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sabato 5 gennaio 2019

A cosa serve Pasolini - cinquant'anni dopo il Vangelo secondo Matteo - Tomaso Subini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


A cosa serve Pasolini 
cinquant'anni dopo il Vangelo secondo Matteo

Tomaso Subino

Intorno a Pasolini prospera l’odierna industria culturale con i suoi scaffali di libri (di, su, a partire da Pasolini), spettacoli teatrali, documentari, programmi televisivi, siti Internet, addirittura un film in concorso alla 71° Mostra internazionale del cinema di Venezia (firmato da Abel Ferrara). L’ultima moda è quella delle mostre: nel giro di pochi mesi se ne sono succedute addirittura due, la prima a Roma (dal 15 aprile al 20 luglio), la seconda a Matera (dal 21 luglio al 9 novembre). 

 La mostra romana ha fatto il giro d’Europa (Barcellona, Parigi, dopo Roma si sposta a Berlino) beneficiando di un finanziamento europeo. La seconda, al contrario, come spiega Paolo Verri, il direttore del Comitato Matera 2019 a sostegno della candidatura della città a capitale europea della cultura, è stata «costruita interamente da Sud» [sic], ovvero è «stata del tutto creata e costruita con competenze locali collegate a esperti nazionali», grazie all’erogazione di cospicui finanziamenti locali. Da un lato dunque un progetto dal respiro internazionale, dall’altro un percorso espositivo orgogliosamente locale; da un lato curatori internazionalmente noti e stimati (come Jordi Balló e Alain Bergala), dall’altro «esperti» tutt’al più «nazionali» chiamati a legittimare il lavoro di assessori locali. Eppure, quante cose hanno in comune queste due mostre! Anzitutto nella messa in scena dei materiali, la medesima nell’un caso come nell’altro: spezzoni di vecchi film, contributi video realizzati ex novo, ma soprattutto un abuso di documenti originali museificati. 

 Della mostra «Pasolini Roma» mi limiterò qui a sottolineare – contraddicendo le varie recensioni stese da giornalisti non specialisti, emblema del pubblico cui si intende rivolgersi – che essa punta a far ammirare ai visitatori non il Pasolini della storia, ma il Pasolini personaggio, che proprio in quanto tale necessita di uscire dalla storia per assurgere al livello di «icona» e di «mito». E che per ottenere questo obiettivo si fa un uso distorto, per non dire perverso, dei documenti originali, i quali non si inseriscono come un tassello di realtà in un più ampio discorso teso alla ricostruzione del passato, ma funzionano come una stampella per l’ingenuo spettatore: una credibile mitologia ha infatti bisogno di spacciarsi per storicamente accertata. 

In un libro uscito nel 2011 Tomaso Montanari si è soffermato sull’odierno «sistema delle mostre» chiedendosi A cosa serve Michelangelo? Forse è giunto il momento di chiederci anche: «A cosa serve Pasolini?». Concentriamoci sulla seconda delle due mostre, quella attualmente in corso a Matera e intitolata «Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo», patrocinata tra gli altri anche dalla CEI. 
Lo scopo di fondo appare evidente, è promuovere la città di Matera. Leggiamo un brano del comunicato stampa ufficiale: «Obiettivo della mostra è mettere a fuoco, in maniera particolarmente approfondita e grazie a una narrazione originale, la genesi del capolavoro pasoliniano e il rapporto del regista con la città di Matera (…). Si è inteso ricostruire il doppio contesto del film – quello dell’ideazione ed elaborazione creativa tra Roma e Assisi e la Palestina tra il 1962 e il 1964 e quello della realizzazione delle riprese, del montaggio e della produzione del film». La mostra coglie l’obiettivo che si è posta? Decisamente no. Anzitutto per l’inadeguatezza degli strumenti messi in campo. Non basta esporre qualche documento di archivio per «ricostruire un contesto», come non basta filmare qualche intervista per «mettere a fuoco» l’articolato processo di genesi di un film tanto importante quanto complesso.

 Accumuli ma non spiegazioni 

Insomma, il problema sta proprio nella «narrazione originale» con cui si è preteso di procedere. Eccone la descrizione nel già citato comunicato stampa: «L’allestimento si distingue per una forte connotazione multimediale e interattiva basata sul modello delle stazioni creative (…) e una narrazione estremamente visiva, resa possibile grazie al montaggio creativo di documenti originali, dipinti, disegni, fotografie, spezzoni cinematografici, interviste, materiale bibliografico e oggetti tridimensionali (tra i quali la macchina da presa del regista e i costumi originali del film), per favorire una lettura a più livelli di approfondimento, comprensibile da tutti i diversi pubblici a cui il progetto intende rivolgersi, in un’ottica fortemente inclusiva». Non è dunque chiaro se scopo della mostra è dar conto (con linguaggio atto a essere inteso anche da non specialisti) della creatività pasoliniana o non piuttosto «creare», a partire dall’opera di Pasolini, con montaggio per l’appunto «creativo», una serie di «stazioni creative». 

Il montaggio dei curatori della mostra mette insieme, come lo stesso comunicato stampa rileva, le cose più disparate, secondo una logica dell’accumulo che, lungi dal favorire una lettura a più livelli, suscita dispersione, confusione, caos, anzitutto nello spettatore che si accosta per la prima volta a tali vicende e per il quale si è inteso operare con «ottica inclusiva». Ma soprattutto la mostra manca quello che a rigor di logica avrebbe dovuto essere il suo unico legittimo e più grande obiettivo: spiegare il rapporto tra Pasolini e Matera, perché Pasolini scelse proprio Matera, cosa venne a Matera a fare. Anche rispetto a questa importante e complessa questione, la mostra non fa altro che accumulare oggetti irrelati, alcuni dei quali molto interessanti, ma che sta al visitatore interrogare, contestualizzare, inquadrare in una visione ampia che la mostra non offre. 

La mostra, se manca di spiegare l’unica cosa che ci si aspetterebbe di intendere in un percorso espositivo su Pasolini a Matera, si sofferma invece, nell’ultima sala, sulla produzione della neoavanguardia contemporanea al film. Con quale scopo, se in uno dei tanti contributi video presenti in mostra al piano sottostante è spiegato (correttamente) il rifiuto manifestato da Pasolini nei confronti della stessa? Con lo scopo di intendere per contrasto il film? Tutt’altro: scopo dell’ultima sala è «raccontare attraverso la scultura contemporanea il dibattito sulle nuove tecniche di immagine che si riflette nello straordinario film di Pasolini». 

Del resto, per farsi un’idea della cura con cui si è lavorato, basta leggere i testi che (in assenza di un catalogo) accompagnano i materiali: i refusi non si contano, la sintassi è spesso traballante, il discorso è approssimativo e generico. Una mostra che i locali dicono sia costata 300.000 euro non ha evidentemente ritenuto opportuno spenderne qualche centinaio per far correggere le bozze dei testi. Nei credits ufficiali trovano distinzione i curatori della mostra (indicati in: Marta Ragozzino e Giuseppe Appella con Ermanno Taviani e la collaborazione di Paride Leporace) dal «coordinamento delle ricerche» (assegnato ad Alberto Giordano con Massimiliano Burgi e Vita Santoro e la collaborazione di Emmanuele Curti). Ho sempre pensato che la curatela di una mostra prevedesse anche il coordinamento (ovvero la cura) delle ricerche. Ma in questo caso c’è una chiara scissione dei ruoli. Mi chiedo se non sia un modo per evitare di assumersi la responsabilità scientifica della proposta. 

 Come ha spiegato Giovanni Agosti, in occasione della già citata mostra di Novate: «Se si perde la memoria dei fatti storici, si rischia di fare di Pasolini una specie di santone fuori dalla storia. E questo è nocivo non solo per l’autore, ma anche per i giovani. Bisogna sempre riconquistare il dettaglio, saper distinguere... Poi ci si può anche accecare, ma se prima non si è visto... è soltanto smarrirsi». Lo scopo della mostra di Matera non mi pare sia quello di vedere nuovamente e meglio «Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo», come il suo titolo vorrebbe suggerire. La comprensione profonda del passato anche recente (50 anni in fondo non sono poi molti) si sviluppa per altre vie, con tempi e logiche diversi da quelli dell’intrattenimento. Esso può scaturire solo da rigorosi (negli intenti e nei metodi) processi intellettuali, sui quali il curatore scientifico di una mostra dovrebbe avere il compito di vigilare, perché non vengano compromessi da logiche a essi estranee, come quelle del mercato, della promozione dell’immagine turistica, della visibilità politica, ecc. ecc. 

 Tra Osservatore e Repubblica 

D’altra parte, Il Vangelo secondo Matteo è un testo difficile da classificare, che si nega alle facili definizioni. Gli studi sul film degli ultimi quindici anni lo hanno analizzato in ogni sua piega: le ricerche in archivio sono riuscite ad andare oltre la mitologia della testimonianza orale, spiegando nel dettaglio il suo processo ideativo, realizzativo e distributivo. Sono altresì state messe in luce le motivazioni che guidarono le principali scelte compiute da Pasolini in relazione alla stesura della sceneggiatura, all’individuazione degli interpreti e degli ambienti, e infine alla promozione del film. Eppure il film continua in qualche modo a sfuggire a una presa piena, certa, condivisa. 

È recente la polemica (tutt’altro che aspra, intendiamoci, ma di sostanza) tra L’Osservatore romano e La Repubblica. In risposta al quotidiano della Santa Sede che il 21 luglio aveva definito Il Vangelo secondo Matteo «il miglior film su Gesù mai girato» (E. Ranzato), su quello fondato da Scalfari il giorno dopo si è rivendicata con forza la proprietà del film alla sinistra, in un articolo (di G. Crainz) pieno di inesattezze e approssimazioni, governato dalle mistificazioni della militanza. 

 Da un lato L’Osservatore romano, dall’altro La Repubblica: dire che Il Vangelo secondo Matteo si colloca tra questi due poli non è fargli un disonore, purché naturalmente si sgombri subito il campo da ipotesi di centrismo e democristianismo. Il film va collocato nell’ambito del dialogo che ha visto impegnati una parte dei cattolici e una parte dei comunisti italiani nel corso degli anni Sessanta. Si tratta di un ambito da cui è scaturita tanta produzione artistica di qualità, spesso sostenuta da autentiche speranze e passioni politiche, fondata sulla negoziazione del conflitto, sul confronto tra le tradizioni  culturali, da studiare oggi nei suoi effetti di lungo corso. 

Mi ha colpito il ripensamento di Goffredo Fofi nei confronti del film registrato dalla mostra di Matera. Come noto Il Vangelo secondo Matteo fu rifiutato solo dalle estreme: la sinistra radicale e il cattolicesimo di destra. Oggi sappiamo che i Fofi, i Bellocchio e i Fortini (per fare i nomi di tre noti autori che polemizzarono con la proposta pasoliniana) sbagliarono. Non perché il film non fosse dal loro punto di vista pericoloso: stiamo parlando di un film tremendamente efficace proprio nel contesto della sinistra (non a caso è un animo, come quello di Fortini, che ha conosciuto in gioventù un’autentica esperienza religiosa a temere il film più di tutti). Molto più semplicemente i Fofi, i Bellocchio e i Fortini guardarono il film da un punto di vista che oggi appare del tutto superato: pare una banalità ma è forse bene ricordarlo. 

Ma si commisero tanti errori anche sul fronte avversario: mi chiedo cosa avrebbe potuto suscitare un film come questo nell’America Latina se adeguatamente sostenuto. Da uno scambio epistolare tra Garzanti e Pasolini della fine del 1965 emerge al riguardo una vicenda interessante. Una delle più importanti case editrici di Buenos Aires manifesta a Garzanti il desiderio di pubblicare una traduzione de Le ceneri di Gramsci, di Passione e ideologia e di Una vita violenta. Al momento della richiesta la casa editrice ha nel proprio catalogo un unico titolo pasoliniano: Cristo marxista, «un volume contenente tutte le discussioni (…) suscitate in Italia dal film Il Vangelo secondo Matteo». Insomma, Il Vangelo secondo Matteo fa da apripista e lo fa cambiando il proprio titolo. In un luogo caldo come l’America Latina, dove comincia a muovere i suoi primi passi la teologia della liberazione, il materiale relativo a Il Vangelo secondo Matteo viene proposto in modi politicamente disambiguati, che non possono non aver creato più di un sospetto tra le autorità locali, comprese quelle ecclesiastiche.

 Conversioni a Est 

Il film che oggi L’Osservatore romano e La Repubblica si contendono è stato temuto tanto dai burocrati sovietici quanto da quelli vaticani. Eppure sia gli uni sia gli altri non poterono esimersi dal farci i conti, con le contraddizioni che ne derivarono. Nella mostra di Matera ci si sofferma a lungo sul fatto che il film è stato premiato dai cattolici con la targa dell’Organisation catholique internationale du cinéma (OCIC), ma nulla si dice del fatto che Pasolini riconsegnò il premio quattro anni dopo, in seguito alle polemiche suscitate da una dura «deplorazione» rivolta da Paolo VI alla giuria OCIC quando nel 1968 torna a premiare Pasolini per Teorema. Ma non minori furono le contraddizioni in terra sovietica, dove il film non potè circolare e, nonostante ciò, produsse conversioni. 

 Il giornalista e scrittore inglese Oliver Bullough ne ha recentemente documentato un esempio, nel suo ultimo libro The Last Man in Russia. 7 Il volume è dedicato alla vita del prete ortodosso Dmitry Dudko, narrata sullo sfondo della storia dell’Unione Sovietica degli anni di Brezhnev: l’oppressione e le menzogne del comunismo, i tentativi dei dissidenti di condurre una vita libera, la depressione e l’alcolismo che si impadroniscono di un intero popolo. A un terzo circa del volume Bullough incontra Alexander Ogorodnikov (come Dudko, un sopravvissuto al Gulag), per farsi raccontare come si viveva a Mosca negli anni Sessanta. Nato ai confini della Siberia, Ogorodnikov «da bambino, non aveva motivo di lamentarsi della sua vita, nel complesso. Ben lontano dalla rarefatta atmosfera degli intellettuali di Mosca, era un puro prodotto del sistema sovietico. Per il proprio futuro il paese contava su persone come lui, brillanti e impegnate. Gli ci volle del tempo per ribellarsi». 

 Ogorodnikov impara tuttavia presto a misurare la distanza che c’è tra gli ideali comunisti nei quali è stato cresciuto e la corruzione e il cinismo della società reale. Sebbene la favola di vivere nel migliore dei mondi cominciasse a scricchiolare al confronto con la realtà, Ogorodnikov partecipa al concorso per entrare nella VIGK, la prestigiosa scuola di cinema dell’Unione Sovietica. Lo vince, ed è qui che entra in gioco il film di Pasolini. Agli studenti di questa scuola di stato veniva insegnato come produrre film di alta qualità allineati alle richieste ideologiche degli alti burocrati del partito. Ma nel contempo veniva loro mostrato anche ciò a cui avrebbero dovuto contrapporsi, i prodotti del nemico. Con questa finalità si svolgevano speciali proiezioni di film occidentali proibiti al pubblico ordinario: «Nella primavera del 1973, un giorno gli venne servito Il Vangelo secondo Matteo, una versione della Scrittura dovuta a un omosessuale comunista italiano», che invece di insegnargli a combattere le tecniche della propaganda occidentale, «lo convertì». 

 Se il film di Pasolini ha avuto su Ogorodnikov un così fatale effetto è proprio perché rappresenta una versione del Vangelo realizzata da un comunista, insomma proprio perché sta tra Osservatore romano e Repubblica: «Il Cristo presentato da Pasolini è un giovane dissidente, con un anelito sinceramente rivoluzionario, incurante dei cinici che lo circondano e che cercano con asprezza di soffocarglielo. Non c’è affatto da sorprendersi che ispiri il giovane che lo sta guardando. Rappresenta un vero e proprio programma, ed è immediato mettere in parallelo la Terra santa e l’Unione Sovietica, con i comunisti nel ruolo dei farisei, a rivendicare le loro alte motivazioni morali mentre in realtà sono intenti a riempirsi le tasche. (…) Guardando il film, Ogorodnikov decide che anche lui può diventare uno che rovescia i tavoli dei cambiavalute e mostra loro, come in uno specchio, il volto di un vero credente. Esce dal cinema trasformato in un cristiano militante, e comincia una nuova vita». 

Tomaso Subini

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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