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domenica 6 dicembre 2020

Pasolini esperto di facce, di Adriano Sofri

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini esperto di facce
di Adriano Sofri

A distanza di trent’anni, di nuovo il crimine orrendo del Circeo e l’assassinio di Pier Paolo Pasolini si intrecciano, impedendo le commemorazioni anestetiche. Tutto si giocò in meno di un mese, tra ottobre e novembre 1975. Tutto comincia a Roma. Giovani farabutti «dorati» che caricano sulla loro auto due brave ragazze che vivono in periferia. Un adolescente di periferia che sale sull’auto di un regista e scrittore famoso. La tragedia di Pasolini si compirà all’Idroscalo di Ostia. Quella delle ragazze in una villa del Circeo. Uomini che torturano e ammazzano donne. Un ragazzo (solo o con altri: da questo punto di vista cambia poco) che ammazza un uomo cui piacciono i ragazzi. La notte buia dell’Idroscalo sembrò illuminata, spiegata e quasi resa necessaria agli occhi del pubblico dall’autopsia che Pasolini aveva appena eseguito sull’orrore del Circeo.
Quello scenario raccapricciante era parso quasi esemplare: figli viziati di padri benestanti e complici, autori di infinite bravate ignorate da polizia e giudici, fascisti, maschilisti; e di là ragazze fiduciose e ingannate, tormentate e umiliate a morte. Tutti videro lo scandalo ripugnante e chiesero giustizia: per le ragazze povere contro i bellimbusti ricchi, per le borgate rosse contro i quartieri alti neri. Pasolini ci vide altro, e sfidò l’evidenza apparente. La stessa violenza capricciosa e compiaciuta covava dentro quel popolo che fino ad allora si era tenuto illeso dalla corruzione del consumismo e dello sviluppo... Eravamo stati amici e compagni, di Pasolini. Ora eravamo distanti. Rileggo la nostra reazione, di «rivoluzionari classisti», al delitto del Circeo: «Questi giovani cercano due ragazze per violentarle e poi buttarle via, massacrate. Cercano due ragazze, perché sia soddisfatta la loro potenza di maschi. Le cercano povere, perché sia soddisfatta la loro potenza di padroni... Confinare questa infamia nel fascismo è un’operazione di comodo... L’esasperazione della violenza indiscriminata e l’ideologia della catastrofe sono i due strumenti opposti ma convergenti per contagiare il proletariato, per far passare la propria fine come la fine di tutto. La seminazione del tribalismo, del razzismo, della violenza sessuale, dell’aggressività quotidiana dalla civiltà automobilistica al tifo sportivo, allo stato d’assedio poliziesco, della costrizione alla delinquenza comune, della distruzione pianificata della droga (un’industria di stato negli Usa, un’industria marciante in Italia) e dell’alcolismo, della paura e del culto della forza, tutto questo è parte del tentativo di coprire la guerra di classe con la guerra di tutti contro tutti.

Non c’entrano le idiozie sull’ingresso del nostro Paese nel novero dei Paesi maturi dell’imperialismo, sulla fine di una cultura e di una morale contadina, come di una cultura e di una morale borghese umanistica, secondo i temi reazionari degli esibizionisti dell’ideologia piccolo-borghese e dei nostalgici revisionisti del cattolicesimo...».Dicevamo queste cose, con un tono insolitamente aspro, contro il Pasolini del Corriere della sera: «Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno che l’universo popolare romano è un universo odioso» scrisse nell’ultimo articolo dopo il delitto del Circeo. «La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale, che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose, mi insegna che non c’è più alcuna differenza vera verso il reale e nel conseguente comportamento tra borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate». Vedete l’orgogliosa rivendicazione di sé, della propria differenza da quelli «che non vivono». Pasolini rivendica di vivere ciò di cui gli altri tutt’al più parlano: getta nella mischia, a testimoniare e certificare le parole, il proprio corpo, ed è infine il suo corpo martoriato che lascerà sul terreno.
Avvenne così che le circostanze e il modo della sua morte ci caddero addosso come una sfida non più riparabile, come la prova definitiva della sua ragione. Non che noi fossimo ottimisti e lui pessimista. Piuttosto, pessimisti lui e noi, leggevamo nella sua sentenza drastica una lucidità «disfattista», la rinuncia a battersi ancora in nome di una solidarietà comune. Eravamo sempre rivoluzionari, ma sull’orlo di una crisi di nervi. Scrivemmo dopo la sua morte: «È contro questa visione della realtà che noi abbiamo molte volte polemizzato con Pasolini, senza alcun ottimismo pragmatico, senza alcun ottimismo "riformista", ma guardando a ciò che avviene ogni giorno nel proletariato: al modo in cui i giovani e i vecchi delle borgate di Roma hanno accompagnato i funerali di Rosaria Lopez... Pasolini aveva scritto una settimana fa su un quotidiano: "Guardate le facce dei giovani teppisti arrestati a Milano: vedrete dai loro tratti somatici che sono privi di pietà". Noi non crediamo alla corrispondenza fra i tratti somatici e i sentimenti». Ma Pasolini era stato un vero esperto di facce. Aveva trovato «adorabili» anche noi; quel suo aggettivo che Leonardo Sciascia dichiarava impraticabile da sé, se non per la sua donna e per Stendhal... Su quell’aggettivo costruì anche il suo involontario testamento, il saluto al congresso radicale che fu letto postumo: «a) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. b) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono, e addirittura ci rinunciano».


Avevo riletto quel tremendo frangente della nostra vita pubblica e privata l’anno scorso, quando Valeria Gandus e Pier Mario Fasanotti, autori ben noti a lettrici e lettori di Panorama, pubblicarono un libro sui delitti degli anni 70 (Bang bang, Tropea), riservando due capitoli al Circeo e a Ostia. Né loro né io potevamo immaginare che i trent’anni da quella voragine sarebbero stati celebrati da uno degli assassini del Circeo torturando e assassinando due donne inermi, madre e figlia quattordicenne. Che cosa sia l’Italia di oggi, con che facce e che capigliature andiamo incontro al nostro prossimo in quest’altro novembre, non ci ricordiamo più di chiedercelo.

Adriano Sofri 15/11/2005

Fonte: Panorama




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Adriano Sofri, Pasolini era specialista dei corpi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini era specialista dei corpi
di Adriano Sofri

Pasolini conosceva, di più, ne era specialista (...) un segreto che noi intravedemmo solo grazie al femminismo: il segreto dei corpi. Che noi non abbiamo, ma siamo un corpo. Che quando facciamo l'amore, mangiamo, giochiamo a pallone, pensiamo pensieri e scriviamo poesie e articoli di giornale, è il nostro corpo che lo fa. Pasolini riconosceva il proprio corpo, e dunque quelli degli altri. Sapeva che esistono i popoli, le nazioni, le classi, le generazioni, e una quantità di altri vasti ingredienti della vicenda sociale, ma li guardava al dettaglio nel modo di camminare e di pettinarsi, di urtarsi per gioco o di ghignare per minaccia. Si sentiva in dovere di essere marxista, ma il suo era un marxismo delle fisionomie, dei gesti, dei comportamenti e dei dialetti. "È da questa esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici". Il sentimento così forte del proprio corpo e di quello degli altri, tenerezza e colluttazione, seduzione e ripudio, "amore a sputi in faccia", passa nel corpo della sua prosa, ma controllato e quasi raziocinante.
Più direttamente passa nelle immagini, negli autoritratti e le interviste e i documentari con la sua voce, o nelle fotografie da uomo nudo o da calciatore, e nel suo cinema. Là le descrizioni di cose viste e rivelate al suo occhio di iniziato diventavano le cose stesse. Gli articoli degli ultimi anni, articoli di moda, per così dire, erano spesso didascalie di immagini, di facce e gesti e fogge. Le fotografie di Pasolini, in questo quarto di secolo, sono state la sua commemorazione più frequente. Succede così a chi, avendo qualcosa da dire, sente di doverlo dire col proprio corpo. A chi sente che, per lui, vivere significa mettere in vista e a repentaglio il proprio corpo.
Farò qualche nome proverbiale: il mahatma Gandhi, il Che Guevara, e anche don Milani. Perfino lady Diana e madre Teresa di Calcutta, per quella volta in cui furono filmate insieme mentre passavano tra i giacigli dei lebbrosi, la vecchia infima e curva che trascinava per mano la giovane dalle gambe lunghe, e per quell'altra volta che morirono pressoché insieme, la vecchia e la giovane, come due candele nella stessa ventata. Corpi, persone. I digiuni, la malattia, la disgrazia, il martirio, fanno di persone simili dei predestinati. I loro tavoli di obitorio sono deposizioni sacre, le loro passioni sono imitazioni di Cristo. I loro visi sono fatti per andare sulle magliette dei ragazzi. Non è detto che siano poeti più grandi di altri poeti, o santi più santi, o combattenti eroici più eroici, o principesse sventate più belle di altre belle: sono persone che hanno seguito il destino del proprio corpo - fino in fondo. Meno vicine ai propri concorrenti di professione - altri poeti, altri santi, altri combattenti, altre principesse - che alle dive e ai semidei dello spettacolo, a Jimmy Dean o a Marilyn Monroe o a John Lennon.

La stessa canzone - la stessa candela - può trasferirsi dall'una all'altra. Per questo Pasolini non ha avuto eredi, benché in tanti si fossero messi in coda. Non bastava avere idee scandalose - che già non riesce così bene, e tanto meno agli imitatori - bisognava essere scandalosi. E gli epigoni erano senza corpo, e non lo sapevano: e quando se ne accorgevano, facevano troppo chiasso per attirare l'attenzione. Il corpo di Pasolini era fatto dall'inizio per fare alla lotta e all'amore. Quando il suo fratello minore Guido - che aveva fatto a pugni per lui, per ricacciare in gola ai ragazzi l'insulto fatto a Pier Paolo, "è una femminella" combatteva da partigiano in montagna e veniva ammazzato a tradimento da altri partigiani, il corpo di Pier Paolo inaugurava i turbamenti dell'amore nella piana friulana. Si addestrava a dare e ricevere, a darle e riceverle.
L'omosessualità non è il punto, benché sia la principale delle condizioni. C'è l'esperienza dell'aggressione e della ferita, dell'esibizione e dell'abbandono: e poi, bisogna avere delle cose da dire. Pasolini è stato un dilettante, si dice: è vero. Purché nel nome di dilettante entri la sofferenza; e anche la competenza. Il dilettante Pasolini non era un autodidatta. Aveva fatto buoni studi, i migliori. Sapeva, se non scoprire ciò che solo la ricerca specialistica consente di scoprire, dove e come trovare le buone scoperte, e tradurle nella propria prima persona. Conosceva il giorno e batteva la notte. Presentiva la propria ultima notte: purché non si ripeta la bestemmia che l'aveva voluta. Solo in questo senso la sua morte fu il punto d'arrivo di una congiura.
Ci avevano messo mano colposamente burocrati scolastici e genitori perbene, agenti dell'ordine e giudici dell'ordine, preti di destra e di centro e di sinistra. Naturalmente, questo non vuol dire meno che si trattò di un orrendo assassinio. Lo si voleva buffone di lusso e capro espiatorio: "Questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni" lo scriveva a Calvino. Mi sono chiesto quanti personaggi così abbia avuto l'Italia. Pochissimi.
Chi può paragonarsi alla sua presa sui sentimenti vivi delle persone? Altri letterati, forse? Italo Calvino è stato un grande scrittore - algido, si dice di lui non so perché, non è affatto algido - e leader culturale, e ha anche raggiunto una gran popolarità, addirittura nel santuario dell'incoronazione umanistica, la scuola. Forse ha avuto più potere di Pasolini, che a suo modo ne ebbe parecchio: tuttavia Calvino non è stato un eccitatore di passioni. Al contrario. Quanto al corpo, se lo è tenuto per sé e i suoi. Alcuni suoi ritratti fotografici sono bellissimi, ma non vanno sulle magliette. Qualcosa di simile vale per altre e altri.
Un posto a parte ce l'ha Dario Fo. Metterei a confronto con Pasolini solo don Milani, per strano che possa sembrarvi. Dalla scuola di Barbiana Pasolini era stato subito attratto, e del resto non gli sfuggiva niente di ciò che di nuovo e periferico spiazzasse le cronache (come il ' 68, per entrare nel quale scrisse la mediocre poesia su Valle Giulia, come un provocante biglietto di presentazione: il testo più citato, meno letto, e più equivocato dei nostri tempi). Anche a Barbiana aveva avuto un incontro malriuscito, e poi la cosa non andò avanti.
Don Milani era a sua volta uno fuori gioco, prete dall'obbedienza scandalosa, perseguitato da cappellani militari vescovi giudici e giornalisti, messo per giunta al bando dalle città e dalla pianura, e fieramente deciso a fare di quell'esilio la sua evangelica trincea. Una tonaca da curato di montagna segnala un corpo d'uomo almeno quanto lo nasconde e umilia. "Un po' femmineo", secondo Pasolini, e, nella Lettera, di un "puritanesimo sessuale degno delle più castigate edizioni paoline". Quel prete - maestro maschio di ragazzi maschi quasi tutti, e vendicatore di loro su una malcapitata professoressa donna - era anche lui, nella veste e nell'esilio, e poi nella malattia portata eroicamente e nella morte precoce, un corpo che si era messo in gioco, che aveva trovato un linguaggio suo e sicuro: di buoni studi e di esperienza vissuta intransigente e originale. Quando la Lettera a una professoressa arrivò ai suoi destinatari del '68, col breve ritardo di un anno, don Milani era morto giovane, e seppellito nel più minuscolo e fuori mano dei cimiteri, e quella morte sembrò un sacrificio; la morte illustrò la Lettera, e viceversa.
Anche don Milani ebbe aspiranti imitatori, meno golosi dei pasolinisti, perché il suo vuoto non era sulla prima del Corriere: anche loro fallimentari. Perché alle persone, ma specialmente a queste, che sanno di avere e essere un corpo, magari per infagottarlo e sottrarlo, non si può credere di somigliare imitandone le idee, né imitandone la vita. (Figurarsi la vita e le idee insieme).
Bisogna che se ne ricordi chi costruisce genealogie alla propria parte, o le riaggiusta: che le idee si misurano sulla vita dei loro autori, e viceversa. Fatto sta che don Milani può andare sulle magliette dei ragazzi. (Come, agli antipodi della canonica di Barbiana, il papa Wojtyla: il quale, idee a parte, ha un corpo, è un corpo, gran novità nel suo mestiere, e due volte scandaloso, nel vigore sportivo e nella malattia e vecchiaia). C'era stato Pannella, e Pasolini se ne riconobbe debitore. Pannella è più parlatore che scrittore. Nel 1974 l'immagine del processo penale al potere, al Palazzo, Pasolini la prese da Pannella. Pannella aveva avuto la temerarietà di far testimoniare dal proprio corpo digiuno la fame del mondo. Ci fu un tempo in cui la gente aveva di Pannella, più ancora che di Pasolini, la sensazione che sarebbe finito male: forse lo pensava anche lui.
Pasolini non ha avuto eredi, dunque. Successe però dopo la sua morte qualcosa che sembra contraddire quello che ho detto finora sui personaggi trascinatori di passioni, e forse lo conferma a contrario. Parlo del rilievo pubblico e politico che si guadagnò, quasi di malavoglia, Leonardo Sciascia. Sciascia aveva avuto da tempo il successo, e già Pasolini gli aveva riconosciuto "una certa forma di autorità", un'autorità "solamente personale: legata cioè a quel qualcosa di debole e di fragile che è un uomo solo".

Sciascia era laconico fino al silenzio e fisicamente restio fino a passar inosservato, e la sua stessa scrittura era frenata e discreta. Era, nello stesso modo del suo successo, un anti-Pasolini. Perciò il cambiamento fu ancora più singolare. Esso venne dopo la morte di Pasolini, e anzi come una specie di conseguenza di quella. Come se nel vuoto di quella Sciascia non avesse premeditato di avanzarsi, ma vi fosse stato attratto, e una volta là accettasse fino all'oltranza la sfida polemica e la recisione delle opinioni. Lo dichiarò così, nel 1981: "Dicevamo quasi le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c'è lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte".


Lo Sciascia polemista diventò drastico fino alla rottura dei legami personali, e si indusse all'impegno politico diretto e scorbutico, in Sicilia prima poi nel Parlamento: e quando, prima di tornare da quella escursione estroversa alla sua timidezza scettica, ne trasse il risultato più impegnato, il libro sull'Affaire Moro (1978), lo aprì con le pagine indirizzate al morto Pasolini, con un rimpianto struggente e una complicità fraterna. Così l'intellettuale più lontano dall'azione e dalla corporeità diventò, quasi per contrasto, sulle stesse colonne del più ufficiale quotidiano italiano, un popolare eccitatore e divisore di coscienze.
Dopo, non c'è stato molto altro. La correttezza politica è necessaria, finchè non diventi stucchevole e perbenista, ma non suscita sfidanti all' ordine mentale costituito. D'altra parte i suoi trasgressori per partito preso hanno spesso cura di tener distinte le loro enormità verbose dall'assicurazione sulla vita. La televisione, quando è troppo frequentata, annulla la distanza e con essa il carisma. Regala il successo colossale ma facile: quello di "uno qualunque del pubblico".
I corpi, nel frattempo, hanno trionfato, come in un carnevale. C'è stata la resurrezione, nel mondo di qua. Pasolini rivendicava per sé una vissuta "competenza in facce" (e in maschere senza facce dietro, come quelle dei capi democristiani), e gliela ributtavano addosso con l'insulto di "esteta": ora la competenza in ogni centimetro cubo di corpo è diplomata, e la parola è degli estetisti. Le facce non occorre andare a guardarle nelle strade del mondo, a Torvajanica o a Praga o a Isfahan, per misurare quanto siano diventate uguali e quanto resistano differenti. Basta guardarle in televisione - lo si può fare perfino da una galera, e poi scriverne sulla prima pagina di un grande quotidiano.

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Adriano Sofri e Pier Paolo Pasolini. L'italia che aveva smesso di amare

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




L'Italia che aveva smesso di amare
ADRIANO SOFRI

C'era stata, fino agli anni '60, un'Italia ufficiale bigotta, ottusa e ancora intimamente fascista della quale Pasolini era stato lo scandalo: "Un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni". Poi venne l'Italia del potere consumista ed edonista, "il più violento e totalitario che ci sia mai stato", della cui sventura Pasolini si fece il profeta ascoltato, pieno di rimpianto per l'Italia perduta. Primo paradosso, ma solo apparente. Perché il dopoguerra preservava, secondo Pasolini, l'antica dissociazione fra l'avvicendarsi di regimi e governi, e la forma immutata della vita del popolo. "Che paese meraviglioso era l'Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent'anni non è più cambiata". S'incaricarono i suoi assassini - uno o tanti che fossero - di dar ragione al rimpianto. Pasolini aveva allora 53 anni: dieci di meno dei miei che oggi ne scrivo, e mi fa impressione, perché dei miei rapporti con lui decisero sempre i suoi vent'anni in più. Il '68 fu una data epocale per Pasolini. Se ne sentì spiazzato e cacciato, e cercò ogni via per rimontare: la provocazione di Valle Giulia e l'accredito a una rinata gioventù. Riprese presto la sua personale extraterritorialità politica e civile, in nome di una irriducibile diversità. Non l'omosessualità, che poteva già allora accordarsi con un conformismo, ma la sua vita. "Io, come il dottor Hyde, ho un'altra vita". Gli ultimi anni scandiscono una rivendicazione sempre più aperta e orgogliosa: lui guarda in faccia il mondo, lui vive quello di cui altri si limitano a parlare. Sentite come lo dice all'indomani dello strazio del Circeo - e alla vigilia del proprio. "La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all'offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - mi insegna che non c'è più alcuna differenza vera verso il reale e nel conseguente comportamento tra borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate".


Contro gli altri, "che non vivono queste cose", Pasolini getta sul terreno, coi pensieri, il proprio corpo - ed è infine il suo corpo martoriato che resta sul terreno. è la prima essenziale qualità del Pasolini ultimo, in cui poesie, testi letterari, film, cedono senz'altro al pronto intervento giornalistico, fino alla tribuna del Corriere; e tutti, poesie e saggi e film e articoli di giornale, cedono alla sua presenza fisica, esposta nella scena pubblica diurna, a testimoniare, ma ancora col filtro di una discrezione residua, della lezione delle sue notti di gatto randagio. "Perché lo vivo. Nel mio corpo. E non gioco su due tavoli (quello della vita e quello della sociologia)...". A leggere i più famosi scritti corsari, sembra che un oltranzismo di sincerità ed esibizione di sé abbia cancellato ogni remora di pudore o convenienza. Ma poi si legge il brogliaccio di Petrolio e si misura, con una stupefazione turbata, quanto fosse ancora distante il Pasolini notturno da quello dei giorni e dei giornali. Perché ciascuno di noi, più o meno, vive le sue cose, e perfino gli intellettuali più avari di sé: ma non così a corpo morto, e non queste cose. è la conoscenza che Pasolini premette alla coscienza, e lo separa dai repertori di tanta anche buona sociologia. Basta confrontare la sua attenzione alle facce e alle cerniere dei calzoni e al linguaggio dei capelli con l'odierno specialismo del look. "Guardate le facce dei giovani teppisti arrestati a Milano: vedrete dai loro tratti somatici che sono privi di pietà" (1975). L'esperto in facce di allora sarebbe oggi, di fronte a lifting e tatuaggi e rinascimenti di capelli e viagra ed etologia umana, come un vecchio mezzadro di fronte a un meteorologo del weekend.


La metamorfosi dei tempi evoca un'altra qualità essenziale: una sensibilità rabdomante per l'influenza fatale delle date. Più facilmente negli interventi giornalistici, e ancora di più nell'ambizioso progetto di Petrolio, Pasolini è un annalista. Le fisionomie delle persone, e le loro anime, e i viali di città e le campagne e i loro odori, durano e cambiano secondo un calendario lento e d'improvviso brusco, fino a segnare un passaggio di civiltà nel giro di una stagione, di una mattina. La pagina più famosa è anche la più esemplare - l'Articolo delle lucciole. Ci sono le lucciole, poi la rarefazione, e poi d'un tratto non ci sono più, e chi deve governare la terra non se ne è nemmeno accorto. Le date, dunque. A Isfahan, nel 1972, si vedono "i ragazzi che si vedevano in Italia una diecina di anni fa". "Fino a pochi anni fa... gli analfabeti erano però in possesso del mistero della realtà". "Si può parlare per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Solo fino a dieci anni fa bastava uno sguardo...". "In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968". "In pochi mesi, i potenti democristiani sono diventati delle maschere funebri". O, in Petrolio: "Ma in quel maggio del 1960 il Neo-capitalismo era ancora una novità troppo nuova...". In questi due connotati, il vivere queste cose, e un legame spasmodico e autistico con il tempo, sta l'enormità mai cicatrizzata della morte di Pasolini. Perché in nessuno vita e linguaggio erano stati così trasfusi, opera e corpo, il corpo vestito di abiti "forse un po' troppo giovanili", "un po' troppo vistosi", e il corpo straziato che le televisioni di questi giorni si sono compiaciute di mostrarci. E perché c'è un crescendo dello sbaraglio di Pasolini, dal 1972 a quel novembre 1975, che ne fa insopportabilmente un culmine fatale. Ho detto del divario fra gli scritti pubblici e quello destinato bensì alla pubblicazione, anzi con l'impegno di una summa definitiva, ma così parziale e informe, che è Petrolio (1972-75). In quella farragine il competente in facce e capelli degli scritti corsari diventa senz'altro l'esperto in grembi: in una devozione esclusiva al sesso, una sottomissione sacra al cazzo. ("La purezza della sua guancia giovanile... La perfezione del suo corpo era quella di chi possiede un gran cazzo". "Lo scopo altro non è che il piacere dei sensi, del corpo, anzi, per essere precisi e inequivocabili, del cazzo". O, nella più svelata delle immagini, l'apparizione dei giovani operai sui camion che cantano una canzone partigiana. "Era la fine di novembre del 1969. Tutti quei giovani parevano rinati in una nuova forma... Vestivano di poveri abiti da lavoro, ma di una foggia nuova; i calzoni erano più stretti del solito. Tutti avevano un fazzoletto rosso al collo... Una novità che gettava chi non era più un giovane uomo nel panico... / Un camion si ferma così vicino che il protagonista non può vedere le facce, ma solo una fila di gambe e grembi/. L'umido rendeva anche più grigi e poveri i panni che coprivano quelle gambe e quei sessi in fila: le sdruciture, le abbottonature dei calzoni allentate, oppure suggellate da povere cerniere, i punti della stoffa lisa, consunta o livida sui ginocchi o sui grembi, dove sporgeva il gonfiore del membro..."). L'anello di congiunzione fra i due generi, gli editoriali e il romanzo "di duemila pagine", sta nel paio di articoli in cui, "contro una lotta trionfalistica per la legalizzazione dell'aborto", Pasolini mise esplicitamente in causa "il coito" e la sua conformistica necessità.


Con un argomento d'occasione e dunque debole (di fronte alla tragedia demografica, è il rapporto eterosessuale a mettere in pericolo la specie, mentre quello omosessuale la assicura). Ma con un fondo meno esplicito e più radicale: il rifiuto di associare la sessualità con l'amore e la maternità, come qualcosa che ne riduca la potenza tirannica e autonoma. In questo Pasolini, così adolescentemente serio e permaloso, l'eros e la morte sono padroni gelosi ed esclusivi. Non sono affatto un ammiratore della caricatura cui oggi eros è avvilito, da gente che muore dal ridere. Ma mi turba la sensazione di un legame indicibile fra il Pasolini che spiegò il Circeo (gridando che i criminali non erano solo fascisti, e che lo erano allo stesso modo e con la stessa coscienza i proletari o i sottoproletari: "Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno che l'universo popolare romano è un universo odioso... non c'è più alcuna differenza vera verso il reale e nel conseguente comportamento tra borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate") e la ripetizione a trent'anni dell'assassinio di donne, corredato da memorie abiette, di uno di quei bravi. In Salò, o le 120 giornate di Sodoma, 1975, che fu proiettato postumo, si trattava di giovani sequestrati in una villa e torturati e degradati e costretti a una infame complicità. In un appunto di Petrolio c'è la schiavizzazione sessuale e sadica di una bambina, con una evocazione impietosa dei Demoni. è il legame, s'intende, che non unisce ma oppone il carnefice alla vittima. Non è vero però - qui Pasolini sbagliava gravemente - che "non c'è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima": ci sono vittime infinite che non riconoscono il loro carnefice e non gli concedono niente di sé. Pasolini gli fissava un appuntamento: ogni notte, ogni giorno. Per l'autore della sua opera incompiuta, "il preambolo di un testamento", aveva immaginato che fosse "morto ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l'anno scorso". Un piccolo errore di luogo, e di data.

fonte: Diario di Repubblica



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