Pasolini - VITA, OPERE E MORTE

Pasolini al Setaccio

Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

Saggi "Corsari" - Saggi e scritti su Pier Paolo Pasolini

giovedì 7 gennaio 2021

Pier Paolo Pasolini - Fuori dal Palazzo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



@Lettere Luterane



Fuori dal Palazzo


Il lettore mi perdoni se parto «giornalisticamente» da una situazione esistenziale. Mi sarebbe difficile farne a meno. 
Sono in uno stabilimento di Ostia, tra il turno di lavoro del mattino e quello del pomeriggio. Intorno a me c'è la folla dei bagnanti in un silenzio simile al frastuono e viceversa. Infuria la balneazione. 
Quanto a me - occupato a rigenerarmi dal buio insano del laboratorio di doppiaggio – ho in mano «L'Espresso». L'ho letto quasi tutto, come fosse un libro. 
Guardo la folla e mi chiedo: 
«Dov'è questa rivoluzione antropologica di cui tanto scrivo per gente tanto consumata nell'arte di ignorare?» 
E mi rispondo: 
«Eccola». 

Pasolini - Bisognerebbe processare i gerarchi DC - [lettera inviata al direttore de Il Mondo, 1975]

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Eretico e Corsaro


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Pasolini - Bisognerebbe processare i gerarchi DC
[lettera inviata al direttore de Il Mondo, 1975]


Caro Ghirelli, credo che mi resterà a lungo impressa nella memoria la prima pagina del «Giorno» del 21 luglio 1975. Era una pagina anche tipograficamente particolare: simmetrica e squadrata come il blocco di scrittura di un manifesto, e, al centro, un’unica immagine anch’essa perfettamente regolare, formata dai riquadri uniti di quattro fotografie di quattro potenti democristiani.
Quattro: il numero di De Sade.
Parevano infatti le fotografie di quattro giustiziati, scelte dai familiari tra le loro migliori, per essere messe sulla lapide. Ma, al contrario, non si trattava di un avvenimento funebre, bensì di un rilancio, di una resurrezione. Quelle fotografie al centro della monolitica pagina del «Giorno» parevano infatti voler dire allo sbalordito lettore, che quella lì era la vera realtà fisica e umana dei quattro potenti democristiani. Che gli scherzi erano finiti. Che le raggianti risate di chi detiene il potere non sfiguravano più le loro facce. Né le sfigurava più l’ammiccante furbizia. Il brutto sogno si era dissolto nella chiara luce del mattino. Ed eccoli lì, veri. Seri, dignitosi, senza smorfie, senza ghigno, senza demagogia, senza la bruttura della colpevolezza, senza la vergogna della servilità, senza l’ignoranza provinciale. Si erano rinfilati il doppiopetto e li baciava in fronte il futuro delle persone serie.
Sarei però ingiusto se non aggiungessi che il «Giorno» non è stato il solo ad assumersi il ruolo di rassicurare, in quel momento, la nazione, e di dare il crisma della pacificazione generale alla soluzione del quadrumvirato (e poi a quella del «rispettabile» Zaccagnini).

Pier Paolo Pasolini - LETTERA LUTERANA A ITALO CALVINO.

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Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini


LETTERA LUTERANA A ITALO CALVINO


. Tu dici (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975): 
"I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira". 
Ma perché questo? 

Tu dici: 


" Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive...."
Ma perché questo? 

Tu dici: 


"... il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi..."
Ma perché questo? 

Tu dici: 


"Non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale (di una parte della borghesia italiana, tu dici) alla pratica di seviziare e massacrare..."
Ma perché questo? 

Tu dici: 


" Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico (onde criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche, tu dici)".
Ma perché questo? 

Tu dici 


" I nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento"

1975 * Intervento al Congresso del Partito Radicale * Pier Paolo Pasolini

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Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini
[Intervento al congresso del Partito radicale]
novembre 1975

Pubblichiamo il testo dell'intervento che Pier Paolo Pasolini avrebbe dovuto tenere al Congresso del Partito radicale del novembre 1975. Poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta, perché due giorni prima Pasolini moriva ucciso. C'è un grave pericolo - ci avverte il poeta e saggista - che incombe sul Partito radicale proprio per i grandi successi ottenuti nella conquista dei diritti civili. Un nuovo conformismo di sinistra si appresta ad appropriarsi della vostra battaglia per i diritti civili "creando un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo". Proprio la cultura radicale dei diritti civili, della Riforma, della difesa delle minoranze sarà usata dagli intellettuali del sistema come forza terroristica, violenta e oppressiva. Il potere insomma si accinge ad "assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici". La previsione di Pasolini si è avverata, non solo in Italia, ma nel resto della società occidentale dove, proprio in nome del progressismo e del modernismo, si è affermata una nuova classe di potere totalizzante e trasformista, di certo più pericolosa delle tradizionali classi conservatrici. "Contro tutto questo - concludeva Pasolini - voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticate subito i grandi successi e continuate imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare."

[Il testo soprastante è tratto dal "Numero unico" pubblicato dal Partito radicale per il suo 35° Congresso, Budapest, aprile 1989: il testo dell'intervento pasoliniano risulta, in tale "Numero unico", riportato soltanto parzialmente, con alcuni "omissis". Qui di seguito tale intervento viene proposto nella sua versone integrale (da Meridiani Mondadori). L'intervento venne letto al Congresso del Partito radicale da Vincenzo Cerami]

* * *
Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali. Cioè con quel tanto di volontà e irrazionalità e magari arbitrio che permettono di spiazzare - magari con un occhio a Wittgenstein - la realtà, per ragionarci sopra liberamente. Per esempio: il Pci ufficiale dichiara di accettare ormai, e sine die, la prassi democratica. Allora io non devo aver dubbi: non è certo alla prassi democratica codificata e convenzionalizzata dall'uso di questi tre decenni che il Pci si riferisce: esso si riferisce indubbiamente alla prassi democratica intesa nella purezza originaria della sua forma, o, se vogliamo, del suo patto formale.
Alla religione laica della democrazia. Sarebbe un'autodegradazione sospettare che il Pci si riferisca alla democraticità dei democristiani; e non si può dunque intendere che il Pci si riferisca alla democraticità, per esempio, dei radicali.



Paragrafo primo



A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti.
B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano.
C) Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli).
D) Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori.
E) Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati.
Tra questi intellettuali che da più di un secolo si sono assunti un simile ruolo, negli ultimi anni si sono chiaramente distinti dei gruppi particolarmente accaniti a fare di tale ruolo un ruolo estremistico. Dunque mi riferisco agli estremisti, giovani, e ai loro adulatori anziani.
Tali estremisti (voglio occuparmi soltanto dei migliori) si pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o dinamitarda impazienza, secondo i casi. E dato che non si tratta solo di suscitare (negli adorabili ignari) la coscienza dei propri diritti, ma anche la volontà di ottenerli, la propaganda non può non essere soprattutto pragmatica.


Paragrafo secondo



Disobbedendo alla distorta volontà degli storici e dei politici di mestiere, oltre che a quella delle femministe romane - volontà che mi vorrebbe confinato in Elicona esattamente come i mafiosi a Ustica - ho partecipato una sera di questa estate a un dibattito politico in una città del Nord. Come sempre poi succede, un gruppo di giovani ha voluto continuare il dibattito anche per strada, nella serata calda e piena di canti. Tra questi giovani c'era un greco. Che era, appunto, uno di quegli estremisti marxisti "simpatici" di cui parlavo.
Sul suo fondo di piena simpatia, si innestavano però manifestamente tutti i più vistosi difetti della retorica e anche della sottocultura estremistica. Era un "adolescente" un po' laido nel vestire; magari anche addirittura un po' scugnizzo: ma, nel tempo stesso, aveva una barba di vero e proprio pensatore, qualcosa tra Menippo e Aramis; ma i capelli , lunghi fino alle spalle, correggevano l'eventuale funzione gestuale e magniloquente della barba, con qualcosa di esotico e irrazionale: un'allusione alla filosofia braminica, all'ingenua alterigia dei gurumparampara.
Il giovane greco viveva questa sua retorica nella più completa assenza di autocritica: non sapeva di averli, questi suoi segni così vistosi, e in questo era adorabile esattamente come coloro che non sanno di avere diritti...
Tra i suoi difetti vissuti così candidamente, il più grave era certamente la vocazione a diffondere tra la gente ("un po' alla volta", diceva: per lui la vita era una cosa lunga, quasi senza fine) la coscienza dei propri diritti e la volontà di lottare per essi.
Ebbene; ecco l'enormità, come l'ho capita in quello studente greco, incarnata nella sua persona inconsapevole.
Attraverso il marxismo, l'apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese - l'apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli - altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese impotente contro il borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande.
E' un'inconscia guerra civile - mascherata da lotta di classe - dentro l'inferno della coscienza borghese. (Si ricordi bene: sto parlando di estremisti, non di comunisti). Le persone adorabili che non sanno di avere diritti, oppure le persone adorabili che lo sanno ma ci rinunciano - in questa guerra civile mascherata - rivestono una ben nota e antica funzione: quella di essere carne da macello.
Con inconscia ipocrisia, essi sono utilizzati, in primo luogo, come soggetti di un transfert che libera la coscienza dal peso dell'invidia e del rancore economico; e, in secondo luogo, sono lanciati dai borghesi giovani, poveri, incerti e fanatici, come un esercito di paria "puri", in una lotta inconsapevolmente impura, appunto contro i borghesi vecchi, ricchi, certi e fascisti.
Intendiamoci: lo studente greco che qui ho preso a simbolo era a tutti gli effetti (salvo rispetto a una feroce verità) un "puro" anche lui, come i poveri. E questa "purezza" ad altro non era dovuta che al "radicalismo" che era in lui.



Paragrafo terzo


Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i "diritti civili" che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva essere un'ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti - oppure laica in Francia - hanno assunto una colorazione classista. L'italianizzazione socialista dei "diritti civili" non poteva fatalmente (storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l'estremista che insegna agli altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha gli identici diritti di chi comanda. L'estremista che insegna agli altri a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una democratizzazione in senso borghese. La tragedia degli estremisti consiste così nell'aver fatto regredire una lotta che essi verbalmente definiscono rivoluzionaria marxista-leninista, in una lotta civile vecchia come la borghesia: essenziale alla stessa esistenza della borghesia. La realizzazione dei propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di borghese.



Paragrafo quarto



In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la coscienza dei diritti civili marxistizzati? In che senso il Pci non ha niente a che fare con gli estremisti (anche se alle volte, per via della vecchia diplomazia burocratica, li chiama a sé: tanto, per esempio, da aver già codificato il Sessantotto sulla linea della Resistenza)? E' abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece, lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un'altra forma di vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un'altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche - come dire? - razzialmente diverse. E in realtà, in sostanza, ancora lo sono. In piena età dei Consumi.


Paragrafo quinto


Tutti sanno che gli "sfruttatori" quando (attraverso gli "sfruttati") producono merce, producono in realtà umanità (rapporti sociali).
Gli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale (chiamata altrimenti consumismo: cioè grande quantità, beni superflui, funzione edonistica) producono nuova merce: sicché producono nuova umanità (nuovi rapporti sociali).
Ora, durante i due secoli circa della sua storia, la prima rivoluzione industriale ha prodotto sempre rapporti sociali modificabili. La prova? La prova è data dalla sostanziale certezza della modificabilità dei rapporti sociali in coloro che lottavano in nome dell'alterità rivoluzionaria. Essi non hanno mai opposto all'economia e alla cultura del capitalismo un'alternativa, ma, appunto, un'alterità. Alterità che avrebbe dovuto modificare radicalmente i rapporti sociali esistenti: ossia, detta antropologicamente, la cultura esistente.
In fondo il "rapporto sociale" che si incarnava nel rapporto tra servo della gleba e feudatario, non era poi molto diverso da quello che si incarnava nel rapporto tra operaio e padrone dell'industria: e comunque si tratta di "rapporti sociali" che si sono dimostrati ugualmente modificabili.
Ma se la seconda rivoluzione industriale - attraverso le nuove immense possibilità che si è data - producesse da ora in poi dei "rapporti sociali" immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione  totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia.
Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d'uomo: ma l'umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei "rapporti sociali" immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo), sia, com'è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.
In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all'utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova.

Paragrafo sesto.

Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali, pazienti con tutti come santi, e quindi anche con me: l'alterità non è solo nella coscienza di classe e nella lotta rivoluzionaria marxista. L'alterità esiste anche di per sé nell'entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio dire, patisce, e spesso orribilmente patisce) la sua concretezza, la sua fattualità. Ciò che è, e l'altro che è in esso, sono due dati culturali. Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto, orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è appunto la funzione, fino a oggi, del marxismo: rapporto dialettico tra la cultura della classe dominante e la cultura della classe dominata. Tale rapporto dialettico non sarebbe dunque più possibile là dove la cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, abrogata, come dite voi. Dunque, bisogna lottare per la conservazione di tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura. E' ciò che avete fatto voi in tutti questi anni, specialmente negli ultimi. E siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne di cultura dappertutto: al centro della città, e negli angoli più lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche - ed è tutto dire - di fascisti.


Paragrafo settimo



I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri. Ora, dire alterità è enunciare un concetto quasi illimitato. Nella vostra mitezza e nella vostra intransigenza, voi non avete fatto distinzioni. Vi siete compromessi fino in fondo per ogni alterità possibile. Ma una osservazione va fatta. C'è un'alterità che riguarda la maggioranza e un'alterità che riguarda le minoranze. Il problema che riguarda la distruzione della cultura della classe dominata, come eliminazione di una alterità dialettica e dunque minacciosa, è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema del divorzio è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema dell'aborto è un problema che riguarda la maggioranza. Infatti gli operai e i contadini, i mariti e le mogli, i padri e le madri costituiscono la maggioranza. A proposito della difesa generica dell'alterità, a proposito del divorzio, a proposito dell'aborto, avete ottenuto dei grandi successi. Ciò - e voi lo sapete benissimo - costituisce un grande pericolo. Per voi - e voi sapete benissimo come reagire - ma anche per tutto il paese che invece, specialmente ai livelli culturali che dovrebbero essere più alti, reagisce regolarmente male.

Cosa voglio dire con questo?

Attraverso l'adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti - di cui ho parlato nei primi paragrafi di questo mio intervento - i diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti. Non parlo di coloro che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi: fatto di cui siete giustamente orgogliosi. Parlo degli intellettuali socialisti, degli intellettuali comunisti, degli intellettuali cattolici di sinistra, degli intellettuali generici, sic et simpliciter: in questa massa di intellettuali - attraverso i vostri successi - la vostra passione irregolare per la libertà, si è codificata, ha acquistato la certezza del conformismo, e addirittura (attraverso un "modello" imitato sempre dai giovani estremisti) del terrorismo e della demagogia.



Paragrafo ottavo



So che sto dicendo delle cose gravissime. D'altra parte era inevitabile. Se no cosa sarei venuto a fare qui? Io vi prospetto - in un momento di giusta euforia delle sinistre - quello che per me è il maggiore e peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel prossimo futuro. Una nuova trahison des clercs: una nuova accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto; un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova qualità di vita.
Vi richiamo a quanto dicevo alla fine del paragrafo quinto: il consumismo può rendere immodificabili i nuovi rapporti sociali espressi dal nuovo modo di produzione "creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili".
Ora, la massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo di sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili, ogni reale alterità. Dunque tale potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione intascando una invisibile tessera.
Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.



Fonte:
 http://www.maurizioturco.it/bddb/1975-11-intervento-al-congr.html


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Curatore, Bruno Esposito

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I DILEMMI DI UN PAPA - Pasolini sul Corriere della Sera il 22 settembre 1974

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Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini

I DILEMMI DI UN PAPA OGGI


Forse qualche lettore è stato colpito da una fotografia di Papa Paolo VI con in testa una corona di penne Sioux, circondato da un gruppetto di «Pellerossa» in costumi tradizionali: un quadretto folcloristico estremamente imbarazzante quanto più l'atmosfera appariva familiare e bonaria. Non so cosa abbia ispirato Paolo VI a mettersi in testa quella corona di penne e a posare per il fotografo. Ma non esiste incoerenza. Anzi, nel caso di questa fotografia di Paolo VI, si può parlare di atteggiamento particolarmente coerente con l'ideologia, consapevole o inconsapevole, che guida gli atti e i gesti umani, facendone «destino» o «storia». Nella fattispecie, «destino» di Paolo VI e«storia» della Chiesa. Negli stessi giorni in cui Paolo VI si è fatto fare quella fotografia su cui «il tacere è bello» (ma non per ipocrisia, bensì per rispetto umano), egli ha infatti pronunciato un discorso che io non esiterei, con la solennità dovuta, a dichiarare storico. E non mi riferisco alla storia recente, o, meno ancora, all'attualità.

Tanto è vero che quel discorso di Paolo VI non ha fatto nemmeno notizia, come si dice: ne ho letto nei giornali dei resoconti laconici ed evasivi, relegati in fondo alla pagina. Dicendo che il recente discorsetto di Paolo VI è storico, intendo riferirmi all'intero corso della storia della Chiesa cattolica, cioè della storia umana (eurocentrica e culturocentrica, almeno). Paolo VI ha ammesso infatti esplicitamente che la Chiesa è stata superata dal mondo; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più bisogno della Chiesa, e l'abbandona quindi a se stessa; che i problemi sociali vengono risolti all'interno di una società in cui la Chiesa non più prestigio; che non esiste più il problema dei «poveri», cioè il problema principe della Chiesa ecc. ecc.

Ho riassunto i concetti di Paolo VI con parole mie: cioè con parole che uso già da molto tempo per dire queste cose. Ma il senso del discorso di Paolo VI è proprio questo che ho qui riassunto: ed anche le parole non sono poi in conclusione molto diverse. A dir la verità non è la prima volta che Paolo è sincero: ma, finora, i suoi impulsi di sincerità hanno avuto manifestazioni anomale, enigmatiche, e spesso (dal punto di vista della Chiesa stessa) un po' inopportune. Erano quasi dei raptus che rivelavano il suo stato d'animo reale, coincidente oggettivamente con la situazione storica della Chiesa, vissuta persona1mente nel suo Capo. Le encicliche «storiche» di Paolo VI, poi, erano sempre frutto di un compromesso, fra l'angoscia del Papa e la diplomazia vaticana: compromesso che non lasciava mai capire se tali encicliche fossero un progresso o un regresso rispetto a quelle di Giovanni XXIII. Un papa profondamente impulsivo e sincero come Paolo VI aveva finito con l'apparire, per definizione, ambiguo e insincero.

Ora di colpo, è venuta fuori tutta la sua sincerità, in una chiarezza quasi scandalosa. Come e perché? Non è difficile rispondere: per la prima volta Paolo VI ha fatto ciò che faceva normalmente Giovanni XXIII, cioè ha spiegato la situazione della Chiesa ricorrendo a una logica, a una cultura, a una problematica non ecclesiastica: anzi, esterna alla Chiesa; quella del mondo laico, razionalista, magari socialista - sia pur ridotto e anestetizzato attraverso la sociologia. Un fulmineo sguardo dato alla Chiesa «dal di fuori» è bastato a Paolo VI a capirne la reale situazione storica: situazione storica che rivissuta poi «dal di dentro» è risultata tragica. Ed è qui che è scoppiata, stavolta sinceramente, la sincerità di Paolo VI: anziché prendere la falsariga del compromesso, della ragion di Stato, dell'ipocrisia, sia pure postgiovannea, le parole «sincere» di Paolo VI hanno seguito la logica della realtà.

Le ammissioni che ne sono seguite sono dunque ammissioni storiche nel senso solenne che ho detto: tali ammissioni infatti delineano la fine della Chiesa, o almeno la fine del ruolo tradizionale della Chiesa durato ininterrottamente duemila anni. Certamente - magari attraverso le illusioni che non potrà non dare l'Anno Santo - Paolo VI troverà modo di ritornare (in buona fede) insincero. Il suo discorsetto di questa fine d'estate a Castelgandolfo, sarà formalmente dimenticato, saranno alzate intorno alla Chiesa nuove rassicuranti barriere di prestigio e speranza ecc. ecc. Ma si sa che la verità, una volta detta, è incancellabile; e irreversibile la nuova situazione storica che ne deriva.

Ora, a parte i particolari problemi pratici (come la fine delle vocazioni religiose) sulla cui soluzione il Papa è apparso impotente a fare qualsiasi ipotesi, è su tutta la drammatica situazione della Chiesa che egli si dimostra del tutto irrazionale (cioè, ancora una volta in altro modo, sincero). La soluzione infatti che egli propone è «pregare». Il che significa che dopo aver analizzato la situazione della Chiesa «dal di fuori», e averne intuito la tragicità, la soluzione che egli propone è riformulata «dal di dentro».

Dunque non solo tra impostazione e soluzione del problema c'è un rapporto storicamente illogico: ma c'è addirittura incommensurabilità. A parte il fatto che il mondo ha superato la Chiesa (in termini ancora più totali e decisivi di quanto abbia dimostrato il «referendum») è chiaro che tale mondo, appunto, non «prega» più. Quindi la Chiesa è ridotta a «pregare» per se stessa. Così Paolo VI, dopo aver denunciato, con drammatica e scandalosa sincerità il pericolo della fine della Chiesa, non dà alcuna soluzione o indicazione per affrontarlo.

Forse perché non esiste possibilità di soluzione? Forse perché la fine della Chiesa è ormai inevitabile, a causa del «tradimento» di milioni e milioni di fedeli (soprattutto contadini, convertiti al laicismo e all'edonismo consumistico) e della «decisione» del potere, che è ormai sicuro, appunto, di tenere in pugno quegli ex fedeli attraverso il benessere e soprattutto attraverso l'ideologia imposta loro senza nemmeno il bisogno di nominarla? Può darsi. Ma questo è certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo.

In una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica, è chiaro dunque ciò che la Chiesa dovrebbe fare per evitare una fine ingloriosa. Essa dovrebbe passare all'opposizione. E, per passare all'opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa. Dovrebbe passare all'opposizione contro un potere che l'ha così cinicamente abbandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore. Dovrebbe negare se stessa, per riconquistare i fedeli (o coloro che hanno un «nuovo» bisogno di fede) che proprio per quello che essa è l'hanno abbandonata. Riprendendo una lotta che è peraltro nelle sue tradizioni (la lotta del Papato contro l'Impero), ma non per la conquista del potere, la Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso l'affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio).

È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all'opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi. Faccio un solo esempio, anche se apparentemente riduttivo. Uno dei più potenti strumenti del nuovo potere è la televisione. La Chiesa finora questo non lo ha capito. Anzi, penosamente, ha creduto che la televisione fosse un suo strumento di potere. E infatti la censura della televisione è stata una censura vaticana, non c'è dubbio. Non solo, ma la televisione faceva una continua réclame della Chiesa. Però, appunto, faceva un tipo di réclame totalmente diversa dalla réclame con cui lanciava i prodotti, da una parte, e dall'altra, e soprattutto, elaborava il nuovo modello umano del consumatore. La réclame fatta alla Chiesa era antiquata e inefficace, puramente verbale: e troppo esplicita, troppo pesantemente esplicita. Un vero disastro in confronto alla réclame non verbale, e meravigliosamente lieve, fatta ai prodotti e all'ideologia consumistica, col suo edonismo perfettamente irreligioso (macché sacrificio, macché fede, macché ascetismo, macché buoni sentimenti, macché risparmio; macché severità di costumi ecc. ecc.). È stata la televisione la principale artefice della vittoria del «no» al referendum, attraverso la laicizzazione, sia pur ebete, dei cittadini. E quel «no» del referendum non ha dato che una pallida idea di quanto la società italiana sia cambiata appunto nel senso indicato da Paolo VI nel suo storico discorsetto di Castelgandolfo. Ora, la Chiesa dovrebbe continuare ad accettare una televisione simile? Cioè uno strumento della cultura di massa appartenente a quel nuovo potere che «non sa più cosa farsene della Chiesa»? Non dovrebbe, invece, attaccarla violentemente, con furia paolina, proprio per la sua reale irreligiosità, cinicamente corretta da un vuoto clericalismo? Naturalmente si annuncia invece un grande exploit televisivo proprio per l'inaugurazione dell' Anno Santo. Ebbene, sia chiaro per gli uomini religiosi che queste manifestazioni pomposamente teletrasmesse, saranno delle grandi e vuote manifestazioni folcloriche, inutili ormai politicamente anche alla destra più tradizionale. Ho fatto l'esempio della televisione perché è il più spettacolare e macroscopico. Ma potrei dare mille altri esempi riguardanti la a quotidiana di milioni di cittadini: dalla funzione del prete in un mondo agricolo in completo abbandono, alla rivolta delle élites teologicamente più avanzate e scandalose.

Ma in definitiva il dilemma oggi è questo: o la Chiesa fa propria la traumatizzante maschera del Paolo VI folcloristico che «gioca» con la tragedia, o fa propria la tragica sincerità del Paolo VI che annuncia temerariamente la sua fine.

Da 22 settembre 1974. Lo storico discorsetto  di Castelgandolfo 
dal "Corriere della  sera" col titolo "I dilemmi di un Papa, oggi"

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Aboliamo la tv e la scuola dell'obbligo
(In Lettere luterane con il titolo: Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia)  
di Pier Paolo Pasolini
Corriere della Sera, 18 ottobre 1975

I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa.
Infatti i criminali non sono solo i neofascisti. Ultimamente un episodio (il massacro di una ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e fatto tirare un grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini fascisti. Dunque c'era da rallegrarsi per due ragioni:

1) per la conferma del fatto che sono solo e sempre fascisti la colpa di tutto;
2) per la conferma del fatto che la colpa è solo e sempre dei borghesi privilegiati e corrotti.

La gioia di sentirsi confermati in questo antico sentimento populista - e nella solidità dell'annessa configurazione morale - non è esplosa solo nei giornali comunisti, ma in tutta la stampa (che dopo il 15 giugno ha una gran paura di essere a meno appunto dei comunisti). In realtà la stampa borghese è stata letteralmente felice di poter colpevolizzare i delinquenti dei Parioli, perché, colpevolizzandoli tanto drammaticamente, li privilegiava (solo i drammi borghesi hanno vero valore e interesse) e nel tempo stesso poteva crogiolarsi nella vecchia idea che dei delitti proletari e sottoproletari è inutile occuparsi più che tanto, dato che è aprioristicamente assodato che proletari e sottoproletari sono delinquenti.
Io penso dunque che anche il massacro del Circeo abbia scatenato in Italia la solita offensiva ondata di stupidità giornalistica. Infatti, ripeto, i criminali non sono affatto solo i neofascisti, ma sono anche allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno. Si pensi al delitto dei fratelli Carlino di Torpignattara, o all'aggressione di Cinecittà (un ragazzo percosso brutalmente e chiuso dentro il baule della macchina e la ragazza violentata e seviziata da sette giovani della periferia romana). Questi delinquenti "popolari" - e per ora mi riferisco, con precisione documentata, ai soli fratelli Carlino - godevano della stessa identica libertà condizionale che i delinquenti dei Parioli; godevano cioè della stessa impunità. E' assurdo dunque accusare i giudici che hanno mandato in giro "a piede libero" i neofascisti se non si accusano nello stesso tempo e con la stessa fermezza i giudici che hanno mandato in giro "a piede libero" i fratelli Carlino (e altre migliaia di giovani delinquenti delle borgate romane).
La realtà è la seguente: i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa. Occorrono migliaia di casi come quelli della festicciola sadica del Circeo o di aggressività brutale per ragioni di traffico, perché si realizzino casi come quelli dei sadici pariolini o dei sadici di Torpingnattara. Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno che l'universo popolare romano è universo "odioso". Lo dico con scandalo dei benpensanti; e soprattutto con scandalo dei benpensanti che non credono di esserlo. E ne ho anche indicato le ragioni (perdita da parte di giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento eccetera). E a proposito, poi, di un universo criminaloide come quello popolare romano bisognerà dire che non valgono le consuete attenuanti populistiche: è necessario munirsi della stessa rigidità puritana e punitiva che siamo soliti sfoggiare contro le manifestazioni criminaloide dell'infima borghesia neofascista. Infatti i giovani proletari e sottoproletari romani appartengono ormai totalmente all'universo piccolo borghese: il modello piccolo borghese è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre. E i loro modelli concreti sono proprio quei piccoli borghesi idioti e feroci che essi, ai bei tempi, hanno tanto e così spiritosamente disprezzato come ridicole e ripugnanti nullità. Non per niente i seviziatori sottoproletari della ragazza di Cinecittà, usando di lei come di una "cosa", le dicevano: "Bada che ti facciamo quello che hanno fatto a Rosaria Lopez". La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all'offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - m'insegna che non c'è più alcuna differenza vera nell'atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate. La stessa enigmatica faccia sorridente e livida indica la loro imponderabilità morale (il loro essere sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancata acquisizione di nuovi: la totale mancanza di ogni opinione sulla propria "funzione").
Un'altra cosa che l'esperienza diretta m'insegna è che questo è un fenomeno totalmente italiano. Fa parte del conformismo, peraltro antiquato, dell'informazione italiana il consolarsi col fatto che anche negli altri Paesi esiste il problema della criminalità: esso esiste, è vero: ma si pone in un mondo dove le istituzioni borghesi restano solide ed efficienti, e continuano a offrire dunque una contropartita.
Che cos'è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall'ansia economica di esserlo? Che cos'è che ha trasformato le "masse" dei giovani in "masse" di criminaloidi? L'ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una "seconda" rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la "prima": il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo "reale", trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c'è più scelta possibile tra male e bene. Donde l'ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall'assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c'è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c'è stata: la scelta dell'impietrimento, della mancanza di ogni pietà. Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Cioè che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro mondo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s'intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione della masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l'a priori progressista valido fino a una decina d'anni fa).
Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere.

1) Abolire immediatamente la scuola media dell'obbligo.
2) Abolire immediatamente la televisione.

Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.
La scuola d'obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell'autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po' di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un'altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d'obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all'ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l'optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d'obbligo è esattamente come io l'ho descritta (e mi angoscia letteralmente l'idea che vi venga aggiunta una "educazione sessuale", magari così come la intende lo stesso "Paese Sera"), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E' questo il nodo della questione). Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: cioè che ho detto a proposito della scuola d'obbligo va moltiplicato all'infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un "esempio": i "modelli" cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? E' stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l'era della pietà, e iniziato l'era dell'edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell'irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).
Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l'immediata cessazione delle lezioni alla scuola d'obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo - come di qualsiasi altro "luogo culturale" - col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e "l'Unità": e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tenendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita.
Pier Paolo Pasolini


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Sandro Penna: «Un po' di febbre» - (Tempo, 10 giugno 1973)

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Sandro Penna: «Un po' di febbre»
(Scritti Corsari Editore Garzanti, 1975)

Che paese meraviglioso era l'Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!
La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent'anni non è più cambiata: non dico i suoi valori - che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire - ma le apparenze parevano dotate del dono dell'eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata.
Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo.
Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more.
I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi. La gente indossava vestiti rozzi e poveri

(non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati);

i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c'era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo.
E' vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste.
Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po' rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna?
La loro attesa era lunga quanto l'adolescenza - malgrado qualche eccezione ch'era una meravigliosa colpa - ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni. Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri.
La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza. Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l'onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.
Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa - e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l'isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all'adulazione - è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l'Italia fascista o distrutta dalla guerra. I delinquenti al potere - sia a Roma che nei municipi della grande provincia campestre - non facevano parte della vita: il passato che determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.
Nel libro Un po' di febbre di Sandro Penna, si rievoca questa Italia. Il trauma è grande.
Non si può non essere sconvolti. Leggendo queste pagine prende un'emozione che fa tremare.
E fa venire anche una certa voglia di andarsene da questo mondo, con quei ricordi.
Infatti non è un cambiamento di epoca, che noi viviamo, ma una tragedia. Ciò che ci sconvolge non è la difficoltà di adattarsi a un nuovo tempo, ma un immedicabile dolore simile a quello che dovevano provare le madri vedendo partire i loro figli emigranti e sapendo che non li avrebbero visti mai più. La realtà lancia su noi uno sguardo di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre.
Nel libro di Penna quel mondo appare ancora in tutta la sua stabilità ed eternità, quando era «il» mondo, e nulla avrebbe mai fatto sospettare che sarebbe cambiato. Penna lo viveva avidamente e totalmente. Aveva capito che era stupendo.
Niente lo distrae da quella meravigliosa avventura che si ripete ogni giorno: svegliarsi, andare fuori, prendere a caso un tram, camminare a piedi là dove vive il popolo, fitto e chiassoso nelle piazze, disperso e intento ai suoi quotidiani lavori nelle lontane periferie lungo i campi; o col sole che tutto protegge con la sua luce silenziosa, o sotto una sublime impalpabile pioggia primaverile; o all'alitare del primo, esaltante buio di una lenta sera; e infine incontrare - ché questa apparizione non manca mai - un ragazzo amato subito per la innocente disposizione del suo cuore, per l'abitudine a una obbedienza e a un rispetto non servili, per una sua libertà dovuta alla sua grazia: per la sua rettitudine. Sembra che mai Penna potesse esser tradito nelle sue speranze di tali incontri, che davano all'esistenza quotidiana, già per sé esaltante la miracolosa gioia della rivelazione, ossia della ripetizione.
Nelle pagine di questi suoi brevi racconti - scritti con una abilità narrativa che non ha niente da invidiare al Bassani dell'Odore del fieno o al Parise di Sillabario - e lo dico perché Penna narratore è una novità e una sorpresa - è contenuta tutta la realtà di quella forma di vita, in cui la gioia, promessa e ottenuta, era diventata una forma ossessiva. Tanto che è difficile parlare di Un po' di febbre come di un libro: esso è un brano di tempo ritrovato. E' qualcosa di materiale.
Un delicatissimo materiale fatto di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di case povere, interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza e innocente complicità. E com'è sublime il completo, totale disinteresse di Penna per ciò che accadeva al di fuori di questa esistenza tra il popolo. Niente è stato più antifascista di questa esaltazione di Penna nell'Italia sotto il fascismo, vista come un luogo di inenarrabile bellezza e bontà. Penna ha ignorato la stupidità e la ferocia del fascismo: non l'ha considerata esistente. Peggiore insulto non poteva - innocentemente - inventare contro di esso.
Ché Penna è crudele: non ha pietà per ciò che minimamente non è investito dalla grazia della realtà, figurarsi per ciò che n'è fuori o contro.
La sua condanna - non pronunciata - è assoluta, implacabile, senza appello.
Nella sua ristrettezza di motivi e di problemi, nel minimo spazio che si consente, questo libro in realtà è colmo di un sentimento immenso, straripante della vita.
La gioia vi è così grande da essere dolorosa. Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia. Questa illimitatezza sentimentale, fa intravedere in questo poeta, che (forse con Bertolucci) è realmente il più grande poeta italiano vivente - anche quel poeta che egli non è stato: un poeta al di fuori dei limiti che egli si è imposti con commovente e purissimo rigore. Un poeta che può perdere il suo humour delizioso e disperato, lacerare i limiti della forma, espandersi nel cosmo, delirare (vedi pagg' 88, 89, 90). Il lettore mi scusi, se impostato così il discorso, non entro più criticamente nel merito del libro, analizzandolo letterariamente. Esso è fuori dalla letteratura, essendo qualcos'altro, ripeto, che un libro (o un libro unico). Non che io polemizzi contro la letteratura. Anzi la considero una grande invenzione e una grande occupazione dell'uomo. E Penna, a sua volta, è un grande letterato. Ma preferisco lasciare il mio referto sospeso sull'emozione che questo libro mi ha dato col semplice mezzo di una poeticità quasi ovvia (aggettivi proposti ai sostantivi, qualche inversione, esclusione di parole prosaiche, riadottate solo in qualche caso, per improvviso bisogno di realismo o espressionismo): esso lascia il lettore tutto piagato d'un bruciore di lacrime, benché non sia sentimentale mai, in nessun momento.
(Tempo, 10 giugno 1973)



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Pasolini - « Corriere », 24 agosto 1975 - Il Processo

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« Corriere », 24 agosto 1975.
Il Processo
Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Einaudi, Torino, 1ª ed. 1976 - 1977.

Le Lettere luterane sono una raccolta di articoli che Pier Paolo Pasolini pubblicò sulle colonne del quotidiano Corriere della Sera e del settimanale Il Mondo nell'ultimo anno della sua vita, raccolte in volume l'anno successivo con il sottotitolo di Il progresso come falso progresso. Vi sono raccolti editoriali e interventi scritti tra l'inizio del 1975 e gli ultimi giorni di ottobre di quell'anno. I temi affrontati sono quelli dell'estraneità dei giovani, del conformismo, della televisione, del progresso e della politica in Italia.


Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell'abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell'esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei massmedia, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. Ecco l'elenco (cfr. «Il Mondo»), l'elenco «morale», dei reati commessi da coloro che hanno governato l'Italia negli ultimi trent'anni, e specie negli ultimi dieci: reati che dovrebbero trascinare almeno una dozzina di potenti democristiani sul banco degli imputati, in un regolare processo penale, simile, per la precisione, a quello celebrato contro Papadopulos e gli altri Colonnelli.

Perché insisto sempre a ripetere «specie negli ultimi dieci anni»?

Perché è appunto negli ultimi dieci anni che un modo di governare non solo tipico ma, direi, naturale, di tutta la storia italiana dall'unità in poi, si è configurato come un reato o come una serie di reati. Non faccio qui, dunque, questione di moralità: la colpevolezza dei potenti democristiani da trascinare sul banco degli imputati non consiste nella loro immoralità (che c'è), ma consiste in un errore di interpretazione politica nel giudicare se stessi e il potere di cui si erano messi al servizio: errore di interpretazione politica che ha avuto appunto conseguenze disastrose nella vita del nostro paese.

Sono solo, in mezzo alla campagna: in una solitudine reale, scelta come un bene. Qui non ho niente da perdere (e perciò posso dire tutto), ma non ho neanche niente da guadagnare (e perciò posso dire tutto a maggior ragione). Si interpreti come si vuole questa mia sete di solitudine, fino magari a ricordare le supposizioni di Elias Canetti (la solitudine è la condizione tipica dei tiranni): ma pregherei di non fare illazioni su un accorgimento retorico a cui reputo necessario ricorrere a questo punto.

L'immagine di Andreotti o Fanfani, di Gava o Restivo, ammanettati tra i carabinieri, sia un'immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora. Al fine di rendere il mio discorso comico oltre che sublime (come ogni monologo! ), e soprattutto didascalicamente molto più chiaro. Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini italiani da tale Processo (oltre, si intende, alla fondatezza dei reati più sopra enunciati secondo una terminologia etica se non giuridica)?

Verrebbe rivelato ai cittadini italiani qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma di potere che essi avevano servilmente servito nei vent'anni precedenti (traendone peraltro tutti i possibili profitti) e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che cosa farsene di loro.

Questa «millenaristica» verità è dunque essenziale per capire (al di là del Processo e delle sue condanne penali) che è finita l'epoca, appunto millenaria, di un «certo» potere ed è cominciata l'epoca di un certo «altro» potere. Ma soltanto un Processo potrebbe dare a questa astratta affermazione i caratteri di una verità storica inconfutabile, tale da determinare nel paese una nuova volontà politica.

Una volta condannati i nostri potenti democristiani (alla fucilazione, all'ergastolo, all'ammenda di una lira, cosa di cui qualsiasi cittadino infine si accontenterebbe) ogni confusione dovuta a una falsa e artificiale continuità del potere democristiano verrebbe vanificata. L'interruzione drammatica di tale continuità renderebbe al contrario chiaro a tutti non solo che un gruppo di corrotti, di inetti, di incapaci è stato democraticamente tolto di mezzo, ma soprattutto (ripeto) che un'epoca è finita e ne deve cominciare un'altra. Se invece questi potenti resteranno ai loro posti di potere – magari scambiandoseli un'ennesima volta –, se cioè la De, e con essa, quindi, il paese, opteranno per la continuità, più o meno drammatizzata, non sarà mai chiaro, per esempio, il fatto che gli italiani oggi sono laici almeno nella misura in cui fino a ieri erano cattolici, oppure che i valori dello sviluppo economico hanno dissolto tutti i possibili valori delle economie precedenti (insieme a quelli specificatamente ideologici e religiosi), oppure ancora che il nuovo potere ha bisogno di un nuovo tipo di uomo.

Ora (o almeno così sembra a un intellettuale solo in mezzo a un bosco) gli osservatori politici italiani insistono colpevolmente a optare, in fondo, per la continuità democristiana: per adesso anche i comunisti.

Gli osservatori borghesi indicano settorialmente, nel campo economico (e non dell'economia politica!!), le possibili soluzioni di quella che essi chiamano crisi ; gli osservatori comunisti - insieme a tale indicazione, naturalmente più radicale e pur accettando come buone le intenzioni dei democristiani demandati alla continuità – lamentano il persistente anticomunismo.

Ma che senso ha pretendere o sperare qualcosa da parte dei democristiani?
O addirittura chiedere loro qualcosa?

Non si può non solo governare, ma nemmeno amministrare senza dei principi. E il partito democristiano non ha mai avuto dei principi. Li ha identificati, e brutalmente, con quelli morali e religiosi della Chiesa in grazia della quale deteneva il potere. Una massa ignorante (e lo dico col più grande amore per questa massa) e una oligarchia di volgari demagoghi dalla fame insaziabile, non possono costituire un partito con un'anima. Ciò l'abbiamo sempre saputo, e l'abbiamo anche sempre detto: ma non l'abbiamo saputo e detto fino in fondo: per una ragione molto semplice:

perché la Chiesa cattolica era una realtà, e la maggioranza degli italiani erano cattolici.

E, per quanto inarticolato, questo era un argomento, che poteva celare anche verità migliori di quelle, repellenti, fatte proprie dai potenti democristiani: per esempio la cultura religiosa (in senso antropologico) delle masse popolari, o una possibile Chiesa rivangelizzata, ecc.

Ma ora questo argomento storico è caduto, perché è caduta la sua realtà. Quel «nulla ideologico mafioso» che è la Dc col suo interclassismo classico, non si fonda più su nulla (se non sulle rovine di un mondo che va rapidamente disfacendosi).

Se dunque tutto ciò è vero, quelle di Zaccagnini e degli altri «galantuomini della continuità», non sono che parole, e cioè parole ipocrite.

Torniamo dunque al nostro Processo (metaforico): ma stavolta in relazione e in funzione della politica del Pci ( o di un Psi ipoteticamente rinnovato da una sua «rivoluzione culturale»), che è l'unica che importa. Se, invece di fingere di accontentarsi delle parole dei «galantuomini della continuità», i comunisti e i socialisti decidessero di spezzare tale continuità intentando un Processo penale a Andreotti e a Fanfani, a Gava e a Restivo, ecc. ecc, che cosa metterebbero in chiaro una volta per sempre di fronte alla propria coscienza? Una serie di fatti banali che portano a un fatto essenziale, e cioè:

Primo fatto banale:

si presenterebbe, in tutta la sua estensione e profondità, ma anche in tutto il suo definitivo anacronismo, il quadro clerico-fascista in cui il malgoverno democristiano ha potuto essere attuato attraverso una serie di reati classici. Reati dunque non reati, in quanto consustanziali alla realtà del paese, e quindi (come quelli mussoliniani) perpetrati in fondo nel suo ambito e col suo consenso. Durante i primi venti anni del regime democristiano, si è governato un popolo storicamente incapace di dissentire: esattamente come durante il ventennio fascista, come durante l'Ottocento pontificio o borbonico, e addirittura come durante i secoli feudali.

Secondo fatto banale:

la qualificazione di «antifascista» (di cui insistono a gratificarsi uomini anche autorevoli di sinistra, che in questo non si distinguono affatto dai democristiani) diventa una sinonimia assurda, anzi, ridicola, di anti-borbonico o antifeudale...

Terzo fatto banale:

un paese non più clerico-fascista, e cioè un popolo non più religioso, non può non ripercuotere la propria realtà nel «Palazzo», vanificandone i codici e rendendo le manovre dei potenti degli automatismi pazzi (di cui son complici anche gli oppositori).

Fatto essenziale:

ciò che al contrario il Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo - è che il contesto in cui governare non è più quello clerico- fascista, e che proprio nel non aver capito questo consiste il vero reato, politico, dei democristiani.
Il Processo renderebbe chiaro – folgorante, definitivo – che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere, bensì in relazione al nuovo potere.

Per esempio:

i beni superflui in quantità enorme, ecco qualcosa di assolutamente nuovo rispetto a tutta la storia italiana, fatta di puro pane e miseria. Aver governato male, significa dunque non aver saputo far sì che i beni superflui fossero un fatto (come oggettivamente dovrebbe essere) positivo: ma che, al contrario, fossero un fatto corruttore, di selvaggia distruzione di valori, di deterioramento antropologico, ecologico, civile.

Altro esempio:

la democratizzazione derivante dal consumo estremamente esteso dei beni (compresi, perché no?, i beni superflui), ecco un'altra grande novità. Ebbene, l'aver governato male significa non aver fatto si che tale democratizzazione fosse reale, viva: ma che, al contrario, fosse un orribile appiattimento o un decentramento puramente enfatico (gestito in genere da illusi progressisti).

Altro esempio ancora:

la tolleranza, che il nuovo potere ha elargito, per delle sue buone ragioni, è anch'essa una grande novità. L'aver governato male – ancora una volta - consiste nel non aver fatto di tale tolleranza una conquista, ma di averla trasformata nella peggiore intolleranza reale che si sia mai vista (ossia la tolleranza di una maggioranza, resa sconfinata dalla sua nuova «qualità» di «massa», che tollera, in realtà, solo le infrazioni che fanno comodo a lei stessa).

Quindi, nella mia ansia didascalica, insisto:

governare bene o amministrare bene non significa più affatto governare bene o amministrare bene rispetto al governare male o all'amministrare male clerico-fascista (e quindi democristiano). La moralità politica non consiste più nel confrontarsi con l'immoralità clerico- fascista e magari col debellarla: cosa che i democristiani, in quanto cristiani, hanno sempre detto, a parole, di voler fare. Di conseguenza, se i comunisti - nelle giunte amministrative regionali, provinciali e comunali – si limitassero ad attenersi a una simile moralità politica, essi altro non sarebbero che i veri democristiani.

Ma - e questo è il punto - anche facendo dei beni superflui, della democratizzazione consumistica e della falsa tolleranza, qualcosa di avanzato, di vivo, di reale - anche in tal caso - i comunisti altro non sarebbero che i veri democristiani. Perché? Perché beni superflui, democratizzazione consumistica, 'tolleranza sono fenomeni che caratterizzano il nuovo potere (il nuovo modo di produzione) e tale nuovo potere (tale nuovo modo di produzione) è capitalistico. Bologna è in realtà un esempio di come avrebbe dovuto essere amministrata dai democristiani una città. Ma è a questo punto che si ha il «risvolto» del mio presente scritto (reso evidentemente romanzesco dalla presenza di un Processo...)

Il «risvolto» consiste in questo:

la continuità democristiana, voluta in realtà da tutti indistintamente - in barba alla terribile «crisi», da' tutti, altrettanto indistintamente, recepita e drammatizzata - in realtà non è possibile.

Infatti i democristiani per poter governare, anche nel flusso ipocrita di tale continuità, non possono più a questo punto non tentare anche sul piano puramente pratico (di altro non sono capaci) un'individuazione e una analisi della «novità del potere»: «novità del potere» che, se da loro individuata e analizzata, finirebbe fatalmente con l'annullarli.

Ugualmente i comunisti – nel caso che accettassero senza Processo tale continuità - altro non potrebbero fare, come ho detto, che della morale e non della politica. Perché anch'essi, individuando attraverso un sincero e profondo esame politico quella «novità del potere» che i democristiani non vogliono né possono individuare, sarebbero, da tale «novità» annullati in quanto comunisti (sarebbero appunto ridotti a sostituti dei democristiani).

Posso ora tentare qualche-previsione, naturalmente priva di ogni buon gusto?

Primo:

è inevitabile che il vuoto di potere democristiano venga riempito dal potere comunista, e ciò al di là del «compromesso storico». Tale «compromesso» era accettabile e concepibile solo ed esclusivamente con la massa dei lavoratori cattolici. Ma tali lavoratori cattolici non ci sono più (se non come «nomina», o nelle ultime sacche dell'Italia umile). Ë inoltre inevitabile che se il potere comunista riempirà il vuoto del potere democristiano, potrà farlo solo inizialmente come «ersatz», in effetti finirà col farlo proprio come «potere comunista».

Secondo:

la scomparsa delle masse dei lavoratori cattolici, specie naturalmente dei contadini, trasforma completamente il senso della Chiesa, che solo fino a una decina d'anni fa poteva fornire ai democristiani quei principi morali o spirituali atti a «ben governare» (viene da ridere a dirlo). Ora la Chiesa altro non è che una potenza finanziaria: e quindi una potenza straniera.

Terzo:

in Italia non c'è il rame, né c'è la Itt. Però in Italia ci sono basi missilistiche fondamentali. Le multinazionali se ne sono andate: ma per sempre? E la Cia?

Quarto:

lo spezzarsi naturale della continuità democristiana – travolta dal ripercuotersi di una nuova realtà del paese nel Palazzo – si risolverà probabilmente con la formazione di un piccolo partito cattolico socialista (di carattere non più contadino, ma urbano), e di un grande partito teologico: un Tecno- fascismo, finanziato, dunque, da due potenze straniere, e in grado di trovare, nelle enormi masse «imponderabili» di giovani che vivono un mondo senza valori, una potente truppa psicologicamente neonazista.

Ed è a questo punto che possiamo, credo con giustificata ansia, «uscir di metafora» e dare al nostro favolistico Processo una connotazione concreta e reale.

L'immagine dei potenti democristiani ammanettati tra i carabinieri è un'immagine su cui riflettere seriamente. Ma devo farlo solo io, in mezzo a un bosco di querce?

Questa volta non mi va di essere ignorato, snobbato, lasciato solo al mio monologo, come dice Carlo Bo. Farò dunque un appello nominale, sia pur limitato e un po' fazioso. A dire se ci sono gli estremi per un vero e proprio Processo ai potenti democristiani, e come giuridicamente formalizzarlo, vorrei che intervenisse Vittore Branca. A discuterne, vorrei che contribuisse Leo Valiani (magari per riabilitarsi da una discussione piuttosto vacua sul vecchio fascismo); Claudio Petruccioli (un cui articolo di fondo sull'«Unità» ho preso come «specimen» dell'atteggiamento attuale dei comunisti); Italo Zanetti (dalla cui rivista ho desunto quasi tutte le informazioni su cui ho basato questo mio scritto); Giorgio Bocca (che potrebbe così spendersi in una battaglia difficile e smetterla di cadere ottusamente nella trappola delle provocazioni da lui stesso estrapolate); Alberto Moravia (che ha sempre qualcosa di intelligente da dire, specie quando si libera dalle suggestioni dell'Ecclesiaste).

Caro Direttore,
Alla fine del mio articolo Il processo, pubblicato sul «Corriere» ieri, 24 agosto, ho commesso due gravi lapsus: ho scritto Vittore Branca, anziché Giuseppe Branca, e Italo Zanetti anziché Livio Zanetti. Evidentemente, poiché alla fine dell'articolo ho voluto un po' scherzare, mentre in realtà le mani mi tremavano, sono stato giustamente punito dal mio Censore. Non gravemente però: perché, quanto ai Branca, penso che sia riuscito chiaro a tutti che mi riferivo al Branca giurista, al grande e angelico giurista, e quanto a Zanetti, l'unico atroce dubbio possibile è che io abbia compiuto una illogicissima consustanziazione inconscia con Italo Pietra!
Suo Pier Paolo Pasolini



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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