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sabato 20 febbraio 2021

Un ampio stralcio dell'intervento sull'arte del Romanino che Pier Paolo Pasolini tenne in occasione di un dibattito sull'artista, il 7 settembre dl 1965.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Un ampio stralcio dell'intervento
sull'arte del Romanino
che Pier Paolo Pasolini tenne
in occasione di un dibattito sull'artista,
il 7 settembre dl 1965.

Il 7 settembre 1965 si tenne a Brescia un dibattito sul Romanino (Girolamo Romani; Brescia, 1484/1487 - 1566), in occasione della grande mostra monografica che la città dedicava al pittore. La rassegna rappresentò la prima importante occasione di approfondimento sull’artista, e all’intenso dibattito parteciparono alcuni illustri nomi della cultura dell’epoca: Ernesto Balducci, Gian Alberto Dell’Acqua, Renato Guttuso, Guido Piovene, Franco Russoli, ai quali si affiancava Pier Paolo Pasolini. Proponiamo di seguito un ampio stralcio dell’intervento di Pasolini sul Romanino, pubblicato per la prima volta nel 1976, un anno
dopo la scomparsa del grande scrittore, regista e critico che ha segnato la cultura italiana del Novecento
.

Non chiedete a me cosa sto a fare qui. Qui sono in mezzo ad alcuni addetti ai lavori come Guttuso o Russoli e ad alcuni dotti competenti come Piovene e Padre Balducci per non parlare di Dell’Acqua. Io di critica d’arte veramente ho delle antiche velleità, ma nessuna reale competenza e quindi mi sento esattamente un po’ come uno di voi che abbia visitato recentemente questa mostra del Romanino, che io conoscevo malissimo, conoscevo così per alcune riproduzioni, per una antica mia lettura di
Longhi fatta vent’anni fa e quindi sono rimasto profondamente stupito, sorpreso, insomma per me è stata una novità ed è un po’ di questo mio stupore, di questa mia sorpresa di fronte al Romanino che vorrei parlarvi, pittore che io credevo un piccolo maestro, uno di quelli che si chiamano petit maître, un fatto concluso, perfetto, tipicamente provinciale e invece non è assolutamente così.

[...] io sono entrato a vedere la mostra di Romanino e chiedevo al mio accompagnatore: ma dov’è il Romanino, qual è? Ogni due o tre quadri la mia idea del Romanino era costretta a cambiare. Alla fine del mio giro nella mostra e poi oggi in Val Camonica alla fine delle mie indagini ancora dovevo sapere dov’era e qual era il Romanino. Secondo un’idea preconcetta e sbagliata che noi abbiamo
di quello che deve essere un artista (per esempio, vedendo il Lotto si sa benissimo qual è il Lotto, anche se ha dei momenti che non sono completamente lotteschi e così il Tiziano e così via) del Romanino, di un Romanino vero che soddisfi tutti noi, su cui tutti siamo d’accordo, una immagine, un’idea plastica e anche magari un po’ lirica del Romanino non ce l’abbiamo.
Questo è il delitto su cui ho condotto le mie indagini, ed ho seguito alcune piste che fin dal primo momento ho capito che erano sbagliate. La prima pista è quella di considerare il Romanino un pittore eclettico: non lo è affatto un pittore eclettico, non lo è all’interno del quadro; detta così esteriormente, la cosa potrebbe anche far sospettare un certo eclettismo in lui, ma l’interno di un quadro, l’esame stilistico dell’interno di un quadro, ci dimostra che noi non siamo affatto di fronte ad un pittore eclettico, mancano le qualità dell’eclettismo in lui. L’eclettismo non è mai drammatico, non è mai profondamente contraddittorio e invece il Romanino è continuamente drammatico e soffre continuamente la contraddizione ed ha continuamente coscienza degli abbandoni e delle riprese di motivi stilistici diversi. Inoltre l’eclettismo si svolge sempre dentro un ambito culturale preciso ed è l’imitazione di quelle che Barthes chiama le varie scritture di un contesto culturale, mentre l’eclettismo del Romanino è infinitamente più complesso, cioè non si svolge dentro un ambito culturale, ma va o prima o dopo questo ambito culturale cioè o è ritardatario o è anticipatore, come dicevano prima sia Piovene che Guttuso, cioè il suo eclettismo si svolge nel tempo fino a dei momenti arcaici gotici, nel futuro fino addirittura a prevedere e a prefigurare il Caravaggio.

Altra pista sbagliata: che si tratti di un

grande professionista. Non era nemmeno un grande professionista, perché anche di un grande professionista gli mancano le qualità interne al quadro. Non è mai cioè soltanto abile, e questo ce lo dimostra il fatto che insieme a momenti di straordinaria abilità da mestierante, evidentemente ce l’aveva questa abilita (ricordo per esempio un manto argenteo della Vergine fatto con la perfezione così anonima di uno che sia soltanto straordinariamente abile nel fare manti con tutte le loro pieghe, i loro riflessi ecc.) e vicino a questi momenti di assoluta totale completa abilità ci sono quel momenti, diciamo cosi, di goffaggine, che a un abile non sarebbero mai sfuggiti: quando un abile dipinge veloce, forse Guttuso potrà confermarlo o no, disegna sempre con eleganza e con bravura, non è mai goffo, invece il Romanino quando dipinge veloce rasenta addirittura una certa bruttezza, che egli poi incamera nel suo stile come elemento espressionistico, ma ciò non toglie che sia goffa e sgradevole, quasi brutta da vedersi. Credo che molti spettatori conformisti di fronte a certe mani di quelle megere che sono le profetesse si scandalizzino e le trovino brutte: sono mani dipinte in maniera orrenda, un mestierante non avrebbe mai fatto delle mani simili. E non è nemmeno, terza pista sbagliata, un pittore facile, perché nessuno dei suoi quadri ispira eleganza, grazia, piacevolezza a vedersi, mentre di molti pittori minori, i cosiddetti petits maîtres, vien voglia di prendersi un quadro e di portarlo a casa e tenerselo davanti agli occhi come elemento gradevole del proprio mobilio. Questa idea non viene mai di fronte al Romanino, di fronte a lui si è sempre in un atteggiamento della massima, quasi religiosa attenzione e sempre in uno stato critico, mai di delizia.

Siccome io non ammiro i momenti di grande abilità e non sono neanche degli assertori della grandezza del Romanino nella fase veneta, dove effettivamente si potrebbe pensare ad una certa grazia assoluta, non ho mai avuto questa impressione che provo davanti ai petits maîtres. Il fondo nell’interno del quadro, il fondo del Romanino è sempre angosciato, sembra una qualità di grande severità, ma non nel senso magari anche formalistico, come troviamo spesso nella pittura italiana: spesso il pittore italiano è formalmente severo, cioè è classicistico; il Romanino non lo è mai, c’è sempre una profonda angoscia nell’interno dei suoi quadri. Questi sono i risultati finali delle mie indagini, ma come ogni indagine che si rispetta vorrei portarvi delle prove. La prima prova che vi porterei è la coscienza stilistica che aveva il Romanino nelle proprie sperimentazioni stilistiche. Un eclettico non l’ha questa coscienza e neanche un pittore facile, un pittore mestierante. Il Romanino sì, perché lasciava, abbandonava delle esperienze stilistiche, e poi le riprendeva tali e quali alcuni anni dopo. Ritorno all’esempio delle pitture di Asola. Egli ha dipinto, non mi ricordo più in che anno, le Cantorie di Asola e ha ripreso questo stesso tipo di pittura dieci anni dopo. Durante questi dieci anni ha fatto le più svariate esperienze, nella sua tempestosa ricerca di artista severo e angosciato. Quando dieci anni dopo ha ripreso l’esperienza stilistica di Asola l’ha ripresa alla perfezione, ha continuato al punto esatto in cui aveva terminato quell’esperienza con assoluta coscienza del proprio stilismo, tanto è vero che ha rifatto quelle brutte mani che dicevo in principio.

Un altro caso che dimostra, diciamo, l’estrema sensibilità di questo pittore, una sensibilità che probabilmente aveva qualcosa di patologico e di morboso: la sua angoscia. Quella che chiamavo la sua angoscia è data da un fatto molto caratteristico, che io vorrei consideraste come al centro di questa mia relazione. Mi riferisco a un suo brutto quadro: è una pala d’altare, La Beata Vergine col bambino e santi di San Felice del Benaco che è stata dipinta circa nel 40-41-42 (magari qualcuno mi correggerà se sbaglio le date). Ora questo periodo è stato contrassegnato in quel di Brescia da un momento di repressione religiosa, di repressione moralistica e ideologica. In cosa consiste la bruttezza di questo quadro del Romanino? Consiste nell’aver prefigurato, cosa che egli faceva spesso (la sua pittura è sempre piena, come risulta dai discorsi fatti da quelli che mi hanno preceduto, di prefigurazioni di un futuro anche lontanissimo), questo suo quadro prefigura il Seicento brutto, il Seicento diciamo non caravaggesco, il Seicento untuoso, devoto delle pale d’altare insincere, cioè il Seicento tipicamente controriformista. Vuol dire che son bastati pochi anni di mancanza di libertà, di repressione religiosa ideologica perché il Nostro subisse un profondissimo trauma e addirittura cadesse in quei difetti atroci che avranno certi pittori del Seicento durante la Controriforma.

Dunque la sua non è una sperimentazione leggera, elegante, eclettica dei vari linguaggi, ma una vera e propria serie di sperimentazioni di linguaggi e di scuola oppure, come si dice in questi ultimi tempi, uno sperimentalismo ossessivo, che lo fa passare tra le più varie esperienze e mai secondo un’evoluzione, intendiamoci, perché in tal caso si tratterebbe appunto di un’evoluzione. Quando Piovene diceva che il periodo veneto era quello splendido ma che non lo soddisfaceva di più, non credo che intendesse dire che l’influenza dei veneti sia cessata di colpo nel Romanino, passando dallo splendore tizianesco a un’esperienza giorgionesca addirittura sfatta e quasi decadente, come dice il Longhi. L’influenza veneta ha continuato a tentarlo, a riportarlo indietro, a riapparire nella sua opera anche futura. Ora però, fermo restando che la carriera del Romanino è una serie di salti violentissimi angosciati di una esperienza stilistica, dall’adozione di un linguaggio a un altro, a un esame strutturale della sua pittura (difficilissimo) appunto perché la sua qualità mimetica, angosciata, era fortissima, risulta che ci sono alcuni elementi strutturali costanti nella sua opera. Ora se io parlassi di letteratura sarei un po’ più preciso: parlando di pittura di cui non conosco bene la terminologia, scusatemi se sono un pochino generico. Queste due costanti strutturali della pittura di Romanino che superano le varie e diverse contraddittorie esperienze stilistiche sono due costanti già accennate da quelli che mi hanno preceduto, cioè un riferimento continuo al Gotico, ma non al Gotico inteso soltanto come arcaicità, cioè come ritorno all’arcaico, come ritorno al Quattrocento o addirittura al Trecento, ma al Gotico, diciamo, come categoria mentale o stilistica nordica, addirittura danubiana. L’altra costante strutturale che troviamo in tutti i quadri del Romanino è la galleria dei ritratti psicofisici di personaggi. Nel momento veneziano, in quello giorgionesco, in quello ferrarese, la fisionomia e la caratterizzazione socio-psicologica dei personaggi rimane costante.

Queste sono le due strutture costanti di tutta l’opera del Romanino, che, non essendo formali, ed essendo piuttosto contenutistiche e culturali, possono sfuggire a un primo sguardo puramente visivo o formalistico. Infatti non si tratta di due strutture formali, ma di due momenti culturali ed è questo il punto su cui vorrei insistere, anche se non sono in grado di fornire delle prove molto convincenti, cioè il riferimento al Gotico è sì formale, e probabilmente deriverà dalla ragione che si è sempre detta, cioè dalla conoscenza che si aveva in Italia durante i primi decenni del Cinquecento delle famose stampe tedesche, ma questo non è che un sintomo, non è che l’apparenza di una più profonda esperienza culturale; cioè quei modelli che scendevano dal Reno attraverso le valli alpine, di cui parla il Longhi, probabilmente non erano soltanto formali o stilistici, ma includevano anche una diversa ideologia, un diverso modo di vedere la vita ossia una diversa cultura. Quindi questa struttura continua di tutta l’opera del Romanino implica una cultura di tipo nordico-tedesco più che italiano. E così la sua simpatia per certi personaggi psico-fisicamente e sociologicamente popolari è anch’esso probabilmente non il risultato di un umore del nostro pittore, non un fatto formalistico e casuale, una simpatia immediata, ma un fatto culturale anche questo, cioè dai suoi occhi era come caduta la benda che toglieva una possibilità di visione realistica immediata e simpatica, da parte dei pittori, del mondo povero, che non è poi, non sono gli straccioni del Ceruti, di cui parlava Piovene, ma sono proprio quel popolo vicino alla borghesia che è la classe lavoratrice.

Quando Piovene diceva che le profetesse della Cantoria di Asola gli ricordavano certe streghe realistiche, io ricordavo che, vedendo quella stessa Cantoria, avevo pensato che quelle donne li dipinte erano le filandere della filanda in cui, entro qualche decennio, sarebbe andato a lavorare Renzo Tramaglino. Dunque: una visione di sperimentalismo stilistico, il più vario, disparato e drammatico, ma contemporaneamente le due costanti strutturali che abbiamo detto ora. Il fatto che ci siano queste costanti strutturali che implicano due modi culturali di vedere la realtà fa si che la sua sperimentazione stilistica si presenti appunto non come eclettica oppure come semplicemente affannosa, ma come pretestuale. La sua diversa ricerca di linguaggi pittorici era pretestuale come per dar modo di esprimersi malgrado l’impossibilita di esprimersi, per così dire; cioè se noi osserviamo tutte le sue esperienze stilistiche vedremo come fondamentalmente manchino da queste esperienze stilistiche i due linguaggi, le due scritture più tipiche dell’epoca: manca, nella sua ricerca stilistica, la classicità, dico classicità per non dire classicismo, per quanto sarebbe più esatto se dicessi classicismo, ma voglio dire classicità per non dare un giudizio di valore, e manca il manierismo. Non voglio dire che manchino completamente, intendiamoci bene, perché elementi di classicità ed elementi di manierismo ci sono nei suoi quadri, eccome, c’è una testa della Vergine con una benda bianca intorno, di cui un lembo ricade parallelo al naso, che ricorda una cosa simile del Pontormo, e cose di questo genere ce ne sono moltissime: ci sono molti elementi manieristici e c’è molta impostazione classica soprattutto nelle tele più ferme e più armoniose. Però non c’è mai una calata completa dentro un’esperienza stilistica del tutto classica o dentro un’esperienza stilistica del tutto manieristica, non c’è mai un quadro del Romanino in cui la dominante sia classicistica oppure la dominante sia manieristica.

Perché questo? Perché il Romanino non voleva essere un classico o un classicista ma non voleva nemmeno essere un manierista e su questo punto mi pare abbia detto di sfuggita, rapidamente, due parole il prof. Dell’Acqua e cioè il classicismo era dentro di lui superato in quanto visione integra, totale, armoniosa del mondo e il manierismo era da lui rifiutato in quanto questa visione integra, totale, armoniosa del mondo, il manierismo la dissolveva, la disgregava, la degenerava coscientemente. Il manierismo era miscredente: il Pontormo, il Rosso Fiorentino dipingevano la crocifissione però evidentemente nel loro fondo erano diabolici, erano miscredenti. Il Romanino no, quindi non poteva accettare la critica manieristica al classicismo, perché continuava ad essere credente e che egli fosse credente lo dimostra il fatto che la sua pittura religiosa è tutta anticonformistica. Semmai io avrei dei dubbi sulla fede del Moretto, che è tutto così devoto, e come diceva bene Piovene, in qualche modo ancora classicistico, ma non ho dubbi sulla fede del Romanino, benché drammatica e benché turbata da episodi strani come quello della pala d’altare pre-seicentesca che vi dicevo prima. Quindi il Romanino era quello che la sua cultura non gli permetteva di essere ed è questo il punto critico, è qui il centro della mia relazione che spero si avvii rapidamente alla conclusione: il Romanino era qualcosa al di fuori del suo tempo, nel tempo e nella storia, era qualcosa che la sua cultura non gli dava la possibilità di avere la coscienza di essere, sicché le ricerche stilistiche sono pretestuali in due sensi: prima per evitare il classicismo e manierismo, che erano due momenti culturali che egli rifiutava, in secondo luogo per fuggire a un se stesso che egli non aveva gli strumenti culturali critici per poter esprimere. Insomma mentre nei grandi pittori a lui contemporanei e perfettamente rinascimentali e cinquecenteschi si verifica quella che il Goldmann chiama la legge dell’omologia, cioè le strutture di un mondo sociale si proiettano e si riproducono nelle strutture stilistiche dei pittori, questo non avviene per il Romanino.

Tutto il mondo stilistico del Tiziano è profondamente omologo alla società veneziana del suo tempo, e cioè a un momento della civiltà rinascimentale. Anche certi pittori minori contemporanei al Romanino, appunto gli altri bresciani, il Moretto, il Savoldo, sono profondamente omologhi a un tipo di società italiana del Rinascimento, la riproducono nel loro stile; il Romanino invece no. Ecco perché le sue pitture sono così contraddittorie e così complesse e così irriconoscibili. Data la sua posizione morale rispetto alla cultura del suo tempo, dati quei due elementi culturali fondamentali cui accennavo in principio (cioè un tipo di cultura centro-europea-danubiana-tedesca riformistica e una sua tendenza, che è borghese, che è della grande borghesia e che produce poi questa rivoluzione riformistica del centro dell’Europa, tendenza borghese a guardare realisticamente la gente, il popolo) questi due suoi momenti culturali, profondamente immaturi in Italia nella sua epoca, nel suo momento, egli non poteva riprodurli direttamente, sfuggivano alle strutture della sua società e così lo sottoponevano a una crisi continua perpetua, in una angoscia che egli non poteva risolvere. Egli è dunque più moderno di quello che la società e la cultura italiana del suo tempo gli consentisse di essere ed egli sfugge a questa stretta culturale storica in maniera alle volte scomposta, anche questa prefiguratrice di tipi pittorici e di convenzioni di strutture pittoriche future. Per esempio, i famosi affreschi di Pisogne, straordinari, oppure quelli bellissimi di Breno con la storia di san Daniele (uno di questi episodi è forse il suo capolavoro) rivelano in lui un possibile, vi dico una boutade, non prendete alla lettera, un possibile illustratore del Don Chisciotte.

Ci sono certi giocatori di dadi, che potrebbero illustrare un’opera scritta un secolo dopo e certe sue figure che non sono grottesche, come ha detto Guttuso e come si disse generalmente, non sono affatto grottesche, ma sono fatte di un realismo come poteva vederlo un uomo del Cinquecento, cioè sotto la specie del cosiddetto stile comico: è un realismo comico contrapposto allo stile tragico. Questo realismo comico noi lo citiamo come grottesco, invece era il modo di essere realistici in quel momento. Certo stile appunto comico, realistico (ci sono momenti in cui per esempio si vede Cristo col grembiule che lava i piedi a Pietro e altre figure di questo genere) fa addirittura prevedere non le pitture impressionisti che, ma, lo dico ancora come boutade, fa prevedere la caricatura di un Daumier e la caricatura è un momento tipicamente borghese e moderno e credo che sia l’unico pittore in tutto il Rinascimento che abbia questa possibilità di essere un vignettista, un pittore caricaturale, qualcuno che rappresenta un momento sociale realistico della sua epoca attraverso il segno della caricatura (quando questa caricatura è seria, severa e potente, s’intende, come appunto in Daumier). In Romanino non c’è mai il grottesco gelido del Gotico e quindi le sue sibille non sono prefigurate dalle sibille, mettiamo, del Civerchio o dei pittori bresciani antecedenti a lui, né c’è il grottesco del Rinascimento che è puramente metafisico, assurdo.

Ecco insomma in conclusione: il Romanino ha lottato tutta la sua vita su due fronti: uno contro il classicismo come espressione della civiltà italiana che egli aveva superato attraverso probabilmente un tipo di cultura non classicistica cioè centroeuropeo-nordico-danubiano-tedesco riformistico protestante e uno contro il manierismo, che era un modo critico di risolvere il classicismo cui egli non poteva aderire perché era credente, perché era un uomo severo, moralmente forte, impostato severamente, rigorosamente e quindi non poteva aderire al manierismo anche se le tentazioni erano continue. E quindi la sua estrema violenza vitale si sfrana continuamente in una serie continua di contraddizioni e di lotte.

Fonte:

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/l-arte-del-romanino-secondo-pasolini


Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini: cattolici, non adeguatevi!

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini: cattolici, non adeguatevi!


A trent'anni dalla morte, un dibattito sulla Chiesa in cui lo scrittore non credente propone un ideale di spiritualità che rivaluta la tradizione e la bellezza "popolari" della fede e chiede di non conformarsi alla modernità.

Brani tratti da una tavola rotonda che Giancarlo Zizola organizzò nella sede romana de 'Il Giorno' nel dicembre 1969.

Pasolini
: "La domanda è questa: se quello che si esprime attraverso la liturgia è il popolo che voi dite come soggetto, mi pare non arriviamo a una distinzione classista in senso, diciamo, ormai ortodosso e convenzionale della parola. Cioè, quando voi parlate di popolo e borghesia fate una distinzione ancora psicologica o sociologica, ma non sociale e non classista ancora.
Ora, quando voi criticate il borghese, come sarei io ad esempio, che richiederebbe alla messa - almeno in linea teorica perché in effetti io non vado a messa - il suo mistero, il suo momento estatico, il silenzio o il mistero di una lingua incomprensibile, voi fate un rimprovero massimalistico al borghese; lo chiamate borghese individualista e, in un certo senso, guardate un po' ironicamente questa sua esigenza misticheggiante, che è anche estetizzante. Ma allora vorrei citare una frase di Mircea Eliade che è abbastanza tipica. Egli dice che il popolo vive la ritualità in concreto, completamente, esistenzialmente, corporalmente; il popolo inteso in un senso vago della parola, cioè il popolo come era nelle civiltà contadine, nelle civiltà agrarie, nell'ambito in cui è nata la religione cristiana, vive il rito in concreto e la sua esperienza rituale –-dice proprio così - equivale alla più intima esperienza privata, personale dell'uomo moderno. Cioè con questo si istituisce una specie di analogia tra l'esperienza estetica, perché no, di un uomo moderno e l'esperienza religiosa del popolo antico, contadino, preindustriale. Ora, secondo me, questa analogia ha una certa ragione d'essere. Non è che si possa buttar via tacciandola di estetismo e basta. E questa analogia, che si può trovare tra il popolo di oggi, tra l'uomo borghese moderno di oggi e il popolo preindustriale, è un fatto che si ripete oggi nelle chiese, perché in un certo senso il popolo è rimasto quello di allora; in parte è ancora in qualche modo come i preindustriali, vive ancora un'esperienza religiosa di tipo contadino, di tipo magico. E allora le donnette si trovano accanto, alla messa, un borghese colto, estetizzante. Quindi nella messa convivono queste due situazioni che sono analoghe».


Balducci
«Noi rischiamo sempre di dimenticare che la nostra fede si deve riferire a un convivio, e non ad un banchetto religioso o magico, ma ad un banchetto normale, che conteneva l'intenzione salvifica del Signore.
Secondo me, proprio gli uomini per così dire meno religiosi, si trovano meglio nella liturgia rinnovata. E' una liturgia che domani sarà molto più adatta all'operaio secolarizzato che non al borghese colto, il quale dovrà umiliare la propria religione, il proprio soggettivismo, se vuol essere un credente».

Marsili
«La liturgia come l'abbiamo fatta finora poteva essere ed è alienante, appunto perché espressione di una religione carica di un atavismo più o meno magico. Nel medioevo tutte le messe erano da morto e certi cattolici arrivavano al colmo dicendo che durante la messa l'anima, per la quale la messa era applicata, veniva liberata dal purgatorio.
Lutero li rimproverava di non fare la messa per i vivi, di non invitare la gente alla cena, ma di fare sacrifici per i defunti. E' in questo senso che oggi dobbiamo distaccarci da questo tipo di liturgia. Bisogna che cominciamo a diventare antitridentini e antimedievali, per fare la riforma. Il medioevo è stata la rovina della Chiesa cattolica, perché è stato la prostrazione della fede, riempita di tutto il magismo nordico. Quando sentiamo Ross definire il medioevo come il tempo delle cattedrali, dico che Ross non ha capito niente, perché quelle cattedrali sono per noi la moltiplicazione del tempio di Gerusalemme. Non deve restare pietra su pietra, arte o non arte che sia...».

Pasolini
Arte e religione sono due fenomeni coesistenti e strettamente unitari».

Marsili: «Sì, ma non è più fede, non è più cristianesimo...».

Pasolini: «Il fatto è che gli edifici delle chiese - arte e religione - erano belli!»

Marsili: «È un altro discorso. Cristo annuncia la distruzione di un tempio e la ricostruzione in se stesso, proprio per creare una forma nuova alla base della quale c'è solo la conversione. "Convertitevi!": Cristo non lo ha detto ai pagani, ma agli ebrei, che erano attaccatissimi alla religione».

Pasolini: «Lo so, ma essere antimedievali e antitridentini significa essere alla retroguardia, cioè bisogna trovare qualcosa di più...».

Balducci
: «Per Pasolini, è chiaro, la Chiesa non può vivere solo se ha questa alimentazione "religiosa" . Non può ammettere la distinzione che noi ammettiamo tra fede e religione. Credo che egli ci chieda come possa domani esistere ancora la Chiesa quando ipotizza il superamento di queste forme religiose».

Burgalassi: «Ma io proprio come sociologo - a parte il fatto religioso - direi che la Chiesa può esprimere anche in futuro valori di profezia riscoprendo l'uomo.

Pasolini: Ma l'uomo del futuro sarà un uomo alienato…

Burgalassi
: La liturgia di oggi, nella misura in cui permette la riscoperta dei valori umani - la spontaneità, la comunità, la comunione, l'amore - guarda al futuro, cioè scopre l'uomo e favorisce la crescita dell'uomo.

Pasolini: Lo scopre nel momento in cui l'uomo sta, come mai è avvenuto nella sua storia, per venire alienato… La nuova liturgia in un certo senso borghesizza il rapporto tra sacerdote e fedele. Mentre prima era un rapporto feudale: la messa in latino era un rapporto feudale tra un popolo preindustriale e una élite di tipo feudale. Quindi la Chiesa era alienante in quanto il sacro era un abituare il popolo alla rassegnazione, al 'memento mors' come dice Marcuse.Adesso invece il rapporto non è più tra feudatari o piccole élites di potenti e un grande popolo di tipo preindustriale, adesso il rapporto è tra piccola borghesia e classe dominante, un borghese di tipo capitalistico e un popolo che si sta rapidamente evolvendo. La liturgia abolendo il latino, dando questa forma di democrazia alla Chiesa, si adegua ai tempi. Io faccio un discorso puramente esteriore, non lo faccio dall'interno della Chiesa. A questo punto l'unico atteggiamento della Chiesa, se vuole salvare l'uomo attraverso i valori umani di cui voi mi parlate, è l'opposizione totale, radicale alla borghesia, che va verso una trasformazione completamente alienante dell'uomo. E infatti se voi osservate le società borghesi più progredite di quella italiana - per esempio in America - il loro tipo di religiosità è una religiosità completamente alienante. Tutte queste forme di religiosità - per esempio gli hyppies- sono tutte di tipo repressivo e alienante. Ora il futuro immediato, anche in Italia è questo qui».

Balducci
: «Se il compito del Vangelo è quello di liberare completamente l'uomo, allora si tratterà di vedere via via quali sono le forme alienanti e l'importante è che la Chiesa non si allinei».

Pasolini: Allora questa Chiesa dovrà essere radicalmente, massimalisticamente antiborghese.

Balducci: «Io direi che il momento liturgico dovrebbe essere - una volta realizzato al di fuori degli involucri sacrali che ancora lo inceppano - il momento della massima responsabilizzazione dell'uomo. Per noi la riflessione col mistero del Cristo è una riflessione che non può essere considerata per definizione alienante. Ma se noi crediamo che l'uomo abbia la possibilità, mediante la fede, di trascendere le forze storiche che lo dominano, allora il credente diventa non l'uomo che volta le spalle alla storia per rivolgersi a Dio, ma l'uomo che si pone in faccia alla storia in una situazione di responsabilizzazione massima, che poi viene data dalla parola profetica. In ogni modo tutte le forze che responsabilizzano l'uomo per noi sono forze evangeliche».

Pasolini: "Anch'io penso che il Vangelo sia uno dei modi di responsabilizzazione autentica… Ma allora come ottenere questo? Perché ad un certo punto l'uomo potrà non essere più in grado di capirvi».

Marsili
: "L'uomo capisce se stesso, l'uomo capirà se stesso, capirà il proprio bisogno in quanto l'uomo cerca di superare sempre la situazione attuale».

Pasolini: «È un'altra osservazione ottimistica, devo dire. Ma facciamo un'osservazione pessimistica: ad un certo punto l'uomo non sarà più in grado di capire se stesso. Avrà una tale falsa idea di sé, che non sarà più in grado di capirsi. Da quello che posso presupporre come uno che si interessa un po' di psicologia vedo davanti a me un tipo di società in cui sarà difficile fare un discorso religioso, cioè autentico, perché o sarà incapace di avvertire un discorso religioso perché occupato soltanto dalla soteriologia terrena perché semplicemente non ci sarà più teismo ma neppure antiteismo. E' logico che la società si configuri così... Oppure può darsi che le forme religiose future, che stanno crescendo come dice Paolo VI, siano però del tipo alienante che si diceva».

Balducci: «Comunque la cosa paradossale è che il più religioso è stato Pasolini».


Fonte: http://www.jesuschrist.it/Pages/it_giovanni_testi_scelti_rari.aspx?arg=46&rec=923


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