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venerdì 22 maggio 2020

Mamma Roma e lo sfogo di Pasolini - Da “Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

“Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962


Mamma Roma e lo sfogo di Pasolini

Da “Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)



No, è chiaro che accade qualcosa di ingiusto. L’avevo previsto, del resto. Su “Vie Nuove”, avevo scritto, ben prima che Mamma Roma uscisse, che “la sua fine avrebbe potuto essere la mia fine”, perché a me, in queste particolari circostanze mie, nella mia società, è proibito sbagliare. Ero eccessivo, come sempre, nelle mie passioni, ma anche lucido, purtroppo. A me è proibito non dico sbagliare, ma offrire appena il fianco. E se in questo ci fosse per caso un po’ di mania persecutoria, sarebbe più che lecita, mi pare.

In realtà, non si tratta della ‘fine’, del mio film o mia. Che anzi, il film va benissimo, e io sto altrettanto bene, già al lavoro alla nuova storia africana. Ma è chiaro che qualcosa di ingiusto sta accadendo: inafferrabile, come in tutte le situazioni kafkiane che si rispettino.

Lasciamo stare l’assurda denuncia del colonnello Fabi: atto – nel migliore dei casi – di psicosi collettiva e di ingenuità personale che, in fondo, mi fa più pena che indignazione. E, del resto, l’ingiustizia dell’iniziativa è stata largamente compensata dall’intervento del magistrato, che ha messo le cose a posto, con chiarezza di idee, coraggio e cultura, dall’accento, a dire il vero, poco italico, o almeno inconsueto nella nostra nazione.

E lasciamo stare anche il pivello fanatico, che in cima alle scale della galleria del Quattro Fontane, nel silenzio che seguiva la morte di Ettore appena accaduta sullo schermo, mi ha affrontato con l’urlo stentoreo che sapete (“Pasolini, in nome della gioventù nazionale, ti dico che fai schifo”). Anche qui c’è da avere più pena (magari ironica) che rabbia. E del resto, anche qui, l’ingiustizia dell’iniziativa patriottica è stata largamente compensata dagli incivili schiaffi che ho allentato all’eroe, non appena, sicuro dell’impunità, ha chiuso quella povera bocca di minus habens strillante il nulla. (Dovrei vergognarmi di quella mia reazione improvvisa, degna della giungla: sono ‘partito per primo’, come dicono i tanto disapprovanti ragazzacci del suburbio, e gli ho dato un ‘sacco di botte’. Dovrei vergognarmi, e invece devo constatare che, date le circostanze che mi riducono a questo – a ragionare coi pugni –, provo una vera e propria soddisfazione: finalmente il nemico ha mostrato la sua faccia, e gliel’ho riempita di schiaffi, com’era mio sacrosanto diritto).

Quello che mi sembra ingiusto è il modo come il mio film è stato accolto (prima a Venezia, e poi, finora, a Roma) dalla critica.

Dico subito che il primo a non essere completamente soddisfatto del mio lavoro, sono io; e dico subito che forse amo più Accattone. Ma con ciò?

Perché dico subito anche (visto che i miei giudizi su me pare abbiano valore oggettivo!) che non mi sembra neanche roba da tutti i giorni, Mamma Roma, da poter sbrigare con un penso da giudizio ‘mondano’, anziché culturale. Quasi che un’opera si inquadrasse in una storia di festival o di successi sociali, anziché in una storia dello stile. Credo di essere abbastanza lucido nei miei confronti se dico che sequenze come il banchetto iniziale, le due lunghe carrellate della Magnani, le sequenze della storia d’amore tra i ruderi e nel canalone tra Ettore e Bruna, e la sequenza finale, sono dei pezzi di cinema che non si possono accantonare in nome di discorsi generali più o meno leciti ideologicamente e esteticamente, o più o meno condizionati dalla vicenda mondana o pubblica del film.

Insomma, in un’opera quello che dovrebbe contare è quello che vale, non quello che non vale: invece, di Mamma Roma si è giudicato esclusivamente quello il cui valore può essere messo in dubbio, quasi che il critico farneticasse tra sé, preso dal suo cerchio particolare di interessi ideologici (o peggio): “Ma sì, le cose belle ci sono, e molte: ma è naturale che sia così. E tanto naturale che non me ne accorgo neanche. Mi accorgo invece, con acume d’eccezione, dei punti non riusciti, sia rispetto a Mamma Roma stessa, sia rispetto ad Accattone”.

Cosi è nato il dirizzone della critica, e la situazione d’ingiustizia in cui mi vedo precipitato.

Ma naturalmente, le cose si spiegano.

Anzitutto, la condizione di gran parte della critica cinematografica italiana, la cui preparazione culturale è penosa. Non c’è nessuno che non si senta autorizzato a scrivere di cinema, e io non so che criteri seguano certi direttori dei giornali nell’affidare la critica cinematografica... Ora, nel mio caso, succede che tale provvisorietà della competenza, sia specifica che generale, riesca più chiara: per il fatto che il giudizio su me, regista, implichi un giudizio, più o meno diretto, su me scrittore, o implichi almeno il riferimento a una storia stilistica che comprende una serie di opere letterarie. Ora, è successo varie volte che io dovessi leggere – come si dice? – allibito la strana colorazione che assume il giudizio letterario nella recensione cinematografica: giudizio letterario esclusivamente mediato dalla volgarizzazione giornalistica (volgarissima).

Il caso Mantegna, per esempio. Io avevo detto, in qualche intervista, e poi scritto abbastanza esaurientemente, in un lungo articolo-racconto (apparso sul “Giorno”, e poi nel volume di Mamma Roma) come la mia visione figurativa della realtà fosse piuttosto di origine pittorica che cinematografica: e con ciò spiegavo certi fenomeni tipici del mio modo di girare. Insomma, i riferimenti pittorici erano visti come fatti stilistici interni: non, accidenti!, come ricostruzione di quadri!

Ma certi critici cinematografici, leggendo evidentemente quei miei scritti con una fretta che nulla ha da vedere con la cultura, hanno tratto delle conclusioni che sono quasi commoventi, nella loro totale e disarmata ingenuità: siccome, nel finale, la figura di Ettore è vista di scorcio, ecco che tutti, in coro, hanno fatto il nome del Mantegna!

Mentre il Mantegna non c’entra affatto, affatto! Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero cosi essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?... Ma lasciamo perdere; figurarsi se simili ‘mistioni’ toccano la sensibilità di gente che ogni giorno deve buttar giù il suo pezzo, preoccupata solo di non sbagliare troppo, e quindi di seguire, soprattutto, quello che dicono gli altri...

Questa incompetenza che non potrebbe sussistere se non fosse sorretta dal conformismo e dal cinismo, è la base di gran parte della critica cinematografica italiana.

Ora per una produzione commerciale media, è una base che può anche andar bene: è un ingranaggio, manovrato dai vari interessi, nel rapporto fra produttore e consumatore. Un aspetto fatale del nostro mondo, una forma dell’aridità neocapitalistica.

Ma proprio al centro di questa fatalità del ciclo produzione-consumo, proprio nel cuore di questa aridità culturale, sta nascendo, contraddittoriamente, in Italia, un cinema di autore. Cioè un cinema caratterizzato, come tutti i casi di poesia, da una forte necessità culturale.

Perciò la critica cinematografica di tanti quotidiani, è ormai impari al suo compito. Mi sembra questo uno dei problemi centrali della nostra cultura.

Non si può pretendere rigore, intransigenza, amore della verità, onestà, infine, da dei mestieranti, che, in fondo al loro cuore di piccoli-borghesi, hanno per la cultura, un profondo, ideologico disprezzo. Il fatto che operi poi, nei giornali, una dozzina di critici bravi – onesti e geniali – non significa nulla: la situazione resta quella che ho tristemente delineato.

Nel mio caso, poi... A destra, nei giornali fascisti o clericali, c’è la malafede pura. Qui siamo davvero in pieno Kafka. Essi sono capaci di qualsiasi cosa, di negare le verità più lampanti, di distorcere le cose più semplici. Figurarsi cosa ci vuole a distruggere un film con la scusa dell'opinabilità di ogni giudizio del Rashomon della verità... Eppure per Accattone, pur masticando amaro, pur insultando, pur fingendo una indignata sufficienza, avevano in qualche modo dovuto accettarne l’esistenza, il fenomeno. Per Mamma Roma possono, invece, minimizzare. E questo perché? Perché la critica di sinistra, o la critica amica, in genere, ha avanzato sul film qualche dubbio.

È successo questo, insomma, che, dalla parte dove si doveva dir male, c’è abbastanza malafede per dir male anche di ciò di cui si doveva dir bene, per approfittare di una non totale riuscita per negare totalmente la riuscita. Mentre dalla parte amica c’è troppa buonafede per dir completamente bene di un’opera in cui si trovano dei difetti, e per difenderla quindi incondizionatamente.

Così i manutengoli di destra, i vari ‘vice’ dotati di una cultura di ripetente di terza media hanno approfittato di qualche onesto dubbio ideologico dei critici di sinistra, per mortificare stupidamente il film: per negarne anche il peso poetico, come non avevano potuto fare per Accattone.

È una situazione penosa (anche perché i dubbi degli onesti critici di sinistra non mi sembrano poi sempre chiari: non potrò mai accettare le ecolalie di Micciché sull’“Avanti!”), e indegna del livello a cui sta operando l’intera cinematografia italiana.

Si fanno tante storie, ci si indigna tanto a proposito dei Festival: che invece sono quello che sono, delle Fiere della Vanità, manovrate dai produttori, che, col cinismo del vecchio capitalista, conoscono fin troppo bene le debolezze umane. Comunque, tutto ciò non ha un gran peso nella reale vita culturale della nazione.

La critica cinematografica sì, invece. Ed è un problema che va urgentemente – non dico discusso e affrontato, per non dire delle cose inutili – ma almeno conosciuto nella sua triste e umiliante realtà.

Pier Paolo Pasoloni

“Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962

“Vie nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962




Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

martedì 19 maggio 2020

Conversazioni con Pasolini, di Ferdinando Camon - Prima conversazione, 1965.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Conversazioni con Pasolini
di Ferdinando Camon
Prima conversazione 

1965 



Pubblichiamo questa prima, di due conversazioni, tra Ferdinando Camon e Pier Paolo Pasolini. 

Le due conversazioni sono tratte dal libro di Camon: 
"Il mestiere di scrittore"
conversazioni critiche con: 

Giorgio Bassani
Italo Calvino
Carlo Cassola
Alberto Moravia
Ottiero Ottieri
Pier Paolo  Pasolini
Vasco Patrolini
Roberto Roversi
Paolo Voloni

Una serie di conversazioni critiche condotte tra gli anni Sessanta e Settanta da Ferdinando Camon, scrittore militante della letteratura: non secondo la modalità dell'intervista né quella del ritratto, ma più propriamente di una narrazione a due voci...

(La trascrizione è stata curata da Bruno Esposito)

"Per gentile concessione di Ferdinando Camon"




Pasolini ha una voce malata, risultato di un lavoro protratto al di là della sopportazione, La sua non sembra la stanchezza del tirar sera, ma del tirar mattina. Lo vedo seduto al suo tavolo, davanti a una lampada fioca, schermata solo dalla parte dell'ospite, con gli occhi stanchi ma fermi dietro le lenti, con la voce fievole di chi veglia da tempo, e mi accorgo che mc l'aspettavo così c diverso : così, con questo segno di sincerità che sono ormai in pochi a contestargli, illuminata da una sofferenza chiusa; diverso, cioè più polemico, più vivace, meno mite. In un uomo come Pasolini, cupo e corrosivo, violento, denunciatore e polemista, la mitezza e l'umiltà non sono prevedibili: sembrano quasi presagio di una sconfitta. Invece sono in lui aspetti immediati, e costituiscono le armi della sua vittoria perché rivelano la sua sincerità. Mentre mi si cancella l'immagine prefabbricata di Pasolini, e lentamente prende luogo l'immagine vera, che ho davanti a me, sento, come sentiva una volta Leonetti, che mi è definito e indefinito (e tale ancora mi rimarrà) il suo nodo di passione e intelletto, di viscerale e ideologico, di sofferenza voluta e di esasperazione inutile, di ribellione, di accettazione, di consolazione, di forza oscura e di illuminazione : quell'insieme di sentimenti opposti o diversi e compresenti ch'egli riconduce tutti alla matrice comune dell'« amor di vita » ma che a noi si rivelano solo quando è provocato c soffre, e che formano la sua « vitalità ».
 

Camon 
La sua multiforme attività rischia di far dimenticare ad alcuni che la sua vocazione originaria, anche 
in senso cronologico, è e resta quella poetica: come poeta lei si è rivelato, e l'attività di poeta accompagna sempre quella di regista, di critico e di romanziere. 

Pasolini 
Sì. Fino a quasi trentanni io ho scritto soltanto poesie, oltre ad alcuni primi romanzi di ambiente friulano che sono inediti, chiusi qua nel mio cassetto, e molto autobiografici: uno si chiamava Atti impuri, un altro Amado mio. 


Camon 
Il nome Pasolini ha una etimologia? è friulano? 


Pasolini 
No, è ravennate: mio padre è di Ravenna, di un'antica famiglia nobile [ride], di un ramo cadetto; Pasolini deriva da Pase, donde Pasini - Pasolini. Lo stemma dei Pasolini ha un'onda con sopra una vela, su questa vela sta scritto « Pax ». Non so se sia un'etimologia empirica, ma credo proprio di no. 

Camon 
La filologia è una delle sue passioni. Lei è stato uno dei fondatori dell'« Academiuta de lenga furlana ». 
Che scopi aveva quella Accademia?
 
Pasolini 
Aveva un duplice scopo: da una parte rispondeva a un'esigenza nostalgico-conservatrice cioè regionalistica: l'amore per il Friuli come piccola patria a sé, isola linguistica e morale; e da un'altra parte si proponeva studi linguistici lanciati verso l'avvenire. Come in tutte le mie opere di allora, si distingue insomma una parte nostalgica-cristiana-romantica e una parte populistica-umanitaria. Il friulano lo consideravo una lingua poetica in concreto, pronta cioè per la poesia. È difficile farsi un'idea della mia situazione di allora. Pensi a un giovane di 16-18 anni, nel fascismo imperante, che non aveva nessuna possibilità di diventare antifascista; privo di mezzi per uscire da quel circolo chiuso in cui era nato e cresciuto; a meno che non appartenesse a una famiglia di antifascisti, ma questo non era il mio caso. Mia madre, sì, era antifascista, ma in un modo del tutto paesano, sentimentale, innocente. Mio padre invece era nazionalista, quindi abbastanza filofascista. 
Io ho percorso le due strade che sole potevano portarmi all'antifascismo: quella dell'ermetismo, cioè della scoperta della poesia ermetica e del decadentismo, ossia in fondo del buongusto (non si poteva essere fascisti per ragioni di gusto, anche se questo è un modo molto irrazionale e assurdo e a-ideologico di essere antifascisti), e, seconda, quella che mi portava a contatto col modo di vivere umile c cristiano dei contadini, nel paese di mia madre, modo che esprimeva una mentalità totalmente diversa dallo stile fascista. Le mie prime poesie in friulano riflettevano dunque da una parte una friulanità come lingua, dall'altra un alone sentimentale e vagamente socialista di tipo cristiano-romantico : i contadini coi loro vespri e le loro campane. 
Ambedue questi clementi, lingua e società, dovevano poi approfondirsi nelle mie successive esperienze, portandomi da una parte ad una elaborazione linguistica verso zone meno strettamente ermetiche e decadenti, dall'altra all'evoluzione dell'idea di Cristianesimo verso forme sociologiche più concrete: la scoperta della lotta dei braccianti friulani contro i latifondisti, per esempio. Per me, restare dalla parte dei braccianti significava restare nella scia della poesia di adolescente. La lotta dei braccianti è diventata il punto cruciale della mia storia, perché è lì che io ho intuito e subodorato prima, scoperto e studiato poi, il marxismo. 

Camon 
I rapporti e gli aspetti di questa lotta son cambiati oggi, in Friuli? 

Pasolini 
Son tredici anni che non capito in Friuli, se non per fughe di un giorno. Non ne so più niente. 

Camon 
Mi pare che, come in tutte e tre le Venezie, la lotta si esprima oggi attraverso l'emigrazione. 

Pasolini 
Veramente, è questo il fenomeno che più mi ha colpito durante le mie ultime apparizioni in quei paesi : non c'è più gioventù. Accanto ai vecchi, i giovani rimasti son quelli che potevan rimanere : piccoli possidenti, artigiani, meccanici.  

Camon 
Ma si tratta di un fenomeno di urbanesimo? di emigrazione interna?
 
Pasolini 
Assolutamente no. Quasi tutti i miei amici sono emigrati in Australia o in Canada. 

Camon 
Nel Veneto invece si realizza un flusso stagionale per l'estero, oppure un fenomeno di emigrazione interna verso i centri industriali. 

Pasolini 
Ma il Friuli ha una vecchissima tradizione di emigrazione in altri continenti. Si sa come avvengono queste partenze : una famiglia chiama le altre. 

Camon 
Da una posizione di reazione al fascismo attraverso l'ermetismo, si passò, in tempi che sembrano ma non sono lontanissimi (circa un decennio fa), a un'accanita polemica antiermetica. Nel panorama di questa polemica e per un superamento della polemica stessa va inserita la nascita della rivista « Officina » : che, giusta la definizione di Romanò, fu la prima a tentare la storicizzazione dei rapporti tra letteratura e ideologia, relativamente a un tempo in cui la letteratura teorizzava la propria autonomia. Fin qui, penso che tutti siano d'accordo. Ma poi Romanò scrive che « Officina », pur ribadendo che origini e significati della letteratura vanno ricercati non nella letteratura ma nelle condizioni generali della cultura, e cioè in quel territorio che ha per confini ideali Croce e Gramsci, — pur rompendo, 
dicevamo, il circolo per cui letteratura e poesia presuppongono esperienze letterarie e politiche, ha cercato di impedire un nuovo circolo ideologia-poesia, teorizzando l'impossibilità, in letteratura, di scegliere ideologicamente, e che anzi proprio per questo ha rimosso le ipoteche ideologiche che gravavano sul discorso, liberandolo verso molteplici direzioni. 


Pasolini 
Esplicitamente, « Officina » parlava di scelta ideologica, diceva anzi che il dovere del letterato c dello scrittore era una scelta ideologica, che il letterato e lo scrittore dev'essere anzitutto un ideologo, che le scelte devono avvenire in sede culturale prima che in sede sentimentale-intuitiva. Questo diceva « Officina » a chiare lettere. Che poi sotto ci fosse una qualche contraddizione, che continuasse a serpeggiare la vecchia cultura contro cui « Officina » combatteva, cioè la cultura ermetica, che contemporaneamente, nuove forme irrazionalistiche, questo non era nelle intenzioni di « Officina », accadeva anzi malgrado « Officina ». 

Camon 
Alcuni critici, quasi esclusivamente recensori di terza pagina, o perché condividono l'utilità di questo metodo schematico o perché costretti dalla necessità di esemplificare, hanno parlato di una antitesi, sul piano contenutistico, tra lei e Luzi. 

Pasolini 
Sono termini troppo vaghi, che nascondono una inconsistenza di fondo. Perché antitesi? Avrò posizioni diverse, una ideologia diversa, ma parlare di antitesi mi sembra a dir poco semplicistico. Cristo dice: « Dite di sì se sì, no se no, perché il resto vien dal Maligno. » Noi in verità siamo in preda al Maligno, perché non c'è mai un sì o un no. In Luzi possono esserci inconsciamente molte delle mie posizioni; in me, come del resto il Vangelo ha dimostrato, ci sono moltissime delle posizioni che Luzi ha detto essere sue in modo esplicito. 

Camon 
Ma forse, mesi o anni addietro, l'approdo al Vangelo non era ancora previsto, in questa forma. 


Pasolini 
Previsto da un pubblico no, per il semplice fatto che non esiste un pubblico della poesia, anche se, lo dico con orgoglio, a questo proposito io devo lamentarmi meno degli altri. Ma dai critici di poesia doveva essere previsto, o almeno supposto : leggendo le mie raccolte friulane, l'Usignolo della chiesa cattolica, La religione del mio tempo, dovevano almeno supporre che c'erano in me dei fermenti attivi del mondo cristiano e cattolico contro cui io ideologicamente mi ponevo in sede politica. 

Camon 
Rileggendo i suoi versi A un papa, ho pensato che in fondo Il Vicario di Hochhuth non sia che un allargamento, ma smisurato, della polemica aperta da lei sullo scarso amore di Pio XII verso gli oppressi e i diseredati. 


Pasolini 
Non ho letto Il Vicario, e non ne ho vista la rappresentazione. Conosco appena, attraverso i giornali, le polemiche suscitate. 

Camon 
L'accusa di Hochhuth è rivolta contro il silenzio di papa Pacelli di fronte agli orrori dello sterminio degli ebrei e ancor prima dei polacchi. Silenzio che è, per gli storici, un enigma. Le varie giustificazioni addotte non hanno convinto. Personalmente, penso che un fondo di verità possa racchiudere l'intervento di quei critici che spiegano, con le prove di discorsi e lettere espressamente citati, che la neutralità assoluta della Chiesa e di Roma doveva permettere a Pio di essere desiderato o accettato come arbitro del conflitto, di poter passare alla storia come colui che ha la pace. È noto che il papa pensava che un'Europa senza una Germania forte o comunque non prostrata non avrebbe potuto difendersi dalla Russia vittoriosa c dalle sue aspirazioni. L'idea, osservano quei critici, era politicamente rispettabile. Contro la rivoluzione francese il Congresso di Vienna ebbe pressappoco la stessa politica, ed in parte riuscì ad attuarla. 

Pasolini 
Un simile progetto, in un papa, se ci fu, poté solo dimostrare una colpevole ignoranza dei testi del marxismo. I russi stavano per vincere: come avrebbero voluto o gradito quale intermediario un pontefice che non aveva pronunciato una parola di fronte ai massacri ad opera dei tedeschi? Un simile papa si sarebbe reso accettabile soltanto ai tedeschi. 

Camon 
Le sembra esatto il giudizio dei critici per cui, con Poesia in forma di rosa, lei è giunto a un punto morto, negando la presenza e la possibilità di ideologic fissate una volta per tutte? Per cui demolisce tutti i miti in cui crede l'uomo contemporaneo, e in cui ha creduto anche lei?

Pasolini 
Questa interpretazione può essere vera in certi punti del libro, non nell'insieme del libro. Il libro ha la forma interna, anche se non esterna, di un diario, e racconta punto per punto i progressi del mio pensiero e del mio umore in questi anni. Se avessi fatto un'opera di memoria, avrei cercato di sintetizzare e livellare le. esperienze che han formato la mia vita. Ma facendo un diario, mi son rappresentato volta a volta completamente immerso nel pensiero o nell'umore in cui mi trovavo scrivendo. È la forma diaristica del libro quella che fa sì che le contraddizioni vengano rese estreme, mai conciliate, mai smussate, se non alla fine del libro. Alla fine del libro, il lettore sente che esso chiudeva una specie di rabbia distruggitrice, uno scoraggiamento che diventa passione di demolire certe idee fisse e punti fermi degli anni cinquanta, anzi addirittura una vera e propria 
abiura. Ma questa abiura va letta come si legge una poesia. 

Camon 
Cioè, quell'abiura è una soluzione letteraria e poetica, non filosofica e definitiva... 

Pasolini 
Quell'abiura è fondamentalmente vera perché considera certe posizioni degli anni cinquanta superate oggettivamente dalla società : altri sono i problemi oggi. Ma il « tono » di quell'abiura è poetico e non reale, e mi suggerisce termini eccessivamente carichi di rancore e di nuove speranze. 


Camon 
È ancora Romanò che ha parlato di lei come del più clamoroso caso di estroversione, che ha diretta ascendenza solo in D'Annunzio, con la differenza che l'esistenzialismo e l'erotomania di D'Annunzio erano un modello per la società contemporanea, mentre lei è provocatorio, e ancora: D'Annunzio era panico e innamorato della natura, mentre lei è tetro e angosciato. 

Pasolini 
Il bellissimo saggio di Romanò era condotto con chiara intelligenza. Forse qualche dubbio si può avanzare sul termine « estroversione ». « Estroversione », nel senso clinico-scientifico della parola, indica certi tratti del carattere che non sono miei, ma anzi opposti ai miei: sono essenzialmente un introvertito, io. Io tendo a forme di nevrosi, di ipersensibilità, a complessi di inferiorità, che sono 
tutte forme di introversione, clinicamente parlando. E direi anzi che l'estrovertito ha caratteri anche somaticamente diversi dai miei. La parola, dunque, se usata in questo senso clinico-psicologico, non credo di poterla accettare. Se invece è usata in un senso che ora direi sociologico (la mia introversione diventata estroversione attraverso gli strumenti della poesia)... 

Camon 
A questo appunto accade di pensare, leggendo i suoi versi, a un bisogno che è in lei di scavare in sé per dare fuori, continuamente. 


Pasolini 
Allora dirò che questo « dare » accade mio malgrado, per le vie che non sono tipiche dell'estroversione, e inconsciamente. Alcune forme esibizionistiche ci sono evidentemente in mc, ma in quel profondo che non implica responsabilità, fanno parte dei miei traumi, della mia psicologia patologica e io non le domino. Può darsi che l'estroversione sia una rivincita su certe mie esigenze inconsce, che nella vita pratica io non registro e quindi non riconosco per mie, ma che in realtà ci sono.

 Camon 
È stato scritto anche che lei ha un concetto strumentale della poesia, e in certo seno non ne ha rispetto. Qualcun altro (Pignotti) ha detto, con intenzioni elogiative, che lei scrive articoli in versi. Accetta questi due giudizi, o forse quest'unico giudizio? 

Pasolini 
È un discorso ambiguo. Nella mia cultura c'è un enorme rispetto per la poesia: non per niente mi son formato in un'epoca in cui la poesia era un mito: il decadentismo, l'ermetismo, la poesia in senso assoluto, la poesia pura, la Poesia con la P maiuscola. Io « non posso » non avere un senso altissimo della poesia. Ma ho dovuto contraddirmi proprio perché a livello storico la poesia era di- 
ventata un mito. Che andava demistificato. Perciò, con uno sforzo di volontà, ho reagito a me stesso, riconducendo la poesia a forme strumentali. Che, ripeto, sono dovute a un mio sforzo di volontà, a una mia lotta storica, quotidiana : ma nel fondo di me resta, solido come quarzo, un senso di venerazione per la poesia. 


Camon 
Con ciò lei ha praticamente risposto a una osservazione, conseguente alla domanda precedente, che poteva nascere a questo punto. E cioè: i materiali poetici sono in lei oggetto di passione e di biografia, un aspetto del suo malessere, come fu detto. Il che li porta a non essere mai enunciati una volta per sempre, in una forma fissa, definitiva, ma sempre relativamente all'esperienza di un frammento di vita. 

Pasolini 
Sì, ma forse la parola « malessere » va sostituita. Essa torna a galla negli articoli che toccano la mia poesia nei suoi punti clamorosamente appariscenti. Ma il fondo del mio carattere non è il malessere, bensì la gaiezza, la vitalità, e questo io paleso non solo nell'opera letteraria ma nella vita stessa. Intendo per vitalità quell'« amor di vita » che coincide con la lietezza. E gaia, Vitale, affettuosa è nell'intimo la mia natura: son le continue angosce oggettive che ho dovuto affrontare che hanno esasperato gli aspetti del mio malessere. 

Camon 
Crolla, dopo questa confessione, la contrapposizione, cui poco fa accennavo, di lei tetro e angosciato a D'Annunzio panico e gaudioso. 

Pasolini 
In verità, tetro e angoscioso è D'Annunzio che ha dovuto mascherare il suo fondo d'impotenza e di tetraggine inscenando una teatrale forma di vitalismo. A me succede il contrario: poiché sono profondamente innamorato della vita, « mi piace la vita » in tutti i suoi aspetti, ma sono impedito a che questo inesauribile amore si esplichi, ecco che questo amore diventa per me tragedia. 

Camon 
Mi spiego ora quella che era per me un'impressione immediata, quando chiudevo un suo libro di poesia: pur avendo la consapevolezza che il poeta mi si era mostrato cupamente angosciato, io mai mi sono sentito disperato o tetro. Ma non ho creduto o sospettato che tale doveva anche essere, nel suo fondo, l'animo del poeta. Forse anche qui c'è una delle tante ragioni che possono spiegare 
l'approdo al Vangelo. 

Pasolini 
Mi scusi se correggo anche la parola approdo: in me c'è sempre stato, fin dalla Meglio gioventù, un costante interesse per il Vangelo. 


Camon 
Matteo sostiene che Gesù è il Cristo o Messia Marco prova che Gesù, figlio di Dio, è dominatore della natura; Luca sostiene che Gesù è la salute dei giudei e dei gentili. Luca può apparire oggi borghese: la sua è la storia della chiesa nascente, di una rivoluzione che diventa istituzione. La tesi di Marco — che Gesù è veramente figlio di Dio — è sempre presente, almeno come ipotesi, negli altri Vangeli. Fra i tre dunque non si poteva scegliere che Matteo. Ma le è nata qualche incertezza fra Matteo e Giovanni? Giovanni sostiene che Gesù è il figlio naturale di Dio, e, descrivendo il suo ministero svolto a Gerusalemme, ne espone largamente le affermazioni, con pathos e misticismo : poteva far nascere a maggior ragione un'opera epica e sociale. 

Pasolini 
L' idea di trarne un film mi è nata proprio leggendo « un » vangelo, e cioè quello di Matteo. Inoltre, in Matteo mi attraeva una tendenza che sembra contraddirsi nei termini: la concretezza storica. Inoltre ancora, il personaggio Cristo mi sembra più affascinante in Matteo: un Cristo più inflessibile, più esigente, più travolgente, senza un momento di requie c di pace. Io fui soggiogato da questa figura. 


Camon 
Qualche critico ha avanzato delle riserve sulla voce di Enrico Maria Salerno. Applicata al Cristo di Mat 
teo, quella voce può ancora essere preferibile; a Giovanni, non più. 


Pasolini 
In Giovanni sono più forti, infatti, gli elementi mistici, religiosi, filosofici. In Matteo prevale la preoccupazione di compiere l'integrazione dell'Antico Testamento, d'intendere il Cristo come la conclusione delle profezie, e prevale l'idea metafisica dcl figlio di Dio e l'insegnamento morale.

Camon 
In generale, salvo qualche riserva particolare (per esempio, di Filippo Sacchi) i critici sono convinti dei 
valori del film. E più, mi è parso, dopo la seconda e terza visione che non dopo la prima a Venezia. 


Pasolini 
La prima visione serve soltanto a togliere la prevenzione, immancabile, con cui si assiste al film. 

Camon 
Una curiosità: perché sceglie i letterati come interpreti? Personalmente ho sempre pensato che sia per 
un bisogno autobiografico. Lei, cioè, trasferisce sullo schermo un dialogo poetico nato come colloquio amicale o epistolare. 

Pasolini 
No, le cose non stanno così. L'esigenza che mi guida è quella di non scegliere attori di professione; perciò devo prendere dalla strada i protagonisti più umili, dalla cerchia di amici letterati e intellettuali i personaggi più complessi. 
La borghesia italiana è molto volgare: gli unici membri non volgari sono o quelli che hanno un'autentica vocazione religiosa, o quelli che hanno una vocazione letteraria o scientifica. 


Camon 
Non li trova poco plasmabili i letterati? 


Pasolini 
Questa qualità non m'interessa: non voglio avere degli attori, se no prenderei dei professionisti. Io voglio avere del materiale umano vivo e vero. A volte non spiego nemmeno di che cosa si tratta al mio interprete. Gli dico, per esempio : Sorridi pensando a tuo figlio. Li prendo insomma per quello che sono: non voglio che fingano di essere degli altri. 

Camon 
AI testo della sceneggiatura del film, lei ha premesso, tra l'altro, una lettera in cui dice: « Per mc la bellezza giunge a noi sempre come bellezza mediata : attraverso la poesia o la filosofia o la pratica. Il solo caso di bellezza morale non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l'ho sperimentato nel Vangelo. » Mi pare che sia importante in lei questa ricerca di bellezza morale. 

Pasolini 
Perché la bellezza-bellezza è una bellezza estetizzata, è un vagheggiamento della bellezza, una volontà di bellezza. Parlando di bellezza morale, io tiravo le conclusioni dei pensieri elaborati attorno agli anni cinquanta, cioè all'epoca di « Officina », che ha respinto e distrutto l'idea di bellezza come bellezza e di poesia come poesia: filiazioni dell'estetismo, che ormai han fatto il loro tempo. 

(1965) 




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

sabato 9 maggio 2020

Pasolini - L'uomo dal fiore in bocca [di Marc Bellocchio, 1993]

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


L'uomo dal fiore in bocca [di Marc Bellocchio, 1993]


“Ti chiedo però di parlare, scriverete tornare in mezzo a noi calabresi. Scusa se la mia parola non è facile: sono un operaio”.
Ulisse – Crotone


"Un giudizio netto,interamente indignato".
Pier Paolo Pasolini



Un contributo segnalato da un lettore del blog, che ringrazio:
Luigi Mittiga

Pasolini e la Calabria [e Corrado Alvaro]

di Gaetanina Sicari Ruffo

Il giudizio di Pier Paolo Pasolini contenuto nel libro Le belle Bandiere - Editori Riuniti, 1991 – appare un po’ datato, ma essenziale e denso di significato, di forte e chiara denunzia oltre che veritiero. In effetti si riferisce al 1960, anno in cui Pasolini fece un viaggio nella regione e ricevette anche il rifiuto di parlare in un Circolo di Reggio in Calabria che l’aveva prima invitato.
Lo scrittore risponde ad un lettore che gli chiedeva dei suoi rapporti con la Calabria: “Tra tutte le regioni italiane, la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali. Per duemila anni è stata sottogovernata: ma sottogovernata ancora peggio che la Sicilia o il Napoletano, o le Puglie, che, in molti periodi storici sono state delle vere piccole nazioni, dei centri di civiltà, in cui i dominatori risiedevano, almeno, ed avevano rapporti diretti con la popolazione: gli Arabi in Sicilia, i Normanni in Puglia ecc. La Calabria è stata sempre periferica, e quindi, oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata. Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata››. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall'abbandono, dalla miseria.
Nel popolo questi «complessi» psicologici di carattere storico, possono dare, nei casi estremi, i risultati più opposti: la più grande bontà - una bontà quasi angelica - e una furia disperata e sanguinaria (la cronaca purtroppo ne parla ogni giorno). Una popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica.
Tu forse sai che i «complessi›› psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità: così i calabresi sono molto infantili e ingenui - e questo è del resto il loro grande fascino, la loro più bella virtù. E quel tanto di contorto che c'è in loro è, in fondo, infantilmente semplice.”
Fermiamoci a considerare questa prima parte del suo giudizio che in generale riguarda il tracciato identificativo e storico della popolazione e della terra calabrese all’epoca.
Potrebbe sorprendere l'espressione dello scrittore sul fatto che la Calabria sia povera di bellezze naturali. Penso che intendesse che le sue bellezze, innegabili per altro, fossero trascurare: discariche a cielo aperto, vie di comunicazione precarie, scarsa cura del territorio, nessuna strategia per rilanciare il turismo. Oggi dovremmo aggiungere pure il giallo dei rifiuti tossici, versati in alcune località costiere e montane. Non è un delitto che pesa, a carico di chi amministra, non certo della natura che non e stata generosamente protetta?

È una verità bensì che nell’aspetto dei luoghi resti la traccia profonda di tanti secoli di abbandono e di malgogoverno. E’ una traccia che dura pure nelle menti e ne condiziona i comportamenti.
In questo Pasolini rivela d’essere attento conoscitore dei moti d’animo popolari anche quando parla del carattere dei calabresi che sono egli dice in fondo molto infantili ed ingenui e quel tanto di contorto che è in loro è in fondo infantilmente semplice. Ma creduto ancora in questa semplicità se solo avesse potuto conoscere i numerosi delitti delle famiglie di 'ndranghetista e la rovinosa diffusione del malaffare in mezzo mondo? Non credo si possa parlare di fascino della semplicità della gente Calabra che o era una favola malcelata o s’è definitivamente persa.
S’è detto tante volte da voci diverse dell’immobilismo meridionale, del senso di stanchezza che sembra opprimere le popolazioni. Su queste componenti egli ha una sua diagnosi: l’abitudine ad essere dominati ed asserviti ai tanti dominatori che si sono susseguiti nel passato non ha certo creato stimoli ed incoraggiato la ripresa in senso dinamico. E’ vero, ma questo retaggio non si cancella mai? La natura spontanea o acquisita non può essere corretta e modificata? Verrebbe da rispondere: sì, con la cultura. Ma questa non è una voce vincente e preponderante.

L'unico autore calabrese menzionato è Alvaro che tuttavia serve solo a confermare l’arretratezza degli abitanti. Pasolini aggiunge: “La borghesia Calabrese, come tu sai, è di formazione molto recente. Corrado Alvaro dice addirittura, con una boutade che contiene però molta verità, che essa è nata in quest'ultima guerra, con la «borsa nera››. E' una borghesia recentissima, dunque, e quantitativamente scarsa. Le forme più moderne di questa borghesia, mi pare si riscontrino a Crotone: nelle altre grosse città calabresi, la borghesia è forse la peggiore d'Italia: appunto perché in essa c'è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili. Non è possibilista, scettica, elastica come in altre regioni del Meridione, dove ciò che la salva, è proprio la sua corruzione, cioè la sua antica esperienza. In Calabria, ripeto, è rigida, moralistica: e perciò faziosa.
Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti: dico, naturalmente, gli adolescenti di classe borghese. Questo mi ha costernato. È un problema, quindi, che passo ai dirigenti politici: esso mi sembra realmente grave, e da affrontarsi risolutamente. Da tutto quello che ho detto qui sopra può risultare, infatti, storicamente chiaro che la borghesia calabrese tende agli estremismi di destra.
Naturalmente c'è il Crotonese che fa eccezione. Ed è per questo - per questa possibilità, per questa speranza che il Crotonese autorizza ad avere - che io continuo ad appassionarmi a questo problema, come se fosse mio, e non perderò certo mai occasione per parlarne: e dire - sia essa gradevole
o no - quella che a me sembra la verità.”
I problemi suggeriti da questa seconda parte di considerazioni di Pasolini riguardano la borghesia, una classe che a sud ha attirato su di sé prevalentemente le colpe del degrado e dell’arretratezza, non essendo riuscita, dopo l’Unità, a rivelare autonomia e slancio di iniziative. Si e invece vincolata con la prestazione dei voti, pur di essere privilegiata, ai gruppi parlamentari che la sostenevano di volta in volta, senza avere a cuore i veri interessi dei cittadini. Tutti sanno che l'annosa questione meridionale è cominciata da qui e inutili sono stati i suggerimenti dei vari economisti e sociologi perché la situazione mutasse. “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento”, questa l'accusa di Gramsci per sottolineare l’inerzia di questa classe a sud, mentre per Dorso la debolezza di tutto il sistema è venuta dall’assenza di una classe media libertaria capace di risollevare le sorti compromesse dall’impasse di tutta l’area. La classe operaia, che pure era stata protagonista di memorabili lotte contro le prevaricazioni feudali negli anni prima e dopo il fascismo, non ha avuto l'energia e i mezzi necessari per attuare quella rivoluzione proletaria che era negli auspici del partito comunista.
Alle accuse di ieri si sommano quelle odierne che riguardano il generale superamento della distinzione delle classi, ma non una pacificazione sociale promotrice di progresso e di sviluppo. Ancor oggi l’economia è stagnante e l’industria del turismo, che pure con successo potrebbe essere impiantata, è solo una pia vocazione astratta. Mancano strumenti bancari adeguati e mezzi di comunicazione rapidi ed efficienti.

Neppure i giovani che sempre lo scrittore ha considerato come promessa del futuro spingono a ridenti speranze. Il motivo non nasce solo dalla loro appartenenza a partiti di destra, com'è detto nella risposta pasoliniana, quanto dalla dispersione che è intervenuta nei loro progetti, dalla demotivazione che li caratterizza per carenza di lavoro e per necessità d’espatrio.
A ben vedere quindi il quadro prospettico calabrese, a distanza di decenni è mutato, ma solo superficialmente. La grande utopia d’un partito comunista che risana le piaghe e che dà vigore alla classe operaia per renderla matura e responsabile è pur essa tramontata dopo la caduta del muro di Berlino. Si e generata una confusione di ruoli e la nuova classe capitalistica ha fallito nelle sue mire ed una generale grigia ed amorfa gora di sopravvivenza è subentrata. Il privato ha avuto un gioco più libero di quello pubblico, ma non sempre schietto e onesto. Si sono infiltrati gruppi di potere malavitoso cui si attribuisce in maggior parte la stagnante e pericolosa deriva.

Calabria Sconosciuta n. 132 Anno XXVIV ottobre - dicembre 2011.


NOTA La risposta di Pasolini al lettore che lo interrogava era apparsa sul settimanale di attualità “Vie Nuove”, n. 49 a. XV, 10 dicembre 1960, fondato nel 1946 da Luigi Longo, Pasolini collaborò con una sua rubrica dal 1960 al 1965.

Fonte:



Curatore, Bruno Esposito

Collaboratori:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi