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martedì 2 febbraio 2021

Pier Paolo Pasolini - Il padre selvaggio, progetto di un film.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



E’ stato il processo alla «Ricotta» per vilipendio alla religione
che mi ha impedito di realizzare «Il Padre Selvaggio».
Il dolore che ne ho avuto ancora mi brucia dolorosamente.
Dedico la sceneggiatura del Padre Selvaggio
al pubblico ministero del processo
e al giudice che mi ha condannato. Sono
cose, queste, che si possono
perdonare ma non dimenticare.

(P.P. Pasolini, Il padre selvaggio)


Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini
"...Comunque in ottobre dovrei partire per l'Africa e iniziare questo film che mi sembra sia quello che mi appassiona più di tutti quelli fatti sino ad ora. E' la storia di un poeta. E questo poeta è negro, africano; è un ragazzo che frequenta il liceo nella capitale di uno stato negro liberato da un anno o due, e si incontra con un professore laico, progressista, che cerca di dare ai suoi ragazzi un insegnamento anticonvenzionale, anticolonialista. 
Questo ragazzo a un certo punto va in vacanza, e durante le vacanze scoppia nel suo paese una situazione simile a quella del Congo. Tribù che si dilaniano tra di loro, soldati dell'0NU che vengono uccisi eccetera. Di conseguenza il ragazzo subisce nel villaggio, dove suo padre è capo tribù (per questo il titolo del film sarà Il padre selvaggio) un'esperienza preistorica, arcaica, di vita selvaggia, addirittura di cannibalismo forse — se avrò il coraggio di fare una cosa di questo genere, e ne torna traumatizzato e malato di nevrosi. Gradatamente si libera da questa nevrosi scrivendo delle poesie dall'autentica forma liberatoria, poesie dal contenuto profondamente democratico e razionale, pur nella misteriosa ispirazione che guarisce dal male." 

(Filmcritica, numero 125, settembre 1962)

Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini

Di seguito alcuni brani tratti dal libro di Alfredo Bini "Hotel Pasolini Un’autobiografia Dietro le quinte del cinema italiano":

Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini
"A causa della Ricotta saltò il film più bello che avremmo fatto insieme, Padre selvaggio, la storia di un capo tribù dell’Africa centrale divenuto medico a Londra, il quale, tornato nel suo villaggio, allo scoppio delle lotte tribali riassume nuovamente il ruolo che il destino aveva scelto per lui."

"Provo rabbia nel ripensare a quel progetto. Avevamo persino fatto un viaggio in Africa con Alberto Moravia e Dacia Maraini per trovare i posti dove girare. Un’esperienza davvero singolare: Moravia si alzava furtivo prima delle cinque per prendere un po’ di marmellata e di frutta prima che fosse divisa in quattro parti. Ce ne accorgemmo e qualcuno lo fotografò. Quante risate! Per il film era tutto pronto: sopralluoghi, attori locali, l’accordo con gli inglesi per fare una sorta di coproduzione in Kenya e contemporaneamente il sostegno di Jomo Kenyatta, da me incontrato personalmente, che nel 1963 sarebbe diventato il primo presidente del Kenya indipendente. Anche in quel caso arrivò la solita lettera delle autorità italiane: non si trattava della sceneggiatura, ma di un problema di nazionalità. Veniva contestato al progetto il fatto che gli attori impiegati fossero tutti di colore, ma era la storia di una tribù di neri ambientata nel cuore dell’Africa. Andai al Ministero, feci un casino, ruppi una scrivania, mi trattennero per qualche ora. Alla fine il film non si fece. E tutto questo in anni di coproduzioni miliardarie fasulle."

Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini
"Io e Pasolini subimmo una lunga sequenza di carognate. La reazione alle nostre opere fu durissima, e mi investì personalmente. Pasolini aveva in sé un valore artistico oggettivo: era l’uomo che più irritava il quieto stagno italiano nel pieno del boom economico. La sua opera era la spia e insieme l’analisi di un momento preciso che stava cambiando la nostra società, il momento in cui le generazioni che erano uscite dalla guerra si avviavano verso una società consumistica che confondeva sviluppo e progresso. A cambiare totalmente erano le nostre stesse radici: il fatto di mettere in modo inequivocabile la società italiana di fronte a questo cambiamento, e forse anche a un suo tradimento, non poteva essere accettato. Non era accettabile che un marxista, pederasta e dunque già esecrabile, facesse la morale a tutti. Non era accettabile e basta. La reazione contro La ricotta fu volta chiaramente a scoraggiare la produzione di nuovi film, e fu violenta, perché c’era in Pasolini capacità di analisi e grande sensibilità.

Immagine tratta da Alfredo Bini Hotel Pasolini
Con Pasolini andava fatto uno sforzo per alzarsi al di sopra delle polemiche. L’unica via era quella di recuperare il credito perduto e rispondere agli attacchi con un’opera d’arte incontestabile. Durante un viaggio in Africa, Pasolini mi accennò all’idea di realizzare un film dalla parabola di Lazzaro, in omaggio a suo fratello ucciso dai partigiani a Porzûs. A me il progetto non interessava, sarebbe durato mezz’ora, non avrebbe avuto senso. C’erano ormai dei contatti avviati con la Pro civitate christiana di don Giovanni Rossi ad Assisi, un’associazione di volontari cattolici. Nel corso dei primi anni sessanta questa comunità, complice anche il Concilio vaticano ii, aveva accentuato l’interesse verso la sinistra cattolica, allacciando contatti con il mondo laico. Pasolini accettò il loro invito a partecipare a un convegno, e d’accordo con alcuni frati lasciammo in camera sua una copia del Vangelo secondo Matteo. Lui lo lesse tutto d’un fiato, durante una notte insonne e ne fu entusiasta. Mi sembrava l’uovo di Colombo: avevamo individuato un testo particolarmente adatto alla sua personalità, alla sua poetica, una storia profondamente spirituale, come lo era lui. Pasolini era sempre stato netto, integro; e non c’era nulla come il Vangelo che fosse altrettanto privo di compromessi, di sfumature, di mezze misure. D’altra parte il progetto presentava delle evidenti criticità: era difficile immaginare un film sul Vangelo diretto da un autore condannato per vilipendio alla religione!"

"Nel 1996 Enzo Siciliano venne nominato presidente della Rai. Lo conoscevo da quasi quarant’anni, era stato amico di Pasolini e, come ho già scritto, aveva recitato nel Vangelo secondo Matteo, nel ruolo dell’apostolo Simone. Pensai che con il suo avvento potesse terminare l’ostracismo che la Rai mi riservava da trent’anni. Siciliano dopo molte insistenze mi fece prendere un appuntamento con la direzione Cinema-Fiction della Rai. Avanzai le mie proposte, al massimo livello di competenza, articolate e con precisi piani finanziari. I progetti erano diversi. C’era il De bello Gallico di Cesare, una miniserie di sei film da novanta minuti ciascuno che avevo già proposto alla Rai nei primi mesi del 1994. Inoltre, volevo riprendere la sceneggiatura del Padre selvaggio di Pasolini. Passarono mesi ma non ebbi alcun riscontro, e tralascio volutamente il consueto, frustrante elenco delle telefonate, dei fax, delle lettere e dei solleciti senza risposta. Pensavo che la Rai avesse finalmente deciso di riservare attenzione a dei professionisti con esperienze non disprezzabili. Scrissi una lunga lettera a Siciliano, che sicuramente non aveva colpe, per lamentarmi del trattamento. Ne parlai con Liliana Cavani, che mi invitò a non demordere, vista la validità culturale delle mie proposte."

Alfredo Bini
Hotel Pasolini
Un’autobiografia
Dietro le quinte del cinema italiano
A cura di Simone Isola
e Giuseppe Simonelli


Il padre selvaggio
di Pier Paolo Pasolini 

Progetto di un film



Il racconto originale di Pier Paolo Pasolini de Il padre selvaggio, il film che il regista avrebbe dovuto girare dopo le fatiche di Mamma Roma (1962) e della Ricotta (1963)
Il padre selvaggio avrebbe dovuto essere il primo film ad affrontare realisticamente e con una precisa impostazione ideologica il dramma e la nascita della nuova Africa

(da Appendice a Il padre selvaggio, in Pasolini per il cinema, vol I, Meridiani Mondadori, MIlano 2001).
 

Capitolo I°
È bello uccidere il leone

Primi giorni di scuola, in un liceo africano, nella capitale di uno stato africano che ha acquistato da un anno l’indipendenza. Il liceo: quattro baracche a un piano su uno spiazzo di polvere rossa, tra i palmizi.
Nel licéo insegna un professore democratico, appena giunto nel nuovo Stato. Sta per cominciare la sua esperienza drammatica con la scolaresca africana, composta dei figli dei pochi impiegati e dei capi tribù dell’interno; la sua lotta contro il conformismo insegnato ai ragazzi dai precedenti professori colonialisti.
Tra gli scolari, uno, Davidson, è il più ostile di tutti alle novità di metodo e di cultura del nuovo insegnante: ed è il più ostile proprio perchè è il più intelligente e il più sensibile. Sono infatti gli intelligenti ed i sensibili che si appassionano alle cose con un attaccamento che può essere fazioso: anche alle istituzioni del conformismo e alla retorica.

La lotta è soprattutto, quindi, tra l’insegnante e Davidson.
Il nocciolo centrale di questa lotta è il problema della libertà, della democrazia, dei rapporti tra bianchi e negri.

Dai dialoghi diretti, e estremamente sinceri, del professore, viene fuori, esauriente, il quadro politico dello Stato africano appena libero. I rapporti con l’ONU, i rapporti con lo Stato ex colonialista, ecc.
Il metodo del nuovo insegnante, nel far capire le cose, appunto perchè è sincero e democratico, appare sempre «scandaloso» agli scolari, abituati alla supina accettazione, alla meccanicità dell’insegnamento autoritario.
Un giorno, per esempio, il professore dà agli scolari questo tema: «Descrivete la vostra vita vera nella tribù, a casa vostra, nella foresta». Ebbene, saltano fuori degli svolgimenti tutti retorici e mistificatori. E allora il professore fa rifare il tema: egli vuole che i suoi scolari affrontino coraggiosamente la vergogna, la miseria, la superstizione o lo stato tribale, da cui provengono. Cerca di spiegare loro che cosa è la cultura «magica», la ritualità, i tabù, il cannibalismo, ecc.
Dopo la terza o quarta volta, accade una specie di miracolo: Davidson svolge finalmente un tema molto sincero, e, per questo, scritto estremamente bene, quasi come autentica poesia. Egli racconta, con grande vivezza e fantasia di particolari, una tipica situazione tribale: l’obbligo che ha un giovane, per diventare uomo, di uccidere da solo un leone.
Il professore, stupito e felice, loda di fronte a tutti il tema, e commenta, dopo averlo letto, l’inutile crudele abitudine della tribù.
Gli scolari comprendono la critica rivolta dal professore all’arcaicità, ormai superata dalla storia degli stessi africani, della cultura tribale. Tuttavia, alla fine, Davidson non può fare a meno di dire, con la sua voce roca e dolce:

– Però è bello uccidere il leone!

Sì, è difficile staccarsi criticamente dal proprio mondo vitale. È questa vitalità istintiva che è la sede poi, a un livello superiore, della pigrizia intellettuale, e del conformismo.
Soprattutto nello studio della poesia, gli scolari si mostrano pigri e pieni di riserve mentali: non capiscono la poesia «moderna». Sono meccanicamente abituati al classico accademico.
Anche qui il professore deve affrontare lo «scandalo», e legge ai suoi scolari la difficile poesia di un poeta africano. Niger o altri: una poesia che ricorda i modelli europei più raffinati, Eliot o Dylan Thomas...
Gli scolari negri hanno la stessa reazione della maggior parte degli scolari bianchi, non capiscono, si distraggono, quasi ne ridono.
Piano piano il professore la spiega, la commenta con esempi immediati, concreti, che cadono sotto l’esperienza di tutti: rende chiari e lampanti i versi dapprima incomprensibili.
Ma Davidson non vuole capire.

(N.B. - L’aridità di questa prima parte è solo apparente, perchè tutte le discussioni specialmente politiche e culturali, sono illustrate da episodi visivi: documentari per quel riguarda la situazione politica dello Stato, i rapporti con l’ONU, ecc. Il tema scritto da Davidson sulla caccia al leone sarà tutto visto. E infine il commento della poesia difficile, fatto dal professore, sarà tutto vissuto visivamente in episodi e rapidi particolari di cui gli stessi scolari saranno protagonisti).

Capitolo II°
Tinte forti da tavolozza cubista

Gli ultimi giorni dell’anno scolastico sono simili a quelli di tutte le scuole del mondo: giorni di rimpianti e di speranze, di rimorsi e di allegrezza. I risultati sono quelli che sono, i miracoli non accadono mai, anche se molti progressi sono stati fatti, molte conoscenze acquisite, molte resistenze superate.
Ma proprio in questi ultimi giorni di scuola, in cui ci si dovrebbe sentire ottimisti per ciò che pur si è fatto con buona volontà o passione, c’è un’aria di vago, angoscioso, pessimismo.
Il nuovo Stato negro è inquieto, è ben lontano dall’aver raggiunto una reale indipendenza, una reale libertà. I colonialisti sono rimasti, con la faccia dei capitalisti sfruttatori privati e, per proteggere i loro interessi, non si fanno scrupolo di fomentare rancori e divisioni nel paese: e magari lotte civili.
Delle tribù si ribellano, lottano ferocemente contro altre tribù non secessioniste:  tanto che l’ONU deve inviare nuovi reparti per mantenere l’ordine nel paese.
In quest’aria di imminente, imprecisa tragedia si chiude il primo anno di scuola democratica.
Ma gli scolari, loro, covano in cuore l’antica gioia della vacanza, eguale in tutto il mondo: sono dei ragazzi...

Davidson partirà per l’interno, a trascorrere le vacanze nel suo villaggio: il giorno prima della partenza, va in giro per le strade della capitale, coi suoi compagni più cari, a divertirsi un po’. Ci sono intorno «i forti colori da tavolozza cubista», nel porto, nei locali variopinti dove ci si diverte, dove si mescolano bianchi, indiani, arabi, negri.
I caffè sono pieni di gente: allegra, vestita coi colori più vivaci, all’americana.
È in uno di questi caffè che Davidson incontra il suo professore: è la prima volta che s’incontrano nella vita privata. Il professore è con dei suoi amici bianchi, suoi compatrioti: sono dei giovanissimi «Caschi blu», biondi, allegri, un po’ ubriachi, pieni di spavalderia e gioventù... Uno, soprattutto, che è un conoscente del professore, della sua stessa città europea...
I giovani negri e i giovani bianchi fanno amicizia, presentati dal professore che del resto è abbastanza giovane anche lui...
Poi il professore se ne va, e i giovani restano insieme. Bevono, si ubriacano ancora di più: si abbracciano e vanno a donne.
Il gran sogno dei ragazzi negri è fare l’amore con una donna bianca: essi sanno  a memoria anche i versi di un poeta negro, su questo antico, disperato  desiderio...

La vanno a cercare, la donna bianca, per i quartieri allegri del porto... Ma per la strada, qualcosa ferma Davidson. È una ragazzetta negra con delle sue amiche... (È un episodio questo totalmente da inventare sul posto, secondo la psicologia e le abitudini africane). Davidson lascia la compagnia, con qualche scusa... Parla con la ragazza... Sta con lei. Se ne innamora. Dopo le vacanze...

Capitolo III°
La negra luce

Tutto quello che avevamo intuito attraverso la testimonianza dei ragazzi, nei loro temi, nei loro discorsi con il professore, tutto quello che avevamo capito razionalmente dai commenti scientifici del professore, ora lo vediamo davanti ai nostri occhi.

È il mondo preistorico dell’Africa, appena affiorato alla storia.
La vita tribale, i tabù, i riti, l’odio.

Siamo talmente dentro la vita negra che i personaggi potranno parlare nella loro lingua senza bisogno di traduzione, nè parlata, nè scritta; il mondo è totalmente loro e si esprime totalmente nella loro lingua. Ma le azioni, pur nel loro intraducibile mistero, sono assolutamente semplici, e possono, parlare atrocemente da sè.

Davidson è riprecipitato nel suo mondo, nel cuore dell’Africa.

Ora, nei momenti di tranquillità, di normalità, la sua «cultura storica», europea, potrebbe diffondersi nella sua famiglia, nei suoi coetanei del villaggio. Ma questo non è un momento di pace. La tribù fa parte di una regione dello Stato che ha proclamato la propria indipendenza. E si è giunti, nella foresta, a una vera e propria guerra.
E la guerra, col suo terrore, la sua contagiosa sete di uccidere, non può essere che regressiva: in essa tutto ciò che è storico, è civile, pare dissolversi, ridursi a puro meccanismo – oggetti che servono poi a uccidere: armi, jeeps, aeroplani.
Un po’ alla volta, il villaggio di Davidson diventa il centro del più feroce episodio della breve guerra.
Truppe bianche mercenarie, truppe dell’ONU, tribù africane si scontrano, in combattimenti selvaggi e inutili, spaventosi e senza senso; il caos politico coincide con l’antica furia bestiale degli uomini nati nella foresta.
Davidson, lentamente, ma necessariamente, cade nell’abiezione: abiura dalla sua co-scienza forse senza averne coscienza. Un po’ alla volta le ragioni della tribù diventano le sue; perchè sono quelle del padre, dei fratelli, dei consanguinei. Prende le armi, combatte al loro fianco. È  un contagio, una peste.
A combattere contro le tribù secessioniste ci sono anche truppe dell’ONU: tra cui i giovani «caschi blu» che Davidson aveva conosciuto nella capitale.
Alternativamente, in scene quasi mute, da racconto assolutamente poetico e docu-mentario, nella foresta più funeraria, magari sotto le piogge – seguiamo la storia dei «caschi blu», da una parte, dei negri e delle truppe mercenarie dall’altra. È un’azione di guerra, una delle tante vanamente feroci, intorno a un aeroporto perduto nell’interno.
I «caschi blu» con le loro nostalgie, il loro mondo di giovani europei, le loro allegrie di soldati e uomini d’ordine; i negri con la loro furia preistorica, i riti, le danze; i campi di concentramento; le fami collettive, le stragi.
Un gruppo di bianchi, tra cui i «caschi blu» amici di Davidson, sono fatti prigionieri. Portati nel villaggio. Ammazzati. Squartati.
Nella ferocia di altre epoche storiche, riaffiora il rito religioso del cannibalismo: una specie di folle vertigine. Due, tre immagini da incubo. Davidson è con gli altri della sua tribù a compiere il rito.

Capitolo IV°
Il sogno di una cosa

Ritorna la pace. Ritorna la scuola. È il primo giorno di scuola del nuovo anno. Gli scolari arrivano, pieni di eccitazione; non è come gli altri anni, quando la scuola era un dovere noioso. Adesso, col nuovo professore, le cose si presentano diversamente.
Così il professore, risiedendosi alla cattedra, ha la stupenda sorpresa di vedere che il suo insegnamento ha dato dei frutti insperati. E un’onda di commozione investe lui e i suoi scolari.
Scende dalla cattedra, fra i banchi, va tra i suoi ragazzi: sono amici che si incontrano, e, come amici, si parlano, si raccontano le loro cose.
Quando il professore si avvicina a Davidson, come al più caro dei suoi amici, Davidson lo guarda e, come un automa, scoppia in una specie di gemito terrorizzato.
Comincia così il «male » di Davidson: per tutti misterioso, perchè ignoto a tutti, e inimmaginabile, il trauma che ha prodotto la nevrosi.
Davidson fa ogni cosa meccanicamente: mangia, dorme, va a scuola: in certo senso riesce anche a studiare. Ma è come se fosse dissociato da sè, altro da sè.
Le nozioni le impara, i temi li scrive, alle domande scolastiche risponde: ma come se qualcosa lo separasse da ogni realtà, tenendolo relegato in un mondo di tenebre e di terrore.
Il professore va alla ricerca del suo Davidson, quello su cui aveva puntato tante speranze: e Davidson se ne rende conto, come si rende conto del suo «male»: capisce le lunghe e minute spiegazioni del suo insegnante sulla nevrosi: e cerca di collaborare con lui, che lo interroga, lo studia, lo aggredisce.

Dove va Davidson dopo la scuola? Cosa fa?

Il professore lo segue: Davidson non va in alcun luogo, gira come un automa. Evita i bianchi, ma come senza alcuna intima passione. Spesso va sul porto, in un certo luogo un po’ deserto.
Un giorno, in questo angolo del porto, mentre Davidson è lì, passa una ragazzetta negra, che si ferma, sorride, gli va incontro. Ma Davidson come impaurito, non le risponde, poi le volta le spalle e va via di corsa.

Va a piangere solo come una bestia ai margini della foresta, intorno allo spiazzo.

Non è tanto malato da dover esser dato per perduto: la sua nevrosi è piuttosto una crisi che lo paralizza, lo tiene in uno stato di assenza, di rifiuto ad essere.

Forse, il miracolo avviene casualmente. Talvolta la nevrosi crea da sè la guarigione...

Può apparire un Dio, un’immagine sacra... Ma anche un fantasma di altro ordine...

Un giorno, in classe, il professore rilegge la poesia del grande poeta africano che l’anno prima, i suoi scolari e soprattutto Davidson non avevano voluto capire. Tutti,  ora, la capiscono, e Davidson, ascoltandola, ha finalmente come un moto di vita... Il professore se ne accorge, e legge la poesia con tutta l’anima. Il moto di vita nell’occhio, nel volto di Davidson presto si cancella, ma non del tutto, non del tutto...
Mentre i ragazzi giocano al pallone, nella radura davanti alla scuola, Davidson sta seduto in disparte. Pensa... e, all’orecchio, come dettato da qualcuno, gli risuonano delle parole. Sono versi. Li ascolta, li ripete. Si alza. Va nella camerata, al suo tavolino, a scrivere. Sono versi tremendi, di totale disperazione, di morte: non solo sua, di Davidson, ma dell’intera razza negra.
Davidson, con quel nuovo segno di vita negli occhi, il giorno seguente, si presenta al suo professore, e timidamente, muto, gli fa vedere quello che ha scritto.
Sono versi bellissimi: e il professore glielo dice subito, stupito, felice. Gli dice addirittura che sono tanto belli, che li spedirà ad una rivista europea, perchè li pubblichi; e io abbraccia, pieno di speranza.
Davidson che aveva sempre collaborato col suo professore, nella impotente lotta contro il suo «male», ora, coi professore, si rende conto che qualcosa è accaduto.
Il «male» non è più su lui, come una forza maligna, che lo rende assente e atterrito; non è più un tutto insondabile e invincibile; è incrinato.
Esprimersi significa guarire. Non importa se l’espressione è confusa, e se la speranza in fondo all’espressione è solo il «sogno di una cosa», come dice Marx.
Con questa timida speranza in fondo al cuore, Davidson va a vagare, come ogni giorno solo, lungo il porto. È sempre cupo, angosciato.
Ed ecco, ancora, camminando, la voce: la sua voce interiore che gli dice altri versi, anch’essi disperati: negro, a che ti serve amare? A dar vita ad altri negri infelici come te?
E quando vede, con le compagne, tutta dolcemente allegra, camminare la sua ragazza, immemore, ignara, ecco che altri versi gli vengono in mente. Ma sono già più umani, già affiora in essi, più esplicita, la speranza, il «sogno di una cosa», di un futuro confuso ma felice, al cui pensiero, un leggero sorriso può biancheggiare nel fosco viso del ragazzo negro.

      

    
      




Alfredo Bini:
Dopo la sua morte comprai il libretto con la sceneggiatura del Padre selvaggio, il film che per quella bravata non eravamo più riusciti a realizzare. In fondo, trovai una poesia di dieci pagine, bellissima, in cui Pasolini raccontava questa vicenda. Rimasi sorpreso e commosso. Mi descriveva con «la faccia gialla e rossa, sfumata nella stempiatura, in alto, nel liscio, tondo mento, in basso: col mezzo baffo rosso, crudele, di profilo, come d’un Lanzichenecco di mezza età»; raccontava di quello scontro «dietro un tavolo, di gusto rustico», mentre lo fisso, «occhi azzurri ma classici»

Alfredo Bini
Hotel Pasolini
Un’autobiografia
Dietro le quinte del cinema italiano
A cura di Simone Isola
e Giuseppe Simonelli


E l'Africa?

La faccia gialla e rossa, sfumata
nella stempiatura, in alto, nel liscio,
tondo mento, in basso: col mezzo baffo
rosso, crudele, di profilo, come
d'un Lanzichenecco di mezza età,
sceso da Terre coi tetti a guglia e i fiumi gelati...
Era questa faccia,
che, dietro un tavolo, di gusto rustico,
per grandi burocrati,
mi fissava coi suoi occhi azzurri ma classici,
mentre fuori scoppiavano le bombe atomiche
nel cielo giallognolo di un pomeriggio di vent'anni fa.
Poi cominciò — gonfia
di isterismo, e rossa
come un prepuzio di sangue —
a rimproverarmi, a darmi del pazzo...
E io... innocente, offeso... ascoltavo,
rimescolando nella gola di adolescente vestito
dalla madre,
lacrime e rimostranze: inutilmente! Egli,
uomo pratico, aveva ragione:
avevo speso troppo denaro per raffinatezze inutili,
e, inoltre, avevo toccato suscettibilità di grandi,
innocenti, anche loro, nella loro gloriosa vita privata.
Lo ascoltavo. Non esplodeva, ancora:
anche la sua gola di Lanzichenecco era una gola di ragazzo,
e, anche li, al rimprovero, si mescolavano sorde lacrime.
Il broncio sotto il baffo rosso, giallognolo,
era spia di qualcosa di sacro
che gli succedeva nel petto.
E io: «Non lo sapevo, come potevo
saperlo, è solo un anno che faccio questo lavoro!»
E altre confuse, offese parole che non ricordo.
E, intanto, la sua faccia si sdoppiava:
anzi, prima, per qualche istante,
egli fu un altro, che si affacciò a una soglia,
non lontana dal tavolo, nella luce
di quell'antico pomeriggio di una guerra ingiallita.
Era lui, il vero padrone, e infatti, diceva
all'armigero (per un po', così, tacitato):
«Che importa, qualche spesa in più, ora
che sono fermo con la produzione!»
E io ero un po' sollevato.
Ma quell'altro, li, che per osmosi
era uscito dal costato di Bini, era mio padre.
Il padre non nominato, non ricordato
dal dicembre del cinquantanove, anno in cui mori.
Ora era lì, padrone quasi benevolo:
ma subito rifu il mio coetaneo goriziano
di pelo rosso, le mani in saccoccia,
pesante come un paracadutista dopo il rancio.
Risolta, così, a mio parziale vantaggio
la questione dell'altro film
— sognato poco prima e persistente
con immagini agresti e desertiche nel nuovo sogno —
ci fu un breve silenzio, carico,
in apparenza, di consolazione, in realtà di lucido dolore.
Mi avvicinai a lui, che frattanto
s'era appoggiato a una parete della stanza
alle mie spalle, in raccolto silenzio,
mi avvicinai a lui, e timidamente quasi sul suo viso...
che ormai era solo il viso di mio padre,
con la sua pelle grigia di ubriaco e di morente,
gli sussurrai: «E...L'Africa?
E i flamboyants di Mombasa?
I rami rossi, contro il fogliame verde,
campione stilistico rosso sul fondo verde, rosso e verde
senza di cui la mia anima non poteva più vivere? »
Ah, padre ormai non mio, padre nient'altro che padre,
che vai e vieni nei sogni,
quando vuoi,
come un cinghiale appeso a un uncino, grigio di vino e
morte
presentandoti a dire cose terribili,
a ristabilire vecchie verità,
col gusto di chi le ha sperimentate,
morendo nel vecchio letto matrimoniale da pochi soldi,
vomitando il sangue delle viscere sui lenzuoli,
viaggiandosene per una notte e un giorno
in una cassa da morto verso l'inospitale Friuli
di un soleggiato giorno d'inverno del cinquantanove!
II mondo è la realtà che tu hai sempre paternamente
voluto.
E io, figlio, a sperimentare sistematicamente tutto,
tutto quello che di straziante devono sperimentare i figli,
mi ritrovo qui, prima cavia di un dolore ignoto,
a prefigurare il caso dell'impossibilità
«a esprimersi per ragioni di forza maggiore»;
cosa che mai poeta, severo possessore almeno di un'umile
penna,
ebbe nei secoli a temere.
Martirio, un po' ridicolo come tutti i martirî.
Ma in questa grande normalità paterna dei sogni e della
vita
dopotutto, com'è commovente,
il mio voler morire, nel sogno,
per la delusione d'un rosso e d'un verde perduti!

30 gennaio 1963 e pubblicata nel 1967 su “Cinema e film”.


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog


Pasolini per Eduardo - La sceneggiatura del film Porno-Teo-Kolossal, 1975

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Eduardo è un Re Magio. Passa tutta la giornata in calcoli e in ricerche sui suoi testi...
Poi trascina Nunzio per le strade di Napoli che non è "che un grande teatro dove si recita
la più grande scena della sua storia..."



Pasolini per Eduardo
La sceneggiatura del film Porno-Teo-Kolossal, 1975


Roma, 24 settembre 1975 

Caro Eduardo,
eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo.
Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale. 
Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. 
Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa. 
Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa.
Ti abbraccio con affetto, tuo 
Pier Paolo

I fotogrammi qui proposti illustrano la sintesi della sceneggiatura che Pier Paolo Pasolini  fissò su un registratore vocale, trascrivendone poi il testo per inviarlo a Eduardo De Filippo, che sarebbe stato l'interprete principale del nuovo film dal titolo Porno-Teo-KolossalI fotogrammi stessi sono frutto del lavoro di Annalisa Corsi, che ha realizzato le animazioni  che creano un originale contenuto ispirato appunto alla sceneggiatura del film. Le animazioni, a loro volta, sono in La voce di Pasolini, un film di Matteo Cerami e Cesare Sesti (2006, Feltrinelli Real Cinema, Produzione e Distribuzione Bim e Indigo Film): da questo film sono tratti i fotogrammi cui si è fatto cenno. L'ipotesi a disegni animati creata dalla Corsi comprende la partenza di Epifanio e Nunzio (Eduardo e Ninetto) da Napoli, e ha come tappe fondamentali Roma/SodomaMilano/Gomorra e Parigi/Numanzia. Nell'animazione appare anche lo stesso Pasolini, in funzione di narratore.


L'ultimo inferno: Porno-Teo-Kolossal
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"Ci troviamo nel buio e nel si silenzio delle altezze cosmiche.In fondo, ai nostri piedi, si vede il globo terrestre."Questo l'incipit della sceneggiatura pasoliniana per il film che avrebbe dovuto avere Eduardo De Filippo quale interprete principale...

Eduardo guarda dalla finestra, da cui vede i vicoli di Napoli. Alle sue spalle, Nunzio.
Eduardo è un po' Don Chisciotte, il suo servitore, Nunzio, un po' Sancho Panza..
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Beh, chiudiamo la finestra... Domani Epifanio e Nunzio partiranno... in treno... verso il nord. 
Lassù, la Stella Cometa gli indicherà il percorso.



Poco dopo il montaggio di Salò e pochi mesi prima di morire Pasolini scrive insieme a Sergio Citti una sceneggiatura per "un film sull'ideologia" che doveva rappresentare tre diversi tipi di utopia, legati a un passato paleoindustriale, a un presente neocapitalistico e a un futuro tecnocratico, inesorabilmente destinati a fallire attraverso catastrofi apocalittiche che avrebbero condotto alla fine anche dell'ultima utopia: quella della Fede.






Ed eccoli, Epifanio e Ninetto 
sono ancora a Napoli, 
e si avviano alla partenza...
E l'Autore? Pier Paolo Pasolini
è intento a pensare, a immaginare,
a raccontare quest'altra sceneggiatura...
Non meno metaforica e ideologica di Salò e non meno complessa e illimitata di Petrolio, la narrazione del Porno-Teo-Kolossal (1975) si sviluppa attraverso un viaggio fantastico e allucinato (che richiama in parte quello "surreale" di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini e in parte quello "evangelico" di San Paolo nel progetto omonimo non realizzato), compiuto dalla coppia di Nunzio ed Epifanio (Ninetto Davoli ed Eduardo De Filippo) intenta a seguire una Cometa (l'Ideologia) che si dirige verso il luogo dove è nato il Messia. 
La ragione del pellegrinaggio della coppia servo-padrone (anziché di quella padre-figlio) riposa dunque su una speranza di carattere religioso (l'avvento del Salvatore) e non più su una delusione di natura politica (la fine del marxismo), tanto che il "viaggio" attraverso tre città-metafora con una destinazione finale in Oriente si trasforma nella presa di coscienza di una "realtà" che coincide con la fine di ogni utopia.
Ed eccoli arrivati a Sodoma, stazione Termini...
Ciò che risulta più significativo, comunque, è il fatto che per raccontare una storia di forte impianto ideologico-simbolico, in cui vengono contaminati generi diversi (la fiaba magica, il racconto picaresco, il racconto erotico, l'apologo biblico), Pasolini adotta quasi esclusivamente il linguaggio del corpo, sviluppandone tutti gli aspetti relativi alla sessualità: dal ciclo divieto-trasgressione-punizione al rapporto tra permessività e comprensione o tra intolleranza e repressione, dalla scoperta dell'erotismo omofilo o eterofilo alla correzione esemplare oppure all'esecuzione capitale, dallo scandalo per la violazione del divieto alla più efferata violenza fallocratica. Il viaggio di Nunzio ed Epifanio verso la terra del Messia si sviluppa secondo una struttura perfettamente simmetrica e speculare, attraverso cui il regista costruisce tre realtà ispirate, ognuna, a un diverso tipo di utopia a seconda dell'ambientazione immaginaria che le caratterizza. 
L'antagonismo tra Sodoma/Roma e Gomorra/Milano si misura innanzi tutto su un asse storico-politico, che contrappone una Roma degli anni '50, ancora incontaminata dagli scempi del patto industriale e basata sui principi di tolleranza e di democrazia "reali", a una Milano della metà degli anni '70, totalmente invasa dai "disvalori" del neocapitalismo e governata dalle più aspre forme di violenza e di terrore. 
L'esercizio del potere in entrambe le città si manifesta attraverso due forme contrapposte di coercizione sessuale che presuppongono, ognuna, una corrispettiva esaltazione erotica di segno opposto, da cui scaturisce una visione del sesso come elemento discriminatore tra la libertà concessa, il costume imposto e il regime punitivo. Se, infatti, a Sodoma la norma è rappresentata dalle coppie omosessuali rigorosamente divise tra uomini e donne, mentre quelle eterosessuali sono segregate nel Quartiere Borghese, dove sono tuttavia tollerate da una polizia assai cordiale e benevola (che tutt'al più consiglia ma non proibisce), a Gomorra impera un regime fallocratico che non solo permette ma addirittura impone rapporti sessuali violenti tra uomini e donne, nonché ogni genere di aggressione e vandalismo, punendo al contrario, con inaudita ferocia, qualsiasi forma di omofilia clandestina.
In quest'assetto antitetico tra le due città anche le feste nazionali (impostate sempre sull'abuso del sesso) rispecchiano la natura dei loro governi: a Sodoma si celebra la Festa della Fecondazione che consiste in un grande coito annuale in cui, nell'euforia collettiva, uomini e donne si accoppiano per garantire la continuità della specie, in un clima di tolleranza "reale" nei confronti delle minoranze razziali ed eterosessuali; a Gomorra viene invece celebrata la Festa dell'Iniziazione in cui orde di giovani nudi, dopo una lunga "cattività", vengono liberate e incitate a impossessarsi della città attraverso ogni genere di violenza (stupri, rapine, saccheggi), in un'atmosfera di odio bestiale e di cieca malvagità.
Create queste due grandi utopie - quella della mitezza e della tolleranza rappresentata da Sodoma e quella della violenza e della crudeltà incarnata da Gomorra - Pasolini inserisce in entrambe un'"anomalia del destino" che si manifesta attraverso la trasgressione della norma provocata dalla scoperta della vera passione, ovvero dall'esperienza del sesso "uguale" o "diverso" a seconda della coercizione subìta. Entrambe queste "anomalie" avvengono quando Epifanio dorme in una locanda e dunque non vede quello che accade, trasformando così l'angolazione soggettiva (attraverso la quale vengono rappresentate le feste nazionali e le punizioni esemplari) in una visione oggettiva che svela, al contrario, i momenti più intensi e significativi.

A Sodoma, durante una festa da ballo in cui uomini e donne danzano rigorosamente divisi, un ragazzo e una ragazza si accorgono di essere "misteriosamente" attratti tra loro, al punto di abbandonarsi ai piaceri del "sesso diverso": "... la cosa è molto poetica perché si tratta della scoperta dell'amore e quindi del sesso nella sua originaria purezza. Ma è anche, s'intende, molto erotica, trattandosi appunto della scoperta della carne e della sua profonda emozione". Date le regole di bontà e di mitezza che governano la città, una volta scoperti i due vengono sottoposti a "un linciaggio molto bonario" e condannati a una pena "solenne ed esemplare". All'interno dello Stadio Torino, gremito da una folla in delirio, la ragazza è costretta a farsi possedere con falli di legno da "tre bellissime donne, fiorenti, felici, giunoniche", mentre il ragazzo viene sottoposto alla violenza di tre superdotati "tra i più prestanti della città, forniti del membro più grosso".

A Gomorra la trasgressione si verifica in termini e con esiti molto diversi: è nel corso della proiezione di un film pornografico in una grande arena all'aperto che un operaio di mezza età e un giovane studente scoprono di provare "un sentimento di amore l'uno per l'altro", che li porta ad avvicinarsi e a toccarsi. «L'uomo lo tocca - dopo mille, atterrite incertezze sulla coscia, poi piano, piano, ormai deciso a perdersi, comincia a toccargli il membro; poi prende la mano del ragazzo e la porta sul proprio... Insomma i due scoprono a vicenda, i loro sessi "uguali"». 
Coerentemente ai principi ispirati alla violenza e alla brutalità più inaudite, i due trasgressori, colti in flagrante, vengono insultati e linciati da una folla furibonda e poi condannati al massimo della pena: "l'esecuzione capitale". Questa viene attuata in Piazza del Duomo e differenziata per i due "colpevoli": dopo essere stati entrambi spogliati e torturati, lo studente viene sepolto vivo davanti al Duomo, spinto a forza dentro una buca e ricoperto di blocchi di marmo; l'operaio, invece, viene legato al carrello di un elicottero e ucciso in volo, in modo che il suo sangue possa colare sulla folla sottostante che «... urlando e insultando, (lo) accoglie nei palmi delle mani, lo lecca, se ne sporca gli abiti, se ne lorda il viso, in una sorta di atroce scena di cannibalismo rituale».
Se, dunque, a Sodoma l'infrazione del divieto viene punita secondo un sistema piuttosto blando che mette in atto uno spettacolo goliardico basato sulla legge del contrappasso, a Gomorra si scatena un macabro rito orgiastico all'insegna della violenza più barbarica che non può che rinviare alle atroci esecuzioni di Salò
Ma il vero orrore di questo inferno, che Epifanio e Nunzio vanno scoprendo nel corso del loro viaggio, appare soltanto quando la vendetta divina si scaglia contro gli eccessi perpetrati dai due regimi, distruggendo entrambe le città e, insieme a queste, le relative utopie. A dispetto dell'atmosfera di mitezza che avvolge Sodoma, dopo l'esemplare punizione dei due ragazzi eterosessuali, un gruppo di giovani teppisti tenta di violentare alcuni bellissimi ufficiali alloggiati nella casa di Lot (il quale preferisce offrire la moglie e le tre figlie alle lesbiche della città piuttosto che lasciare i suoi ospiti nelle grinfie dei pericolosi sodomiti), scatenando definitivamente la collera di Dio che scaglia i suoi fulmini punitivi addosso alla città, facendola bruciare "come in un quadro surrealista", attraverso uno spaventoso incendio che si trasforma subito in uno "spettacolo biblico e apocalittico".
In proporzione alla carica di violenza e di terrore che si diffonde a Gomorra, la distruzione di questa città avviene in un modo ancora più orrendo e raccapricciante. La vendetta divina si esprime attraverso una terribile peste che contagia subito tutti, provocando "sofferenze indescrivibili" seguite da una morte atroce: tutti i cittadini sono colti da sintomi spaventosi: chi vomita; chi, preso da una diarrea interminabile, defeca nelle strade, morendo sulla propria merda; chi muore sul proprio vomito, pustole orrende invadono i corpi - cadono gli occhi marci dalle occhiaie - cadono i capelli irti - tutti gli abitanti di Gomorra diventano spettri purulenti, che piano piano si decompongono e muoiono uno sull'altro, ammucchiandosi in cataste immense.

La terza città che i due pellegrini incontrano lungo il loro cammino incarna un'altra utopia, quella del socialismo, minacciata da uno stato d'assedio ad opera dell'esercito fascista. Numanzia è in realtà una Parigi "futuribile" (per quanto l'atmosfera di occupazione nazista riecheggia quella dell'ultima guerra), assediata da una polizia tecnocratica che contabilizza, smista e incolonna i passeggeri che arrivano, per destinarli ai campi di concentramento. Diversamente da Sodoma e da Gomorra caratterizzate da regimi imperniati su una specifica condotta sessuale (morbida e omofila, oppure violenta ed eterofila), Numanzia conserva ancora una libertà di espressione, che, tuttavia, sotto la pressione dell'assedio porta all'estrema risoluzione del suicidio collettivo. 


La proposta compiuta dal poeta, il relativo lancio sulla stampa, il dibattito in Parlamento con conseguente referendum e la decisione collettiva di darsi tutti la morte per sottrarsi alla schiavitù fascista avvengono durante un altro lungo sonno di Epifanio, che anche qui non vede e dunque rimane estraneo al momento cruciale in cui si decide il destino di un'intera città. La fine del popolo di Numanzia (in cui ognuno si uccide immortalandosi nell'azione che più desidera) non è, dunque, stabilita da una vendetta divina che si sfoga attraverso un cataclisma apocalittico (l'incendio, la peste), ma è altresì decisa da una volontà umana che pianifica una sorta di suicidio "ideologico" per prevenire un ben più atroce genocidio tecnocratico messo in atto dall'avvento del regime neo-nazista.



L'arrivo dei due viaggiatori in Oriente avviene in un'atmosfera di totale desolazione, in cui a poco a poco essi perdono i bagagli, vengono derubati dei vestiti, finché, dopo aver attraversato paesaggi sempre più inquietanti e desertici, da "fine del mondo", al Re Magio, durante il suo ultimo sonno, viene sottratto il prezioso pacco che egli aveva sempre portato stretto al petto, contenente il dono per il Messia: uno splendido presepe vivente interamente d'oro. Il furto del presepe non è che il preludio al fallimento dell'ultima utopia rappresentata dalla Cometa: quella della fede. Giunti, ormai in mutande, nell'immaginaria località di Ur, i due scoprono che il Messia non c'é più, o meglio è nato ma è anche già morto, in quanto il loro viaggio è durato troppo a lungo, tanto da essere arrivati "irrimediabilmente tardi".


Malgrado il senso di sconforto e di abbandono che informa l'ultima parte della sceneggiatura, il finale rimane misteriosamente sospeso e non finito, tanto che anziché chiudere il testo all'insegna di un'ipotizzabile "ideologia della morte", lascia cadere l'accento non più sull'illusione di un'altra impossibile utopia, bensì sulla presa di coscienza della realtà appena conosciuta, che, se non offre alcuna speranza, dispone quanto meno a una nuova attesa. Difatti, dalla sommità del cielo - verso cui sono ascesi Nunzio (trasformato in Angelo) e lo spirito di Epifanio (morto dallo sconforto), senza riuscire altresì a trovare alcun Paradiso - i due osservano in lontananza la terra piccola come un mappamondo, dalla quale provengono voci e rumori della vita quotidiana, seguiti da canti rivoluzionari.




"Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualcosa succederà"



Nel "silenzio" e nel "vuoto" del cielo Epifanio commenta con filosofico distacco: [...] è stata un'illusione quella che (mi) ha guidato attraverso il mondo - ma è stata quell'illusione che, del mondo, (mi) ha fatto conoscere la realtà. [...] Eppure... come tutte le Comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata. Ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto...
La disillusione, dunque, produce conoscenza e la perdita della speranza provoca la scoperta della "realtà". Se è vero che finisce l'utopia, inizia però l'attesa che qualcosa possa accadere, come sentenzia Nunzio nelle ultime parole che concludono la sceneggiatura: "Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualcosa succederà". Un nuovo corso? Una nuova "realtà"? La possibilità di un nuovo impegno?
Nella sua dimensione surreale e metafisica il finale sfuma nell'ambiguità, lasciando semmai la possibilità di immaginare (anche grazie all'eco di quei "canti rivoluzionari") un futuro oltre la catastrofe.
*  *  *

Fallocrazia, visionarietà, sarcasmo
Un commento alla sceneggiatura

  Malgrado sia rimasto in forma di sceneggiatura, il testo del Porno-Teo-Kolossal risulta assai ricco di elementi riguardanti non solo la riflessione ideologica (con le relative allegorie politiche e culturali), ma soprattutto la concezione fallocratica della sessualità e il gioco della "doppia visuale" (oggettiva e soggettiva) che si collega direttamente all'ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Nella perfetta complementarità delle due città-utopia basate sui contrapposti regimi sessuali persiste, di fatto, un tipo di visione che evidenzia la virilità maschile a fronte della passività femminile e privilegia il rapporto gay rispetto a quello lesbico, in base a un immaginario (sia in senso omofilo che in senso eterofilo) fortemente fallocratico. La punizione "esemplare" che subiscono il ragazzo e la ragazza di Sodoma è basata, in entrambi i casi, sulla penetrazione forzata: con "falli di legno" da parte delle "lesbiche giunoniche" e con i "grossi membri" da parte dei "giovanotti superdotati". La stessa improvvisa violenza che conduce alla distruzione della città è esercitata da un gruppo di "sodomiti teppisti" ai danni di alcuni giovani ufficiali, inutilmente contrastata da Lot nell'offrire in cambio le sue figlie alle lesbiche di Sodoma. Nondimeno, la violenza sessuale legalizzata a Gomorra è esclusivo appannaggio degli uomini (soprattutto dei giovani iniziati) ai danni delle donne che finiscono con l'essere vittime o, tutt'al più, complici dell'intero sistema. Allo stesso modo, la passione omosessuale che scatena lo scandalo in tutta la città nasce tra un operaio di mezza età e un giovane studente: coppia curiosamente speculare rispetto alle esperienze vissute dallo stesso Pasolini, in cui l'adulto intellettuale si rapportava ai ragazzi di borgata.
   In questo dominio della virilità esercitata sia in termini di violenza (contro le donne), sia in termini di passione (solo tra uomini), vi è un unico momento in cui viene messo in risalto - in senso letterale - il sesso femminile, sebbene in un contesto estremamente osceno e violento: ovvero durante la proiezione del film pornografico nell'arena di Gomorra. Nella sceneggiatura viene specificato, infatti, che nel corso di questa "produzione volgarissima", in cui si rappresenta un coito "in ogni suo dettaglio", "c'è un'inquadratura consistente in uno zoom che pare entrare, lentamente - attraverso cosce schifosamente allargate - dentro il sesso della donna, in dettaglio: il sesso reso enorme dallo schermo-gigante." Un'immagine del sesso femminile quasi mostruosa e ripugnante, finalizzata ad eccitare il pubblico maschile della città e a spingerlo ad usare la violenza come possesso.
   Anche la storia delle figlie di Lot, ispirata alla leggenda biblica, si conclude in maniera grottesca all'insegna di un tentativo di sodomia. Dopo aver fatto a turno l'amore con il padre sul treno che le sta portando via da Sodoma (stando attente a non voltarsi mai indietro), le ragazze vengono assalite, appena giunte a Gomorra, da un gruppo di giovinastri che le obbliga a voltarsi "verso Sud" per possederle da tergo, con il risultato di trasformarle subito in statue di sale, impietrite per sempre in una "positura ridicola e indecente". È chiara qui l'ironia applicata alla storia biblica: le figlie di fatto "ubriacano il padre e compiono atti lussuriosi con lui", ma nello scompartimento di un treno che rende la scena quanto mai comica; allo stesso modo, la maledizione di essere trasformate in statue di sale si avvera, ma nel momento in cui queste sono costrette a voltarsi per essere beffardamente possedute "alla pecorina".
   Un'altra caratteristica estremamente significativa della sceneggiatura è l'impianto a "doppia visuale" attraverso cui si intrecciano le diverse azioni del racconto. Gli arrivi nelle città e le scoperte dei relativi regimi, le feste nazionali e le punizioni dei trasgressori, gli scenari apocalittici e le fughe dai flagelli sono tutte "soggettive" di Epifanio, il quale assiste (insieme a Nunzio) da testimone inerme, incredulo e spaventato a ciò che gli accade intorno, senza mai prenderne parte. Le uniche visioni "oggettive" della realtà, come è stato notato, sono quelle in cui Epifanio sprofonda in un "sonno cieco" che non gli permette di "vedere" sia gli atti clandestini con cui si trasgrediscono i divieti, sia le reazioni di scandalo e di linciaggio che si diffondono nelle città. 
   Tuttavia c'è un momento in cui la visione soggettiva di Epifanio si sdoppia e diventa "divisa e totale" insieme, in quanto la scena - nella fattispecie la Festa dell'Iniziazione di Gomorra - viene mostrata prima attraverso le "sequenze in diretta" trasmesse dalla televisione e poi attraverso lo sguardo del Re Magio affacciato alla finestra, in modo da offrire una doppia soggettiva (quella della Tv e quella di Epifanio) che ricorda, come nota Roberto Chiesi, le torture e le esecuzioni di Salò mostrate attraverso le lenti del binocolo.
   La visione degli orrori finali di Salò diventava, così, indiretta e furtiva, e Pasolini, obbligando lo spettatore a spiare un voyeur mentre guarda immagini oscene e insopportabili, faceva coincidere il suo sguardo con quello del carnefice. Lo stesso dispositivo visivo sarebbe presumibilmente posto in opera per Porno-Teo-Kolossal: la visione dell'orrore, dell'atroce, mutuata dallo schermo della Tv, resa talvolta precaria da ostacoli che impediscono una visione chiara e definita, diventava ancora più credibile, quindi ancora più atroce. La televisione, quindi, assolve lo stesso ruolo di "filtro" del binocolo, selezionando le scene ed evidenziando gli orrori, con il risultato, però, di offrire sensazioni più realistiche che stranianti, grazie soprattutto alla specificità del mezzo audiovisivo che offre una prospettiva diversa (più "totale" che "personale") rispetto al singolo sguardo umano.
   Per quanto il testo del Porno-Teo-Kolossal sia estremamente ricco di scene iperrealistiche, se non addirittura visionarie (come le atroci punizioni sessuali e sanguinarie o come le spaventose distruzioni apocalittiche), l'andamento fortemente drammatico della storia è stemperato da alcuni "intermezzi" comici messi in atto dalla coppia Eduardo-Ninetto e dalla figura ricorrente del "napoletano" che "soccorre" i pellegrini in ogni città. Come accadeva per i personaggi-maschera di Totò e Ninetto, che con i loro corpi e le loro facce creavano una comicità dai risvolti spesso amari e tormentati (in particolare in Uccellacci e uccellini e nelle due ideo-fiabe), anche i personaggi complementari di Epifanio e Nunzio (l'uno mite e trasognato, l'altro brusco e scortese) danno vita a una serie di situazioni esilaranti, provocate dalle canzoni napoletane cantate da Ninetto e dalle "controscene" comiche mimate da Eduardo, nel corso dei loro spostamenti in treno da una città all'altra. A queste si aggiungono i divertenti incontri basati su intese, agnizioni, confidenze ed effusioni con il misterioso napoletano che, nelle sue molteplici vesti di suonatore ambulante a Sodoma, di venditore di armi a Gomorra, di cuoco dell'esercito fascista a Numanzia e di autista dell'Hotel Continental a Ur, offre ogni volta la sua protezione ai due viaggiatori, fuorché alla fine in cui si rivela, al contrario, il ladro del prezioso presepe destinato al Messia.
   Oltre alla mimica e alla gestualità napoletane, che creano in diverse circostanze un'atmosfera di grande ilarità, esistono altri momenti tragicomici in cui si verificano scene grottesche dai risvolti macabri, come accade nel corso del festeggiamento per l'occupazione di Numanzia. Il bizzarro alterco (intorno alla marca del vino utilizzato per il brindisi) che si genera tra il Capo dell'esercito fascista e il poeta promotore del suicidio collettivo (unico a non essersi ucciso), degenera nella fucilazione immediata di quest'ultimo, il quale, dopo aver tradito i suoi concittadini, muore da eroe alzando il pugno chiuso e gridando "Viva la Rivoluzione!", per una bizzarra questione di puntiglio.
   D'altra parte, lo stesso andamento della sceneggiatura evidenzia non solo "una contaminazione di generi", come rileva lo stesso Chiesi, ma anche "una contaminazione stilistica totale", evolvendosi in questo modo dallo "Stile Elevato o Drammatico" della realtà di Sodoma, allo "Stile Sublime o Tragico" delle atrocità di Gomorra, allo "Stile Medio o Comico" della desolazione di Numanzia e di Ur, per dissolversi, infine, in una conclusione metafisica che lascia aperta ogni interpretazione.
   Non a caso, secondo una perfetta struttura circolare, il Porno-Teo-Kolossal si conclude con la stessa immagine iniziale della Terra vista "dal buio e dal silenzio delle altezze cosmiche". Se, però, in apertura, "il globo terrestre" veniva a poco a poco messo a fuoco, finché non si individuava l'Italia e poi Napoli "con i suoi vicoli, le sue piazzette, i suoi bassi" (da dove prendeva forma tutta la storia), in chiusura il "mappamondo" diventa sempre più lontano e indistinto, finché non si ode soltanto "un confuso brusio di voci", che suscita nel disincantato Epifanio sentimenti di "gratitudine" e di "commozione". 
   Vale a dire che l'unico modo per "comprendere" (nel doppio senso di capire e di contenere) il dramma dell'uomo - ovvero il fallimento dell'utopia - è quello di osservarlo a una certa distanza, da un'ottica soggettiva ma allo stesso tempo universale, che possa abbracciare l'umano dibattersi ("le voci e i rumori della vita quotidiana") attraverso un malinconico e disilluso sguardo cosmico. 


Fonte:
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini
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Curatore, Bruno Esposito

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