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lunedì 20 luglio 2020

Conversazioni con Pasolini, di Ferdinando Camon - Seconda conversazione, 1968

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Conversazioni con Pasolini
di Ferdinando Camon
Seconda conversazione 

1968 



Pubblichiamo la seconda di due conversazioni, tra Ferdinando Camon e Pier Paolo Pasolini. 

Le due conversazioni sono tratte dal libro di Camon: 
"Il mestiere di scrittore"
conversazioni critiche con: 

Giorgio Bassani
Italo Calvino
Carlo Cassola
Alberto Moravia
Ottiero Ottieri
Pier Paolo  Pasolini
Vasco Patrolini
Roberto Roversi
Paolo Voloni

Una serie di conversazioni critiche condotte tra gli anni Sessanta e Settanta da Ferdinando Camon, scrittore militante della letteratura: non secondo la modalità dell'intervista né quella del ritratto, ma più propriamente di una narrazione a due voci...

(La trascrizione è stata curata da Bruno Esposito)

"Per gentile concessione di Ferdinando Camon"

(Qui trovi la "Prima conversazione")




Ferdinando Camon, 1967
   Rivedo Pasolini nella domenica delle elezioni. Roma è pavesata di striscioni fascisti e democristiani, i socialisti han coniato uno slogan che risente con farsesca equivocità del cosiddetto giovanneismo: «Unitevi a noi che ci siamo uniti», i manifestini rigurgitano a ondate, marciti dalla notte, per le vie della città fino alle borgate periferiche coi loro formicolanti alveari umani: i sobborghi miserabili e corrotti, da Pasolini resi immortali nel mondo, stringono in un assedio-abbraccio implacabile e amorevole la Città Eterna per spartirne la civiltà e la storia, assaporano l'illusione che il possesso, il diritto a una (diversa) vita lo si acquisti cosi, con l'attesa. Potenti aspiratori son passati stanotte per le vie della città succhiando quintali di carta. Treni stracarichi svuotano alla stazione Termini ondate di elettori elettrici, tornati per un giorno, una notte, con lo sconto del tanto per cento, dalle capitali del Nord, Milano, Torino, ove gli immigrati non hanno sentito con simpatia le sommosse organizzate dagli studenti, forse le hanno abbinate, nel ricordo, ad altre sommosse, di altri studenti, in altra epoca, in altre o identiche (altre o identiche?) forme. I cinema sono pieni, i bar allineano nuove file di tavoli, l'ufficio cambi alla stazione resta aperto fino a tardi, l'ufficio informazioni smista i turisti ai vari alberghi nei paraggi. Non è questo, per Pasolini; il tempo in cui qualcosa di nuovo possa accadere, magari qualcosa di infinitesimale o infinitesimalmente nuovo: è il classico tempo del falso nuovo, in cui il nuovo è tale solo per la crociana garanzia di attualità del passato.

   Nell'arioso quartiere dell'Eur, la casa di Pasolini è attraversata da un vento stanco e caldo che ha percorso la campagna arsiccia e grattata. Nello studio tiepido e assolato rivedo Parolini più stanco dell'ultimo incontro, col volto asciugato e teso dei giorni per lui non rari, della rabbia impotente. Risponde con voce sommessa, quasi impercettibile. Delle polemiche passate parla mal volentieri, come di cose scadute e prevedibili anche nel loro scadimento. Quello che m'importa sapere da Pasolini è la misura della sua carica di pessimismo storico, e se ha assunto per lui un qualche contorno di definibilità il concetto di Nuova Preistoria con cui egli prevedeva, qualche anno fa, l'avvento di un tempo nuovo sulle rovine della società borghese guasta da un suo interno processo di corruzione inarrestabile. E scopro che in lui il pessimismo storico è totale, egli ha rifiutato di concedere la sua fiducia (di concedersi) ai moti di agitazione che gli studenti e i giovani conducono nei centri universitari: ed è importante, a questo proposito, l' etichetta di «guerra civile» con cui Pasolini li definisce, con ciò staccandoli da un moto, magari velleitario, di rivoluzione. L'idea di «guerra civile e non rivoluzione» lo domina veramente in questi giorni, se ha voluto mettersi a tavolino e concentrarsi, ieri, per rispondere in iscritto alla mia ultima domanda, consegnandomi quindi una specie di inedito (l'ultima risposta, infatti, ha l'impostazione e il respiro di un articolo o breve saggio). Io gli ho fatto qualche obiezione: il lettore la vedrà più avanti. Ma ovviamente le mie obiezioni non hanno scalfito per niente la sua convinzione, se pochi giorni dopo egli s'è presentato nella sede dell'«Espresso» per fare l'accusatore in quella specie di processo agli studenti che traeva lo spunto da una lunga poesia di Pasolini stesso «Il Pci ai giovani», i cui punti salienti sono: 

«Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti. /  Perché i poliziotti sono figli di poveri. / Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano»; «voi siete borghesi / e quindi anticomunisti»; «siete una nuova / specie idealista di qualunquisti».

   Durante il dibattito, al quale Pasolini intervenne passivamente senza disporre di quella carica che gli avrebbe fatto rispondere alle accuse in maniera ben più irruenta, lo scrittore si trovò isolato di fronte alle posizioni concordi del segretario nazionale della gioventù comunista e del segretario della Cgil. Costoro gli rimproveravano - e mi dilungo perché il discorso entrava nel terreno culturale - di avere una visione immobilistica della lotta di classe e del movimento operaio, e sostenevano che il ruolo politico degli strati sociali non è legato alla loro miserabilità, ma alla loro collocazione nel processo produttivo e quindi all'acquisto o no di una coscienza rivoluzionaria. Pasolini non ha risposto direttamente: o almeno, non direttamente come già aveva fatto qui, con me, che gli ponevo in altra forma le stesse domande. È chiaro, dalle risposte, che Pasolini è un mistico della Rivoluzione: essere rivoluzionario è per Pasolini un privilegio conferito dalla natura, dalla nascita (nel tugurio, nella capanna, nello stabbio o porcile, in Calabria, nel Terzo Mondo). I neo-convertiti alla Rivoluzione san guardati con lo stesso sospetto con cui l'inquisizione guardava i marrani e i moriscos.

Camon
   Penso che l'inizio ideale di una nostra nuova conversazione critica possa essere costituito da una ripresa della sua formula per cui «conoscere equivale a esprimere»: in questa formula è già, in germe, il concetto che la civiltà borghese, avendo esaurito la sua libertà stilistica, abbia esaurito la sua stessa capacità conoscitiva; ed è già compreso, sempre in germe, il concetto che l'espressione in dialetto equivalga ad una forma aurorale di nuova conoscenza.
   A proposito dei dialetti come vera alternativa alla tradizione linguistica borghese, quelli ricchi di risorse mai toccate, questa ormai esaurita, lei conosce le obiezioni di chi, come Cassola, trova che è illecito l'uso di una lingua immediata, la sua assunzione senza mediazione, come se si volesse lasciar parlare le cose: le cose, dice Cassola, non parlano; è lo scrittore che parla per loro. Proprio l'opposto di quanto ha scritto lei: «Bisogna lasciar parlare, fisicamente, immediatamente, le cose: ma per "lasciar parlare le cose" occorre "essere scrittori, e anche perfino vistosamente scrittori"». Forse la spiegazione o la conciliazione sta proprio in quell'«essere vistosamente scrittori»?
Pasolini
   La spiegazione, non la conciliazione. Secondo me, chi rifiuta il dialetto e si batte contro il suo impiego può farlo in quanto si crea un falso bersaglio: poi spara contro e fa centro, perché contro i falsi bersagli non è difficile far centro. Cassola crede che far parlare le vecchine, le donnette o i ragazzi di Grosseto nel loro dialetto sia facile, e non si accorge che è difficilissimo. Si vede che non ha mai provato. Se, magari per puro gusto critico, provasse, vedrebbe che dopo aver registrato - il che può ancora dirsi facile - i discorsi, nel loro dialetto, delle persone, gli occorre una rielaborazione stilistica che è un'operazione complessa, rischiosa e difficile (forse in letteratura l'operazione più difficile).
   Per assumere nel romanzo il colloquio in dialetto occorre perciò un intervento dello scrittore in quanto tale molto più accentuato e dichiarato che in una pagina scritta nell'italiano letterario.

Camon
   Quindi, per lei, non è affatto un momento in cui lo scrittore cessa di essere tale e si ritira per lasciar campo alla diretta parola delle cose?

Pasolini
   Non è affatto così, e, quando crede che sia così, Cassola si crea appunto un falso bersaglio. Quando lo scrittore sceglie una frase dialettale, deve inserirla in un ritmo, in un ritmo narrativo, e quindi si trova di fronte ai mille modi possibili di inserire il corpo estraneo della frase dialettale nel corpo della sua pagina. Ma questo problema, è il problema minore: è ancora solo un problema di ritmo: riguarda il tono interiettivo della frase dialettale che va inserita nella pagina e deve naturalmente arrivare al momento giusto: c'è quindi un problema di durata e di tempi nella pagina per l'inserimento della battuta dialettale in quanto discorso diretto.
   Ma questa prima operazione implica poi tutto il discorso libero indiretto.
   Mentre il discorso libero indiretto Cassola lo fa riducendo l'italiano letterario in un italiano più parlato, se lui, invece, fa parlare le persone in dialetto allora il discorso libero indiretto deve fare i conti col dialetto stesso, cioè arrivare alla contaminazione linguistica fra la lingua letteraria e il dialetto (e non essere più semplicemente un italiano genericamente parlato). Ora la contaminazione linguistica tra la lingua letteraria e dialetto nel discorso libero indiretto è un exploit stilistico di una difficoltà spaventosa. Mai bisogna essere tanto scrittori come quando si comincia a mettere una parola in dialetto in un libro.
Camon
   Ritorniamo al nucleo da cui il nostro discorso s'è avviato, e cioè all'equivalenza conoscenza-espressione. Da qui discende una serie di considerazioni assai importanti come fermenti nella sua speculazione critica, e assai provocatorie nella problematica del nostro tempo: la serie di equazioni che lei traccia stabilisce infatti che la libertà stilistica portata dalla cultura letteraria del novecentismo va inquadrata come aspetto necessario, complementare ed equivalente rispetto agli altri aspetti della cultura borghese che generò il fascismo. Per un approdo cronologicamente a noi più vicino di questa serie di equazioni, vorrei chiederle: il neo-sperimentalismo quale posto occupa, quale faccia rappresenta in questo quadro socio-linguistico? la faccia di una nuova restaurazione decadente? o di una eversione impotente? e come si situa nei rapporti della restaurazione clerico-borghese?
Pasolini
   Premetto anzitutto che questo è per me un problema già ormai vecchio. Quello che io pensavo e scrivevo sul neo-sperimentalismo circa un decennio fa aveva un senso allora. Oggi potrei rispondere col facile senno del poi: cioè che il neo-sperimentalismo era probabilmente tutt'e due le cose che lei ora mi dice, insieme: restaurazione (decadente) ed eversione (impotente). Per questo in fondo il neo-sperimentalismo non ha mai trovato la forza per uscire dal cerchio del puro sperimentare, e s'è esaurito in una dimensione che il tempo dimostra sempre più limitata.
Camon
   Nasce tutto un discorso a questo punto necessario e chiaramente intuibile nella considerazione dell'evoluzione linguistica entro l'evoluzione storica della società: fino al fascismo. Col dopoguerra, lo spirito rivoluzionario e innovativo già introdotto dalla Resistenza tentò una nuova instaurazione stilistica: per la quale si è forgiato il nome di neorealismo. Perché il neorealismo ha avuto una parabola così breve? perché mai ha finito, come scrive lei, per dimostrarsi un «realismo fittizio»? (in Passione e ideologia). C'era forse una sfasatura tra esso e la storia parallela? So che lei parla, a questo proposito, piuttosto di un 'incapacità conoscitiva, di una mancanza di idee nuove, del possesso di un «gusto» della realtà piuttosto che di una sua «idea».
Ma la mia domanda investe un momento logico un po' antecedente a questa sua osservazione, vuol chiedere cioè perché il neorealismo non abbia portato una idea nuova: cioè se esso fosse sfasato rispetto alla storia; o (che è poi quasi lo stesso) se fosse troppo condizionato, nei suoi autori, dal peso inerte di una psicologia imposta e determinata da esperienza e storia borghesi.
Pasolini
   Uno dei vantaggi di continuare ad essere viventi dopo che è successo qualcosa è proprio quello di possedere il senno del poi. Se noi guardiamo il neorealismo col senno del poi, ci accorgiamo di una cosa molto strana, cioè che la caratteristica principale - politica - del neorealismo, è stata la denuncia, la pura e semplice denuncia, che in quel momento sembrava una denuncia rivoluzionaria: sembrava, cioè, volta in direzione di una possibile rivoluzione operaia.
Invece adesso ci siamo accorti che la denuncia fatta dal neorealismo aveva come integrazione figurale nel futuro non la rivoluzione -operaia e classista, ma le riforme del centro-sinistra. A cosa è servita in realtà - parlo sempre col senno del poi - la denuncia neorealista? È servita in conclusione ad arrivare al centro-sinistra. Questo risulta, insisto, guardando le cose dal 1968, ma guardando le cose da lontano ci si accorge anche che il neorealismo culturalmente era nato nell'ambito borghese, nell'ambito di una situazione storica e culturale borghese, e nella fattispecie crepuscolare ermetica intimistica e decadente.
Camon
   Ma poteva nascere al di fuori di questa situazione?


Pasolini
   No, non poteva. Ma appunto: essendo nato così, non poteva che denunciare certi aspetti dell'Italia umile e quotidiana - gli stracci, la miseria, il sottoproletariato, le casupole, la piccola e infima borghesia -, non poteva che fare una denuncia in funzione del centro-sinistra.
Camon
   Ma questo non era nella loro consapevolezza né nelle loro previsioni né nei loro desideri, forse.


Pasolini
   Probabilmente invece sì.

Camon
   Non siamo forse noi che, in questo caso, sotto la spinta di una situazione storica instabile, in continua evoluzione, che crea problemi continuamente nuovi, chiediamo al recente passato un aiuto per le difficoltà che sono attuali oggi e che quello non poteva presagire?
Pasolini
   Sia chiaro che io non sono però, e non sono mai stato uno di quelli che han superato il neorealismo in modo sprezzante. L'ho fatto sempre oggettivamente.
   Non ho voluto farne un mito mai, ma neanche demitizzarlo in maniera facile e capziosa e terroristica come si vede fare adesso: no, io non ho mai parlato con disprezzo degli anni Cinquanta che sono stati anni fertilissimi e molto importanti, forse i più importanti della cultura italiana da almeno due secoli a questa parte. Questo rimanga ben chiaro. E quindi alcune opere del neorealismo (soprattutto cinematografiche: mettiamo Rossellini) restano.
Camon
   Da lì però, dal tipo di linguaggio e dalla scelta dei temi di Rosse !lini è derivato oggi un filone di film a episodi in cui gli elementi fondamentali (dialetto, ambiente, personaggi) si sono svuotati o capovolti di significato.
Pasolini
   Rossellini è un caso a parte, rappresenta il momento veramente autentico del neorealismo, cioè il neorealismo me/astorico: perché Rossellini è tutto talento tutto capacità inventiva tutto magia; non aveva, voglio dire, intenti immediati di denuncia; se li aveva, li aveva in malafede, e, preciso, in adorabile malafede; e infatti il neorealismo di Rossellini è quello che s'è trasferito poi in Francia con la Nouvelle Vague e poi con Godard; quindi in Inghilterra con la «Nuova ondata)) inglese. E che è poi ritornato in Italia: Bertolucci, Bellocchio e un certo nostro cinema giovane sono un riflesso (secondo me, un riflesso che vale: in Samperi vale molto meno, in Bertolucci molto di più). L'itinerario percorso da questo filone di cinema è il seguente: Italia, neorealismo autentico, disancorato e felice di Rossellini, Francia, Inghilterra e poi di nuovo Italia, ma ormai borghesizzato, cioè passato dagli ambienti proletari
agli ambienti piccolo-borghesi o borghesi.
Camon
   La borghesizzazione, questo passaggio da un ambiente proletario a un ambiente borghese, è quindi un'operazione avvenuta durante la fase francese e inglese nel cammino di questo cinema?
Pasolini
   Non esclusivamente, ma principalmente sì.


Camon
   La borghesizzazione, ha toccato tutto, ovunque: non è possibile oggi non risentirne le conseguenze, non patir/e (o non goderle, dall'altra parte). Forse in questo senso Moravia poté dire, anni addietro, «non c'è che la borghesia », con una frase che suonò a molti errata o rischiosa.

Pasolini
   Adesso, la frase è vera. Quando la diceva Moravia, così apoditticamente, forse era rischiosa e sbagliata, ma che la storia del mondo tenda ad essere storia borghese ormai è assodato, semplicemente perché la industrializzazione sembra non poter portare ad altro.

Camon
   Se la borghesia è tutto, la lotta contro la borghesia è una lotta contro tutto, contro tutti compresi noi stessi cioè la parte borghese di noi. Non è più una lotta da immaginare fra due parti ben distinte, esterne a noi (almeno una delle due) ma una lotta combattuta anche all'interno di noi: per una Rivoluzione che ci chiama in causa non per la spartizione di un guadagno-bottino, ma per un intervento che può comportare anzitutto e immediatamente una perdita.
Pasolini
   In questo momento lei sta facendo del moralismo, cioè parla in quella chiave spiritualistica a cui accenna alla fine del suo Fuori storia.
   Per me la questione va impostata, anzi risolta, diversamente. È vero, la lotta contro la borghesia sta diventando la lotta contro tutto. Ma il dilemma che qui si pone è questo: Guerra Civile o Rivoluzione? {Sto appunto scrivendo un saggio intitolato così.) Gli studenti stan facendo oggi la Guerra Civile, non la Rivoluzione: e si tratta semplicemente di una lotta che la borghesia combatte con se stessa.
   Se la borghesia combatte con se stessa, a quale scopo lo fa? Allo scopo di fare delle riforme: si tratta cioè della borghesia giovane e buona che si batte contro la borghesia vecchia e cattiva. La Guerra Civile è la strada che porta alle riforme, e serve ai suoi militanti per dire: «Siamo dalla parte dei buoni». Tutti siamo dalla parte dei buoni, cioè siamo oggi con gli studenti che vogliono le riforme, però non possiamo dimenticare che siamo nati e cresciuti con l'idea di Rivoluzione, e la Rivoluzione è un'altra cosa, cioè è classista: gli operai e i contadini da una parte e la borghesia dall'altra. Per noi che siamo nati con l'idea di Rivoluzione, è coerente e, non foss'altro, dignitoso rimanere attaccati a questo ideale. Un po' di dignità, santo cielo. Penso a tutti quei colleghi che si sono immediatamente buttati come puttane tra le braccia degli studenti.
Camon
   C'è stato, lei dice dunque, e in misura che non era prevedibile, un crollo ...


Pasolini
   Totale, un crollo totale .

Camon
   . .. Tra sedicenti rivoluzionari. Forse li ha convinti l'impressione che questa sommossa sia un qualcosa destinato a durare.

Pasolini
   Lo è, probabilmente lo è, perché l'industrializzazione rende il mondo piccolo-borghese. Una volta scomparso all'interno del mondo il mondo vecchio - il mondo popolare, che era contadino e marinaio e artigianale - non resta che il mondo borghese, il mondo dei professionisti dei tecnici degli industriali, dei produttori e dei consumatori insomma. L'industrializzazione porta fatalmente all'imborghesimento del mondo. Bisognerebbe altrimenti che cessassimo di industrializzarci. In questo stato di cose, si tratta di essere borghesi buoni o borghesi cattivi: i borghesi buoni sono socialisteggianti, amanti della cultura, lottano contro i livellamenti, contro le massificazioni, contro le acculturazioni anonime ecc. ecc., però sono borghesi. Poiché è fatale che il mondo diventi borghese, non ce lo possiamo nascondere, ecco che questa lotta degli studenti contro il mondo vecchio, questo dissenso degli studenti, è destinato ad avere un lungo futuro.
   D'altra parte, bene perché la futurologia della sociologia era odiosa, cioè il futuro come era stato prospettato dai sociologi - e contro cui era così facile indignarci in nome dell 'umanesimo - non è più vero: non è vero che il futuro consista in un livellamento, in una acquiescenza, in un trionfo della produzione e del consumo, sotto il segno della televisione, per cui tutti i giovani avrebbero dovuto essere consenzienti, bravi e buoni,  amanti dei motori e della tecnica: non è vero. Il futuro ora si presenta invece come un futuro di giovani dissenzienti, cioè è un futuro storico, i cui problemi non sono problemi tecnici e pratici ma sono ancora problemi storici. Questo in un certo senso mi dà ragione del fatto di non aver mai partecipato alle indignazioni di gesso dei miei colleghi, e di molti sociologi, contro un futuro visto come un insieme di pseudo-problemi (in quanto non storici). Il futuro tende sempre ad essere storico, il che significa che continuerà ad esserci questa lotta della borghesia con se stessa: il futuro non sarà un atroce limbo ma una bolgia.
Camon
   Ma non confluisce anche lei, allora, nel denunciare in questi pseudo-rivoluzionari la presenza di un'anima borghese, la loro chiusura in un orizzonte borghese, nel metterli in guardia contro se stessi ricordando che la Rivoluzione è anche una lotta contro la parte borghese di se stessi?
Pasolini
   Ma sono borghesi loro stessi, non si sfugge: è questo il punto.
Camon
   Integralmente borghesi?


Pasolini
   Eh sì: guardi le foto degli studenti che sono i leader pubblici del movimento o le foto degli studenti processati: hanno le facce antipatiche dei loro padri borghesi, o se sono simpatici lo sono al modo in cui lo erano i loro padri idealisti, quelli che han fatto la Resistenza, quelli del Partito d'Azione, i migliori comunisti. Ormai la razza umana è quella razza li. Quindi non c'è più da fare all'interno di se stessi una lotta contro il vecchio borghese in modo rivoluzionario: cioè, in un certo senso, trasmutandosi miticamente in qualcosa di diverso. Si tratta solo di fare un esame di coscienza, una lotta con la propria coscienza da borghese a borghese, da borghese buono contro borghese cattivo.
Camon
   Questo fenomeno lo si vede meno in certe zone relegate ai margini della storia, ave l'industrializzazione (ancora, perlomeno) non esiste e la storia si verifica, si fa secondo strutture arcaiche. C'è ancora, voglio dire, un mondo non toccato da questi fenomeni, destinato non ad alterarsi ma a morire.
Pasolini
   A morire, e quindi ad alterarsi. Morirà, e poi al posto del suo cadavere scomparso, volatilizzato ci sarà un'altra cosa. Una volta i vecchi arrivavano a uno stato di rispettabilità dovuto alla loro saggezza come tesoro di esperienze secolari. Adesso questo tipo di vecchio non esiste più. Adesso la saggezza del vecchio non è più assoluta, povera ma assoluta come era prima: adesso è una saggezza relativa, messa fatalmente in discussione: che cosa sanno i vecchi? Ne sanno più i loro figli emigrati nelle città a lavorare. Anzi, non è che ne sappiano di più, ma hanno un altro tipo di sapere per cui quello dei vecchi è divenuto per loro inservibile: onde questi vecchi muoiono, se così si può dire, inutilizzati. Questo significa che anche quel mondo cui lei si riferisce (e che è, se ho ben inteso, il suo mondo), che sembra così lontano dalla storia, pur tuttavia vive in realtà pienamente questa situazione storica.

Camon
   È da molto tempo che lei parla di una «fase di stanca» come situazione storica bloccata fra la «sirena neocapitalista da una parte e la desistenza rivoluzionaria dall'altra». Mi conceda qualche riserva, sull'interpretazione, che lei stesso dà all'urgenza della conoscenza di nuovi mondi, di immersione in nuove società, in nuove civiltà, che la conduceva in quel tempo: non era, poteva anche non essere una «voglia di evasione, di sogno (Africa, unica mia alternativa)>>, ma rappresentava forse la consapevolezza che solo attraverso una preventiva regressione da una storia grigia, esaurita, da un esaurimento storico, da una Dopostoria, a una storia aurorale, era possibile un rinnovamento: non ha scritto Sartre che soltanto nel Terzo Mondo è possibile una vera avanguardia letteraria? Non è un concetto dissimile, e non dovrebbe suonarle sgradito, dopo che lei ha respinto le nostre avanguardie occidentalissime tra i sussulti del Novecentismo e del Decadentismo.

Pasolini
    È un vecchio motivo mio, quello dell'idealizzazione dei contadini del Terzo Mondo. Anni addietro sognavo i contadini venire su dalle Afriche con la bandiera di Lenin, prendere i Calabresi e marciare verso l'Occidente. Oggi mi sto ricredendo. Un tempo era giusto provare quei sentimenti. Era giusto avere quelle visioni o previsioni, dieci anni fa, cinque anni fa ... Oggi mi sembra un'idea che deve fare meglio i conti con la realtà storica, con la realtà, con la verità. Dieci anni fa essa era un mito, una follia poetica, un raptus: come tale, poteva essere giusta e compatibile anche storicamente. Adesso che le cose sono urgenti, attuate, e che si presenta l'obiezione: «Eccoli qui i tuoi contadini cosa sono diventati»,  adesso quell'idea rivela la sua forza puramente psicagogica e mitica. Su questo tornerò anche più tardi, quando risponderò alla sua ultima domanda.

Camon
   Dunque, i contadini del Terzo Mondo hanno tradito i loro stessi profeti: Fa non anzitutto. Fanon concludeva che se si vuole che l'umanità avanzi d'un grado, se si vuole portarla a un livello diverso da quello in cui l'Europa l'ha manifestata, «allora occorre inventare, occorre scoprire», cercando altrove che non in Europa: «Tentare di metter su un uomo nuovo», Invece hanno rinunciato alla possibilità
di/are qualcosa di nuovo, se pur c'era.
Pasolini
    No, non c'era. Lo vediamo in Italia. L'Italia è, a questo riguardo, un paese da laboratorio, perché in essa coesistono il mondo moderno industriale e il Terzo Mondo. Non c'è differenza fra un villaggio calabrese e un villaggio indiano o marocchino, si tratta di due varianti di un fatto che al fondo è lo stesso. E in Italia abbiamo visto che il contadino calabrese il suo mondo lo perde, non lo conserva e non ne ricava qualcosa da suggerire.

Camon
   Lei ha spesso profetato l'avvento di una Nuova Preistoria, dalle rovine della Storia saccheggiata dalla corruzione inarrestabile del neocapitalismo: anzi, i primi atti della Dopostoria sarebbero già contenuti in questo nostro tempo, mostruoso «come chi è nato dalle viscere di una donna morta». Non le chiedo se è in qualche modo precisabile il carattere essenziale della Nuova Preistoria: una Preistoria credo che resti, come lei diceva qualche anno fa, non meglio identificabile. Ma chiedo soltanto: perché una Preistoria e non un processo dello sviluppo storico il cui carattere principale dovrebb'essere l'infinitezza? Ci sarà un totalmente nuovo concetto dell'uomo, del suo valore e della sua funzione? La domanda è spontanea, al punto in cui siamo col nostro colloquio.

Pasolini
   Effettivamente, ora mi è chiaro che non si va verso una nuova Preistoria. Ma allora potevo scriverlo, perché ero succube di quelle idee sbagliate, di cui parlavo prima, dei futurologi senza ideologia, diciamo così.
Camon
   Ma neanche allora lei pensava a un nuovo concetto di uomo?


Pasolini
   No, pensavo a una degenerazione dell'uomo dovuta all'era consumistica.
Per questo la chiamavo Preistoria. E adesso, ripeto, mi sto accorgendo che la stasi della storia era un concetto con cui i sociologi ci hanno ossessionato gratuitamente; in realtà, ripeto, si profila un futuro di lotte borghesi intestine.
Camon
   Quindi è salvo il futuro in quanto vita-vitalità, in quanto storia?


Pasolini
   In questo momento rispondo di sì. Ma fra un anno potrei dire di no. Siamo in un momento di mutamenti così rapidi, che non ci si può cristallizzare e fermare su un'idea neanche un minuto.

Camon
   Moravia, invece, pensa effettivamente a un nuovo concetto di uomo, la cui formulazione è in via di elaborazione da parte delle scienze umane, associabili al marxismo nell'interpretazione della storia e della realtà, in un tempo in cui l'uomo è inserito come semplice tubo digerente nel rapporto consumare-produrre produrre-consumare. Forse lei può risultare meno pessimista nella sua previsione.
Pasolini
   In un certo senso sì, sono meno pessimista, perché sarebbe peggio che il futuro perdesse ogni carattere di storicità appiattendosi in un inesausto ciclo di produzione e consumo. Parlo sempre di cose terribili (la guerra civile) ma almeno non più di cose orrende come quelle prospettate qualche anno fa. Non che le teorizzazioni allora prospettate non mi toccassero: uno non può non essere influenzato da una psicosi diventata generale; ma non mi sono mai messo in questo ordine di problemi e di teorie, perché sentivo che erano irreali: sentivo che costituivano una pseudo-scienza.
Da Il invece nasce l'atteggiamento dei giovani, con cui io polemizzo molto appunto perché loro tentano di strapparmi dalla mia idea di Rivoluzione per propormi la Guerra Civile con loro, al loro fianco: cosa cui non sono preparato, a cui non sono disposto, a cui non credo molto - ma è una cosa tuttavia che da un certo lato mi consola perché mi dice che la storia continua. E che le previsioni sociologiche di moda erano dunque state bugiarde.
Camon
   Le pare esatta, a proposito della sua continua attenzione sul popolo, l'affermazione per cui il popolo è il ricettacolo mitico di quei valori precapitalistici; che lo scrittore populista oppone allo sviluppo stesso fatale di una certa società, e che rappresentare il popolo significa il più delle volte sposarne il tendenziale immobilismo, la nostalgia di passato? ·
Poiché si tratta di un giudizio importante- di Asor Rosa; che poi ne trae tutta una catena di conseguenze critiche valutative -, le ripropongo la domanda spezzandola in più nuclei, questi: i caratteri immediati del popolo vengono dalla conservazione di valori precapitalistici o non piuttosto da condizionamenti storici (e quindi capitalistici), come la relegazione in frange e margini di storia, e rappresentano una tradizione da rispettare o una deformazione da correggere, correggendo la storia?; c'è nel popolo un tendenziale immobilismo, una nostalgia del passato, che nello scrittore populista si rifletta in una posizione contemplativa e tradizionalista, o c'è una tensione da cui si generi una potenzialità eversiva?
Pasolini
   La risposta a questa sua importante domanda gliela dà Emilia, la serva contadina del mio ultimo libro, Teorema. Teorema, è vero, è un enigma. E sarebbe bella che la sfinge che pone enigmi si mettesse poi a spiegarli. La incito solo a rileggere quel passo del libro in cui si racconta come Emilia, seguita da una vecchia fedele, dopo avere compiuti i suoi matti miracoli, decide di morire; va dunque a Milano, a piedi; arriva in un cantiere dove c'è una scavatrice pronta a riempire una buca; scende in fondo alla buca, si copre di fango; si fa seppellire dalla scavatrice, piangendo; le sue lacrime rampollano sul terrapieno e formano una pozza; questa pozza è miracolosa e guarisce la ferita di un operaio (che ha alle sue spalle una stecconata dove è dipinta col catrame una falce e un martello).
   Asor Rosa appartiene a quella stirpe di moralisti che non hanno capito che fare del moralismo significa essere borghesi della più orrenda specie (altro che populismo e umanitarismo! Perché queste sono spinte a una nuova forma umana, quello è un ritorno della vecchia).
   I sottoproletari di Una vita violenta di Accattone di Alì dagli occhi azzurri, sono «eversivi» (come lei dice). Sono eversivi semplicemente «essendo». Infatti gli italiani, che passano per non essere razzisti, hanno dato dei clamorosi segni di razzismo a proposito dei miei personaggi sottoproletari (processi, persecuzioni, psicosi collettive ecc.: ma questo è ormai un bagaglio di ricordi personali). Non c'è bisogno che un sottoproletario urbano o un contadino povero (terrene) faccia nulla per essere sovversivo. Come un negro in America: per dare a un cuore bianco il tonfo della rabbia reazionaria basta una dolce faccia camusa e oscura. Le cose sono ambigue, equivoche. Non c'è una definizione sola degli abitanti delle subtopie: ce ne sono molte, concorrenti, consignificanti e contraddittorie. Il sottoproletario e il contadino povero sono «immobili», ma la loro immobilità in quanto presenza basta per se stessa a essere sovversiva. Il razzismo - non se l'è mai chiesto? - non è altro che l'odio dei borghesi verso i contadini. Un borghese non è mai stato razzista a proposito degli operai (se non forse alle origini del capitalismo, quando l'operaio veniva direttamente dai campi ed era ancora sfruttato esattamente come uno schiavo dei Faraoni). Il borghese dunque prova quel suo mostruoso dolore razzista solo a proposito dei più poveri, lasciati indietro dalla storia: i sottoproletari e i contadini.
   Queste cose le ho sempre pensate, scritte e dette. I comunisti mi ridevano in faccia, i borghesi mi avrebbero voluto mettere in prigione; gli Asor Rosa, borghesi comunisti, mi analizzavano come spie di un Comitato Rivoluzionario. Ora, con la rivolta degli studenti e i libri di Marcuse (che io, per merito di Fortini, avevo letto prima che diventasse di moda), si parla finalmente di contadini e di proletari poveri. Essi sono coinvolti in quello che cretinamente si chiama «dissenso» ecc. ecc.: e addirittura in una possibile guerriglia! Ma perché è successo tutto questo? Perché il dissenso è degli studenti, cioè, ripeto, dei figli dei borghesi. La borghesia rivoluziona se stessa attraverso la rivolta dei suoi figli. È essa, come le spiegavo, la protagonista della storia. Essendo essa, ed essa sola la protagonista della storia, ha bisogno di crearsi dei «miti» metastorici, bandiere di assolutezza ecc. ecc. I vecchi borghesi hanno il mito razzistico «negativo» dei contadini e dei proletari poveri, per cui provano un sentimento diabolico di schifo razzistico? Ebbene, i borghesi buoni, i figli neoprotestanti, rovesciano tale mito: e issano la bandiera del contadino e del proletario povero, entità metafisica (elegantissima in Lévi-Strauss, straziante in Fanon) di una apocalissi positiva, redentrice.
In Alì dagli occhi azzurri c'è una poesia, quella che dà il titolo al libro, dedicata a Sartre, che oggi vorrei dimostrativamente rinnegare. I punti salienti dicono:

Alì dagli occhi azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
«Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!»
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica
voleranno davanti alle willaye .
* * *
... dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri - usciranno da sotto la terra per uccidere usciranno
dal fondo del mare per aggredire - scenderanno
dall'alto del cielo per derubare - e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi
prima di giungere a New York
per insegnare come si è fratelli
- distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento ...

   Perché rinnego questa profezia? Perché mentre allora ero solo e ridicolo a farla, oggi è divenuta merce comune: ma questo non significa che io presuntuosamente voglia attribuirmi il monopolio di certe idee e la prerogativa ad appassionarmene: no, vuol dire che quella profezia era giusta allora ma in quanto era sbagliata; era un capriccio vitale e fecondo della passione politica, un rovesciamento voluto e cosciente del buon senso del futuro.
   Perché dunque il fatto che tale speranza posta nella potenzialità rivoluzionaria dei contadini del «Terzo Mondo» ora è sbagliata? Perché non è più guardata in prospettiva rivoluzionaria. Gli studenti infatti sono borghesi. Vorrebbero esorcizzare il mondo contadino povero e preindustriale, evocarlo come un'entità metastorica, metterselo davanti come una guida apocalittica. Per fare la Rivoluzione? No, per fare la Guerra Civile. Sia pure una guerra santa.
   A questo punto, loro malgrado, e pur restando nel loro vecchio torto, avevano allora ragione i comunisti che mi criticavano alcuni anni fa, quando tutto questo non era di moda. I contadini possono fare la Rivoluzione, ma in situazioni concrete: anzi, son sempre loro in pratica che la fanno, con gli operai poveri (in Russia, in Cina, a Cuba, in Algeria, nel Vietnam): ma sono rivoluzioni nazionali, non internazionali, nascono da una fame nazionale. Gli operai sono internazionali, i contadini no, sono universali. Gli studenti tedeschi o inglesi hanno dei contadini sottomano: sono venuti su dalla Sicilia, dall'Andalusia, dalla Turchia, dalla Grecia; cioè hanno sottomano un sottoproletariato, in un'accezione che non è più la stessa di Marx: si tratta di un semi-sottoproletariato, caratterizzato semplicemente dalla mancanza di specializzazione, di adattamento, e da una vecchia mentalità contadina, religiosa (cioè superstiziosa e mafiosa) in urto con la qualità di vita borghese-industriale (a cui son già educati e formati gli operai-guida, cioè i vari Partiti comunisti). Ma tutto ciò è poco: un po' di sangue contadino e sottoproletario per una guerra santa. I contadini che vivono ancora nel loro ambiente, cioè laggiù, nel Terzo Mondo, io li conosco personalmente (anche attraverso la conoscenza più conoscitiva possibile, quella biblica: si sa che nel vasto campo semiologico il linguaggio del sesso è un sistema di segni estremamente espressivo ed esauriente, alla faccia del vecchio Asor Rosa e dei nuovi Asor Rosa dissenzienti e moralisti).
   E so che essi attendono di essere riscattati da «qualcun altro»: in un profondo sapore (nomino i primi tre posti che mi vengono in mente: Wawarli, un villaggio indiano; Zagorà, un paesello del deserto marocchino; Tonje, un villaggio del Basso Sudan) i contadini colorati aspettano un nuovo futuro che li trasformerà da contadini preistorici in contadini storici, prima di tutto, e poi da contadini storici in piccoli borghesi. Ecco la grigia, deludente, lenta realtà. Là dove la realtà è vivida, vitale e rapida si hanno le guerre nazionali (Egitto ecc.). Insomma i contadini del Terzo Mondo hanno tutto un lungo cammino da ripercorrere (molto più rapidamente, tuttavia, dei nostri contadini. Per esempio fra una cinquantina d'anni il Marocco sarà una avanzata nazione neocapitalistica).
   Resta il fatto che il sottoproletariato e il contadino sono eversivi soltanto perché «sono» e, in particolari situazioni locali o nazionali, possono essere dei sovversivi (rivoluzionari o guerriglieri, a scelta, secondo chi se li accaparra per primo). Penso agli eroici banditi sardi.
(1968)




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

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Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi