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Omicidio Pasolini - Corte di Cassazione 26 aprile 1979

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Omicidio Pasolini 
Corte di Cassazione 26 aprile 1979

Svolgimento del Processo Nella notte tra l'I e il 2 novembre 1975 fu ucciso al Lido di Ostia Pier Paolo Pasolini.
Il corpo, rinvenuto al mattino su una strada di fondo naturale conducente a uno spiazzo in parte occupato da un rudimentale campo di calcio, presentava gravi ferite alla testa e al torace. Sotto di esso furono rinvenuti frammenti di legno insanguinati; a pochi metri un anello con la scritta 'United States Army" e una ciocca di capelli; più oltre, verso Io spiazzo, un paletto macchiato di sangue; infine, a 90 metri dal corpo, dietro la porta di sinistra del campo di calcio, gettati tra i rifiuti, due pezzi di una tavola rotta e una camicia di lana, macchiati anch'essi di sangue. Furono rilevate altresì tracce continue di pneumatici di autovettura che, partendo dai pressi della porta, raggiungevano direttamente il cadavere e proseguivano oltre.
Frattanto, all'una e trenta della stessa notte una pattuglia di Carabinieri aveva fermato un giovane, poi identificato per il diciassettenne Giuseppe Pelosi, che, sorpreso mentre guidava a forte velocità e contromano un'autovettura Alfa 2000, non si era arrestato all'alt. In caserma il giovane ammise di aver rubato l'auto (che risultò appartenere al Pasolini) e aggiunse tra l'altro di aver smarrito un anello (che dalla descrizione fattane risultò corrispondere a quello rinvenuto presso il cadavere).
Interrogato poche ore dopo dal magistrato, il Pelosi confessò di aver ucciso il Pasolini, sostenendo di aver agito per legittima difesa, dopo essere stato aggredito per essersi rifiutato di sottostare a una prestazione sessuale. Descrisse minutamente le vicende di quella notte, dall'incontro col Pasolini, verso le ore 22, presso la Stazione Termini, all'invito da lui ricevuto (dei quale aveva ben intuito lo scopo), alla cena offertagli in una trattoria presso la Basilica di San Paolo, alle manovre tentate dal Pasolini dopo che avevano raggiunto lo spiazzo isolato alla periferia di Ostia, all'aggressione subita mentre cercava di sottrarvisi, alla sua viva reazione, protratta fino a quando aveva visto l'uomo cadere a terra rantolante, alla fuga – infine – con l'autovettura del Pasolini, durante la quale non si era accorto di essere passato sopra il corpo dello scrittore. Precisò che durante i fatti erano stati sempre soli, lui e il Pasolini.
In base agli elementi acquisiti si procedette contro il Pelosi per i delitti di omicidio, atti osceni e furto aggravato.
Nel corso dell'istruzione furono disposte, tra l'altro, due perizie medico-legali, l'una per accertare le cause della morte del Pasolini e i mezzi che l'avevano prodotta, l'altra per accertare le lesioni riportate dal Pelosi.
Risultò dalla prima che la morte del Pasolini era stata determinata da rottura del cuore, con emopericardio, causata dalla compressione esercitata sul torace dal passaggio del l'autovettura, che aveva cagionato la frattura del corpo sternale e di numerosi elementi costali. Dalla seconda risultò che, a prescindere dalle numerose dolenzie accusate dal Pelosi, l'esame obiettivo aveva consentito di riscontrare solo una ferita alla regione frontale e alcune contusioni ed escoriazioni di limitata entità in varie parti del corpo.
Altra perizia fu successivamente disposta per accertare se il Pelosi fosse capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Le conclusioni dei periti furono negative.
Ampie indagini furono inoltre svolte per accertare se col Pelosi – contrariamente al suo assunto – avessero concorso nei fatti altre persone.
Con sentenza del 26 aprile 1976 il Tribunale per i minorenni dichiarò il Pelosi colpevole di omicidio volontario, commesso in concorso con altre persone rimaste ignote, nonché dei delitti di atti osceni e di furto aggravato, e, con la diminuente della minore età e le circostanze attenuanti generiche (ritenute per il furto equivalenti alle aggravanti), lo condannò alla pena complessiva di anni nove, mesi sette e giorni dieci di reclusione e lire 30.000 di multa.
Contro la sentenza del Tribunale proposero appello il Procuratore generale e l'imputato. Entrambi denunciarono la nullità della decisione per difetto di correlazione con l'accusa contestata. Per il Pelosi furono inoltre formulate le seguenti conclusioni:
«Assolvere l'appellante dai reati di atti osceni e di furto con la formula più ampia, ovvero per insufficienza di prove: assolverlo dall'imputazione di omicidio volontario per legittima difesa oppure per insufficienza di prove sul fatto o sul dolo; ritenerlo semmai colpevole di omicidio preterintenzionale o colposo e condannarlo al minimo della pena unificando i reati; riconoscere all'imputato le attenuanti di cui agli artt. 62 n° 1, 2, 5 e 62 bis, tutte prevalenti su qualsiasi aggravante; dichiarare l'imputato non punibile perché immaturo; ordinare la rinnovazione totale o parziale del dibattimento; concedere tutti i benefici di legge».
Specifiche impugnazioni furono contestualmente proposte contro alcune ordinanze pronunciate dal Tribunale nel corso del dibattimento.
La Sezione per i minorenni della Corte d'appello di Roma, con sentenza del 4 dicembre 1976, assolse il Pelosi dall'imputazione di atti osceni, mentre confermò le statuizioni della sentenza di primo grado relative agli altri due reati (omicidio e furto) ascritti al Pelosi, secondo "l'originaria imputazione" (non menzionante il concorso di ignoti).
Avverso tale decisione il Pelosi ha ritualmente proposto ricorso per Cassazione, a sostegno del quale sono stati presentati motivi, nei termini, dal difensore di fiducia.
Motivi della decisione 1. È opportuno premettere che il giudizio di questa Corte è limitato – nell'ambito delle funzioni di mera legittimità attribuitele – all'esame e alla soluzione delle questioni ad essa ritualmente sottoposte con i singoli specifici motivi di ricorso prodotti nell'interesse del Pelosi, unico ricorrente.
Ne restano escluse pertanto le varie e a volte complesse questioni, trattate ampiamente nelle fasi di merito, che non sono state riproposte in questa sede.
Nell'esposizione che segue saranno dunque esaminate specificamente le singole doglianze formulate nei sei motivi di ricorso prodotti, con i quali la decisione impugnata è stata censurata – sotto il profilo del vizio di motivazione – in ordine ai punti concernenti:
a) la rinnovazione del dibattimento;
b) la ricostruzione dei fatti;
e) la volontà omicida e l'eesimente della legittima difesa;
d) le circostanze attenuanti;
e) la capacità di intendere e di volere;
f) la qualificazione giuridica del furto.
2. Con il primo motivo di ricorso viene testualmente denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. in riferimento all'art. 520 C.p.p., per erronea, contraddittoria e mancante motivazione. Si sostiene, in particolare, che «la Corte d'appello ha erroneamente ritenuto la inutilità della rinnovazione del dibattimento, cadendo in contraddizioni e omettendo una adeguata motivazione». E si segnala – a spiegazione della censura – che la Corte «mentre esclude la possibilità, anzi la necessità, di integrare l'indagine», si chiede poi, d'ufficio, «se non esista la possibilità di una qualche utile estensione dell'istruttoria dibattimentale».
La doglianza non appare fondata. Non si ravvisano, invero, sul punto, nella sentenza impugnata, i denunciati vizi di "mancanza" e "contraddittorietà" della motivazione che ne giustificherebbero l'annullamento. [...]
Ma a tale obbligo la Corte di merito non si è certamente sottratta. Essa ha infatti esaminato minuziosamente l'istanza di rinnovazione del dibattimento in relazione alle singole specifiche richieste (acquisizione del libro Le giornate di Sodoma; acquisizione dei fascicoli intestati al Pasolini eventualmente esistenti presso gli organi di polizia; ripetizione del sopralluogo; nuova assunzione di testimoni; ecc.), e in relazione a ciascuna ha esaurientemente esposto le ragioni del mancato accoglimento, chiarendo di volta in volta la ritenuta inutilità, inefficacia o irrilevanza dei mezzi indicati, la genericità di alcune istanze, il contrasto di altre con la tesi difensiva.
Contro la completa e sistematica enunciazione delle ragioni per le quali la Corte ha ritenuto di non poter accogliere la richiesta di rinnovazione del dibattimento, nessun argomento critico specifico è stato addotto dal ricorrente a chiarimento della generica censura di mancanza di motivazione, la cui infondatezza risulta evidente.
Né ha maggior fondamento la censura di contraddittorietà, fondata sul preteso contrasto tra la reiezione della richiesta della difesa e il quesito postosi d'ufficio dalla Corte circa l'eventuale «possibilità d'una qualche utile estensione dell'istruttoria dibattimentale», quesito risolto anch'esso – dopo accurata analisi – negativamente. Invero, col rigettare l'istanza difensiva di rinnovazione del dibattimento la Corte ha affermato – e dimostrato – l'inutilità di quegli specifici mezzi di prova che l'appellante aveva richiesto, mentre attraverso il quesito postosi ex officio ha inteso accertare se sussistesse la possibilità e l'utilità di altri, diversi, mezzi di prove atti a consentire un più completo accertamento della verità, soprattutto in relazione a un punto (eventuale partecipazione di altri soggetti) nettamente contrastato dalla tesi difensiva. Risulta pertanto palese la piena compatibilità logica tra le due parti della motivazione in argomento. 3. Con il secondo mezzo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per erronea, contraddittoria e travisata ricostruzione dei fatti». Si lamenta, in particolare, che la Corte di merito abbia «con una... valutazione apodittica... ricostruito gli avvenimenti di quella malaugurata notte», attribuendo ingiustificato rilievo alle discrepanze esistenti tra le varie dichiarazioni del Pelosi (discrepanze ritenute tali da inficiarne la piena credibilità), e si censurano specificamente le affermazioni inerenti agli effetti dei calci sferrati ai testicoli della vittima (calci che la Corte avrebbe confuso, secondo il ricorrente – con travisamento di fatto – con quelli dati in faccia).
La doglianza non può essere accolta.
L'accertamento dei fatti, attraverso la valutazione delle risultanze processuali, è compito esclusivo del giudice di merito. Il relativo giudizio non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il caso in cui si dimostri che esso è stato fondato su elementi inefficaci o manifestamente esclusi dalle risultanze processuali, ovvero su argomentazioni affette da vizi logici.
Tale condizione non ricorre nella fattispecie. Il ricorrente ha formulato solo i due specifici rilievi surriferiti in ordine alla valutazione delle risultanze e all'accertamento di fatto conseguente: entrambi privi di fondamento. Risulta infatti dalla motivazione della sentenza impugnata che la Corte non ha disatteso alcune affermazioni del Pelosi soltanto per le rilevate discrepanze bensì per averne accertato – dopo un approfondito esame di ogni elemento acquisito – l'insanabile contrasto con sicure risultanze obiettive, specificamente indicate. E per quanto concerne il riferimento critico all'affermazione contenuta in sentenza circa l'effetto immediatamente debilitante dei violenti calci ai testicoli, va osservato che la Corte ha dato congrua giustificazione di quanto asserito, anche con riferimento alle risultanze autoptiche e alle precisazioni dei periti. Né sussiste il preteso travisamento di fatto derivato, secondo il ricorrente, da un equivoco in cui sarebbe incorsa la Corte confondendo i calci nei testicoli con quelli in faccia, giacché dalla stessa dichiarazione del Pelosi, richiamata nella doglianza, chiaramente risulta la successione dei due distinti atti di violenza, nel detto ordine.
Ma, a parte tali secondari e infondati rilievi, il ricorrente non ha addotto contro la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di merito alcuna specifica e motivata censura. Nel motivo in esame, come anche – incidentalmente – nel successivo, si fa riferimento in proposito a una valutazione "apodittica" e ad "affermazioni arbitrarie"... che travisano la verità dei fatti", ma tali generiche doglianze non sono poste in relazione con singoli punti della decisione impugnata, né viene addotto alcun argomento per dimostrare la fondatezza dell'assunto, né indicato da quali risultanze processuali i pretesi travisamenti debbano desumersi. Si tratta dunque di censure prive della necessaria specificità, non idonee a consentire un controllo di legittimità, nei sensi suindicati. 4. Con il terzo motivo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p.» per avere la Corte «ritenuto di natura dolosa l'azione dell'imputato e ritenuta l'assenza di cause di giustificazione». Si critica in particolare che la Corte di merito abbia illogicamente tratto il proprio convincimento su tali punti essenziali da elementi (quali "i calci ai testicoli", "la camicia intrisa di sangue", "la conoscenza che il Pelosi aveva delle tendenze omosessuali del Pasolini", "la circostanza che... non rifiutò le prestazioni... , i dubbi sulla colluttazione"), che sarebbero altresì frutto di erronee valutazioni.
La doglianza, che concerne due affermazioni fondamentali della decisione di merito, vivamente contrastate dalla difesa, si riallaccia per un verso alla critica della "ricostruzione dei fatti" formulata nel precedente motivo di ricorso, mentre per altro verso può considerarsi denuncia di vizi logici nelle deduzioni e conclusioni tratte dagli elementi acquisiti.
Sotto il primo profilo si è già dimostrata la inaccoglibilità della censura. Resta dunque a questa Corte da controllare – sulla base dell'insindacabile accertamento dei fatti operato dalla Corte di merito – se sussistano vizi logici, nelle deduzioni tratte dalle circostanze accertate e nelle conclusioni derivatene, tali da giustificare la denuncia di mancanza e contraddittorietà di motivazione sui punti indicati, posta a base della richiesta di annullamento.
Dall'attento esame dell'ampia ed esauriente motivazione svolta sull'argomento nella sentenza impugnata non può non dedursi che la censura è priva di fondamento.
È opportuno ricordare, ai fini della valutazione della adeguatezza e coerenza logica del ragionamento seguito dalla Corte, che questa aveva stabilito in fatto:
a) che il Pelosi era pienamente consapevole, accompagnandosi quella notte fuori città col Pasolini e accettando da lui la cena e la promessa di un compenso in denaro, della natura delle prestazioni che in cambio gli sarebbero state richieste;
b) che deve escludersi che il Pasolini abbia posto in essere un tentativo di violenta sottoposizione del giovane ai suoi desideri;
c) che nella colluttazione il Pasolini (il quale riportò lesioni sproporzionatamente più gravi) cercò sostanzialmente di difendersi da un attacco, senza avere intenzione o possibilità di recare grave offesa, finché non fu raggiunto da colpi (calci nei testicoli) che gli tolsero ogni capacità di reazione.
d) che successivamente, caduto in ginocchio, fu ancora colpito alla testa e alla nuca, finché cadde esanime, come riferito dal Pelosi («... L'ho colpito di taglio più volte finché non l'ho sentito cadere a terra e rantolare»);
e) che in seguito il Pelosi, dopo aver gettato lontano, tra i rifiuti, la camicia e le tavolette insanguinate, si impossessò dell'auto del Pasolini, che diresse a fari accesi, senza deviazioni, sul corpo inerte, schiacciandolo con le ruote di sinistra e volgendo poi a destra per allontanarsi.
Sulla base di tali accertamenti la Corte di merito ha ritenuto provata sia la sussistenza della volontà omicida, sia l'insussistenza della causa di giustificazione.
La sussistenza dell'animus necandi è stata dimostrata dalla Corte con riferimento a due momenti distinti: quello della fase finale della colluttazione (nella quale il Pelosi, quando ormai il Pasolini era accasciato, prono, nell'impossibilità non solo di offendere, ma anche di difendersi, infierì – come egli stesso ha ammesso – colpendolo ripetutamente, di taglio, in parti vitali – nuca, collo – e desistette solamente quando lo sentì cadere a terra e rantolare), e quello successivo e determinante del passaggio con I'autovettura sul corpo inerte (passaggio la cui asserita accidentalità è stata esclusa dalla Corte con argomenti ineccepibili, in base a una scrupolosa valutazione delle risultanze obiettive, denotanti la rettilinea conduzione del mezzo – nonostante l'ampio spazio esistente a destra verso il corpo della vittima – sicuramente visibile alla luce dei fari e in posizione nota al conducente – e la successiva sterzata a destra subito dopo il sormontamento.
Ha argomentato la Corte che il comportamento del Pelosi nel primo dei due momenti considerati – anche se non giunse a cagionare direttamente la morte (che, secondo i periti, fu causata dallo schiacciamento del torace con le ruote del l'autovettura) – è certamente dimostrativo della volontà di uccidere, non potendosi attribuire altro significato al suo infierire sulla vittima accasciata finché non la sentì rantolare, cioè finché non ebbe la convinzione della sicura fine. Ed ha aggiunto che tale comportamento «riveste grande importanza anche al fine di intendere il successivo», allorché il Pelosi, dopo aver gettato tra i rifiuti la camicia e le tavolette insanguinate, avviò l'autovettura, accendendo le luci, e senza sbandamenti la diresse sul corpo inerte (che facilmente avrebbe potuto evitare tenendo la propria mano), per riprendere, subito dopo averlo sormontato, con una immediata correzione di marcia, la giusta direzione.
Dai due successivi univoci comportamenti, unitariamente considerati, ha tratto la Corte il sicuro convincimento che il Pelosi, nel colpire accanitamente il Pasolini fino a sentirne il rantolo e nello schiacciarne il corpo con l'autovettura, non poté che essere animato da volontà omicida, attesa l'inequivoca efficacia dei mezzi usati e la persistenza e rinnovazione dell'azione lesiva, condotta fino all'eliminazione di ogni possibile dubbio di sopravvivenza della vittima.
E una significativa conferma della piena consapevolezza del delitto da parte del Pelosi la Corte ha ritenuto di dover trarre dalla circostanza che il giovane, accompagnato dopo il suo arresto per il furto dell'autovettura nel carcere minorile di Casal di Marmo, confidò poche ore dopo a un compagno quando ancora nulla gli era stato contestato in ordine alla morte dello scrittore e nulla sapeva del rinvenimento del cadavere e delle indagini appena iniziate – di avere «ammazzato un uomo, e precisamente Pasolini», aggiungendo – come egli stesso ha ammesso «tanto fra poco lo vengono a sapere; mica son deficienti, quelli!».
Il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nei termini sopra riassunti, è limpido e coerente, immune da lacune e da vizi logici, in armonia con i criteri accolti dalla giurisprudenza per la determinazione dell'animus necandi. Esso costituisce congrua giustificazione del convincimento espresso sul punto e adeguata risposta alle osservazioni formulate dalla difesa in sede di appello: non merita pertanto le censure, per altro superficiali e sostanzialmente generiche, contenute nel motivo di ricorso. 5. Altrettanto esaurienti e corrette sotto il profilo logico appaiono le considerazioni svolte nella sentenza impugnata in ordine all'esclusione dell'esimente della legittima difesa.
Perché si configuri tale causa di giustificazione occorre – com'è noto – che il soggetto abbia commesso il fatto preveduto dalla legge come reato perché costrettovi – non avendo altra scelta da un'effettiva (o ragionevolmente supposta) necessità di difesa dal pericolo attuale di un'offesa ingiusta. E occorre altresì che sussista un rapporto di proporzione tra l'offesa e la difesa.
La Corte di merito ha espresso il convincimento che nella fattispecie non solo manchi la prova degli elementi richiesti per la configurabilità dell'esimente, ma siano emerse risultanze atte a escluderla.
Al riguardo essa ha tra l'altro posto in rilievo che il Pelosi, il quale aveva accettato per denaro di sottoporsi a pratiche omosessuali, avrebbe certamente potuto eludere, senza difficoltà e senzi gravi conseguenze, l'eventuale richiesta, certamente non violenta, di prestazioni meno gradite. Ha poi osservato che nel litigio successivamente insorto – anche se per iniziativa dell'insoddisfatto Pasolini – il comportamento di quest'ultimo, come è apparso evidente dalle risultanze obiettive, non costituì mai un pericolo per il giovane, tale da richiedere una così violenta e protratta azione difensiva. E ha posto in evidenza che, essendosi l'episodio svolto in più fasi, «la volontà offensiva con cui vennero inferti i colpi decisivi rimase in ogni caso del tutto svincolata da qualsiasi, anche solo supposta, necessità di difesa». Infine, a ulteriore conferma dell'insussistenza di una situazione di giustificata difesa, la Corte ha segnalato la palese incompatibilità dei comportamento del Pelosi (sosta alla fontana per eliminare le macchie di sangue, risposte date ai Carabinieri) con lo stato d'animo di chi fosse stato poco prima costretto a difendersi da una grave violenza.
Le argomentazioni svolte in sentenza, con piena aderenza alle risultanze processuali e alla ricostruzione dei fatti, non presentano lacune né vizi logico-giuridici: la censura di «insufficiente e contraddittoria motivazione», sul punto è dunque infondata. 6 Con il quarto motivo di ricorso viene denunciata la «violazione
degli artt. 475 e 524 C.p.p. per carenza di motivazione sia circa la
richiesta di qualificare il fatto come omicidio preterintenzionale
o colposo, sia circa la richiesta di concedere le attenuanti di cui
all'art. 62 n° 1, 2, 5 e 62 bis prevalenti su qualsiasi aggravante». La doglianza, che non contiene alcun'altra specificazione, è infondata in ogni sua parte.
Per quanto concerne il riferimento critico alla mancata qualificazione del fatto come omicidio preterintenzionale o colposo, la doglianza si risolve in una parziale immotivata ripetizione della precedente censura con la quale si era criticata la qualificazione del fatto stesso come omicidio doloso. Le ragioni addotte al riguardo costituiscono pertanto una valida risposta alla censura in esame.
In ordine alla mancata applicazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale – a prescindere dalla evidente non configurabilità a favore del Pelosi della intenzione di eliminare una situazione di fatto ritenuta immorale (che costituisce il richiesto elemento soggettivo dell'attenuante), atteso che egli stesso di tale situazione immorale era ampiamente e volontariamente partecipe – e in senso più spregevole, perché mosso da intento di lucro – correttamente la Corte ha rilevato che «la dimostrata scissione tra la prima fase della vicenda e la finale azione omicida rende chiara l'inesistenza dell'attenuante».
Per quanto riguarda la circostanza di cui all'art. 62 n° 2 C.p. la Corte d'appello ha osservato che non può invocare la provocazione chi, in relazione al fatto commesso, si sia posto in una condizione di immoralità, perché l'ordinamento non può tutelare situazioni giuridicamente o moralmente illecite. E ha rilevato altresì che ai fini della configurabilità dell'attenuante deve necessariamente esistere un nesso di causalità tra il fatto ingiusto del soggetto passivo e la reazione dell'agente, il che postula un rapporto di proporzione, o almeno di non grave sproporzione, tra il primo e la seconda.
Sulla base di tali considerazioni di diritto, sostanzialmente conformi al costante orientamento giurisprudenziale, la Corte di merito ha osservato che, accertata in fatto la conoscenza, da parte del Pelosi, delle tendenze omosessuali attive del suo accompagnatore, e la libera accettazione, per un compenso in denaro, di intrattenere con lui rapporti innaturali, non può configurarsi come fatto provocatorio – ai fini dell'attenuante in esame – la richiesta di una prestazione risultata in pratica non gradita; né il fatto ingiusto può ravvisarsi nelle modalità della richiesta, non essendo risultato – neppure dal racconto dell'imputato – che la libertà sessuale e l'integrità di quest'ultimo siano state seriamente messe in pericolo dal Pasolini, che non aveva alcuna logica ragione per farlo, anche se contrariato da un inatteso rifiuto. A ciò ha aggiunto la Corte il rilievo – decisivo, ad avviso di questo Collegio, per l'esclusione dell'attenuante – che, secondo lo stesso racconto del Pelosi, «gli ultimi e più violenti colpi furono inferti al Pasolini quando questi, prono a terra, incapace di qualsiasi reazione, era ormai un bersaglio immobile e innocuo in balia della furia scatenata del suo antagonista; ed è indubbio che la determinazione omicida dimostrata dal Pelosi nella fase finale della lotta – e ribadita dal successivo volontario sormontamento del corpo esanime della vittima – non può, per la macroscopica sproporzione con il presunto fatto provocante, essere ritenuta in rapporto di causalità con lo stesso».
Per quanto concerne poi l'attenuante di cui all'art. 62 n° 5, la Corte di merito ha esattamente osservato in diritto che «per l'integrazione dell'attenuante in esame è necessaria la presenza di due elementi, l'uno materiale, e cioè l'inserimento dell'azione della persona offesa nella serie delle cause determinatrici dell'evento, l'altro psichico, consistente nella volontà di concorrere nella produzione dell'evento medesimo»: elementi palesemente non ravvisabili, nella fattispecie, nella condotta del Pasolini, la quale – in estrema ipotesi – avrebbe costituito soltanto il movente del reato.
In ordine, pertanto, a tutte e tre le invocate circostanze attenuanti di cui all'art. 62 C.p., la Corte di merito ha giustificato il proprio diniego con argomentazioni congrue e giuridicamente corrette, che non meritano, sotto alcun profilo, la censura, per altro generica, formulata dal ricorrente.
Per quanto riguarda le circostanze attenuanti di cui all'art. 62 bis C.p., alle quali anche si riferisce la doglianza in esame, va rilevato che esse erano state già concesse dal Tribunale nel giudizio dii grado. Il riferimento ad esse, da parte del ricorrente, trova ragione, presumibilmente, nel diniego in sede di giudizio di comparazione ex art. 69 C.p. - di una prevalenza delle attenuanti medesime sulle aggravanti contestate per il delitto di furto: diniego giustificato per altro dalla Corte con valide ragioni (obiettiva gravità del fatto: specifica pericolosità del soggetto, già altre volte arrestato per reati del genere), non confutate dal ricorrente. 7. Con il quinto motivo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per erronea, contraddittoria motivazione in relazione all'art. 85 e all'art. 98 C.p.».
Si sostiene in proposito che «la valutazione dell'imputabilità del Pelosi effettuata in sentenza e errata per due ordini di motivi»: il primo dei quali «verte sull'uso che della documentazione psichiatrica e psicologica ha fatto la Corte d'appello» (che ne avrebbe disatteso le conclusioni attraverso un'indagine "incompleta"), mentre il secondo riguarda «l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale dell'immaturità seguita dalla Corte» (giudicata dal ricorrente «infondata in diritto, errata in dottrina e totalmente inaccettabile in fatto»).
La doglianza è priva di fondamento in relazione ad entrambi i profili indicati.
Procedendo per ordine logico, va rilevato anzitutto che l'interpretazione dell'art. 98 C.p. seguita dalla Corte di merito non merita censura.
Dispone detta norma che «è imputabile chi nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i 14 anni ma non ancora i 18, se aveva capacità di intendere e di volere, ma la pena è diminuita». Ai fini penali – come questa Corte ha più volte precisato – deve intendersi come capacità di intendere e di volere l'attitudine del soggetto a rappresentarsi l'evento verso il quale la sua azione è diretta, a discernere e valutarne gli effetti, ad autodeterminarsi nella scelta tra i motivi che esercitano influenza sulla sua coscienza, e quindi anche a inibirsi, frenando l'impulso all'azione: Tale generale nozione è valida anche per i minori tra i 14 e i 18 anni, nei cui confronti, per altro, la sussistenza della capacità – anche nella provata assenza di infermità influente sullo stato di mente – non può mai essere presunta [...] e deve in ogni caso essere accertata dal giudice, che deve a tal fine considerare il grado di sviluppo intellettivo e di formazione del carattere, la capacità di intendere l'importanza di certi valori etici e il dominio su di sé che il soggetto abbia acquisito, l'attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito dall'illecito, e a determinare liberamente la propria condotta per motivi consci [...]: l'evoluzione richiesta non deve per altro confondersi con una completa maturità (che si realizza di norma assai più tardi), bensì con quel grado di maturità nel campo intellettivo, etico e volitivo sufficiente a rendere il minore consapevole del disvalore sociale dell'atto e capace di determinare in relazione a esso la sua condotta.
[...]
8. Con il sesto motivo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. in relazione alla violazione degli artt. 624, 625 n° 761 n° 2 e 5 e artt. 626 C.p., per erronea, contraddittoria motivazione e applicazione della legge». Si censura in particolare che la Corte abbia ritenuto «sussistere il delitto di furto pluriaggravato, laddove trattavasi tutto al più di furto d'uso non punibile per carenza di querela».
La censura - redatta nei riportati succinti termini - è priva di giuridico fondamento.
[...]
9. Per le considerazioni che precedono il ricorso del Pelosi deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma alla Cassa delle ammende: somma che questa Corte, tenuto conto delle risultanze, determina in lire centomila [...] Corte composta da: Elio Siotto, Presidente; Consiglieri: Franz Sesti, Leopoldo Moleti, Francesca Pintus, Renato DeTullio.


Fonte:
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=50&ved=0CHgQFjAJOCg&url=http%3A%2F%2Fwww.itisavezzano.it%2Fpublic%2FPIERPAOLOPASOLINI.pdf&ei=XUiWUbP2IITFPIPogZAC&usg=AFQjCNEHPM6SNZNMzzWup57Yy_lnNPPLxA&sig2=byzGSvkup2EzcUWXOqc1cQ
Vedi anche:
Pasolini.net



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