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Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

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Pasolini - docufilm, cortometraggi e collaborazioni varie.

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Le Incogruenze

I sei errori della polizia

Omicidio Pasolini, video

Il Friuli autonomo di Pier Paolo Pasolini - Prima Parte

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




IL FRIULI AUTONOMO DI PIER PAOLO PASOLINI

1941-1949
Golaine di Studis su l’Autonomisim
GIANFRANCO ELLERO



Preambul

L’ideatôr di cheste golaine al scrivè, tancj ains indaûr, un articul intitulât «Il Friuli ha bisogno di Pasolini», dulà che si lèin chestis peraulis: «Se non è stato capito dai friulani vecchi, Pasolini deve essere capito dai friulani nuovi perché – ricordiamoci – sono i friulani che hanno bisogno di Pasolini, non viceversa» (Corriere del Friuli, 15 maggio 1976).
Cualchidun al podarès pensâ che, dopo lis celebrazions dal ’95 (cincuantèsim de Academiuta di lenga furlana), e je ore di finîle di fevelâ di Pasolini: al è parfin un viâl di Udin ch’al puarte il so non, une strade a Cjasarse e il Teatro di Sarvignan! Ce puèdino fâ di plui i furlans?
Noâtris o crodìn che i furlans, a nivel di popul, no di élite, no vedin ancjimò fat l’uniche robe juste: capî par da bon la lezion di Pasolini, tant in leteradure che in âtris cjamps, come la difese de identitât a traviars la difese de lenghe («fevelâ Furlan a voul dìsi fevelâ Latin»), de architeture tradizionâl («quel caro materiale rustico»), dal paesàç («questo paesaggio torna ogni febbraio»), e soredut, in pulitiche, pratindint la vere autonomie regjonâl.
O sin cunvints, publicant chest librut, che tancj letôrs nus disaràn: «No savevi ch’al fos stât ancje autonomist!», e chestis peraulis a saràn la prove che i furlans no cognossin il vêr Pasolini. O rispuindarìn: «No vevistu viodût, sul numar 2 di cheste golaine, la sô schede di adesion a l’Associazion di Tessitori e il so non tal manifest dal Movimento Popolare Friulano?». «Sì – nus rispuindaràn – ma no crodevi ch’al fos stât un militant di prime linie…».
O vin scrit al futûr, ma no si trate di una profezie: o vin ripuartât dome peraulis bielzà ditis e scoltadis!
 Al è par chest che il Consei dal Istitût al à decidût di preâ Gianfranco Ellero, studiôs e biograf di Pasolini, di scrivi di plante fûr chest libri, no dome di mètilu adun e di comentâlu, par spiegâ ai nestris letôrs il pinsîr autonomistic dal Poète di Cjasarse, e vuê al è sigûr di publicâ un meracul di didatiche: dopo chest libri nissun al podarà plui dî di no savê dut ce ch’al coventave su Pasolini autonomist.

Geremia Gomboso

Fontana di aga dal me paìs.
A no è aga pì fres-cia che tal me paìs.
Fontana di rustic amòur.

L’utopia necessaria

Questo settimo volume di studi sull’autonomismo, che non casualmente vede la luce nel sessantesimo anniversario di fondazione dell’Academiuta di lenga furlana(18 febbraio 1945), ha lo scopo di dimostrare l’originalità del pensiero autonomistico di Pasolini.
A lettura finita, nessuno potrà dubitare di due cose: la prima è che l’autonomismo di Pasolini fu la necessaria coerente conseguenza della sua concezione linguistico-letteraria; la seconda è che il suo impegno autonomistico non si esaurì nella semplice adesione all’Associazione per l’Autonomia Friulana nel 1945 e al Movimento Popolare Friulano nel 1947, ma ebbe il carattere di un’autentica militanza, supportata da un appassionato impegno ideologico.
Rimane soltanto da domandarci perché mai il suo autonomismo non sia stato adeguatamente valutato in Friuli, non soltanto nel suo “timp furlan” ma anche in sede storica (per trent’anni dopo la guerra) e letteraria: non un cenno neanche nelle antologie della letteratura in friulano, e il silenzio appare strano perché nel pensiero di Pasolini c’è una linea retta che congiunge lingua, poesia e autonomia. Il Poeta è convinto, infatti, che se esiste una lingua ladina, «specchio discretissimo dell’anima di un popolo», una lingua particolarmente adatta alla poesia perché non ancora consunta come l’italiano e il francese, esiste un popolo con caratteri originali, che ha diritto di autoamministrarsi in una sua regione.
Nei venticinque anni successivi alla sua “fuga” verso Roma, Pasolini fu un pianeta freddo e lontano, per il Friuli, non il sole di un nuovo sistema letterario e culturale. Di lui si sentiva talvolta parlare per scandali veri o presunti, fra i quali rientrava anche “Il Vangelo secondo Matteo”: come poteva, un comunista, invadere il campo cattolico? E perché i cattolici, certi cattolici (evidentemente deviati), avevano premiato il film? C’era un solo campo dal quale non si poteva escluderlo: quello della letteratura in friulano. Ma nelle antologie, scritte per storicizzare criticamente la produzione letteraria in marilenghe, Pasolini veniva trattato come uno dei tanti.
Per il resto, silenzio. Di Pasolini non parlavano i vecchi autonomisti e, naturalmente, i comunisti, ancora e sempre alle prese con quello scheletro nell’armadio che porta il nome di Porzùs. A rompere quel silenzio provvide lo stesso Pasolini, dapprima con i suoi “scritti corsari” pubblicati dai grandi giornali borghesi, poi con la sua tragica morte nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975.
In Friuli, con falso moralismo, si disse che non era giusto speculare su quella morte, e dunque occorreva ancora rimanere in silenzio. Ma noi, in accordo con Cesare Bortotto e altri amici, decidemmo che occorreva parlare, subito, per far capire ai friulani l’importanza della lezione di Pasolini e, contemporaneamente, per colmare le lacune di biografi e critici attenti prevalentemente alla produzione letteraria e cinematografica degli anni romani. *
La scoperta del Pasolini autonomista risale, quindi, ai mesi che precedettero la pubblicazione del volume “Pasolini in Friuli”, presentato a Casarsa il 24 aprile 1976: nell’archivio Tessitori c’erano le schede di adesione all’Associazione per l’Autonomia Friulana; sulle pagine di “Libertà” gli scritti, davvero (ante litteram) “corsari”, contro i nemici dell’autonomia regionale; dalle trepide parole di Cesare Bortotto, cofondatore e poeta dell’Academiuta, emergevano tanti ricordi… e così la figura del brillante ideologo, del coraggioso polemista, dell’intrepido friulanista, emerse a tutto tondo e si sovrappose perfettamente a quella del grande poeta in lingua friulana.
Gianfranco Ellero

* Invitiamo il lettore volenteroso a verificare la nostra affermazione sfogliando i due volumi di Atti curati da Nico Naldini per la Provincia di Pordenone: Pier Paolo Pasolini, Viers Pordenon e il mont e Il Maestro delle primule. Dalla meglio gioventù alla nuova preistoria, Arti Grafiche Friulane, Tavagnacco 1997.

Quadro sinottico


Il timp furlan


1941 Scoperta del friulano come “lingua pura di poesia”.

1942 Pubblicazione a Bologna delle “Poesie a Casarsa”.

1943 Iscrizione di Pasolini alla Società Filologica Friulana. Progetto di appello ai parroci e ai podestà (oggi diremmo sindaci) per la salvezza della Piccola Patria del Friuli* nello sfacelo dello stato fascista.

1944 Pubblicazione dei due “Stroligut di ca da l’aga”, datati “Avril” e “Avost”, nella tipografia Primon di San Vito al Tagliamento.

1945 Il 7 febbraio Guido Alberto, il partigiano Ermes fratello di Pier Paolo, viene catturato a Porzùs da partigiani comunisti e ucciso pochi giorni dopo nel Bosco Romagno. Il 18 dello stesso mese Pier Paolo fonda l’Academiuta di lenga furlana e, in agosto, pubblica “Il stroligut” n. 1, sul quale dichiara, come in una risposta in tempo reale all’appello di Tessitori, «la nostra tendenza ad una parziale, o piuttosto ideale, autonomia della Piccola Patria». Il 21 ottobre, durante il Congresso di San Daniele, viene eletto consigliere della Società Filologica Friulana. Il 30 ottobre firma la scheda di adesione all’Associazione fondata da Tessitori.

1946 Pasolini è deluso sia dalla Filologica che dall’Associazione di Tessitori, e chiede l’autonomia friulana per ragioni glottologiche («non c’è nulla di più scientifico della glottologia»). Pubblica “Il stroligut” n. 2. Si converte al marxismo e poi si iscrive al Partito Comunista Italiano. È deluso anche dal settimanale “Patrie dal Friûl” di Giuseppe Marchetti: «Il foglio è tutto scritto in friulano, ma il suo stile non differisce gran che da quello del “Ce fastu?”, il ventennale Bollettino della Filologica. Stile dimesso, da dialetto, non da lingua. È ancora lo Zorutti che vi fa scuola».

1947 In gennaio è, con D’Aronco e Ciceri, fra i fondatori del Movimento Popolare Friulano. Entra subito in polemica con il Partito Comunista Italiano su due temi fondamentali: l’autonomia del Friuli e l’eccidio di Porzùs. Pubblica poi il “Quaderno romanzo”, quinto e ultimo numero della rivista dell’Academiuta, aperto da un saggio riassuntivo intitolato “Il Friuli autonomo”. Dura la critica alla Sinistra, contraria all’autonomia del Friuli.

1948 Su “Avanti cul brun!”, almanacco annuale di Arturo Feruglio (Titute Lalele), Pasolini pubblica “Topografia sentimentale del Friuli”. Diventa segretario della sezione del PCI a San Giovanni di Casarsa, e sferra un nuovo attacco al PCI (e alla DC) per il delitto di Porzùs (lettera al Direttore de “Il Mattino del Popolo” di Venezia, 8 febbraio). Si dimette dal Movimento Popolare Friulano (articolo in prima pagina su “Il Mattino del Popolo”, 28 febbraio), ma sullo stesso quotidiano continua a scrivere in difesa dell’identità friulana e a cantare le bellezze umane e paesaggistiche del Friuli: “Dal diario di un insegnante” (29 febbraio), “Le soglie di Pordenone” (16 aprile), “La lingua di San Floreano” (19 giugno), “Poesia nella scuola” (4 luglio), “Il coetaneo ideale e perfetto” (22 settembre), “Dopocena nostalgico” (13 ottobre), “Simili ad arcangeli” (29 ottobre), “Ragioni del friulano” (2 novembre).

1949 In febbraio è relatore al primo congresso della Federazione comunista di Pordenone. In maggio è delegato del PCI al Congresso della pace di Parigi. Per “Il Tesaur” di Gianfranco D’Aronco scrive “Motivi vecchi e nuovi per una poesia friulana non dialettale”, per “La Panarie” di Chino Ermacora, “Poesia d’oggi”. Dà alle stampe, per le edizioni dell’Academiuta di lenga furlana, “Dov’è la mia patria”, una raccolta poetica in dodici varietà linguistiche del Friuli occidentale. In ottobre scoppia lo scandalo di Ramuscello.

* I lettori troveranno alla fine del volume un glossario che illustra i termini tecnici più importanti, come “lingua”, “dialetto”, “felibrismo”, “piccole patrie”, eccetera.

Lingua Poesia Autonomia



1. La scoperta del friulano

Fino ai suoi diciott’anni il friulano rimane, per Pasolini, soltanto un “carattere” del piccolo mondo nativo di Susanna Colussi, la madre, che però parla in perfetto italiano con il padre, aristocratico, militare e nazionalista.
Il ravennate Carlo Alberto Pasolini, da fascista ortodosso, disprezzava i dialetti, e certo non ammetteva che se ne parlasse uno tanto astruso in casa sua.
«Carlo Alberto – scrive Nico Naldini nella Cronologia delle “Lettere” – da alcuni mesi è prigioniero in Kenia e lì riceve il volumetto del figlio [cioè le “Poesie a Casarsa”] scritto in quel dialetto da lui tanto disprezzato».
«Malgrado l’assurdità del linguaggio usato, – scrisse lo stesso Pier Paolo – era dedicato a lui, e questo lo consolava, lo faceva gongolare».
Il friulano  fu, quindi, per Pasolini una lingua che può essere definita “materna” soltanto perché apparteneva al patrimonio culturale della madre, non perché dalla stessa lo avesse imparato fin dalla prima infanzia.
Quando e come scoprì il friulano?
Non in famiglia, dunque, ma sicuramente durante le vacanze estive, che trascorreva a Casarsa della Delizia, giocando a calcio, nuotando nel Tagliamento e ballando nelle sagre paesane con i suoi amici. È così che lui, straordinario studente di filologia romanza dell’Università di Bologna, profondo conoscitore del francese, dello spagnolo, del provenzale e delle loro letterature, scoprì l’affinità esistente fra il friulano e le altre lingue romanze e la sua capacità di conservare le radici latine («fevelà Furlan a voul disi fevelà Latìn», scrisse) grazie a una secolare tradizione orale coltivata dalle classi più umili; ma la scintilla poetica si sprigionò improvvisa quando intuì che quella piccola lingua contadina e cristiana era anche una «lingua pura di poesia».
«In una mattinata dell’estate 1941 – scrisse in “Empirismo eretico”– io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico (...) io, su quel poggiolo, o stavo disegnando (con dell’inchiostro verde, o col tubetto dell’ocra dei colori a olio su cellophane), oppure scrivevo versi. Quando risuonò la parola ROSADA.
Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto e d’ossa grosse... Proprio un contadino di quelle parti... Ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. Poiché i contadini, si sa, lo dice Lenin, sono piccolo-borghesi. Tuttavia Livio parlava certo di cose semplici e innocenti. La parola “rosada” pronunciata in quella mattina di sole, non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e soltanto un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito: questo fa parte del ricordo allucinatorio. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA...».
(Si noti, en passant, che la resa grafica della parola “rosada”, operazione a prima vista facilissima, presenta comunque un problema: come pronunceranno i lettori la “s” intermedia? Come nel sostantivo “rosa” o come nell’aggettivo “rossa”?).
Quale il friulano adoperato da Pasolini per comporre le “Poesie a Casarsa”? Non quello specifico di un paese o di una zona, anche se il calco è casarsese. E per rimaner convinti, basta leggere la nota posta dallo stesso Poeta in fondo all’opuscolo: «L’idioma friulano di queste poesie non è quello genuino [leggasi: quello del Pirona e della Koinè], ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla sulla sponda destra del Tagliamento. Inoltre non poche sono le violenze che gli ho usato per costringerlo a un metro e a una dizione poetica».
Si tratta, quindi, di un friulano molto personale, necessariamente distante da quello dei “parlanti”, ma, scrisse Ercole Carletti (“Ce fastu?”, n.6, 1942), «resta il fatto d’un tentativo che arricchisce la poesia friulana d’una nuova vibrazione, rispondente a una tendenza lirica modernissima». (Il Poeta rimarrà più aderente al friulano realmente parlato a Casarsa nel rifacimento delle stesse liriche pubblicate a Firenze nel 1954 sotto il titolo de “La meglio gioventù”).
La scoperta del friulano si tradusse, in sostanza, in un’invenzione anche linguistica, non soltanto poetica, che per Pasolini fu una seconda nascita, da ricordare in versi di struggente bellezza:

… I nas
tal spieli da la roja.
In chel spieli Ciasarsa
– coma i pras di rosada
– di timp antic a trima.

2. Il friulano come lingua di poesia

Scegliendo il friulano per scrivere le “Poesie a Casarsa”, la sua opera prima, Pier Paolo Pasolini si pose in controtendenza rispetto a molti mondi concentrici.
Andò, innanzi tutto, contro il regime fascista, che per ideologia e prassi disprezzava i dialetti della penisola e le lingue straniere; contro la sua famiglia, nella quale il padre, come sappiamo, imponeva lo stretto italiano a Susanna Colussi, sua moglie, e ai due figli; contro i letterati di lingua italiana, che fin dal Cinquecento guardavano dall’alto al basso i “dialettali”, e contro gli stessi letterati di espressione friulana, che della loro piccola lingua facevano un uso prevalentemente vernacolo; più tardi si pose contro i regionalisti friulani, costituiti in associazione il 29 luglio 1945, perché lui chiedeva l’autonomia regionale per ragioni glottologiche («non c’è nulla di più scientifico della glottologia») e ancora più tardi contro la Sinistra, contraria all’autonomia del Friuli.
Dando, quindi, alle stampe nel luglio del 1942 un esile libretto in trecento copie numerate, intitolato “Poesie a Casarsa”, la Libreria Antiquaria di Mario Landi, con sede in Bologna al numero 5 di Piazza San Domenico, compì un atto davvero rivoluzionario, che passò naturalmente inosservato perché altri erano i problemi degni di attenzione in quel terzo anno di guerra.
Soltanto oggi, forse, cioè con molto ritardo, l’operazione letteraria delle “Poesie a Casarsa” può essere compresa e apprezzata in Friuli (naturalmente da quei «quattro gatti che si interessano di queste cose», come scrisse lo stesso Pasolini per l’inaugurazione a Casarsa della sede dell’Academiuta di lenga furlana, nel 1947). E del resto, se si pensa che secondo i friulani Pietro Zorutti, morto nel 1867, era il nostro più grande poeta, mentre per Pasolini era più un danno che un vantaggio per la lingua e la letteratura del Friuli, possiamo ben comprendere perché il giovanissimo Poeta (quello delle “Poesie a Casarsa” fresche di stampa, intendiamo dire) ebbe pochi lettori nella nostra “piccola patria”. I friulani lettori di poesia erano, infatti, “troppo friulani” e “zoruttiani” per poter capire e apprezzare la rivoluzionaria operazione poetico-filologica pasoliniana, considerata dai più nociva e pericolosa per la purezza e l’integrità della lingua letteraria, formatasi al centro, ovvero a Udine, per merito di Ermes di Colloredo, Caterina Percoto, dello stesso Pietro Zorutti e altri minori.
Pur essendo stato pubblicato in un momento particolarmente difficile, in piena guerra, il volumetto contenente le quattordici “Poesie a Casarsa”, diffuso dall’Autore con felice scelta dei corrispondenti, attirò l’interesse di critici d’eccezione.
Il più celebre fra essi, Gianfranco Contini, scrisse una recensione, pubblicata in Svizzera, sul “Corriere del Ticino” del 24 aprile 1943, che fu per Pasolini la corona d’alloro. Ecco l’incipit:
«Sembrerebbe un poeta dialettale, a prima vista, questo Pier Paolo Pasolini, per queste sue friulane “Poesie a Casarsa” (Bologna, Libreria Antiquaria Mario Landi), un librettino di neppur cinquanta pagine, compresa la non bella traduzione letterale che di quelle pagine occupa la metà inferiore. E tuttavia, se si ha indulgenza al gusto degli estremi e alla sensibilità del limite, in questo fascicoletto si scorgerà la prima accessione della letteratura “dialettale” all’aura della poesia d’oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell’attributo. (...)».  
Contini capisce, in conclusione, che il giovanissimo Pasolini adopera in poesia un dialetto come se fosse una lingua, e perciò stesso cambia la natura e il valore sia del dialetto che della poesia. Ma paradossalmente Pasolini fu considerato un dialettale all’interno del Friuli, perché scriveva in una varietà dei margini, e dunque al di fuori del solco della tradizione letteraria, diventata mentalità: e tutti sanno, o possono sapere con un po’ di riflessione, quanto sia difficile uscire dalla gabbia psicologica della convenzione.
Aleluja, aleluja!
dì di Avrìl,
al mòur il gardilìn.
Beàt
cui ch’a no’l rit pì,
e usièj e ciants
lu compagnin pal Sèil.
3. Le piccole patrie romanze

I quattordici testi delle “Poesie a Casarsa” nell’edizione del 1942, accompagnati dalla traduzione in italiano, sono preceduti da una citazione di tre versi di Peire Vidal, un “trubadour” provenzale del XII secolo, conosciuto da Pasolini frequentando il corso di filologia romanza dell’Università di Bologna.
Ecco il testo della citazione, che ritroviamo ne “La meglio gioventù” del 1954 e ne “La nuova gioventù” del 1975 (una ristampa delle sue migliori poesie in friulano, accompagnate da una “nuova forma”, cioè da un rifacimento che fu la sua ultima opera in poesia prima della morte violenta di Ostia, nella notte fra l’1 e il 2 di novembre del 1975):
Ab l’alen tir vas me l’aire
Qu’ eu sen venir de Proensa:
Tot quant es de lai m’agensa...
In friulano casarsese potrebbe suonare così:
Mi empli il pet cul àjar
Ch’i sint vègni di Proènsa:
Dut se ch’al è di là mi plàs...
In italiano:
Assorbo col respiro il vento
Che sento venire di Provenza:
Tutto quanto viene da là mi piace...
Comparando i tre testi si vede immediatamente che il friulano è molto più vicino al provenzale dell’italiano. Ma la grande scoperta di Pasolini sarà, fra il 1943 e il 1949, i sei anni della sua permanenza in Friuli, che il casarsese, con il femminile in –a (ciasa, femina, ploja... in luogo di cjase, femine, ploe... del Friuli centrale o udinese), con i dittonghi in –ou e in –ei (amòur, peciadòur, mèis... in luogo di amôr, pecjadôr, mês...), la palatalizzazione della “c” che si trasforma in “s” (se fàtu? in luogo di ce fastu?; sena per cene; sinc per cinc; contentessa per contentèce...) è molto più arcaico e vicino al provenzale dell’amatissimo Peire. E questa sarà una delle ragioni che indurranno Pasolini a riscrivere le “Poesie a Casarsa” in puro casarsese e a ripubblicarle nell’edizione Sansoni del 1954. Una ragione anche dichiarata, in qualche pagina della sua sterminata produzione, e comunque emergente dal quadro culturale e psicologico del Poeta.
Ma scrivendo nella lingua della madre, Pasolini scopre anche una “civiltà” (termine che ricorrerà spesso nei suoi scritti sull’autonomia regionale friulana) e se ne immedesima. Ecco quanto scrive al riguardo Andreina Nicoloso Ciceri a pagina 186 del volume “Il Maestro della primule. Dalla meglio gioventù alla nuova preistoria”, a cura di Nico Naldini (Provincia di Pordenone, 1997):
 «Nei manoscritti pasoliniani raccolti da Luigi Ciceri vi sono vari appunti, corredati da piccole mappe, che testimoniano la sua graduale ‘conquista’ del territorio, non solo sotto l’aspetto geografico-ambientale, ma anche per la tipologia abitativa e per la tipologia umana: da questi appunti poi egli si eleva a testi squisiti come quelli de “I parlanti” e dei testi poetici.
È molto interessante il fatto che, nei suddetti appunti, vi sia il cenno ad un giovane, venuto chissà da dove, per fondare quel paese che sarà Casarsa: è probabilmente il tentativo di creare un ‘mito di fondazione’. Non è attribuibile alla sua preparazione universitaria quanto alla sua sensibilità eccezionale la corretta lettura, che va oltre gli aspetti pittoreschi, di tradizioni popolari come i fuochi solstiziali, come le lustrazioni di S. Giovanni, come tanti usi ampiamente praticati».

4. Il Friuli come rifugio

La guerra coinvolse il giovane Pasolini per molte ragioni specifiche, che si aggiunsero naturalmente a quella di esservi immerso in quanto appartenente a una società direttamente belligerante.
C’era, innanzi tutto, il padre, Carlo Alberto Pasolini, ufficiale in Africa orientale, decorato e poi prigioniero degli inglesi. (Per avere sue notizie, Pier Paolo scrisse a Pio XII: “Corriere della Sera”, 12 giugno 2004).
C’erano i suoi vent’anni, compiuti il 5 marzo 1942, che facevano di lui un maschio abile al servizio militare, sicché ai primi di luglio fu chiamato al campo di addestramento di Porretta Terme, per seguire un corso di tre settimane per allievi ufficiali.
«Ho le mani sporche di due giorni 
– scrive a Luciano Serra il 10 luglio
– : il campo è un inferno, ma io lo vivo per la memoria. Lavo le gavette: orribile cosa! Vegliare tutta la notte di guardia: orribile cosa! Questi sono, dal punto di vista della comodità, i più brutti [giorni] della mia vita. Ma la vita pianta le sue radici dappertutto, e la coda le rinasce come alle lucertole. Io vivo».
C’era, poi, il bisogno di fuggire il più possibile lontano dalla guerra, e ai primi di agosto con la madre e il fratello Guido si trasferisce a Casarsa: non per villeggiatura, come nelle estati dell’infanzia e dell’adolescenza, bensì per cercare un’esistenza più tranquilla e meno condizionata dai pericoli potenziali o reali del conflitto, che incombevano più sulle città che sui paesi di campagna. (Capirà, poi, sul principio del 1944, che anche una casa vicina a una stazione ferroviaria era troppo esposta ai bambardamenti e si trasferirà a Versuta).
Ci fu, in seguito, il richiamo alle armi verso la fine d’agosto del 1943. Il primo di settembre è a Pisa, per frequentare il corso allievi ufficiali di complemento con il grado di caporale maggiore.
 L’8 settembre è a Livorno, dove il suo reparto, dopo un accenno di resistenza, viene catturato dai tedeschi. Pier Paolo e un suo compagno, approfittando del trambusto suscitato da un mitragliamento, si buttano in un fosso, dal quale riemergono dopo il passaggio della colonna dei prigionieri italiani, fuggendo poi a piedi per molti chilometri. Si rifugia, infine, a Casarsa, dove arriva rocambolescamente il 9 settembre.
Ci sarà, infine, dopo il richiamo alle armi della Repubblica di Salò, la partenza di suo fratello Guido verso i monti della Resistenza e la sua morte nel Bosco Romagno, pochi giorni dopo il tradimento di Porzûs, che porta la data del 7 febbraio 1945.
Ma la guerra ebbe il potere di rivelare, a Pasolini e ai suoi amici bolognesi – Serra, Roversi, Leonetti... – provenienti da uno strato sociale naturaliter fascista, la vera natura della dittatura di Mussolini, che a Pier Paolo apparve chiara nella primavera del 1942, durante i due importanti convegni della gioventù fascista, organizzati a Firenze e a Weimar. Conversando con tanti giovani provenienti dalle regioni d’Europa dominate dal nazismo, potè farsi una realistica idea della dittatura di Hitler, e per la prima volta sentì pronunciare i nomi di poeti e artisti che gli erano ostili.
Non esiterà infine, sulle pagine de “Il Setaccio”, la rivista della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) di Bologna, a denunciare come fatto anticulturale la grande azione di propaganda esibita per quell’incontro.
Pasolini scrive molto, in quei mesi, ma anche dipinge e, pur dimostrandosi autocritico, è conscio del suo talento.
«Io leggo poco, – scrive alla fine di luglio del 1941 – dipingo molto in compenso: 6 quadri finora, di vario valore, di cui almeno due mi sembrano buoni: i miei migliori. Ho raggiunto una tavolozza mia, ed anche una mia maniera. Spero di continuare su questa maniera senza stupidi mutamenti da dilettante».
(Così in “Lettere agli amici. 1941-1945”, Guanda, Parma 1976).
Che cosa dipinge, Pasolini? Il volto della madre, un paesaggio di Casarsa, suonatori di fisarmonica, donna nel canneto, figure di affreschi, come Sanctus Sebastianus e Sanctus Stephanus (veri o immaginati). Dipinge il Friuli, insomma, lasciandosi influenzare dal pittore Rico De Rocco, quel Friuli che riemerge in meravigliosi brani di prosa. Ecco, ad esempio, il “ritratto” della Carnia vista dalla pianura occidentale:
«Questo paesaggio torna ogni febbraio, quando la campagna è così ritratta nel suo silenzio, i legni così incorporei, che l’occhio può spaziare senza freno verso il Nord, dietro la Richinvelda, fino a quella celeste barriera di crinali e di vette incolori, ma distinti dal cielo, appunto, dalla riga indecisa delle nevi. Nelle giornate terse, nelle prime ore del mattino, vi si distinguono i ghiaioni, i dirupi, le macchie turchine dei boschi, i solchi candidi dei torrenti, le minime pieghe dei declivi, come se fossero impresse in una sostanza vitrea che si differenzi impetuosa e immobile dalle plaghe immemori del cielo. Basta allora il canto di un uccelletto per spirare nei sensi uno sgomento, un’accoratezza mortale, come se quel lievissimo grido colorisse di una luce di tempesta l’aria intorno alle montagne e le imprigionasse in un’ora eterna, e mai mutata da quando uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nascere la storia di questa regione. Dalla Carnia librata nel cielo sembra soffiare quaggiù, in piena pianura, un’aria purificata e straniera – odore di nevi raccolte nelle selle solitarie – afrore di ciclamini e di muschi battuti dal sole – immagini di montanari perduti nel loro passo lungo su aromatici sentieri – e tutto questo rimane informe nella mente, come un sentimento agitato, incapace di concretarsi se non attraverso analogie più impensabili...».
Negli anni di Casarsa Pasolini non si stancò di cantare la Piccola Patria del Friuli sia in friulano che in italiano.
Le migliori prose sono raccolte in “Un paese di temporali e di primule”, il volume antologico curato da Nico Naldini per Guanda nel 1993.
È davvero difficile scegliere in questo scrigno, ma l’elzeviro più geniale, anche perché chiaramente influenzato dalla concezione glottologica dell’autonomismo friulano, a noi sembra quello intitolato “Foglie/Fuèjs”, pubblicato su “Libertà” il 6 gennaio 1946.
Dopo un omaggio a Madame de Sevigné, che per prima scrisse della felicità per una foglia che cantasse, Pasolini, in treno verso Casarsa, scrive:
«Seduto sulla dura panca, guardavo il paesaggio veneto, e quel verde rosicchiato dall’autunno, quelle case isolate dove si diceva “pare”, “mare”, “fradèo”, “gèrimo”, “l’è morto”…entravano nel buio dietro la mia schiena, sfiorandomi appena l’occhio impotente. E infatti contenevo già in un piccolo spazio della mia testa tutta l’Emilia, con l’enorme svolta da Rovigo a Venezia […].
Quanto più inerte e grigia si faceva la campagna vicina, tanto più s’inazzurrava l’orizzonte… […]
Passato il ponte sul Meduna, guardai fuori del finestrino e vidi le foglie. Una diversità improvvisa me le dipinse nella loro informe calma sui gelsi, sugli ontani, sui pioppi. Mi bastò guardarle ancora un momento perché il loro aspetto famigliare mi toccasse così acutamente da sentirle davvero cantare. “Fuèjs”, cantavano le foglie, “aghis” le acque, “Mari, mari” gridava un fanciullo, correndo già per l’argine, verso una vecchia curva sulla terra, “radic” cantava il radicchio colto da quella mano scura, “vecia” cantava il gesto famigliare di quella donna chinata. Il vespro mi riportava nel Friuli, tra le care foglie, e l’odore della polenta che indovinavo nelle tinte smorte e accecanti dei tronchi, dei muri, mi fece pensare a mia madre con tenerezza insostenibile».
4. Il Friuli come rifugio

La guerra coinvolse il giovane Pasolini per molte ragioni specifiche, che si aggiunsero naturalmente a quella di esservi immerso in quanto appartenente a una società direttamente belligerante. 
C’era, innanzi tutto, il padre, Carlo Alberto Pasolini, ufficiale in Africa orientale, decorato e poi prigioniero degli inglesi. (Per avere sue notizie, Pier Paolo scrisse a Pio XII: “Corriere della Sera”, 12 giugno 2004). 
C’erano i suoi vent’anni, compiuti il 5 marzo 1942, che facevano di lui un maschio abile al servizio militare, sicché ai primi di luglio fu chiamato al campo di addestramento di Porretta Terme, per seguire un corso di tre settimane per allievi ufficiali. «Ho le mani sporche di due giorni – scrive a Luciano Serra il 10 luglio – : il campo è un inferno, ma io lo vivo per la memoria. Lavo le gavette: orribile cosa! Vegliare tutta la notte di guardia: orribile cosa! Questi sono, dal punto di vista della comodità, i più brutti [giorni] della mia vita. Ma la vita pianta le sue radici dappertutto, e la coda le rinasce come alle lucertole. Io vivo». 
C’era, poi, il bisogno di fuggire il più possibile lontano dalla guerra, e ai primi di agosto con la madre e il fratello Guido si trasferisce a Casarsa: non per villeggiatura, come nelle estati dell’infanzia e dell’adolescenza, bensì per cercare un’esistenza più tranquilla e meno condizionata dai pericoli potenziali o reali del conflitto, che incombevano più sulle città che sui paesi di campagna. (Capirà, poi, sul principio del 1944, che anche una casa vicina a una stazione ferroviaria era troppo esposta ai bambardamenti e si trasferirà a Versuta).
 Ci fu, in seguito, il richiamo alle armi verso la fine d’agosto del 1943. 
Il primo di settembre è a Pisa, per frequentare il corso allievi ufficiali di complemento con il grado di caporale maggiore. 
L’8 settembre è a Livorno, dove il suo reparto, dopo un accenno di resistenza, viene catturato dai tedeschi. Pier Paolo e un suo compagno, approfittando del trambusto suscitato da un mitragliamento, si buttano in un fosso, dal quale riemergono dopo il passaggio della colonna dei prigionieri italiani, fuggendo poi a piedi per molti chilometri. Si rifugia, infine, a Casarsa, dove arriva rocambolescamente il 9 settembre. 
Ci sarà, infine, dopo il richiamo alle armi della Repubblica di Salò, la partenza di suo fratello Guido verso i monti della Resistenza e la sua morte nel Bosco Romagno, pochi giorni dopo il tradimento di Porzûs, che porta la data del 7 febbraio 1945. 
Ma la guerra ebbe il potere di rivelare, a Pasolini e ai suoi amici bolognesi – Serra, Roversi, Leonetti... – provenienti da uno strato sociale naturaliter fascista, la vera natura della dittatura di Mussolini, che a Pier Paolo apparve chiara nella primavera del 1942, durante i due importanti convegni della gioventù fascista, organizzati a Firenze e a Weimar. Conversando con tanti giovani provenienti dalle regioni d’Europa dominate dal nazismo, potè farsi una realistica idea della dittatura di Hitler, e per la prima volta sentì pronunciare i nomi di poeti e artisti che gli erano ostili. 
Non esiterà infine, sulle pagine de “Il Setaccio”, la rivista della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) di Bologna, a denunciare come fatto anticulturale la grande azione di propaganda esibita per quell’incontro. 
Pasolini scrive molto, in quei mesi, ma anche dipinge e, pur dimostrandosi autocritico, è conscio del suo talento. 
«Io leggo poco, – scrive alla fine di luglio del 1941 – dipingo molto in compenso: 6 quadri finora, di vario valore, di cui almeno due mi sembrano buoni: i miei migliori. Ho raggiunto una tavolozza mia, ed anche una mia maniera. Spero di continuare su questa maniera senza stupidi mutamenti da dilettante». (Così in “Lettere agli amici. 1941-1945”, Guanda, Parma 1976). 
Che cosa dipinge, Pasolini? Il volto della madre, un paesaggio di Casarsa, suonatori di fisarmonica, donna nel canneto, figure di affreschi, come Sanctus Sebastianus e Sanctus Stephanus (veri o immaginati). Dipinge il Friuli, insomma, lasciandosi influenzare dal pittore Rico De Rocco, quel Friuli che riemerge in meravigliosi brani di prosa. Ecco, ad esempio, il “ritratto” della Carnia vista dalla pianura occidentale: 
«Questo paesaggio torna ogni febbraio, quando la campagna è così ritratta nel suo silenzio, i legni così incorporei, che l’occhio può spaziare senza freno verso il Nord, dietro la Richinvelda, fino a quella celeste barriera di crinali e di vette incolori, ma distinti dal cielo, appunto, dalla riga indecisa delle nevi. Nelle giornate terse, nelle prime ore del mattino, vi si distinguono i ghiaioni, i dirupi, le macchie turchine dei boschi, i solchi candidi dei torrenti, le minime pieghe dei declivi, come se fossero impresse in una sostanza vitrea che si differenzi impetuosa e immobile dalle plaghe immemori del cielo. Basta allora il canto di un uccelletto per spirare nei sensi uno sgomento, un’accoratezza mortale, come se quel lievissimo grido colorisse di una luce di tempesta l’aria intorno alle montagne e le imprigionasse in un’ora eterna, e mai mutata da quando uno sguardo umano rivolto a quell’imperturbato orizzonte ha fatto nascere la storia di questa regione. Dalla Carnia librata nel cielo sembra soffiare quaggiù, in piena pianura, un’aria purificata e straniera – odore di nevi raccolte nelle selle solitarie – afrore di ciclamini e di muschi battuti dal sole – immagini di montanari perduti nel loro passo lungo su

 

aromatici sentieri – e tutto questo rimane informe nella mente, come un sentimento agitato, incapace di concretarsi se non attraverso analogie più impensabili...». 
 Negli anni di Casarsa Pasolini non si stancò di cantare la Piccola Patria del Friuli sia in friulano che in italiano. Le migliori prose sono raccolte in “Un paese di temporali e di primule”, il volume antologico curato da Nico Naldini per Guanda nel 1993. È davvero difficile scegliere in questo scrigno, ma l’elzeviro più geniale, anche perché chiaramente influenzato dalla concezione glottologica dell’autonomismo friulano, a noi sembra quello intitolato “Foglie/Fuèjs”, pubblicato su “Libertà” il 6 gennaio 1946. Dopo un omaggio a Madame de Sevigné, che per prima scrisse della felicità per una foglia che cantasse, Pasolini, in treno verso Casarsa, scrive: 

«Seduto sulla dura panca, guardavo il paesaggio veneto, e quel verde rosicchiato dall’autunno, quelle case isolate dove si diceva “pare”, “mare”, “fradèo”, “gèrimo”, “l’è morto”…entravano nel buio dietro la mia schiena, sfiorandomi appena l’occhio impotente. E infatti contenevo già in un piccolo spazio della mia testa tutta l’Emilia, con l’enorme svolta da Rovigo a Venezia […].



Quanto più inerte e grigia si faceva la campagna vicina, tanto più s’inazzurrava l’orizzonte… […] Passato il ponte sul Meduna, guardai fuori del finestrino e vidi le foglie. Una diversità improvvisa me le dipinse nella loro informe calma sui gelsi, sugli ontani, sui pioppi. Mi bastò guardarle ancora un momento perché il loro aspetto famigliare mi toccasse così acutamente da sentirle davvero cantare. “Fuèjs”, cantavano le foglie, “aghis” le acque, “Mari, mari” gridava un fanciullo, correndo già per l’argine, verso una vecchia curva sulla terra, “radic” cantava il radicchio colto da quella mano scura, “vecia” cantava il gesto famigliare di quella donna chinata. Il vespro mi riportava nel Friuli, tra le care foglie, e l’odore della polenta che indovinavo nelle tinte smorte e accecanti dei tronchi, dei muri, mi fece pensare a mia madre con tenerezza insostenibile».

5. 1943: la “piccola patria” in pericolo

I  soggiorni casarsesi nelle estati del 1941 e del 1942 avrebbero avuto l’effetto di far nascere in Pasolini uno sviscerato amore non solo per l’idealizzata “piccola patria” storico-linguistica, ma anche per quella concreta e viva minacciata dalla guerra nella sua esistenza e integrità, della quale si sentiva sempre più figlio. 
Ecco la testimonianza di uno dei suoi più cari amici, Cesare Bortotto, pubblicata sul “Corriere del Friuli” (Udine, novembre 1976): 
«L’adesione di Pasolini all’Associazione per l’Autonomia Friulana porta la data del 30 ottobre 1945; ma questo è solo un atto formale, la conclusione di un lungo impegno ideale, di una meditazione giovanile, a tratti emotiva e poetica, altre volte razionale e storicistica, maturata negli anni precedenti la caduta del fascismo[…]. 
Dopo decenni di vita democratica e di autonomie regionali, ricordare l’atmosfera e i pensieri di quegli anni non sembra una notazione rilevante; dire che Pasolini sognava, quasi da solo, la “piccola patria” del Friuli nel filone di una storia dimenticata, inserendola in una concreta prospettiva del futuro, quale andava emergendo dallo sfacelo dello stato fascista, è un elemento che induce ancora a riflessione in chi ha vissuto il tempo proibito delle idee e delle espressioni di vita locale. 
Ebbene, di quei sogni, che egli ci comunicava con la sua dialettica penetrante, talvolta ermetica, erano piene le nostre estati. Quei sogni, a volte deliranti e incoerenti, furono parte dei nostri discorsi condotti con crescente fervore fino agli eventi del luglio 1943. 
Il suo antifascismo viscerale e culturale era una nota ricorrente nei suoi discorsi. A volte era il tono caricaturale e grottesco (riferito agli aspetti esteriori del gerarchismo fascista) comune a molta gioventù studentesca; in fondo era una convinzione storica che gli veniva (e lo si capiva) da letture più vaste e approfondite, da un’attiva interpretazione della storia, dalla quale usciva quell’ansia di libertà, di vita nuova che la nostra generazione non aveva conosciuto. 
In quella visione, accesa da toni poetici, per lui erano libertà anche la vita rustica dei campi, l’alternanza delle stagioni, il linguaggio di questo Friuli appartato che andava scoprendo in tutti i suoi sapori espressivi, già liricamente tradotti nelle prime pagine giovanili (“Poesie a Casarsa”). 
Agli inizi di quel luglio il pensiero della “piccola patria” era diventato per lui un’ossessione; in una di quelle calde notti, mentre tornavamo dai nostri irrequieti vagabondaggi ciclistici nel contado di Valvasone, concitatamente mi espose un’idea, sicuramente maturata quel giorno nei dettagli.
Dobbiamo risvegliare – andava dicendo – il sentimento e la nozione della nostra “piccola patria” con un appello da indirizzare a tutti i maggiorenti del Friuli; nel crollo imminente (lo sentiva nell’aria) dello stato fascista, nel precipitare degli eventi militari, nel dramma di un paese sconvolto dalla guerra (lo avvertivamo nei lutti familiari dei nostri paesi, nelle lettere degli amici che scrivevano dai fronti di guerra, mentre di giorno in giorno attendevamo la chiamata alle armi) era un impegno civile quello di suscitare l’idea della diversità storica e linguistica del Friuli, richiamandola alle vicende del suo passato. 
Ma come diffondere questo appello? 
L’idea non mi aveva colto di sorpresa. Quella notte, e fu una lunga notte di discussioni, sentivo che Pasolini, dentro di sé, viveva il brivido di una scoperta irripetibile, già sfrondata dai particolari di contorno. Per me, invece, essa restava sull’orlo di un’idea smisurata, con i contorni di una giovanile follia. 
Quale forza aveva la nostra piccola voce, dall’alto dei nostri vent’anni, per risvegliare la coscienza e i sentimenti dei parroci e dei podestà del Friuli (ai quali Pasolini intendeva rivolgere l’appello), vestiti della loro autorità, dentro un muro costruito da lunghi decenni di pesante obbedienza al regime? 
Alle mie riserve le risposte di Pier Paolo erano disarmanti: la nostra doveva essere una scintilla da lanciare dentro il conformismo, un’idea nuova: il Friuli autonomo da salvare nel disfacimento nazionale. All’alba di quella lunga notte eravamo quasi farneticanti; ora si doveva passare all’azione. Quello stesso pomeriggio, sicuramente pochi giorni prima del 25 luglio, ci ritrovammo quasi furtivamente; nella cartella dei suoi appunti Pasolini aveva iniziato la stesura di un appello per l’autonomia del Friuli. 
Per alcune ore, con la sua minutissima scrittura, il testo venne rimaneggiato dopo una lunga e fitta discussione: in esso vi erano tutte le motivazioni del momento, il tono era quasi discorsivo, dimesso ma incisivo. 
Si era deciso di battere a macchina circa trecento copie di quel testo; di inviarlo a destino per via postale, distribuendo le buste in uno stesso giorno, in vari centri del Friuli. Per questo impegno era di aiuto il fratello Guido (unico testimone, giovane entusiasta ed impetuoso, poi eroico caduto osovano nei tragici fatti del ’45 a Porzûs). 
Alla vigilia del 25 luglio alcune decine di copie erano già approntate; al mattino del 26 Pier Paolo venne a svegliarmi preso da un entusiasmo incontenibile: aveva ascoltato, con il primo comunicato radio, la notizia della caduta del fascismo. 
Quel giorno e i successivi l’appello era stato accantonato; si diffondevano già i primi fogli dei liberi partiti. Pochi giorni dopo Pasolini partiva, chiamato alle armi; i nostri discorsi sarebbero ripresi dopo l’8 settembre in un clima diverso, mentre l’idea dell’autonomia friulana si stava dilatando ed entrava anche nelle fila della Resistenza».
Segue

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Curatore, Bruno Esposito

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