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"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


L'Unità - venerdi 1 luglio 1983

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
...Che in Italia esista un «teatro» analogo a quello in cui affondava le sue prepotenti radici il lavoro di Plauto, è cosa da mettere senza esitazione in dubbio. Dove potevo trovare una sede dotata di tanta assolutezza, di tanto valore istituzionale? Nel teatro dialettale sì, ma il testo di Plauto non era dialettale. Del teatro corrente, ad alto livello, in lingua, mi faceva (e mi fa) orrore il birignao. Qualcosa di vagamente analogo al teatro di Plauto, di cosi sanguignamente plebeo, capace di dar luogo ad uno scambio altrettanto intenso, ammiccante e dialogante, fra testo e pubblico, mi pareva di poterlo individuare soltanto nell'avanspettacolo... Il nobilissimo volgare insomma,  contagiato dalla volgarità, direi fisiologica, del capocomico... della soubrette...
P.P.Pasolini 


Pasolini tradusse il Miles nel 1963, (sembra in sole tre settimane) su richiesta di Vittorio Gassman che voleva portare sulle scene il testo di Plauto, ma l’allestimento non fu mai realizzato. Il 10 novembre del ’63 al Teatro della Pergola di Firenze, fu portato in scena dal regista  Franco Enriquez.
  • regia: Franco Enriquez
  • scene e costumi: Emanuele Luzzati
  • musiche: Ranieri Romagnoli
  • produzione: Compagnia dei Quattro
interpreti:


Michele Riccardini, Renato Campese, Glauco Mauri, Carlo de Cristofaro, Enrico D’Amato, Laura Panti, Sergio Di Stefano, Armando Spadaro, Valeria Moriconi (nel ruolo di Acroteleuzio, una cortigiana), Pierantonio Barbieri, Nevio Sagnotti, Ines Carmona.

Pasolini non si limita ad una semplice traduzione della Miles Gloriosus di Plauto, ma riesce a ricavarne un rifacimento che, attraverso un diverso stile linguistico, attualizza i personaggi. Il dialetto romanesco utilizzato da Pasolini  nella sua traduzione della  Miles Gloriosus di Plauto, non è il dialetto letterario che troviamo in Ragazzi di Vita o in Una Vita violenta, ma una forma quasi da avanspettacolo - di seguito alcuni titoli apparsi sui giornali dell'epoca:


Plauto impara a parlare come i ragazzi di vita. Nel «Vantone» Pier Paolo Pasolini ha impiegato un linguaggio ricco di moderni vocaboli romaneschi
Poesio Paolo Emilio
La Nazione – 12.11.63


Il “Miles” di Pasolini. La commedia, intitolata «Il vantone», presentata nella nuova e interessante versione del noto scrittore
Bertani Odoardo
L’Avvenire d’Italia – 12.11.63


Parlano in romanesco i personaggi di Plauto. Al teatro della Fiera «Il vantone», versione di Pier Paolo Pasolini del «Miles gloriosus»
Fontana Laura
Alto Adige – 27.11.63


«Il Vantone»: cioè il «Miles gloriosus» di Plauto tradotto da Pier Paolo Pasolini
Guglielmino Gian Maria
Gazzetta del Popolo – 7.12.63

Un «miles» romanesco con qualche parolaccia. «Il Vantone» di Pasolini all’Alfieri
A. Bl.
Stampa Sera – 7.12.63

 Un Plauto in romanesco nella “traslazione” di Pasolini
G. Pros.
Il Tempo – 28.12.63


«Il Vantone»: da Plauto al Sor Capanna
Savioli Aggeo
L’Unità – 13.11.63

ed è quest'ultimo articolo che noi andremo a leggere. Segue una replica di Pasolini apparsa sull'Unità del 16 novembre 1963 e con una serie di controrepliche, sempre sull'Unità e sempre di  Savioli Aggeo:  28 dicembre 1963, 31 ottobre 1976, 1 luglio 1983. 


(La trascrizione dal cartaceo è stata curata da Bruno Esposito)


L’Unità – 13.11.63

Il <<Vantone>> da Plauto al sor Capanna
IN SCENA IL «MILES GL0RI0SUS» TRADOTTO DA PASOLINI
Lo spettacolo dato in «prima assoluta» alla Pergola di Firenze dalla Compagnia dei Quattro

Dal nostro inviato                                                

Del Vantone si parlava da tempo: era nei progetti di Vittorio Gassman. travolti poi (solo momentaneamente, speriamo) dalla strabiliante fortuna cinematografica dell'attore. Ora l'ha presentato, alla Pergola di Firenze, in <<prima>> per l'Italia, la Compagnia dei Quattro, cui Pasolini ha voluto confidare questo suo esordio nel teatro. Per la verità. seppure annunciata come opera non di 
prima mano, ma tuttavia autonoma dalla fonte ispiratrice (il nome di Plauto viene citato appena, pudicamente, fra parentesi) tale libera traduzione del Miles .gloriosus e certo meno qualificante, ai fini dell'accertamento di eventuali doti drammaturgiche del narratore, poeta e regista di film, di quanto non fosse la sua versione dell'Orestea di Eschilo: discussa e discutibile, si, ma motivata da ragioni non soltanto di gusto, di spasso personale o conviviale, bensi ideologiche, culturali. e insomma di pubblica risonanza.
L’Unità – 13.11.63

Il Vantone ripete dunque. nel fondo,' la vicenda del soldato spaccone plautino* Pirgopolinice, doppiamente beffato'da un pugno di allegri burloni. nel quale spicca il servo Palestrione; per la cui malizia, Pirgopolinice perde la concubina Filocomasio e poi, tratto in inganno dalla cortigiana Acroteleuzio, vien picchiato e minacciato di atroci mutilazioni dai domestici di Periplecomeno, un vecchio di spirito. che della donna si e finto marito. E' una storia tutta scoperta, nella quale Plauto ammicca spudoratamente, più che mai, verso lo spettatore, facendo e disfacendo una serie d'intrighi. I'uno più assurdo dell'altro: da quello tessuto al danni  dello schiavo Scelledro, cui si fa credere che la Filocomasio da lui vista in intimo colloquio col giovane amante, Pleusicle, non sia lei, ma sua sorella; a quelli che segnano, appunto, la totale disfatta di Pirgopolinice, esemplare tipico di tutti i <<cornuti e mazziati» Capitan Fracassa d'ogni tempo.
Con qualche taglio e qualche aggiunta. il testo e dunque quello che è. Pasolini non ha dilatato. come forse era da aspettarsi, il personaggio di Pirgopolinice, ne ha arricchito la figura del guerriero millantatore di sfumature satiriche attuali, che la realtà odierna poteva probabilmente suggerirgli.
(E del resto, Plauto stesso non se la prendeva, addirittura, con Scipione l'Africano, salvatore della patria?). Anche Palestrione e gli altri sono vivi per quel tanto, anzi quel molto, di sanguigna evidenza, di carnale robustezza che ad essi (come a tutte le altre consimili sue creature) conferi I'autore latino: nel cui gioco spassionato e ribaldo lo scrittore di oggi ha voluto avvertire, crediamo, soprattutto uno stimolo per la propria sotterranea o palese vocazione picaresca; ma non un incitamento a rielaborazioni polemiche in chiave di contemporaneità. Se un aspetto della commedia sembra esser stato posto in rilievo particolare, nell'adattamento di Pasolini, non e infatti quello che attiene alla cinica ma veridica rappresentazione d'un mondo corrotto e canagliesco: quanto piuttosto l'altro, parziale, della ironizzata perfidia e ambiguità femminile. Ma la misoginia di Plauto, che è indulgente, libertina, carica di sensuale simpatia. assume qui (fatta I'eccezione dello stornello finale, gioiosamente e congruamente intonato da Valeria Moriconi) i caratteri d'una programmatica, quasi teorica tetraggine. :
L'accento del giudizio da dare a proposito del Vantone si sposta, a questo punto, sulla resa stilistica. ' La lingua adoperata da Pasolini, è quelle, grosso modo, che i lettori c gli spettatori di cinema conoscevano già: un impasto di italiano. di romanesco e di dialetti <<burini», con locuzioni di gergo e di parlar corrente periferico. L'operazione e però assai meno riuscita che altrove: mancando
una necessita autentica allo sforzo filologico. mancando una congenialità espressiva tra la materia prescelta e la ricerca formate, il testo risulta impoverito e ingrigito nel vocabolario e nel fraseggio: ne le facili quanto insistenti rime o assonanze o dissonanze pasoliniane sono tali da restituire. se non in modesta misura. la ricchezza e lo splendore verbale di Plauto, il magistero ritmico e timbrico del suo eloquio. dove la violenza plebea e sorvegliata sempre da una raffinatissima cultura. Il romanesco maccheronico e annacquato del Vantone, a dirla tutta, non richiama alla mente ne Pascarella ne Trilussa (lasciamo perdere Belli), ma semmai il sor Capanna e. peggio, l'approssimativo idioma delle riviste radiofoniche del tipo di Campo de" fiori: condito. naturalmente, di vivaci interiezioni, d'un pittoresco ormai, peraltro, logoro dall'uso.
Da Pasolini, in conclusione, c'era da attendersi qualcosa di maggior peso anche se - è dovere di cronisti sottolinearlo - la prima e per ora unica rappresentazione di ieri sera (II Vantone andrà a Roma e poi a Milano nel prossimo gennaio) ha registrato un successo strepitoso, con grandi risate e lunghissimi applausi all'indirizzo degli interpreti, del regista, dello scenografo e dello stesso
Pasolini. che si trovava, appartalo, in sala. E senza dubbio, Franco Enriquez. nella cornice semplice ma colorita disegnata da Emanuele Luzzati (autore anche dei bei costumi). ha edificato uno spettacolo agile, dl pronto comicità, insaporito ma anche ispessito, a volte, da invenzioni farsesche d'antico conio. E gli attori si sono prodigati festosamente nelle loro parti, non guardando troppo al sottile, ma raggiungendo effetti di sicura presa sulla "platea. 
Da citare fra i primi, ovviamente, oltre alla Moriconi. la quale era pungentissima Acroteleuzio,  Glauco Mauri, che, avendo indossato tre anni or sono i panni di Pirgopolinice, ha vestito stavolta  quelli di Palestrione: Michele Riccardini, nel ruolo che da il titolo alla commedia: Enrico D'Amato, un gustoso Scelledro. Ma efficaci anche Laura Panti (Filocomasio), Carlo De Cristofaro  (Perlplecomeno), Sergio De Stefano (Pleusicle), Armando Spadaro, Renato Campese. Si sono provati tutti (la Moriconi e Mauri individualmente) anche come cantanti, cavandosela con bravura: quantunque l'arrangiatore delle musiche... 


Aggeo Savioli 

l'Unità del 16 novembre 1963


Caro direttore,

scusami questo biglietto «di intervento» in un caso in cui non è simpatico intervenire: parlo della recensione allo spettacolo di Firenze, in cui si è dato il mio Miles gloriosus, dovuta ad Aggeo Savioli. Ma se io non ho diritto d'intervenire direttamente su quello scritto, credo però di aver il diritto di far sentire le mie ragioni davanti ai lettori dell'«Unità»: cioè a quella unica parte della società italiana per cui mi pare valga la pena lottare e operare. Lascio ad Aggeo Savioli la responsabilità delle sue opinioni estetiche, ma non gli lascio il diritto di intervenire politicamente sul senso e il valore di una traduzione. Cosa avrebbe voluto Savioli? Che io manomettessi Plauto per farne, dopo duemila anni, un autore marxista? Si aspettava questo da me, e per questo io lo ho deluso? A me ciò sembra pazzesco. Prima di tutto per il poco rispetto che tale posizione dogmatica implica verso di Lui, Plauto, e poi per il poco rispetto che implica verso il pubblico (cioè, nella fattispecie, verso i lettori dell'«Unità»). No, non si può credere che l'essere marxisti e l'essere impegnati fino al collo in una lotta politica e ideologica possa consentire delle gherminelle tattiche come quella di far passare Plauto per un autore rivoluzionario! Io ho liberamente tradotto Plauto, è vero: ma liberamente in senso stilistico, all'interno dello stile. Non poteva passarmi neanche da lontano per la mente l'idea di operare delle trasformazioni di contenuto. Tutta un'educazione, che vorrei dire puritana, mi
l'Unità del 16 novembre 1963
spingeva a questo. Oltre a tutto: con una traduzione come il mio Vantone il pubblico esce dallo spettacolo munito di un’idea - farsesca, comica, sì, ma esatta - di quella che fu una società funebremente deformata dallo schiavismo. Se io avessi aggiunto dei riferimenti contemporanei a una lotta di classe così come oggi la concepiamo, il pubblico sarebbe uscito, invece, con una idea pamphlettistica e mistificatoria di tale società. Errore filologico e storico insieme! A questo punto devo però aggiungere che, dentro i limiti consentitimi dall'onestà filologica e storica, ho forzato al massimo la materia verso un modo di vedere il mondo che è nostro. Ho forzato sempre, esplicitamente, la «condizione di schiavità» del Miles, fino addirittura a drammatizzarla nel caso di Scelledro e a  renderla crudele nella crudeltà di Palestrione (non sono d'accordo sull'interpretazione festosa e un po' burattinesca data a questo personaggio da Glauco Mauri); ho calcato il più possibile gli unici due o tre accenti di senso di ingiustizia sociale che vagamente affiorano in Plauto (non è colpa mia se anche questi sono stati sorvolati un po' dalla recitazione, ma è colpa di Savioli non averli avvertiti); e, infine, ho reso con tutta l'immediatezza che mi era consentita l'antimilitarismo di Plauto nella sua concezione principale, il Generale (così ho tradotto il Miles); tanto è vero che quando egli chiede che cosa un servo gli auguri, questi gli risponde «vincere sempre vincere», che è un motto che non può essere privo di diretta allusività per gli italiani.

Questo ho voluto chiarire per i lettori dell'«Unità».
Ricevi i più cordiali saluti del tuo

PIER PAOLO PASOLINI


L'Unità 31 ottobre 1976

Questo Vantone fa pena come un Don Chisciotte

L'elaborazione della commedia di Plauto fatta a suo tempo da Pasolini riproposta dal regista Luigi Squamila in un'accentuazione malinconica

Non si ride troppo, con questo Plauto. Parliamo del Miles glortosus, tradotto e adattato come il Vantone da Pier Paolo Pasolini circa tre lustri or sono, su incarico di Gassman. allestito nella stagione '63-"64 da Franco Enriquez e ora riproposto da Luigi Squarzina, in apertura della nuova fase, da lui diretta, del Teatro di Roma.
L'imminenza dell'anniversario della terribile morta di Pasolini può aver gettato un'ombra sull'impresa (non siamo però certi che lo scrittore, il quale si diceva «gaio» in vita, nonostante tutto, avrebbe gradito un cosi mesto omaggio); alla cultura, all'esperienza, alla lucidità di Squarzina dobbiamo comunque il riconoscimento di una sua scelta, discutibile si, ma consapevole.
Pasolini adottò nella propria elaborazione dì Plauto il verso (quel martelliano o alessandrino o doppio settenario che, primeggiante in Francia, in Italia non ha avuto mai molta fortuna) e una lingua composita di romanesco, di dialetto suburbano (l'eloquio, insomma, dei «burini»), di gerghi più recenti e bastardi. Alla prima prova della ribalta, l'impasto lessicale e sintattico a noi non parve specialmente riuscito, nel quadro dell'attività pasoliniana già allora cosi impegnativa, per tale riguardo, sulla pagina e sullo schermo, da Ragazzi di vita a Una vita violenta, ad Accattone. Né ci sembrò che l'autore avesse trovato, nel testo plautino, la cui corposità e plasticità ritenemmo per certi aspetti diminuita, particolari motivi di rispondenza nel presente. Ne segui, anche, una polemichetta, della quale il programma di sala del Teatro di Roma offre adesso uno scorcio breve e unilaterale, perciò quasi incomprensibile.
Ad ogni modo, cogliendo varie affermazioni di Pasolini, Squarzina ha voluto porre in risalto, attraverso il tema della « beffa », quello della condizione servile e della lotta che lo schiavo Palestrione, con abili manovre, conduce per liberare la giovane Filocomasio dalle grinfie del soldato spaccone e sedicente grande amatore Pirgopolinice, affidandola alle mani affettuose dello spasimante Pleusicle, ma soprattutto per sciogliere se stesso dai vincoli della sudditanza. Pirgopolinice cadrà in una doppia trappoleria: lascerà andare Filocomasio e i suoi compagni colmandoli di regali, perché intanto sedotto da una cortigiana, che si dice signora di rango; e, sorpreso con costei, sarà svergognato e punito (non
fino in fondo) come adultero. Cornuto e mazziato, insomma.
Di Palestrione e dei sodali di lui, peraltro, qui si manifesta forse più la sornioneria che la protervia, e così la riflessione prevale sull'azione, la quiete sul moto. I momenti più calibrati e singolari dello spettacolo sono quelli, del resto, in cui si esprime non tanto una solidarietà di classe (Palestrione, anzi, prende bene per i fondelli Sceledro, schiavo dello stesso padrone) quanto una comunanza esistenziale tra gente unita (Palestrione, Pleuslcle, Il ricco scapolo
Pcriplecomeno) da una amicizia che supera le differenze sociali e riceve piuttosto 
alimento dallo stesso atteggiarsi, scettico, a volte burlone e insieme tollerante, verso il mondo.
L'Unità 31 ottobre 1976

Una parte dei costumi e qualche fondale, di stampo ottocentesco, evocando le temperie del «commedione» di Belli, accennano, ma appena appena, una ulteriore prospettiva; l'impianto scenografico di Bruno Garofalo, con i suoi «macchinismi» spudorati e ingenuamente maliziosi, allude però in primo luogo allo avanspettacolo, al « teatro dei poveracci » che dovrebbe fornire, criticamente filtrato, il giusto riscontro al contenuto e alla forma del dramma. All'inizio e alla fine, anzi, vediamo gli interpreti, o almeno il protagonista, nella cornice di squallidi camerini, truccarsi e struccarsi. Ma il
lazzo, lo sberleffo, l'ammiccamento - plateale del varietà, quando ci sono, risultano «citati», introdotti dall'esterno e con notevole freddezza in una rappresentazione che di quel « genere » non possiede il dinamismo, volgare, ma
spiccio; o hanno l'aria d'arrivare di rimbalzo, da altri mediatori che non Pasolini:
Fellini, magari, avvertibile nelle mostruose acconciature che ravvolgono la sgualdrina Acroteleuzio e la sua domestica.
Quanto a Pirgopolinice, che è Mario Scaccia, bardato a mezzo tra un antico romano e un fascista moderno, non senza ascendenze petroliniane, eccolo d'improvviso tramutarsi da carnefice, sia pure parolaio e millantatore, in vittima: quasi un «diverso», anche lui, adescato per tale via e trascinato a forza sull'orlo della più atroce rivalsa a suo danno, la castrazione. La malinconia dominante per buona parte di questo Vantone di Plauto - Pasolini - Squarzina (e che impronta di sé, in larga misura, le musiche di Benedetto Ghiglia. dopo uno sbrigliato avvio) tocca nelle battute conclusive i limiti della tragedia; e tre cupi stornelli romaneschi, ispirati all'inganno e alla morte, offrono un congruo suggello alla vicenda cosi impostata. Quasi quasi siamo spinti a vergognarci di aver sentito (insieme con Plauto, tutto sommato) una qualche soddisfazione nell'assistere allo sputtanamento (scusate, la parola è quella) del militare spocchioso, del generale ammazzatutti; e siamo indotti a percepire, forse, dietro la feroce caricatura dell'eroe della patria (non è escluso che Plauto ce l'avesse con Scipione l'Africano), il triste ma nobile e simpatico profilo d'un Don Chisciotte o d'un Falstaff.
Rimane il fatto che la comicità plautina, e anche pasoliniana, se si tien conto delle componenti picaresche ed epigrammatiche dell'opera del narratore, del poeta, del cineasta, è qui attenuata e intiepidita. E che gli attori, pur selezionati con un certo criterio, non figurano al meglio delle loro possibilità (il già nominato Scaccia, Luisa De Santis. Franca Tamantini), o sono poco utilizzati (Alberto Sorrentino) o inferiori alcompito (Giulio Marchetti, Loredana Solfizi,  Claudio Puglisi) o gravati d'un peso eccessivo (Gianni Bonagura,
che è Palestrione). Ma, trattandosi di una compagnia un po' « arrangiata ». non si poteva pretendere il massimo. E. anzi, qualche prestazione fa spicco, come quella di Toni Ucci, balordo e patetico Sceledro.
L'anteprima del Vantone, all'Argentina, ha registrato risate in parco numero, ma applausi nutriti.
Aggeo Savioli


L'Unità  28 dicembre 1963

L'Unità  28 dicembre 1963
L'Unità  28 dicembre 1963

L'Unità  28 dicembre 1963

[...]

PERIPLECOMENO
Portatemelo qua: si nun ce sta, alzatelo
de peso, come un baccalà. E castratelo.

PIRGOPOLINICE
(trascinato dai servi)
Periplecò, te supplico!

PERIPLECOMENO
Supplica 'sto cavolo!
Cariò, guarda se taja er tu' coltello, bravo!

CARIONE
Taja? Ma sta a smanià, de tajà 'sto par de palle,
mannaggia troja: ar collo, noi volemo attaccalle
a 'sto zozzone, come er ciuccio ai ragazzini!

PIRGOPOLINICE
No! Se tu me taj le palle m'arovini!

PERIPLECOMENO
Un momento: contrordine!

CARIONE
Mo' nun devo tajà?

PERIPLECOMENO
No, prima me ficca da fallo un po' frustà.

CARIONE

Allora forza!

[...]


(Tratto dal Vantone di Pasolini, V° atto)



Curatore, Bruno Esposito

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