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giovedì 24 dicembre 2020

Pier Paolo Pasolini, Israele - «Nuovi Argomenti», n,s., 6, aprile-giugno 1967

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 

Israele
Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi come mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là. Nessuno dei miei amici comunisti lo farebbe, per un vecchio, ormai tradizionale e mai ammesso odio contro i sottoproletariati e le popolazioni povere. Inoltre forse tutti i letterati italiani possono essere accusati di scarso interesse intellettuale per il Terzo Mondo: non io. Infine, in questi versi, scritti nel ‘63, come è fin troppo facile vedere, sono concentrati tutti i motivi di critica a Israele di cui è ora piena la stampa comunista.

Ho vissuto dunque, nel ‘63, la situazione ebraica e quella giordana di qua e di là del confine. Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del ‘43, ‘44: ho capito, per mimesi, cos’è il terrore dell’essere massacrati in massa. Così da dover ricacciare le lacrime in fondo al mio cuore troppo tenero, alla vista di tanta gioventù, il cui destino appariva essere appunto solo il genocidio. Ma ho capito anche, dopo qualche giorno ch’ero là, che gli israeliani non si erano affatto arresi a tale destino. (E così, oltre ai miei vecchi versi, chiamo ora a testimone anche Carlo Levi, a cui la notte seguente l’inizio delle ostilità, ho detto che non c’era da temere per Israele, e che gli israeliani entro quindici venti giorni sarebbero stati al Cairo.) È dunque da un misto di pietà e di disapprovazione, di identificazione e di dubbio, che sono nati quei versi del mio diario israeliano.

Ora, in questi giorni, leggendo «l’Unità» ho provato lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese. Possibile che i comunisti abbiano potuto fare una scelta così netta? Non era questa finalmente, l’occasione giusta per loro di «scegliere con dubbio» che è la sola umana di tutte le scelte? Il lettore dell’«Unità» non ne sarebbe cresciuto? Non avrebbe finalmente pensato - ed è il minimo che potesse fare - che nulla al mondo si può dividere in due? E che egli stesso è chiamato a decidere sulla propria opinione? E perché invece «l’Unità» ha condotto una vera e propria campagna per «creare» un’opinione? Forse perché Israele è uno Stato nato male? Ma quale Stato, ora libero e sovrano, non è nato male? E chi di noi, inoltre, potrebbe garantire agli Ebrei che in Occidente non ci sarà più alcun Hitler o che in America non ci saranno nuovi campi di concentramento per drogati, omosessuali e... ebrei? O che gli ebrei potranno continuare a vivere in pace nei paesi arabi?

Forse possono garantire questo il direttore dell’«Unità», o Antonello Trombadori o qualsiasi altro intellettuale comunista? E non è logico che, chi non può garantire questo, accetti, almeno in cuor suo, l’esperimento dello Stato d’Israele, riconoscendone la sovranità e la libertà? E che aiuto si dà al mondo arabo fingendo di ignorare la sua volontà di distruggere Israele? Cioè fingendo di ignorare la sua realtà? Non sanno tutti che la realtà del mondo arabo, come la realtà della gran parte dei paesi in via di sviluppo - compresa in parte l’Italia - ha classi dirigenti, polizie, magistrature, indegne? E non sanno tutti che, come bisogna distinguere la nazione israeliana dalla stupidità del sionismo, così bisogna distinguere i popoli arabi dall’irresponsabilità del loro fanatico nazionalismo? L’unico modo per essere veramente amici dei popoli arabi in questo momento, non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e più disperata?

Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?

P.P.Pasolini
«Nuovi Argomenti», n,s., 6, aprile-giugno 1967


 

Curatore, Bruno Esposito

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Le belle bandiere, P.P.Pasolini - Vie Nuove (27.12.1962)

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Le belle bandiere
Vie Nuove (27.12.1962)


Così mi desto,
ancora una volta:
e mi vesto, mi metto al tavolo di lavoro.
La luce del sole è già più matura,
i venditori ambulanti più lontani,
più acre, nei mercati del mondo, il tepore della verdura,
.
lungo viali dall'inesprimibile profumo,
sulle sponde di mari, ai piedi di vulcani,
tutto il mondo al lavoro, nella sua epoca futura.
.
Ma quel qualcosa di "bianco"
che a lettere greche
mi presentò, irrevocabile, il sogno conoscitore,
mi rimane addosso - vestito,
al tavolo di lavoro.
Membrana, pasta, o calce
nelle ciglia, agli angoli degli occhi:
il biancore baroccamente friabile,
di spugnoso materiale comacino, del sole nel sonno.
.
Di quel biancore fu il sole vero,
furono i muri delle fabbriche,
fu la stessa polvere (nei pomeriggi secchi, quando
il giorno prima è un poco piovuto)
furono gli stracci di lana,
le giacchettacce bige e i calzoni sfilacciati
degli operai:
fu di quella sostanza
la calura oppressa dal ricordo di primavere
sepolte da secoli
in quegli stessi sobborghi o paesi,
.
- e pronte, Dio!
pronte a rinascere,
su quei muretti, su quelle strade.
Su quei muretti, su quelle strade,
imbevuti di strano profumo,
asiatico - primule, strame, passaggi
di vecchie pecore scure - fiorivano nel tepore
i meli, i ciliegi. - E il colore rosso
aveva una brunitura, come
se fosse immerso in un'aria di caldo temporale,
un rosso quasi marrone, ciliege come prugne,
pometti come susine: e occhieggiava, quel rosso
tra le brune, intense
trame del fogliame, calmo, come la primavera
non avesse fretta,
volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo,
quelle grida di operai, che erano quasi silenzio,
solenni e attutite,
nel biancore
del caos di muretti, marciapiedi di terra fangosa,
sagome di fabbriche.
.
E, su tutto, lo sventolio,
l'umile, pigro sventolio
delle bandiere rosse.
Dio! belle bandiere
degli Anni Quaranta!
A sventolare una sull'altra, in una folla di tela
povera, rosseggiante, un rosso che traspariva
violento, con la miseria delle tovaglie,
dei copriletti di seta, dei bucati delle famiglie operaie,
- ma col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto
per l'umidità, sanguigno per un po' di sole che lo colpiva,
ardente rosso affastellato e tremante,
nella tenerezza eroica d'un'immortale stagione.
.
(la poesia uscì per la prima volta su Vie Nuove (27.12.1962)
sarà poi pubblicata nella raccolta Poesia in forma di rosa)





Curatore, Bruno Esposito

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Pasolini, un monumento a D’Annunzio - Da “Vie Nuove” Anno XV, n. 46, 19 novembre 1960

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Un monumento a D’Annunzio
“Vie Nuove” Anno XV, n. 46, 19 novembre 1960 
(in Le belle bandiere, Einaudi, Torino, 1977.)

Il 30 ottobre, a Ronchi, la Legione del Vittoriale ha inaugurato un monumento a D’Annunzio nonostante una delibera municipale avesse respinto la richiesta di concessione di terreno. Infatti, il Prefetto di Gorizia, Dott. Giacinto Nitri, aveva annullato la decisione comunale per vizio di forma.
In relazione alla iniziativa, un gruppo di insegnanti e artisti isontini ha chiesto l’appoggio e la solidarietà di un autorevole gruppo di colleghi triestini per esprimere sul fatto una pubblica deplorazione, che costituisse anche dovuta precisazione storica, soprattutto per giovani e studenti. Siamo ora a chiedervi ospitalità, ben consapevoli della coerenza della vostra battaglia per un rinnovamento politico, intellettuale e di costume. Pensiamo che solo col vostro aiuto potremo far conoscere e divulgare più ampiamente la deplorazione circa la intempestiva ed imprudente celebrazione, che merita perciò di essere conosciuta in tutta Italia proprio per essere maggiormente deplorata. Se lo riterrete opportuno, potrete aggiungere l’avvertimento che adesioni sono ancora aperte a testimonianza di una protesta morale
Dott. Nereo Battello


La dichiarazione degli intellettuali:


«I sottoscritti, di fronte all’iniziativa, favorita da ben individuate forze politiche, di erigere nei pressi di Ronchi un monumento a Gabriele D’Annunzio con intendimenti di valutazione politica chiaramente emergenti dall’epigrafe che si intenderebbe apporvi, segnalano l’inopportunità storica e contingente dell’iniziativa stessa. Essi non intendono qui esprimere un giudizio sull’opera artistica del poeta e su quella del combattente della guerra di redenzione; ma affermano che il fatto che si intende esaltare nel monumento portò conseguenze funeste, sia sul piano della vita interna del popolo italiano, che su quello dei rapporti con altri popoli.

Infatti indipendentemente dai propositi di sincero patriottismo di taluno dei partecipanti, oggi risulta chiaro – anche secondo il giudizio della più recente storiografia – che l’impresa dannunziana rappresentò il primo passo sulla via della sovversione violenta del costume morale e civile di libertà trasmessoci dalle generazioni del Risorgimento, nonché la premessa ideologica e tattica del fascismo, e comunque un sitnomo evidente di quel disordine spirituale che interruppe il naturale sviluppo della democrazia italiana. D’altra parte la stessa impresa, esasperando odii locali e conflitti nazionalistici, ostacolò l’avvio ad un’equa soluzione dei problemi politici dell’Alto Adriatico.

Celebrare oggi questo episodio significa screditare l’ordinamento democratico del paese e compiere opera di diseducazione politica e civile, particolarmente nei riguardi dei più giovani, ai quali si addita come esemplare un gesto irrazionale di sovversione e violenza.


Prof. Elio APih (Trieste) docente universitario, storico
prof. Giuseppe Citanna (Trieste) ordinario di letteratura italiana all’Università di Trieste
prof. Biagio Marin (Trieste) poeta
Marcello D’Olivo (Udine) architetto
prof. Livio Pesante (Trieste) insegnante
dott. Bruno Pincherle (Trieste); 
Tino Ranieri (Trieste) critico cinematografico
prof. Carlo Schiffer (Trieste) storico
Gino Valla (Udine) architetto
Giuseppe Zigaina (Udine) pittore
Anzil Toffolo (Udine) pittore
prof. Silvio Bertocci (Udine) pubblicista
prof. Domenico Cerroni Cadoresi (Udine) poeta
dott. Giovanni Cimetta (Udine) presidente del Centro di Ricerche Culturali P. Calamandrei
prof. Rino Domenicali (Udine) insegnante
prof. A. Gobessi (Udine) insegnante
prof. Rocco Lamonarca (Udine) insegnante
prof. Ernesto Mitri (Udine) pittore
avv. Loris Fortuna (Udine) direttore di Politica e Cultura; 
prof. Nicolò Persici (Udine) insegnante
prof. Maria Gigliola Pezzé (Udine) insegnante
Giulio Piccini (Udine) scultore; Max Piccini (Udine) pittore;
Sergio Altieri (Gorizia) pittore; 
prof. Radames Baldassarri (Gorizia) preside di scuola media
dott. Nereo Battello (Gorizia) presidente del Circolo Rinascita
Romolo Bertini (Trieste) pittore
Alfio Cantelli (Gorizia) critico cinematografico
prof. Maria Cavazzuti (Gorizia) insegnante
Sabino Coloni (Trieste) pittore
ing. Ferdinando Gandusio (Trieste); 
Cesare Mocchiuti (Gorizia) pittore
prof. Emilio Mulitsch (Gorizia) insegnante.



Sono vissuto a lungo in Friuli, mia mamma è friulana, mi sono interessato di storia e di letteratura friulana per tutta la mia prima giovinezza, molti dei firmatari di questo manifesto sono miei amici: alcuni, come Giuseppe Zigaina e Biagio Marin amicissimi. Ho abbastanza competenza, dunque, per sapere come stanno e come si svolgono le cose in quei posti: il «tono» delle cose. Il nazionalismo, lassù – con il potenziale fascismo – nasce purtroppo, oltre che dal solito qualunquismo, dalla solita sotto-esistenza culturale, anche da una forma di moralismo, tipico del Nord: tipico di quel cattolicesimo già venato di protestantesimo. E perciò tanto più pericoloso, perché strettamente amalgamato con delle profonde convinzioni morali sbagliate. Insomma mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata, i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili. Andate a far capire a loro che un monumento a D’Annunzio Legionario è una cosa mostruosa!

Non lo ammetteranno mai, perché, per questo, dovrebbero rinunciare all’intera loro concezione dell’esistenza.

Bisogna anzitutto spiegare loro che D’Annunzio è stato un pessimo poeta, oltre che un pessimo cittadino. Io, per esempio, non sono del tutto d’accordo con gli intellettuali friulani e triestini che hanno scisso il D’Annunzio poeta e combattente dal D’Annunzio legionario e prefascista. Il D’Annunzio è uno. La sua importanza letteraria è soltanto negativa, e così la sua importanza nel costume e nella storia. Egli rappresenta e esprime l’Italia nel suo momento involutivo: nel momento cioè in cui il Risorgimento ha mostrato i suoi limiti, la sua vera essenza di rivolta aristocratica, il suo liberalismo apocrifo (cfr. Gramsci), e la nuova classe borghese è cominciata a diventare quello che è: una mostruosa riserva di egoismo, di conformismo, di paura, di mistificazione, di ristrettezza mentale, di provincialismo.

Si badi che io non sono contrario a D’Annunzio per le stesse ragioni per cui gli sono stati contrari gli intellettuali italiani del primo Novecento, o del Novecento tout court: i quali lo avversavano nelle sovrastrutture letterarie per così dire. In realtà erano dei dannunziani essi stessi: dei D’Annunzio in pantofole anziché in coturni, che è già qualcosa, non dico di no: ma è quasi niente. Erano insomma antidannunziani come erano antifascisti: per ragioni di buon gusto, perché sia Mussolini che D’Annunzio erano dei «cafoni». Ma è noto come un simile antifascismo non servisse quasi a nulla: e molti antifascisti di questo tipo sono stati accademici d’Italia.

D’Annunzio è il tipico rappresentante dell’eterno classicismo servile e evasivo italiano, che assumeva in lui forme di decadentismo provinciale; e, a causa del suo immanente e superficiale irrazionalismo – tipico anch’esso – sfociava spesso nell’azione: la quale azione non poteva essere che retorica e sostanzialmente conformista, malgrado gli aspetti di clamoroso anti-conformismo. L’impresa di Fiume è stata una pagliacciata narcisistica. I poveri, onesti nazionalisti friulani ne sono delle ingenue vittime.

Poiché cosa fatta capo ha, diciamolo con tutta l’amarezza del caso, e il monumento a D’Annunzio Legionario è là, incrollabile (orrendo, naturalmente), io suggerirei di erigergli non lontano, un piccolo, modesto monumento a I. G. Ascoli. Sono vissuto per anni in Friuli, e anche nell’ambiente professionale e filologico: ma mai che mi sia capitato di sentire dell’entusiasmo sincero per questo ebreo di Gorizia che è certamente la figura d’intellettuale più importante, e la sola europea, che abbia espresso il Friuli nel nostro secolo. È un uomo che ha svolto un lavoro sì monumentale, e modesto, e magari discutibile in molti punti: e non certo rivoluzionario. Ma il silenzio in cui è stato tenuto durante il fascismo – naturalmente perché ebreo – e il complice silenzio che si continua a tenere su di lui, adesso, gli merita certamente un riconoscimento che lo contrapponga, lui, vittima del fascismo, al legionario fascista.
Pier Paolo Pasolini



Curatore, Bruno Esposito

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Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini . Primo soggetto su Vie nuove.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




1965,Pasolini su "Vie nuove" numero 17, 18 e 19, rispettivamente del 29 aprile e del 6 e 13 maggio, pubblica  il primo  soggetto per il film Uccellacci e uccellini.
Il soggetto pubblicato su Vie nuove, se pur rivisto successivamente in alcuni punti, rappresenta la fedele struttura di quello che poi sarà il film.
(questo soggetto prevedeva tre episodi, mentre l'opera realizzata prevede un unico episodio con un film nel film).
Uccellacci e uccellini, primo soggetto





L'aigle


Magari come epigrafe potremmo usare una frase di Mao che in una intervista dice pressappoco:
«La Francia? Cosa vuole da noi la Francia? Appartiene forse al Terzo Mondo, ai popoli affamati? Ebbene, se è così accettiamo molto volentieri la sua amicizia...» 

Il fondo della favola è la critica della crisi del liberalismo occidentale, e, nella fattispecie, del razionalismo parigino.
M. Cournot è il domatore di un famoso circo francese, sceso a Roma. Sta dando una intervista a dei giornalisti italiani, che naturalmente disprezza (magari non a torto...): che cosa annuncia? L'inizio di una impresa sensazionale: l'addomesticamento di un'aquila.
Eccola là, l'aquila, ancora muta e selvaggia, in un angolo del circo che pare un Pantheon: tutt'intorno ci sono le effigi dei «grandi» francesi, messe in ordine, secondo l'importanza: Sartre come Mauriac, Claudel come Camus. In una grande parete di fronte all'aquila, l'immagine di De Gaulle.
M. Cournot ha una moglie, una specie di Monica Vitti parigina, laica, intellettuale, ecc., e ha un piccolo aiutante, Ninetto, di Giando e di sora Maria, abitante al borghetto Prenestino.
Cominciano così giorni memorabili al Grand Cirque de France. M. Cournot ha una tattica tutta speciale nell'affrontare l'educazione delle bestie. Prima fa, pedagogicamente, finta di niente. Si limita a dare esempi di buona educazione in loro presenza (l'aquila è là): pranza, fuma, legge il giornale. La cavia è Ninetto, l'assistente la moglie. Poi comincia piano piano, come se niente fosse, a rivolgersi alla bestia, con molta cortesia e molto tatto, ignorando educatamente il suo stato di bestialità. Insomma egli propone direttamente alla bestia come modello l'uomo parigino, (non ha sospetto della possibilità di altri modelli, nota dell'Autore).
Egli comincia così a impartire all'aquila, nel Pantheon delle gerarchie isocefale dei Grandi, lezioni dirette di comportamento civile.
A tu per tu con l'aquila. Due grandi concezioni antitetiche della vita che si affrontano. 

L'aquila tace, M. Cournot parla una lingua perfetta. 

L'aquila continua a tacere, e M. Cournot comincia a impazientirsi. 

L'aquila pare votata a un definitivo silenzio, e M. Cournot comincia ad asciugarsi il sudore e a sentire vacillare la propria dignità (da una parte la moglie, dall'altra l'animaletto italiano, Nino del Prenestino). 

L'aquila non lo fila proprio per niente (espressione di Ninetto), e M. Cournot è all'esasperazione. 

L'aquila pare perduta in sogni inattingibili, e M. Cournot scoppia: «Rispondi almeno! Di' una parola! Cosa pensi, cosa fai!» e giù improperi furenti, rimproveri degni di un accademico di Francia, pronunciati con rabbia elegante degna di un XXXXXXXX: egli non è in grado di concepire quel silenzio, quello sciopero di ogni sentimento e di ogni idea, quella lontananza, quella sordità morale, quellaindifferenza al reale, quell'introversione pazzesca, quella irrazionalità. 

Ma l'aquila tace. 

Tace travolta da interessi interni intatti. 

Tace. 

M. Cournot ha allora una trovata pedagogica estrema. Fa portare nel Pantheon tutte le gabbie dove abitano gli animali addomesticati. Un leone del Mali, un serpente della Guinea, una tigre del Vietnam (la gabbia dell'Algeria è vuota; M. Cournot si raschia la gola, ehm, ehm) ecc. ecc. Ecco, lo vede, l'aquila? Tutti gli animali del Terzo Mondo (compreso Ninetto del Prenestino), parlano, e parlano educatamente, civilmente: la tigre, per esempio, non dice «Ho fame», ma «Ho un po' di appetito». 

Ma l'aquila tace. 

«No, no, no, tu devi metterti in rapporto con me, e questo rapporto deve essere un rapporto dialettico!» urla M. Cournot, fuori di sé, ai limiti dell'infarto; e infatti brancola, vacilla e cade, fra le braccia della moglie che vomita ingiurie contro l'aquila (ingiurie francesi, molto istituzionalizzate: Merde, enfin!), e di Ninetto, che invece si rivolge pietoso all'aquila, nel suo dialetto che stabilisce subito un'omertà «tra poveracci», cercando di convincerla a parlare («E daje! e fa' 'sto sforzo!»). 

Su M. Cournot mezzo morto, si sente allora alzarsi una voce stridente e potente:
«Volete proprio sapere cosa faccio?».


Tutti guardano l'aquila, che si è decisa a parlare.
«PREGO!».

M. Cournot rimane profondamente scosso da quella rivelazione. 

Ed è così che comincia una seconda fase d'avvicinamento «dialettico» all'aquila. Comincia a leggerle dei testi religiosi.
Pascal: no, pare che Pascal non vada bene... Forse dei poeti più moderni... a loro modo religiosi... Rimbaud... La Pacem in terris, infine... 

Durante queste letture, che M. Cournot cerca di fare con calma, con amorevolezza pedagogica verso la bestia, benché ogni tanto esploda il suo furente stato di indignazione per lo «scandaloso rapporto dialettico» della bestia con la ragione, succede però qualcosa di strano, che non sfugge all'occhio attento di Ninetto.
Vogliamo dire che ogni tanto, M. Cournot si fissa a guardare la bestia, e rimane lì fissato, come in una specie di trance: muto anche lui.
Ma c'è di più: quasi meccanicamente, a metà di una frase di Pascal o dell'Enciclica, M. Cournot non solo si incanta e si fissa, ma prende inavvertitamente per qualche istante lo stesso atteggiamento, e oseremmo dire, la stessa espressione dell'aquila.
Questi, che sono momenti rapidi e fugaci, quasi inavvertibili a un occhio che non sia quello sottoproletario di Ninetto, si fanno sempre più frequenti e insistenti. Non è raro infine che succeda di vedere l'aquila e M. Cournot appollaiati una davanti all'altro, in silenzio, con la stessa espressione, con gli stessi gesti... 

Che cosa medita M. Cournot in quei lunghi silenzi regressivi? 

Un bel giorno di scatto egli esce dal Pantheon, invano trattenuto dalla signora che ora ha verso di lui l'indignazione che si ha verso le bestie e i matti e i poveri: ma M. Cournot non la sente nemmeno, se ne va, muto. Solo Ninetto, poverello, impressionato e pietoso (benché ogni tanto gli scappi di ridere) gli va appresso.
M. Cournot prende un treno, e Ninetto dietro. Il treno parte. M. Cournot non resiste a un violento impulso, e sale sul tetto del treno, appollaiandovisi, con l'espressione remota dell'aquila. Il treno arriva in vista del Gran Sasso. M. Cournot scende, con Ninetto svociato e afflitto alle tacche, che non smette di dire battute romanesche sulla pazzia del suo principale. In mezzo a una valle sotto le cime nevose, M. Cournot si raccoglie un momento, e poi ecco che spicca un gran volo su, verso l'azzurrità dei cieli.
Egli si libra, si libra, fatto aquila, su verso le alte vette, mentre inutilmente dalla valle, facendosi sempre più piccolo, Ninetto strilla: «A messié Cournot 'nda'annate? A messié Cournot, ma che state a ffa! che state a ffa!». 

P.S. Ci siamo dimenticati di un particolare (a causa della fretta con cui abbiamo buttato giù questa storia, ad uso dei noleggiatori e degli esercenti, e quindi redatta in uno stile facile, convenzionale e un po'  volgare: che non si ottiene se ci si mette più di mezz'ora ogni tre cartelle). Il particolare è questo: M. Cournot è pieno di tic: sociali (quelli cioè tipici dei francesi, la pernacchietta espressiva che fanno a metà di un discorso ecc. ecc.) e personali (che sono una mezza dozzina tra i più buffi e inquietanti): ebbene, tali tic scompaiono man mano che M. Cournot regredisce allo stato irrazionale di aquila.   


II°
Faucons et moineaux


Non abbiamo presente una frase della famosa intervista di Mao, che si riferisca ai problemi della Chiesa o delle Chiese di fronte alla lotta di classe: ma pensiamo tuttavia che non sarà difficile trovarla, magari sotto forma allusiva o metaforica. Perché è proprio a questi problemi della Chiesa di fronte alla lotta di classe che, forse un po' arcaicamente, la nostra seconda storia si riferisce. 

E ben noto come San Francesco abbia parlato agli uccelli, e, pare, con successo. 

Ebbene, ecco San Francesco, con alcuni dei suoi frati, fra cui Fra' Marcello e il novizio Fra' Ninetto, proprio sotto il boschetto della Porziuncola, presso Assisi, dove la tradizione vuole che egli abbia predicato agli uccelli. Sta meditando. A lungo, naturalmente nel silenzio rallegrato, appunto, da canti di uccelli. Poi alza gli occhi, e li punta su Fra' Marcello e Fra' Ninetto: per incaricarli dolcemente ma inappellabilmente, con la cocciutaggine dei Santi,di continuare la evangelizzazione degli uccelli. Cominciando magari da due categorie di uccelli molto diverse fra loro, per esempio i falchi, forti e prepotenti, e i passeri, indifesi e miti. 

È una parola. Intanto, Fra' Marcello e Fra' Ninetto non sono mica santi che possono parlare con gli uccelli in italiano e questi li capiscono lo stesso. Sono loro, che per poter predicare agli uccelli, devono cominciare a imparare le lingue uccellesche. E non si è mai saputo che un uomo abbia potuto compiere un'impresa simile. Ma chi non è nato santo deve cercare di diventarlo coi pochi mezzi che come uomo ha a disposizione. Fra' Ninetto è uno stupidello, nato solo per cantar litanie e andar alla questua: e poi è ancora un ragazzino. Ma Fra' Marcello è adulto, ha scarpe grosse e cervello fino. Non ha studiato, è vero, nella sua terra ciociara, ma se avesse studiato, testone e fino com'è, avrebbe potuto anche diventare uno scienziato, magari piccolo piccolo, ma scienziato. 

Con pazienza francescana e scientifica insieme, e con Ninetto storditello alle tacche, egli attraversa Assisi, e sale in cima alla rocca. Dove stridono i falchi. 

Ai piedi della rocca Fra' Marcello e Fra' Ninetto si accampano, e lì Fra' Marcello comincia le sue osservazioni. Passa l'estate, viene l'inverno, torna l'estate. E Fra' Marcello è pronto. Va in cima ad una balza, si fa il segno della croce, si raccoglie, poi comincia a stridere, a stridere. Ninetto come una scimmietta, lo imita: gli scappa da ridere, ma vince la tentazione, e con devozione aiuta il suo frate principale. 

Da principio i falchi non capiscono, poi un po' alla volta si rendono conto della novità, e stridendo, rispondono ai richiami. È tutto uno stridere, insomma, nel cielo di Assisi. (Delle didascalie sullo schermo, tradurranno i dialoghi per gli spettatori, nota dell'Autore). I falchi più di buona volontà cominciano a radunarsi intorno, e Fra' Marcello comincia a evangelizzarli. 

Fondu 

I falchi sono evangelizzati, conoscono ora la parola di Cristo e, falchescamente, come possono, rientrano nella grande famiglia della Chiesa Cattolica apostolica romana. Tutti contenti per il successo. Fra' Marcello e Fra' Ninetto pensano ora alla seconda parte della loro missione: ai passeri. 

I passeri non è difficile trovarli, vai per strada ed eccoli lì. 

I due frati scendono dalla rocca, e arrivano sulla piazza davanti alla Chiesa di San Francesco (non importa anche se c'è un evidente anacronismo, le favole non se ne sono mai curate, nota dell'Autore): dove saltellano dei passeri allegri e affamati. Fra' Marcello comincia le sue osservazioni. Passa l'estate, viene l'inverno, torna un'altra estate. E Fra' Marcello non ci ha ancora capito niente.
Egli, è vero, ha imparato a cinguettare su tutti i toni. Prova a cinguettare, ma questo lascia indifferenti i passeri. Anche Ninetto cinguetta, molto abilmente e graziosamente. Ma i passeri niente. Continuano a saltellare, tic tic tic, tac tac tac, per i fatti loro.
Come tuttavia spesse volte è accaduto, è il caso ad aiutare la scienza. Ed è l'innocenza il veicolo del caso. Ninetto un bel giorno, storditello com'è, ragazzino com'è, è preso dalla ruzza, e si mette a saltellare, imitando i passeri. E Fra' Marcello è fulminato dalla scoperta. Ecco! I passeri non parlano cinguettando, ma saltellando! Ma sì! I loro saltelli sono regolari, tic, tic, tic, tic, tic. Bisogna studiare i loro ritmi (una specie di alfabeto Morse, insomma, nota l'Autore). E in capo a poche settimane Fra' Marcello ha capito il linguaggio ritmico dei passeri. 

Va in mezzo alla piazza, si fa il segno della croce in raccoglimento, e comincia, saltellando, la predicazione:
tic, tic, tic, tac tac tac. E Ninetto dietro a lui, imitandolo come una scimmietta, o come quando uno che non sa ballare, impara dei nuovi passi di ballo.

Tic tic tic, tac tac tac. Qualche passero comincia a capire l'antifona e si accosta.

Tic tic tic, fa saltellando, e vuol dire «Che volete?»

Tic, tic, tac, tac, tic, tic, risponde saltellando Fra' Marcello e vuol dire: «Portarvi la buona novella».


Tanti passeri di buona volontà si radunano intorno, e l'evangelizzazione è così una danza, un po' buffa, se vogliamo, ma molto innocente e quindi gradita al Signore.

Fondu 

Anche i passeri sono evangelizzati, anch'essi conoscono la parola di Cristo, e anch'essi, passerescamente, come possono, rientrano nella grande famiglia della Chiesa.
Tutti contenti, Fra' Marcello e Fra' Ninetto lasciano Assisi, e vanno a cercare San Francesco attraverso l'Umbria per raccontargli il loro grande successo.
Camminano per bei boschetti, tra ruscelli e castelli. E, per la lietezza, Fra' Marcello, come sa, come può, lui che non è un umbro elegante, ma un ciociaro un po' buffo, inventa una preghiera al Signore, limitandosi a dire tutto quello che si vede intorno, come se fosse la faccia di Dio, e anche se c'è qualcosa che non va, un ragazzino che ruba le mele, o una donna che litiga col marito, pazienza. La bellezza e la grandezza di Dio è tanta, che comprende tutto.
Ma ecco che mentre camminano tutti lieti, e un po' esaltati dalla preghiera, vedono un falco che si precipita su un passerotto, e lo uccide.
I due fraticelli restano senza fiato, istupiditi. Poi Fra' Marcello scoppia in pianto, e piange, piange come un vitellino, come una donnicciola, e benché a Fra' Ninetto scappi da ridere a vedere il frate principale piangere a quel modo, piange pure lui. 

Poi tra le lacrime Fra' Marcello cade in ginocchio e si rivolge direttamente a Dio:

«Ecco, come San Francesco mi aveva comandato, io ho evangelizzato i falchi, e ho evangelizzato i passeri, i falchi in sé ti onorano, e cosi i passeri i passeri in sé ti onorano. Ma perché un falco non riconosce in un passero un falco? Perché ci sono queste classi dei falchi e dei passeri, e c'è questa lotta fra loro? Cosa posso farci, io, povero fraticello, Dio, nel tuo nome?».


III
Le corbeau


La «voce» giusta, aggiornata, onesta, anche profonda, o almeno profondamente comprensiva, dell'ideologia, è la voce del corvo: egli appartiene e non appartiene alla vita, comprende la vita con un distacco che è anche esclusione: ha esperienza di una vita che in fondo egli non ha, e questo lo mette in una posizione imbarazzante, povero animale parlante, di cui ha coscienza e ciò dà ancora più umanità alle sue parole, alla sua partecipazione, al suo impegno. 

Il giorno è uno di quei giorni di sole, né primavera né estate, che si fanno godere dagli uomini quasi inconsapevolmente. Il sereno, la luce, l'arietta di mare ci sono, ma è naturale che ci siano. E il mondo intorno è quello dei poveri, com'è naturale che sia. Acilia, Vitinia, le campagne verso i Castelli o verso il mare, le casette, le baracche, i lotti, i casali rustici, i ponticelli, le siepi, le radure scottate dal sole.
Marcello e suo figlio Ninetto vanno, vanno, in quel bel giorno di sole. Vengono da un luogo povero e vanno in un altro luogo povero, a fette, cavallo di San Francesco; oppure, di tanto in tanto, con un vecchio autobus scassato. Vanno. 

Il corvo si aggiunge a loro, come un compagno di strada, irrichiesto, un po' gratuito, imbarazzato: ma subito amico e comprensivo. Indovina subito, per scherzo, su di loro tante cose, i loro guai, le loro mire: non vuol farsi dire le ragioni di quella loro scarpinata, vuole indovinarle da solo: e ne dice tante, appunto, tutte reali; ma non azzecca, divertendosi molto, quella vera: essi vanno da una chiromante a farsi dare una medicina per far passare il verme solitario a Ninetto. Ah, ah, il corvo ride, con sua timida risata filosofica.
Presto i tre diventano buoni amici, benché i due uomini, il padre, Marcello, un uomo tosto e fantasioso, e il figlio Ninetto, un po' stupidello, tutto riso, come un arabetto, e sulla via di ingrassarsi e intostarsi come il padre, abbiano sempre un'ambigua riserva mentale, un dissimulato sospetto «qualunquistico» nei riguardi della bestiola tutta voce. Capiscono o non capiscono? Ascoltano o non ascoltano? Bene, un po' questo e un po' quello, come avviene nella vita.
Durante la lunga scarpinata per le campagne oltre la periferia, succedono tante piccole cose, tanti piccoli incidenti: che non son nulla, e insieme sono delle enormità. È il corvo che ogni volta, da ogni particolare, trae i significati: la loro portata ideologica. E lo fa con estremo pudore, poveretto, e con assoluta lucidità, che non esclude l'umanità: egli tiene sempre presente che parla con dei semplici e si adatta a loro. Sarebbe assolutamente ingiusto definirlo un «rompicojoni», eppure, in fondo, sì, in fondo, lo è. Ma no, in fondo in fondo, non lo è... 

Facciamo due o tre esempi, improvvisati (perché potremmo sceglierne anche degli altri). La mattina è avanzata, il luogo deserto. Ed ecco che padre e figlio avvertono certi stimoli, non piacevoli, per cui devono appartarsi dietro una grande siepe polverosa, perdendosi ognuno nella solitudine della sua privacy in una sorta di contemplativo raccoglimento.

Il corvo resta la di qua della siepe, pudicamente aspettando. Ma ecco che si sentono delle urla, che si avvicinano, e poi altre urla, più rauche, e poi le voci del padre Marcello e del figlio Ninetto, che rispondono, imbarazzate, offese... Il corvo vola oltre la siepe, giusto nel momento in cui padre e figlio si aggiustano l'ultimo bottone, e un energumeno capo, seguito da altri energumeni dipendenti, sta sopraggiungendo sul luogo. A farla breve: il padrone del campo, evidentemente esasperato per una lunga consuetudine, dovuta certo all'ubicazione solitaria e accogliente della sua proprietà, ce l'ha contro i due profanatori; li insulta; li minaccia; non solo, ma pretende da loro, che, con le loro mani, portino altrove ciò che vi hanno depositato. Marcello e suo figlio, per amore di pace, avrebbero magari anche abbozzato sugli insulti e le minacce, ma a quest'ultima pretesa, si sentono passare dalla parte della ragione, e cominciano a gridare insulti a loro volta ecc. ecc. Insomma, dopo le parole si viene ai fatti, Marcello e il figlio danno un sacco di botte al contadino, e ai due tre vecchietti che erano con lui, ma al sopravvenire dei figli giovani, uno armato di fucile, se la danno a gambe, e via a tutta callara per la campagna, sotto il sole, col fiatone, e due tre fucilate che echeggiano alle spalle dietro le siepi. Ecco, da questo episodio di violenza, le corbeau, che benché irrichiesto ha partecipato con imbarazzo e timida ironia alla deplorevole situazione, trova modo di fare molte osservazioni: la violenza nel mondo contemporaneo, la sua bestialità, ciò che ne dice Freud, ciò che ne dice Marx; l'esempio di Gandhi; il dialogo tra marxisti e cattolici fondato sulla non violenza ecc. ecc. 

Mentre egli, bonariamente e con grande semplicità di linguaggio, per farsi capire dai due semplici, dice queste cose, ecco che sulla strada bianca, tre sagome nere si danno da fare intorno a un grosso cassone che si può a stento chiamare automobile.
Sono tre napoletani illuminati negli occhi obliqui come profeti o tigri, con venti centimetri di gamba in meno, e un negro.
Marcello e Ninetto sono chiamati dal dovere civico a dare una mano a spingere il macchinone carico, e lo fanno, malgrado i calli, e la corsa di poco prima. Spingono, spingono per un chilometro, ma la macchina non parte.
Tutti accasciati si riposano sul ciglio della strada, e così si va sul discorso dei calli; neanche a farlo apposta i napoletani pare abbiano un rimedio infallibile, anche se un po' costoso, che fa sparire i calli per sempre ecc. ecc.
A Marcello, però, glielo potrebbero dare per mille lire. Il negro lo tira fuori, Marcello, pieno di speranza l'osserva, lo palpa e infine lo compra, coi soliti discorsi del burino che fa un affare ecc. ecc. 

Appena conclusa l'operazione, i napoletani e il negro montano in macchina, e questa, sia pure scricchiolando e scoppiettando, parte. Allora padre e figlio sul ciglio della strada si tolgono scarpe e pedalini, e cominciano a ungersi i piedoni con l'unguento miracoloso.
Ed ecco il corvo che fa la sua timida e un po' forzata risata filosofica. «Leggete» dice, indicando la scatoletta.
Ma i due ci sfangano poco a leggere: il padre incarica il figlio, che dopo molti sforzi riesce a dire a voce alta per intero una frase incomprensibile. È il corvo che ne spiega il significato: la pomata che si stanno dando ai piedi è un antifecondativo.
Che è questo «antifecondativo»? fanno i due. Che è il «controllo delle nascite»? (Marcello ha otto figli). 

E di qui gli ilari discorsetti del corvo; sul vero grande problema del futuro, l'eccesso di popolazione; questo problema attualmente in India, in Cina; e ancora, il problema morale che implica il controllo delle nascite; la posizione della Chiesa, il Concilio ecumenico...
Ma sotto le sue parole, seguite dalle facce di Marcello e di Ninetto che sono un poema di curiosità vera o falsa, di cortesia doverosa e di sguardi al cielo come di chi si sente le scatole proprio rotte, di sguardi ammiccanti, tra loro, e di sguardi carichi di reale e intrattenuto rispetto verso il compagno di viaggio - ecco altri fatti, fatterelli, cose e persone di ogni giorno, nei pomeriggi di sole, nella campagna intorno a una grande città: ragazzini, nozze, soldati, fabbriche nuove di zecca, latitudine; ed ecco infine - cosa che non manca mai - su un ponticello, una prostituta. (Presenza del sottoproletariato, squilibrio fra il vecchio mondo della fame e della miseria col nuovo mondo del neo-capitale ecc. ecc. Ce n'ha da parlare il buon corvo...) 

Una masnada di facce da galera in una macchina sta passando davanti alla donnaccia, ancora mal osservabile, sul suo muretto.
La investono con una bordata dei soliti insulti indistinti, a cui lei indistintamente risponde; poi, più vicino, la macchina dei gangster; si ferma accanto a dei giovanottelli bravi, per aizzarli contro la donna.
Dai mezzi discorsi, si ricostruisce una cosa enorme, e cioè: la battona è là, fa la vita, per mantenere dei gatti: l'esercito di gatti affamati che vive intorno al Pantheon o a largo Argentina.
I gatti insomma sono i suoi sostenitori, o i suoi figli, come meglio si preferisca pensare.
I ragazzetti seguono l'incitazione dei grandi, e vanno a tormentare la battona: che è un curioso spettacolo, enorme come la Soreghina, ma zoppa, con un viso bellissimo, ma da matta. È dolce certo coi gatti suoi papponi, di cui i papponi umani sono invidiosi, ma è terribile coi rompiscatole: e infatti mette subito in fuga i ragazzini. 

Tutto questo visto fugacemente dai tre che passano. Ma ecco che Marcello, poco più in là, accusa un terribile mal di pancia (i fagioli della merenda? l'aria freschetta del mattino?): il figlio lo guarda loffio.
Ma lui incurante si getta tra le boschine, riguadagna il posto della donna, la guarda, si mette d'accordo, vanno insieme sul posto.
Il corvo intanto fa col figlio considerazioni umoristiche e leggere sul problema della prostituzione su quella famosa frase di Fidel Castro: «No, noi non vogliamo sopprimere con la forza le prostitute dell'Avana: esse scompariranno da sole man mano che le condizioni di vita cambieranno»; e di qui delle considerazioni più vaste sulla trasformazione «naturale» di una società dopo un'eventuale rivoluzione, a seconda delle reali condizioni storiche...
Il padre torna, ma che è che non è, adesso è il Ninetto a essere preso da violenti attacchi di mal di pancia: devono essere stati proprio i fagioli, o la camminata mattutina sulla guazza.
Scappa reggendosi la pancia tra le mani in mezzo alle boschine. Raggiunge la donna, si mette d'accordo, va con lei sul posto. 

Poi i tre riprendono il cammino, col corvo che prende argutamente in giro padre e figlio; egli è escluso da quella e dalle altre cose del mondo, però comprende tutto, umanamente, e quindi con humour e quasi religiosa comprensione ecc. ecc.
Egli viene così a parlare, sempre con facilità e leggerezza, del problema del sesso nell'epoca moderna: sesso e morale arcaica o religiosa, sesso e morale reale, ovvero sesso e società contemporanea; il libero amore del primo comunismo, la rinuncia del comunismo a questa sua prima ipotesi; il moralismo marxista; lo stalinismo; la crisi del marxismo negli anni sessanta... 

«I MAESTRI SONO FATTI PER ESSERE MANGIATI IN SALSA PICCANTE» 

Cammina e cammina, a un certo punto, mentre il corvo continua a parlare, padre e figlio cominciano a rivolgersi delle occhiate.
Il padre, guardando con la coda dell'occhio il corvo, apre e chiude la bocca, facendo il gesto di masticare; il figlio non capisce e strizzando gli occhi esprime in silenzio la domanda «Che?»; il padre ricomincia ad aprire e chiudere la bocca; e così il dialogo continua a lungo con cenni e ammicchi; ma i due non si capiscono perché il corvo, pur continuando a parlare, potrebbe accorgersi della loro disattenzione.
Finché il padre si decide, chiede al corvo: «Permette?», si avvicina al figlio, e a bassa voce, come tra malandrini, gli comunica che ha fame, che si è rotto le scatole del corvo, e che gli è venuta l'idea di tirargli il collo e mangiarlo.
Il figlio, prima è tutto una profonda colorazione di stupore, poi è subito preso e affascinato dall'idea, ed è tutto una colorazione di felicità e di dritteria.
Detto fatto, si riavvicinano al corvo, poveretto, che questa volta non ha capito e continua, continua a parlare, gli tirano il collo, lo spennano e se lo mangiano.
Dopo averlo mangiato, riprendono la loro strada, e vanno, vanno, di spalle per la strada bianca, verso il loro destino come nei film di Charlot. 





Curatore, Bruno Esposito

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LA RABBIA - Di Pier Paolo Pasolini, tratto da "Le belle bandiere"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 


LA RABBIA
Di Pier Paolo Pasolini,
tratto da "Le belle bandiere"





Il testo che segue, scritto da Pier Paolo Pasolini, e' apparso sul n. 38 del 20 settembre 1962 sulla rivista Vie nuove, con cui Pasolini collaborava, ed e' stato raccolto, insieme agli altri interventi sulla rivista, nel volume Le belle bandiere, a cura di Gian Carlo Ferretti, edito da Editori Riuniti.


E' un film (La rabbia, ndr) tratto da materiale di repertorio (novantamila metri di pellicola: il materiale cioe' di circa sei anni di vita di un settimanale cinematografico, ora estinto). Un'opera giornalistica, dunque, piu' che creativa. Un saggio piu' che un racconto.
Per dargliene un'idea piu' precisa, le accludo il "trattamento" del lavoro: le solite cinque paginette che il produttore chiede per il noleggio. Tenga quindi conto della destinazione di questo scritto: una destinazione che implica da una parte una certa ipocrita prudenza ideologica (il film sara' molto piu' decisamente marxista, nell'impostazione, di quanto non sembri da questo riassunto), e dall'altra parte una certa goffaggine estetica (il film sara' molto piu' raffinato, nel montaggio e nella scelta delle immagini, di quanto non si deduca da questa affrettate righe).

La rabbia

Cos'e' successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalita'.
Gia', la normalita'. Nello stato di normalita' non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come "normale", privo della eccitazione e dell'emozione degli anni di emergenza. L'uomo tende ad addormentarsi nella propria normalita', si dimentica di riflettersi, perde l'abitudine di giudicarsi, non sa piu' chiedersi chi e'.
E' allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica.
Ci sono stati degli avvenimenti che hanno segnato la fine del dopoguerra: mettiamo, per l'Italia, la morte di De Gasperi.
La rabbia comincia li', con quei grossi, grigi funerali.
Lo statista antifascista e ricostruttore e' "scomparso": l'Italia si adegua nel lutto della scomparsa, e si prepara, appunto, a ritrovare la normalita' dei tempi di pace, di vera, immemore pace.
Qualcuno, il poeta, invece, si rifiuta a questo adattamento.
Egli osserva con distacco - il distacco dello scontento, della rabbia - gli estremi atti del dopoguerra: il ritorno degli ultimi prigionieri, ricordate, in squallidi treni, il ritorno delle ceneri dei morti....E... il ministro Pella, che, tronfiamente, suggella la volonta' dell'Italia a partecipare all'Europa Unita.
E' cosi' che ricomincia nella pace, il meccanismo dei rapporti internazionali. I gabinetti si susseguono ai gabinetti, gli aeroporti sono un continuo andare e venire di ministri, di ambasciatori, di plenipotenziari, che scendono dalla scaletta dell'aereo, sorridono, dicono parole vuote, stupide, vane, bugiarde.
Il nostro mondo, in pace, rigurgita di un bieco odio, l'anticomunismo. E sul fondo plumbeo e deprimente della guerra fredda e della Germania divisa; si profilano le nuove figure dei protagonisti della storia nuova.

Krusciov, Kennedy, Nehru, Tito, Nasser, De Gaulle, Castro, Ben Bella.

Finche' si arriva a Ginevra, all'incontro dei quattro grandi: e la pace, ancora turbata, va verso un definitivo assestamento. E la rabbia del poeta, verso questa normalizzazione che e' consacrazione della potenza e conformismo, non puo' che crescere ancora.
Cos'e' che rende scontento il poeta?
Un'infinita' di problemi che esistono e nessuno e' capace di risolvere: e senza la cui risoluzione la pace, la pace vera, la pace del poeta, e' irrealizzabile.
Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un'altra nazione, col suo strascico di martiri, di morti.
O: la fame, per milioni e milioni di sottoproletari.
O: il razzismo. Il razzismo come cancro morale dell'uomo moderno, e che, appunto come il cancro, ha infinite forme. E' l'odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, dalla prepotenza della maggioranza. E' l'odio per tutto cio' che e' diverso, per tutto cio' che non rientra nella norma, e che quindi turba l'ordine borghese. Guai a chi e' diverso! questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti.
Linciaggi a Little Rock, linciaggi a Londra, linciaggi in Nord Africa; insulti fascisti agli ebrei.
E' cosi' che riscoppia la crisi, l'eterna crisi latente.
I fatti d'Ungheria, Suez.
E l'Algeria che comincia piano piano a riempirsi di morti.
Il mondo sembra, per qualche settimana, quello di qualche anno avanti. Cannoni che sparano, macerie, cadaveri per le strade, file di profughi stracciati, i paesaggi incrostati di neve.
Morti sventrati sotto il solleone del deserto.
La crisi si risolve, ancora una volta, nel mondo: i nuovi morti sono pianti e onorati, e ricomincia, sempre piu' integrale e profonda, l'illusione della pace e della normalita'.
Ma, insieme alla vecchia Europa che si riassesta nei suoi solenni cardini, nasce l'Europa moderna:
il neocapitalismo;
il MEC, gli Stati Uniti d'Europa, gli industriali illuminati e "fraterni", i problemi delle relazioni umane, del tempo libero, dell'alienazione.
La cultura occupa terreni nuovi: una nuova ventata di energia creatrice nelle lettere, nel cinema, nella pittura. Un enorme servizio ai grandi detentori del capitale.
Il poeta servile si annulla, vanificando i problemi e riducendo tutto a forma.
Il mondo potente del capitale ha, come spavalda bandiera, un quadro astratto.
Cosi', mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa piu' raffinata e per pochi, questi "pochi" divengono, fittiziamente, tanti: diventano "massa". E' il trionfo del "digest" e del "rotocalco" e, soprattutto della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre piu' irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso.
Il mondo del rotocalco, del lancio su base mondiale anche dei prodotti umani, e' un mondo che uccide.
Povera, dolce Marylin, sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalita' che rallegra e uccide.
Forse tu hai preso la strada giusta, ce l'hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano cosi', te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realta' dannata, alla fatalita' del male.
Perche': finche' l'uomo sfruttera' l'uomo, finche' l'umanita' sara' divisa in padroni e in servi, non ci sara' ne' normalita' ne' pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo e' qui.
E ancora oggi, negli anni sessanta le cose non sono mutate: la situazione degli uomini e della loro societa' e' la stessa che ha prodotto le grandi tragedie di ieri.
Vedete questi? Uomini severi, in doppiopetto, eleganti, che salgono e scendono dagli aeroplani, che corrono in potenti automobili, che siedono a scrivanie grandissime come troni, che si riuniscono in emicicli solenni, in sedi splendide e severe: questi uomini dai volti di cani o di santi, di jene o di aquile, questi sono i padroni.
E vedete questi? Uomini umili, vestiti di stracci o di abiti fatti in serie, miseri, che vanno e vengono per strade rigurgitanti e squallide, che passano ore e ore a un lavoro senza speranza, che si riuniscono umilmente in stadi o in osterie, in casupole miserabili on in tragici grattacieli: questi uomini dai volti uguali a quelli dei morti, senza connotati e senza luce se non quella della vita, questi sono i servi.
E' da questa divisione che nasce la tragedia e la morte.
La bomba atomica col suo funebre cappuccio che si allarga in cieli apocalittici e' il futuro di questa divisione.
Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile... una soluzione che nessun profeta puo' intuire... una di quella sorprese che ha la vita quando vuole contiuare... forse...
Forse il sorriso degli astronauti: quello forse, e' il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.

Pier Paolo Pasolini
 
Fonte:


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