavorare, perché una motocicletta l’ha investita e buttata per terra. […]
Un altro giorno, che giriamo, la baracca è uguale, mezza vuota, con solo il lettone e la cucina economica e il quadro della Vergine, stile novecento, col Bambino piccolo sproporzionato, che pare un sandwich che lei si stia ad imboccare. Ma oggi la donna di Accattone è un’altra: è Stella.
Io, Nannina, ci sono sempre, faccio parte dell’arredamento, coi cinque figli intorno; Accattone, dopo che m’ha fatto andare in galera il marito, m’ha portato qua a casa sua; Maddalena guadagnava abbastanza per tutti (cioè da mangiare una volta al giorno anche per me e i bambini…). Ed ora, Stella? Stella è d’altra razza. Una che lavora: tutto il giorno a ‘capare’ le bottiglie vuote della Coca -Cola e del Chinotto, ammucchiate a montagnola nei depositi della borgata. Le danno ottocento lire. […]
E questa è la scena, come l’ho vista dirigere da Pasolini, con gentilezza, con pazienza: io a calar giù i materassi, sul letto, e Stella davanti a una pentola, dove i macchinisti hanno buttato il ghiaccio secco ‒ nell’acqua calda bollente ‒ perché ne esca il vapore, come della pasta che cuoce.
Le prime cure del regista sono per Stella. Pasolini e l’aiuto ‒ Bernardo Bertolucci ‒ si preoccupano di come la ragazza debba essere vestita, qui in casa. Un grembiule nero lucido, ma bisogna tagliarli via le maniche perché è estate: un’appiccicosa estate romana, “ … in quel mondo ‒ di borgate tristi, beduine ‒ di gialle praterie sfregate ‒ da un vento sempre senza pace…”.
In testa, Stella porta un fazzoletto, ma annodato basso sulla fronte per proteggere i capelli dalla polvere, ora che sta facendo le pulizie. E il timore ‒ quasi infantile ‒ di Pasolini è che la ragazza ‒ Franca Pasut ‒ non si dia troppo cerone sul viso. Anzi al principio aveva detto nulla, né segni di lapis intorno agli occhi, né palpebre blu: e si sforza di spiegare, alla Franca, come il suo modo di camminare deve essere sciatto, proprio senza nessuna civetteria. Gli occhi di questa ragazza sono celesti trasparenti, il corpo ampio e placido, il viso appena sbozzato e d’una naturale allegria: e forse l’aiuta a sorridere, con tanta ovina dolcezza — come direbbe Moravia — il fatto di essere friulana…
‒ Ah Vittò, e che t’hanno fatto?
È la prima battuta di Stella, in questa scena. (Lei, Accattone lo chiama col suo nome vero: Vittorio). Poi la ragazza attraversa la stanza: “Più sciatta le dice Pasolini ‒ non come Marilyn in Niagara, devi essere magari un po’ buffa…”. Va ad accendere la luce, che è già sera. L’operatore Delli Colli prepara il primo piano. (Dreyer, e la sua Giovanna d’Arco, sono i modelli citati più di frequente, da Pasolini).
[…] È sabato sera, incomincia l’estate, sul mare di Ostia ‒ buio come un dirupo ‒ sì riaprono le terrazze del Calypso; Sergio, Franco, sono in grana: finite le riprese, il mille e quattro ansimante raspa la ghiaia dei cortile, tra le baracche della De Paolis, e si parte. Er Mohicano, Bachino, appoggiati a un muro, sono rimasti a guardare: i giovani non li hanno voluti insieme, per la notte. Anche Pasolini torna a casa, a Monteverdevecchio: la sua faccia è consumata, più di sempre, è difficile parlare, è goffa la domanda: fino a che punto sia legittimo ad uno scrittore sfruttare impietosamente la realtà, derubare gli altri di se stessi…
“Non so” dice Pasolini “a me sembra di avere sempre pagato abbastanza…”
Allora, le domande ai poeti sono inutili.
.
© Adele Cambria in «La Palatina: rivista di Lettere e Arti», n.18, aprile-giugno 1961. Rivista fondata a Parma nel 1957 e chiusa nel 1966. Trascrizione a cura di Laura Arconti pubblicata su «Notizie Radicali»:

https://poetarumsilva.com/2018/07/14/prosabato-adele-cambria-diario-di-accattone/#more-64039



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Pasolini: "Non rinuncerò mai a nulla per la reputazione" - I fatti del Circeo - Bernardino, fratello di Benedetto, Vie Nuove 28 dicembre 1961

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





BERNARDINO, FRATELLO DI BENEDETTO

I fatti del Circeo
Vie Nuove 28 dicembre 1961  



Caro Pasolini ho saputo delle sue ultime traversie, ho letto le cronache riportate dalla stampa, compreso il servizio di F. Calderoni sul rotocalco «Tempo», compresi i reportages tutti intrisi di insinuazioni e sottintesi dei giornali scandalistici e alla fine io, che sono un suo sincero ammiratore, devo muoverle un rimprovero: la sua posizione autodifensiva è inopportuna e inadeguata. Secondo me lei non avrebbe dovuto arroccarsi in difesa, e per giunta con un tono così rassegnato e dimesso. In questo modo l'impressione che ne è derivata è che lei si senta disarmato, quasi preda di un complesso di inferiorità. Il caustico e mordace Pasolini che con quattro concise e serrate argomentazioni ti demolisce D'Annunzio, che con una indagine spietata (e calda di umanità) mette a nudo brutture e assurdità storiche, smaschera ipocrisia e conformismo, ondeggia e tentenna ora di fronte a un qualunque Bernardino, fratello di Benedetto? Anche le sue dichiarazioni parigine, pervase di spirito evangelico, non mi sono piaciute.
Nell' intervista concessa al Calderoni lei si mostra perfino dubitoso se si tratti di un episodio da inquadrare nella campagna orchestrata contro di lei! Ma sicuro che lo è! Lei sa bene che è una delle persone più odiate in Italia, da certi gruppi di opinione: lei è odiato in primis da quegli scrittori falliti che non possono rassegnarsi al suo successo; lei è odiato dalla passionalità bruta e irrazionale dei fascisti, dal grigiore servile dei cosiddetti benpensanti. Cerchi tra costoro i suoi persecutori e li inchiodi al muro: i mezzi non le mancano.
Io capisco la sua amarezza e il suo disarmo polemico, al cospetto di tanta perfidia, ma si renda conto che qui si tratta di lotta per sopravvivere. Questa gente non le darà tregua, finché non l'avrà distrutta. I più indulgenti di loro tirano in ballo il Villon, l'Angiolieri, il Cellini, Verlaine, Rimbaud. Non so se questi accostamenti le piacciono: per me, possono essere edificanti dopo la morte, ma non quando si gode ancora «il dolce lome».
Prof. Decio Buzzetti - Conselice (Ravenna)

@FONDO VINCENZO VICARI
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Sì, caro e vero amico: io ondeggio e tentenno davanti a un qualunque Bernardino, fratello di Benedetto. Cosa dovrei fare contro di lui? Odiarlo? Non c'è alcuna proporzione tra quella misera creatura e l'odio. Proprio non ci riesco. I miei avvocati, come lei, tendono a supporre che sia un «comprato»: e ci sono degli elementi per sostenerlo. Per esempio, le dirò una cosa - un piccolo particolare- che finora non mi è mai venuto in mente di dire, nelle dichiarazioni che mi son state richieste. Il giorno dopo il mio arrivo al Circeo, mi ero fermato davanti al famoso spaccio-trattoria: ancora non avevo individuato i ristoranti del posto (al Circeo, ero a lavorare in una villetta privata, dove naturalmente, non potevo farmi da mangiare da solo ... ), e credevo che lì si mangiasse.
Al solicello, oziava, col suo grembiulone, il Benedetto (almeno suppongo fosse lui). A lui chiesi se si mangiava, nel suo localetto assolato. Mi guardò e negò. Vi si mangiava solo la domenica, all'inverno. Me ne andai, salutandolo: cercai altrove il pasto, per l'antipatica-splendida Baia d'Argento. Ero stato visto, dunque. E del resto, lì davanti, per circa due settimane, ci sono passato almeno due volte al giorno, sempre prima e dopo i pasti, con la mia infelice Giulietta. Quel pomeriggio (ero solo, il mio collaboratore, Sergio Citti, qualche volta se ne andava a fare, come dicono a Roma, la pennichella), mi fermai a bere una coca -cola.
Tutto dunque si può sostenere. Ma la mia prima reazione, appena ho saputo della denuncia (era il giorno della prima a Roma del mio Accattone} è che Bernardino fratello di Benedetto, sia semplicemente una povera creatura in preda a una nevrosi: uso nevrosi per indicare con un termine clinico generico una forma comunque patologica della psicologia del giovane. I termini con cui egli ha dettato ai carabinieri il verbale hanno tutte le caratteristiche dell'allucinazione. Sembrano scritti per un manuale. Pensi: sarei stato tutto vestito di scuro (mentre indossavo un giubbotto di renna chiaro), avrei avuto un cappello in testa (in tutta la mia vita non mi sono messo mai un cappello in testa neanche per provarlo, eccettuate due o tre settimane nel 1938 a Bologna ... ), mi sarei infilato dei guanti neri, e avrei estratto una pistola cercando di avvicinarmi al cassetto. Ci sarà a Conselice qualcuno che ne sappia un po' di psicologia. Gli chieda che ne pensa .. . Le sembra possibile che qualche fascista abbia suggerito a quella povera creatura una simile follia?
Tuttavia, nel dubbio - o comprato o allucinato - per me è la stessa cosa. Provo dei momenti di esasperazione (che le lascio immaginare) contro di lui: ma arrabbiarmi sul serio, non posso. Le ripeto, non c'è proporzione. L'oggetto della mia eventuale ira o protesta è un misero Bernardino che non esiste: non è che un ringhio, una ecolalia, una incontrollata sete di chissà che rivalse ...
Un giorno camminavo per una cittadina dell'India: era una terribile periferia, inabissata nelle ultime luci del tramonto. Chi chiacchierava, chi dormiva già per terra, sui sassi fetidi, chi aveva la forza di scherzare, avvolto nei suoi stracci bianchi. Io tornavo verso l'albergo, tutto perduto, fuori, in quell'ora atrocemente leopardiana ai margini di Agra, e tutto perduto, dentro, a cercare di fissare poeticamente quelle immagini. La cosa accadde improvvisa. Qualcosa mi afferrò al tallone, e subito allentò la stretta: feci appena in tempo a voltarmi, coi capelli dritti in testa: era un cane, un piccolo nero cane, malato, folle, disperato, digiuno, furente. Mi morse, per fortuna sul cuoio della scarpa, e scappò. E scappando, continuava a abbaiarmi contro, con furia ostinata, imposseduta. Perché mi aveva morso? Mi si era avvicinato piano piano, non visto: non avevo fatto un gesto, un passo, non avevo detto una parola. Mi aveva morso proditoriamente, senza neanche un perché di specie canina ... Nessuno intorno si mosse: erano abituati, gli abitanti di Agra, ai loro cani... Il terrore rende cattivi. La debolezza feroci. La privazione malvagi. I cani indiani, dico. Ma anche i cristiani, qualche volta: quando il terrore atavico (millenni di malaria, per esempio, e di banditi armati, e di rapine - anche recenti), la debolezza e la privazione coincidono.
Non ho mai scritto un epigramma contro il cane indiano, e non ne scriverò mai uno contro Bernardino De Santis e i suoi famigliari.
Ma scriverò contro i veri responsabili di questo caso: i redattori e i giornalisti del «Tempo» e degli altri giornali fascisti. Scriverò, e ho già scritto. Dei versi, naturalmente. Scrivere dei versi non è così facile come scrivere un articolo. Per tante ragioni ... Una di queste è che gli articoli scritti sul fatto del Circeo sono totalmente basati sul nulla, e quindi scritti in completa e cosciente malafede: mentre i versi in risposta hanno dovuto (e dovranno) basarsi sulla mia totale presenza, sulla fisica concretezza di un atto di angoscia, di sdegno e di ira, e sono stati scritti (e saranno scritti) in assoluta e imprescindibile buonafede.
Questi versi lei li potrà leggere o in qualche rivista letteraria (per esempio, «Paragone»), o in volume: nel mio prossimo volume, che ha già un titolo: La persecuzione (titolo che del resto risale a quest'estate: il Circeo ancora non c'entrava). Spero che allora si ricrederà sulla mia reazione che lei chiama «rassegnata e dimessa». È questione di metodo, no?
O vorrebbe che mi mettessi al loro livello? Chi dice di difendere la famiglia, e fa il calunniatore, chi dice di amare la Patria e fa il ricattatore, chi dice di credere in Dio e fa la spia, non merita che gli venga rivolta la parola, neanche attraverso gli avvocati.- - -
Ah, il dolce lome! Si, si, lei ha ragione: finché si gode ancora il dolce lome è bene avere una buona reputazione, ma è proprio il dolce lome che fa vivere secondo ragione e secondo passione... Ha capito la litania?
Non rinuncerò mai a nulla per la reputazione. Io spero che coloro che mi sono amici, o personali, o in quanto lettori, o come compagni di lotta {e nei cui occhi, lo so, cala un'ombra, ogni volta che la mia reputazione è in gioco: un'ombra che mi dà un dolore terribile) siano così critici, così rigorosi, così puri, da non lasciarsi intaccare dal contagio scandalistico: se così fosse, gli sconfitti sarebbero loro: se solo cedessero per un attimo e dessero un minino valore alla campagna dei nemici, essi farebbero il gioco dei nemici. Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell'intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti. lo non ho nulla a che fare, né psicologicamente, né biograficamente, né stilisticamente con i poeti, pur grandi, che lei ha citato: solo il mostro fascista può suggerire simili ipotesi. E le suggerirà. Ma, ad ascoltarle, non si fa altro che perdere tempo e dignità.
Vie Nuove n. 5 1 , 28 dicembre 1961  

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venerdì 8 gennaio 2021

Pasolini prima e dopo, Il sogno di una cosa. Giancarlo Vigorelli, Tempo 7 luglio 1962

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Tempo, 7 luglio 1962 - Pasolini prima e dopo

Pasolini prima e dopo, 
Il sogno di una cosa. 

Giancarlo Vigorelli, 
Tempo 7 luglio 1962



Tempo, 7 luglio 1962 - Pasolini prima e dopo
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