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lunedì 1 luglio 2019

Calderón

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


3. Calderón

di Gian-Maria Annovi

Pubblicato nel 1973, il primo abbozzo di Calderón, come mostrano le tre stesure conservate nell’archivio Pasolini presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, risale al 1967, l’anno della traduzione italiana di Le parole e le cose. Nel ’69, in uno dei testi scartati al momento di pubblicare Trasumanar e organizzar, intitolato Esibizione di vitalità, Pasolini scrive dell’idea di “fare il ‘Calderón su un prato,”(63) visto da un treno nei dintorni di Arezzo, esplicitando poi come l’idea di mise en abyme autoriale fosse già ben presente nella sua mente: “essendo tutti in quel prato / io e gli attori si sia quasi realisticamente partecipi al testo.”(64)
In questo dramma teatrale Las meninas non è un semplice riferimento formale e concettuale, come nel caso di Salò. Il dipinto spagnolo viene scelto da Pasolini per rappresentare lo spazio all’interno del quale si svolge uno degli episodi, il terzo. Così come Foucault eleva, nella sua lettura, il quadro di Velázquez a modello della “rappresentazione della rappresentazione classica,”(65) Pasolini – che di norma rifiuta per il suo teatro ogni scenografia “che non sia solo indicativa” (675) – decide di ambientare il “III Episodio,” in cui la protagonista sperimenta “l’antica regola del mondo” (679) borghese, “all’interno del quadro de Las meninas di Velázquez,” (675) riproponendo l’immagine barocca del gioco di specchi in chiave marcatamente postmoderna, non solo dunque rappresentazione all’interno di un’altra rappresentazione, ma all’interno di una meta-rappresentazione: teatro all’interno di un quadro che a sua volta rappresenta il farsi di un altro quadro.
La tela di Velázquez, come cercherò d’illustrare, funziona infatti come un’incarnazione visiva della transdisciplinarità del dispositivo autoriale pasoliniano e, per via della sua fondamentale ambiguità interpretativa (caratteristica di ogni grande opera arte(66) ), come esempio del tipo di opera a “canone sospeso” che Pasolini teorizza a partire dalla sua lettura di un’intervista a Roland Barthes, originalmente rilasciata a “Cahiers du cinéma” nel 1963 e tradotta sul primo numero di “Cinema e film” con il titolo Cinema metaforico e cinema metonimico.(67) Pasolini cita questa intervista di Barthes sul numero di luglio-dicembre del 1966 di “Nuovi argomenti,” in un saggio dal titolo “La fine dell’avanguardia” e sembra essere particolarmente affascinato soprattutto da questo passaggio dell’intellettuale francese: “il ‘senso’ è una tale fatalità per l’uomo, che l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, soprattutto oggi, non a fare del senso ma, al contrario, a sospenderlo; non a costruire dei sensi ma a non riempirli esattamente.”(68) A Pasolini, ovviamente affascinato dall’idea di arte come libertà, l’idea della sospensione del senso pare “una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore.”(69)
Proprio in Calderón, il personaggio di Sigismondo, che presenta non poche affinità biografiche con Pasolini, afferma che “il canone è sospeso […] Secondo la giusta interpretazione del mio amico Barthes” (672). Lo stesso riferimento al canone sospeso si trova, per altro, nel suo Manifesto per un nuovo teatro, scritto nel 1968. L’idea della barthesiana sospensione del senso assume poi un valore formale nell’incompiutezza strutturale di molte delle opere pasoliniane, da Alì dagli occhi azzurri (1965) fino alle poesie piene di lacune di Trasumanar e organizzar (1971).
Nonostante si fatichi a dargli ragione, per via della scarsa capacità di costruzione dei dialoghi, la fondamentale staticità e mancanza di azione e l’andamento drammaturgico piuttosto farraginoso, Pasolini considerava Calderón, l’unico tra i suoi drammi ad essere uscito in volume prima della sua morte, come una delle sue “più sicure riuscite formali.”(70 )Lo scrive in un’auto-recensione del suo dramma, che molto rivela delle strategie autoriali pasoliniane di orientamento del proprio pubblico.
Il titolo dell’o-pera è un esplicito riferimento al grande drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca, il cui capolavoro, La vida es sueño (1635), costituisce l’altro grande modello compositivo per il dramma pasoliniano. L’opera di de la Barca, come dimostra una lettera del ’40 indirizzata all’amico Franco Farolfi, viene considerata da Pasolini come un esempio di “sorprendente modernità”(71) sin dalla sua prima giovanile lettura, e sorprendentemente, in un articolo del 1942 – una cronaca del viaggio a Weimar per un raduno della gioventù universitaria dei paesi fascisti o gravitanti attorno al fascismo (Pasolini era all’epoca attivamente impegnato sul fronte del GIL) – i nomi di Calderón e Velázquez risultano per la prima volta affiancati: “lungo le favolose vie di Weimar insieme con i giovani camerati spagnoli, io potevo, conversando con essi, risalire a Calderón e a Cervantes o a Velázquez, attraverso García Lorca o Picasso.”(72 )Solo molti anni dopo La vida es sueño diventerà per Pasolini un tramite per affrontare il presente, quello del 1967 (“in questa nottata del 1967,” 661), riletto proprio alla luce di quanto di peggio la cultura celebrata in quel viaggio a Weimar aveva prodotto.
La visione sul dramma principe del Siglo de Oro adottato dall’autore italiano è “di scorcio,” proprio come quella di Velázquez sullo stanzone ne Las meninas. Pasolini sposta infatti l’attenzione dal protagonista originario, il principe Sigismondo, rinchiuso in una torre dal padre per via di una profezia (come nell’Edipo di Sofocle), al personaggio secondario di Rosaura, delle cui vicende lo stesso autore offre questa versione:

Se nelle prime due parti Rosaura si risveglia dal metaforico sonno Calderóniano “aristocratica” e “sottoproletaria” (adattandosi poi alla realtà di tale risveglio), nella terza parte, risvegliandosi nel letto di una piccola borghese dell’età del consumismo, l’adattamento le riesce molto più difficile; ne vive l’alienazione e la nevrosi (da manuale), e assiste a un vero e proprio cambiamento di natura del potere. Assiste inoltre alla contestazione del ’67 e del ’68, come nuovo tipo di opposizione al potere, e all’albeggiare di un nuovo secolo di cui la classe operaia non è stata che un sogno, nient’altro che un sogno. (73)

È facile notare come in questa trama venga in superficie, come un pentimento dal fondo oscuro di una tela seicentesca, un sottile autoritratto intellettuale di Pasolini,(74) fatto delle sue ossessioni e pungoli critici (sottoproletariato, borghesia, consumismo, alienazione, contestazione, potere), e allo stesso tempo il suo personale ritratto della società italiana nel passaggio agli anni del boom economico. Pasolini non concepisce però affatto il proprio teatro come uno “specchio critico”(75) in cui il pubblico borghese possa assiste alla messa in scena delle contraddizioni della propria realtà, al contrario, esso è piuttosto uno specchio che mostra le contraddizioni dell’autore, presente nell’opera attraverso le parole di uno speaker, “contraddittorio, ambiguo e scomposto,”(76) che – rivolgendosi direttamente al pubblico – fornisce spiegazioni, giustifica le proprie scelte, e dunque orienta la ricezione del testo. Questo espediente funziona come lo sguardo del pittore-Velázquez ne Las meninas, ha cioè il compito di condurre lo spettatore all’interno della rappresentazione insieme allo stesso autore-Pasolini, come si evince dalle parole della regina nel “II Episodio”: “sì, interroga l’autore, coinvolto anch’esso / nel mondo della nostra ricchezza, / e, pur guardando da fuori del quadro ne è dentro” (680). Questo essere dentro e fuori la propria opera che in Calderón è portato alle sue massime conseguenze, rappresenta la condizione di possibilità del confronto diretto e paritario con il pubblico cui il testo è destinato.
Nel suo Manifesto per un nuovo teatro (1968), contrapponendolo a quelli che chiama Teatro della Chiacchiera e Teatro del’Urlo, ossia il teatro tradizionale borghese e il teatro sperimentale, influenzato dalle teorie di Artuad e incarnato, ad esempio, dal Living Theatre,(77) Pasolini delinea i tratti salienti del suo Teatro di Parola. Fra essi vi è appunto il pubblico, composto dai “gruppi avanzati della borghesia,”(78) ossia non dal pubblico borghese tradizionale, ma da gruppi culturali avanzati che lo rendono “in tutto pari all’autore dei testi.”(79) Pasolini concepisce il suo Teatro di Parola come un elitario rito culturale avente come scopo principale “lo scambio di opinioni e di idee.”(80) È per questo che esso viene spogliato di fatto di ogni elemento che possa frapporsi tra autore ed opera, e tra opera e pubblico: non solo ad essere abolita è l’azione scenica, ma anche la messinscena. Gli attori devono rifuggire da qualsiasi accademismo o purismo di pronuncia: non gli è insomma richiesto di interpretare il testo, ma di capirlo. Il Teatro di Parola pasoliniano vuole dunque essere uno spazio di trasparenza, una “grande gabbia virtuale”(81) dalle sbarre di vetro, in cui emerga a piena visibilità il rapporto tra autore e pubblico, un rapporto fondamentale in tutta la sua opera. Las Meninas di Velázquez, usata come scenografia, contraddicendo i principi pasoliniani di antinaturalismo e negazione della messinscena, funziona come modello visivo e culturale dell’emersione sulla scena della centralità di autore e spettatore, alter ego l’uno dell’altro. Il dipinto rappresenta in Calderón lo specchio che là “fa oscillare, nella sua dimensione sagittale, l’interno e l’esterno,”(82) i sogni di Rosaura, infatti, confondono “i confini tra realtà e la realtà-sogno,”(83) e lo stesso autore si colloca tra esterno e interno dell’opera. Come afferma Basilio: “sono qui solo, / riflesso nello specchio. Forse, anch’egli riflesso / qui dentro, c’è con me l’autore” (718).
Quali sono però, in concreto, i modi in cui l’autore entra all’interno della propria opera? Riassumiamoli qui brevemente. Da un lato abbiamo ovviamente il riferimento al quadro di Velázquez, ossia la dichiarata matrice metalinguistica dell’opera. Dall’altro la voce dello Speaker, “portavoce dell’autore” (751), figura ventriloqua all’intero del dramma. Come ha poi scritto Stefano Casi, il più autorevole nonché tempestivo tra gli interpreti del teatro di Pasolini, tutti i suoi personaggi sono rappresentazioni poetiche di sé: “nelle tragedie [di Pasolini] il Coro perde la sua funzione di altro personaggio o di intermezzo lirico o, ancora, di vox poetae, perché i personaggi sono essi stessi rappresentazioni dell’autore, perché essi stessi si esprimono nel linguaggio poetico del loto autore, e soprattutto perché una figura ‘esterna’ alle tragedie di Pasolini non è concepibile.”(84)
Ricordando il periodo della composizione dei drammi, infatti, nella prefazione del 1970 all’edizione Garzanti delle sue Poesie, Pasolini parla esplicitamente dei personaggi come di persone autoriali: “in quel periodo, potevo scrivere versi solo attribuendoli a dei personaggi, che mi facessero da interposte persone.”(85) Anche il teatro pasoliniano, insomma, riproduce in maniera microscopica la frantumazione del personaggio-Pasolini in una miriade di doppi, semi-doppi e controfigure, tra loro anche in contraddizione, che ritroviamo in maniera macroscopica in tutta l’opera pasoliniana.

63 Pasolini, “Esibizione di vitalità,” TP, Vol. II, 302.
64 Ibidem.
65 Foucault, Le parole e le cose, 30.
66 Cfr. Semir Zeki, “Neural concept formation and art: Dante, Michelangelo,Wagner,” Journal of
Consciousness Studies, 9 (2002): 53-76.
67 Nell’intervista, Barthes parla di “signification suspendue” (Cahiers du cinéma, 147 [1963]).
68 Pasolini, “La fine dell’avanguardia,” Empirismo eretico, SLA, Vol. I, 1422.
69 Ivi, 1422-23.
70 Pasolini, “Calderón,” SLA, Vol. II, 1932.
71 Pasolini, Lettere 1940-1954 [Lettere I], a cura di Nico Naldini (Torino: Eianudi, 1986), 5.
72 Pasolini, “Cultura italiana e cultura europea a Weimar,” SLA, Vol. I, 7.
73 Pasolini, “Calderón,” SLA, Vol. II, 1932-33.
74 Cfr. Tricomi, Sull’opera mancata, 345-347.
75 Stefano Casi, Pasolini: un’idea di teatro (Udine: Campanotto, 1990), 107.
76 Giona Tuccini, Il vespasiano e l’abito da sposa. Fisionomie e compiti della poesia nell’opera di Pier
Paolo Pasolini (Udine: Campanotto, 2003), 179.
77 Cfr. Pasolini, “Incontro col Living,” Dialoghi con i lettori, SPS, 1205-6.
78 Pasolini, “Manifesto per un nuovo Teatro,” 2482.
79 Ibidem.
80 Ivi, 2487
81 Foucault, Le parole e le cose, 17.
82 Ivi, 25.
83 Tuccini, 187.
84 Casi, 106.
85 Pasolini, “Al lettore nuovo,” SLA, Vol. II, 2512.


Tratto da:


In the Theater of my Mind:
Authorship, Personae, and the Making of Pier Paolo Pasolini’s Work

Gian-Maria Annovi

Submitted in partial fulfillment of the
requirements for the degree of
Doctor of Philosophy
in the Graduate School of Arts and Sciences

COLUMBIA UNIVERSITY
2011
© 2011
Gian-Maria Annovi


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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