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martedì 16 marzo 2021

Pasolini, Una fiaba nella fiaba - Intervista a Roberto Villa a cura di Roberto Chiesi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




UNA FIABA NELLA FIABA
Intervista a Roberto Villa


Quando ha incontrato per la prima volta Pier Paolo Pasolini?

Nel 1972 a una tavola rotonda alla Casa della cultura di Milano. Credo che fosse una delle prime occasioni, se non la prima i...n assoluto, in cui ci si interrogava sulle conseguenze delle interruzioni pubblicitarie. Da un paio d‟anni erano operative alcune televisioni private come Telebiella. Alcune si limitavano a interrompere il film durante l‟intervallo fra primo e secondo tempo, altre avevano già „imparato‟ a piazzare i blocchi pubblicitari nei momenti di massimo

Il Decameron di Pasolini: commento-recensione di Alberto Moravia

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Il Decameron di Pasolini: commento-recensione di Alberto Moravia

"È giunto forse il momento di parlare del modo con il quale Pier Paolo Pasolini affronta e risolve il problema  dell'illustrazione cinematografica di quei testi di cui è convenuto dire che appartengono al patrimonio culturale dell'umanità.
Al tempo del Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini spiegò che per l'interpretazione aveva voluto evitare le ipotesi particolari e aggiornate e tenersi invece al senso comune. Cosa intendeva Pasolini per senso comune? Evidentemente, la fruizione del testo, attraverso i secoli, "fuori della storia", da parte di infiniti lettori, nei luoghi e nelle situazioni più diverse. Il senso comune: cioè il senso di tutto ciò che sfugge alla moda, alla storia, al tempo.
Pasolini, d'altra parte, come è noto, è un manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo D'Annunzio. Così fin dal Vangelo secondo Matteo abbiamo avuto questo curioso e raffinato connubio: la visione "inattuale" del senso comune accoppiata coi mezzi espressivi "attuali" del manierismo decadente.
Per Il Decameron, Pasolini ha proceduto in maniera non dissimile che per Il Vangelo. Ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera Il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell'uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico.
Per prima cosa ha notato che nel Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti del Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di essere un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele.
Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la "favella" toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo ed aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca ai contadini e agli artigiani. L'operazione linguistica è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell'importanza della parola nel cinema.
Altra soluzione felice è quella del problema dell'erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l'oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c'è più nudo che nel "musical" Oh! Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l'idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria e dunque lecita. Crediamo che sotto questo aspetto Il Decameron pasoliniano segnerà una data importante. Forse è la prima volta che l'atto della copula viene presentato al cinema come puro e semplice gesto dei corpi, privo di significato e di valore, anzi visto come qualche cosa di difficile, di goffo e di scomodo che richiede la cooperazione di ambedue gli amanti.
Adesso bisognerebbe parlare di ogni singola novella e vedere dove Pasolini ha espresso meglio il suo sentimento del Decameron. Ci pare che tre novelle si levino al di sopra delle altre: quella dell'Isabetta e della pianta di basilico (qui la lezione di Mizoguchi e del cinema giapponese è messa a frutto); quella cosiddetta dell'usignolo (un po' leziosa ma è leziosa anche nel Boccaccio); quella di Masetto da Lamporecchio (la più importante per quanto riguarda il trattamento "oggettuale" dell'erotismo). A queste tre pensiamo che bisogna aggiungere i due aneddoti di Peronella e di compar Pietro nei quali è recuperata l'antica rusticità della Campania. Nella novella celebre di Andreuccio preferiamo la parte della cattedrale a quella della casa della cortigiana.
Gli interpreti sono tutti bravi per merito loro e di Pasolini che ha saputo sceglierli e dirigerli. Ma essi valgono soprattutto come volti inventati e rappresentati con estraniata immediatezza da encausto pompeiano."

[L'Espresso, 11 luglio 1971]

Fonte:
http://gioboccaccio.altervista.org/Cinema.html



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini: a Maria Callas

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Pier Paolo Pasolini: a Maria Callas

Pasolini scelse Maria Callas per interpretare Medea. Tra loro, nacque un’intesa mentale (le "antenne") e una confidenza che li portò a raccontarsi e a sostenersi nei momenti dolorosi delle loro vicende amorose.


Questa una delle lettere che Pasolini le scrisse…


Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un’angoscia leggera leggera, non più che un’ombra eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po’ di nevrosi: ma oggi in te c’era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata "adoperata" (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la