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martedì 23 gennaio 2018

Pasolini il PCI ai giovani - Il commento di Angela Molteni.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini il PCI ai giovani
Il commento di Angela Molteni.

Quello seguente è il mio intervento sulla rivista Namir: 

Il primo libro di Pier Paolo Pasolini che ebbi tra le mani, anni fa, è stato Teorema. Fu il regalo di un amico per una ricorrenza. E fu una lettura sconvolgente e indimenticabile, tale da farmi amare in modo irreversibile il suo autore, che conoscevo poco e soprattutto attraverso la visione di un suo film, Decameron (di quest’ultimo avevo apprezzato il marcato senso di ironia, la caratterizzazione tutta napoletana dei personaggi e tuttavia la restituzione, originalmente “fedele”, dello spirito del Boccaccio). 
Teorema fu per me la scoperta di Pier Paolo Pasolini, del suo senso critico nei confronti della società com’era sul finire degli anni Sessanta, e di quanto ci stessimo lentamente e inesorabilmente trasformando tutti quanti in individui piccolo-borghesi ai quali non sarebbe rimasto intorno altro che un arido deserto nel quale, magari, urlare scompostamente. 
Il consumismo, il conformismo a certi modelli dettati soprattutto dal potere dei media (in primo luogo dalla televisione con la sua essenza omologante talché una delle convinzioni profonde di Pasolini era che occorresse abolirla), la mutazione antropologica di un intero popolo, il nostro, erano i temi ricorrenti, e condivisi per quanto mi riguarda, in modo quasi maniacale in tutti gli scritti pasoliniani. Una tematica che, rivisitata a 25 anni dalla tragica scomparsa di Pasolini, è tutta puntualmente valida e confermata solo che si osservino, oggi, gli avvenimenti nonché i comportamenti delle persone con cui veniamo in contatto. 
Paradossalmente, Pasolini, uomo mite e generoso, aveva elaborato previsioni ottimistiche rispetto alla realtà qual è oggi: la mutazione, ormai, è avvenuta ed è andata oltre, in questa società ferocemente neocapitalistica nella quale l’uomo medio pare proprio essere quello della definizione pasoliniana: “… un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista…” 
Dopo la lettura di Teorema, cercai e lessi tutta la narrativa e i volumi di saggistica di Pasolini, molte sue poesie e anche le opere teatrali. Tra tutta la sua produzione letteraria, chiedermi che cosa preferisco mi crea non poche difficoltà: affettivamente, forse (e “costretta” a una scelta), Teorema. Ma gli argomenti trattati negli altri suoi libri e soprattutto nei suoi saggi rivelano, del loro autore, una tale preparazione culturale, accuratezza, profondità di analisi e visione realistica della società del suo tempo con i suoi problemi e le sue drammatiche contraddizioni, da non poterli assolutamente porre in secondo piano. 
Chi legga oggi i suoi saggi sul cinema o sulla linguistica, ma anche quelli nati da fatti di cronaca, politici o di costume o le stesse “risposte ai lettori” riprese da Le belle bandiere o da Il caos, non può che restare sbalordito per l’attualità delle analisi di Pasolini, talché gran parte delle sue pagine sembrano scritte ai giorni nostri, e riconoscere che Pasolini non ha mai tentato compromessi con la realtà. 
La critica al Potere (al Palazzo, come lui stesso lo definì coniando un termine che oggi tutti noi utilizziamo correntemente) è costantemente presente nei suoi saggi che culminano nella raccolta Scritti corsari, riguardante i suoi famosi interventi sul “Corriere della Sera”. Né è possibile ignorare la poesia pasoliniana, mai onirica ma legata anch’essa indissolubilmente alla realtà. Pasolini è essenzialmente un poeta, anche nell’opera narrativa e nel cinema: sempre e comunque poetà della realtà. 



Sul Sessantotto Pasolini scelse appunto di scrivere in poesia. Ne nacque la famosa Il Pci ai giovani (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una “Apologia”). Il brano, negli anni, è stato sottoposto a innumerevoli interpretazioni e vale la pena soffermarvisi. Molti fecero di questa polemica in versi un motivo di dissenso nei confronti di Pasolini (anche quando pareva di poter cogliere quanto vi fosse anche di ironico nel testo pasoliniano, com'è il mio caso poiché non ho avuto mai dubbi che Pasolini parteggiasse comunque per le lotte studentesche), più che altro per motivi di opportunità politica poiché egli, uomo di sinistra come più volte aveva ribadito, aveva scelto di pubblicare i suoi versi su un periodico di ampia tiratura proprio in un momento molto “caldo” della contestazione studentesca (e anche operaia), permettendo oltretutto in tal modo una plateale, delirante e sgangherata strumentalizzazione delle sue parole da parte della destra. 
A Roma, a Milano e in diverse città europee alcuni studenti furono uccisi per mano di polizia e carabinieri; a Città del Messico vi fu una vera e propria strage, sempre di studenti. Come si poteva dunque, da sinistra (dai partiti politici alle organizzazioni sindacali e ai loro militanti), anche se si comprendeva fino in fondo che si trattava di provocazione, non criticare, e anche duramente, le parole di Pasolini, espresse in un momento tanto delicato e drammatico? 
Era vero: chi aveva la possibilità di affrontare studi universitari in gran parte proveniva da famiglia borghese, così come chi si arruolava in polizia proveniva da classi meno abbienti, dal proletariato e dal sottoproletariato. Ma nel testo pasoliniano sembra quasi che il poeta non tenga conto delle funzioni. Nessuno ha mai contestato il singolo poliziotto-sottoproletario. Quello che era aspramente contestato, se mai, erano le funzioni e il ruolo delle forze dell’ordine in quanto istituzione. Gli studenti sostanzialmente si opponevano, e a ragione, all’utilizzo delle forze di polizia e dei carabinieri da parte del potere che ne faceva strumento violento di repressione, questo è il punto. Aldilà di degenerazioni che pure ci furono, gli studenti nel '68 pretendevano di ottenere, con le loro lotte, profondi cambiamenti morali e politici nel Paese; esigevano tra l'altro uno “svecchiamento” degli studi superiori e dell’università, invocavano condizioni che favorissero l’accesso agli studi anche ai meno abbienti ed eliminassero la selezione; volevano fortemente la fine delle “baronie” e dei privilegi. L’istituzione forniva invece, utilizzando i “figli del popolo” un addestramento mirato a stroncare una qualsiasi contestazione, evidentemente con ogni mezzo, anche il più antidemocratico, se è vero oltretutto che vi furono anche dei morti. 
Anche in Cile, qualche anno più tardi, i carabineros, o meglio, molti di essi (provenienti da classi sociali ancor più disagiate di quelle sottoproletarie italiane), furono il braccio armato del colpo di Stato di Pinochet, pilotato dalla Cia, come ormai storicamente accertato. Non agivano individualmente o in quanto sottoproletari ma in quanto gruppo addestrato ad assolvere determinati compiti. E i primi a pagare con la vita o con la sparizione a causa di quell’orrendo delitto contro un Governo costituzionalmente eletto, quello di Salvador Allende, oltre allo stesso Presidente furono studenti (certamente in gran parte figli di borghesi) e lavoratori. 
Ma Pasolini non si schierò affatto dalla parte dei celerini. Proprio le strumentalizzazioni, sedimentate, della poesia pasoliniana non permisero, e non permettono ancora ai nostri giorni, di analizzare con la dovuta attenzione l'"Apologia”, il testo che Pasolini fece seguire agli appunti in versi: occorrerebbe leggerla integralmente per comprendere i reali intenti del poeta, altrimenti risultano evidenziati soltanto gli stereotipi, "studenti figli di papà" "poliziotti figli del popolo", e su questi si innestano equivoci senza fine e si tentano ancora oggi strumentalizzazioni anche volgari. 
Mi auguro siano sufficienti alcune brevi citazioni dall'"Apologia": "[…] Sia dunque chiaro che questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti 'sdoppiati' cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire, nella fattispecie, una 'captatio malevolentiae': le virgolette sono perciò quelle della provocazione. […]". 
Ecco il punto: la provocazione. Provocando gli studenti ("in che altro modo mettermi in rapporto con loro, se non così?") Pasolini intendeva stimolarli ad analizzare, "al di fuori così della sociologia come dei classici del marxismo", la loro condizione di piccolo-borghesi; a togliersi di dosso tale loro condizione utilizzando la loro intelligenza in senso critico ("abbandonando la propria autodefinizione ontologica e tautologica di 'studenti' e accettando di essere semplicemente degli 'intellettuali'") e "operando l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese". 



Sì, Pasolini amava dire la verità. Ciò gli è costato molto caro: una sequela di vere e proprie persecuzioni giudiziarie; forse la sua stessa uccisione (è sufficiente leggere gli atti del processo a quello che fu alla fine indicato come il suo solo assassino per rilevare quanto di tale delitto rimase "sospeso", inesplorato, non chiarito fino in fondo). Non vi fu suo libro o suo film che uscisse indenne da tale persecuzione. Pasolini fu sottoposto a un "processo infinito" che avrebbe dovuto farlo desistere, o quanto meno stancare, dal continuare a puntare indici accusatori sul potere politico, sulle storture, sulle orrende trasformazioni della società in cui viveva. 
Non fu sufficiente a farlo tacere neppure il pregiudizio con il quale lo si marchiava. Scrisse Alberto Moravia nelle pagine introduttive del bellissimo libro Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti, Milano 1977): " Ora però avviene che qualcuno pur essendo comunista, si permette di non essere sano e normale (s'intende dal punto di vista della borghesia) e all'omosessualità aggiunge altre anormalità come la cultura, la poesia, la polemica politica, l'arte ecc. ecc. Che cosa succederà ad un simile personaggio? [...] sarà odiato non già perché è comunista e perché è omosessuale, ma perché vuole essere tutte e due le cose insieme, nonché poeta, uomo di cultura, polemista politico, artista di tutte le arti." 
Né furono comunque sufficienti né efficaci le persecuzioni subite a impedirgli di affermare "Io so chi sono gli autori delle stragi…". 
Qual è la sua "verità più vera"? Ciò che già si andava attuando in quegli anni '70 e che oggi è ormai definitivamente compiuto: la vera e propria "mutazione antropologica" di un intero popolo, il nostro, sulla quale Pasolini scrisse tra l'altro (1974): 
"L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi 'diverso'. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo."
Un intero popolo imborghesito, grazie a questa mutazione, a questa selvaggia omologazione, non è un bello spettacolo. Di questa "nuova preistoria" Pasolini aveva dato precisi e sgomenti segnali fin dai primi anni Sessanta: da Mamma Roma che vuol costruire una vita dignitosa anche se "falsa" per suo figlio, fino alla fatuità e alla rivoltante crudeltà dei "quattro signori" - e di tutti gli altri - di Salò. 
I valori, gli ideali, sono oggi incarnati dal denaro e da ciò che esso può dare. Vi è una caduta verticale del senso di solidarietà, un degradante senso del possesso, non importa se di cose o di persone. Tutto è all'insegna del profitto: si sfrutta, oggi più che mai, il lavoro minorile; si causano, per indifferenza o indegna tutela di interessi particolari, drammatiche morti sul lavoro; si producono schifezze che poi ci vengono propinate come "cibo"; si stravolge la natura quando non la si distrugge; si tuona farisaicamente contro l'immoralità o la violenza, salvo distribuirne a piene mani nei "prodotti" televisivi e cartacei; si attacca ferocemente una magistratura che ha avuto il coraggioso torto di colpire gli interessi e le malefatte di alcuni potenti… La politica non è più neppure spettacolo, è semplicemente pubblicità e nessuno pare più nemmeno ricordare che il comune, la provincia, la regione, lo stato, sono servizi per i cittadini e non personali riserve di caccia né tantomeno palcoscenici pubblicitari per il "faccione" di turno; il governo della cosa pubblica è ridotto a fatto personale… E poi: tutti col telefonino; tutti in vacanza nello stesso periodo; tutti a scambiarci gadget per san Valentino; tutti a giocare al superenalotto; tutti allo stadio a berciare contro le fazioni avversarie… un vero e proprio pensiero unico, una vera e propria clonazione delle coscienze. Chi non è allineato al pensiero unico viene osservato con stupore e con sospetto, quasi fosse un marziano: nel migliore dei casi, dai più viene ritenuto "un alienato" o perlomeno uno "un po' picchiatello"… 
Come risulta chiaro dalle lucide, quasi profetiche analisi pasoliniane, il più grande impulso a tale raccapricciante mutazione è venuto dalla scuola a sua volta omologata, dalla televisione e più in generale dai mezzi di comunicazione di massa, dalla pubblicità e dai "grandi comunicatori": i giornali "parlano" tutti allo stesso modo, i telegiornali paiono fatti con lo stampino… Un intero popolo è caduto in una trappola, subdola ancorché - almeno per ora - incruenta. 
Ieri sentivo un bambino di sei anni, che andrà a scuola per la prima volta tra qualche giorno, piantare una "grana" spaventosa poiché pretendeva di avere uno zainetto "firmato". Ecco, in questo piccolissimo episodio vi è il senso di ciò che intendo quando rifletto sull'enorme e attualissima validità delle verità che Pasolini esprimeva. 



Sul raduno di Roma per il "Giubileo dei giovani" non ho molto da dire: anche il Papa è certamente un "grande comunicatore" e sa perfettamente come esercitare il potere che detiene saldamente, allo stesso modo di parecchi degli uomini passati alla storia del secolo Ventesimo. E anche i giovani fanno parte di questa società orrendamente borghese e omologata contro la quale Pasolini, sia pure inascoltato e ancor più perseguitato, ha levato tanto frequentemente la sua voce… 
Da qualsiasi parte arrivino e in qualsiasi contesto si esprimano, non amo né i dogmatismi né i fanatismi né i settarismi né gli integralismi: sono pericolosi e forieri di sventure; li ritengo contro l'uomo e contro le potenzialità che ciascun essere umano sarebbe in grado di esprimere se non fosse condizionato anche dalle sovrastrutture ecclesiastico-cattolico-romane a un conformismo servile, a una inammissibile mitizzazione; non aprono alcun dialogo, alzano piuttosto steccati non facilmente abbattibili. 
E, se ripenso al Vangelo secondo Matteo (il film di Pasolini che preferisco) e alla profonda e introspettiva lezione che del Cristo ha dato quel grande poeta, con la sua sensibilità e altissima spiritualità, e con una religiosità che, per esempio, nulla ha a che fare con le ipocrisie e gli anatemi del cattolicesimo e delle sue gerarchie, mi pare che ciò che hanno espresso i giovani del raduno di Roma (tutti spaventosamente uguali, con le loro magliette, i loro cappellini, le loro dichiarazioni "in carta carbone" all'intervistatore di turno) sia qualcosa di profondamente estraneo allo spirito evangelico e ai suoi insegnamenti. La chiesa come istituzione, con le sue correnti interne di potere, le sue speculazioni affaristico-economiche che ne hanno fatto una "industria delle anime", le sue congiure e i suoi misteri irrisolti, a mio parere, vive d'altronde già da lungo tempo una tale estraneità. 
Che non sia più possibile agli esseri umani sviluppare non dico le qualità acutamente analitiche di Pier Paolo Pasolini, ma almeno un briciolo di autonomo senso critico? 

Angela Molteni 
3 settembre 2000 



Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

Pasolini, Il PCI ai giovani - La polemica, Giuliano Ferrara e Enzo Siciliano

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Giuliano Ferrara durante gli scontri di Valle Giulia - Roma, 1 marzo 1968


GIULIANO FERRARA 
"Pier Paolo Pasolini come fu astuto..." 
di L. V. 
La Repubblica, 1 marzo 1998

Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio, nel marzo del 1968 aveva diciassette anni. Era iscritto al secondo liceo classico e la mattina di Valle Giulia, con altri compagni di scuola, aveva partecipato al corteo di protesta contro la polizia che presidiava l'università di Roma. 
"No, nessuna nostalgia. E nessuna lettura particolare di quegli avvenimenti. Niente di tutto quello che riguarda il '68 ha il valore che gli si è poi attribuito in occasione del decennale, del ventennale, del trentennale e, ne sono certo, anche di quello che si dirà nel quarantennale. Certo Valle Giulia rappresentò un fatto nuovo. Ricordo, all'inizio, il tiro di qualche uovo e, forse, di qualche sasso. Poi le cariche della polizia. E la nostra reazione. Era la prima volta. 
"Gli edili e i contadini, è vero, si scontravano con la polizia da vent'anni. Ma gli studenti introducevano nella politica un improvviso elemento di radicalizzazione. La politica abbandonava l'andamento tranquillo del tempo di pace, per prenderne uno simile a quello della guerra. 
"La stessa presa di posizione di Pasolini, del resto, non nasceva da un sentimento di solidarietà con i poliziotti. In quella condanna degli studenti non c'era nessuna poetica. Pasolini, semplicemente, aveva visto quel che succedeva in Francia dove i giovani davano delle vecchie barbe all'intellighentia di sinistra. E, in modo astuto, cercava di contrastare una generazione ambiziosa che gli avrebbe tolto spazio. 
"Al di là di Valle Giulia quel movimento non può essere spiegato con una visione da intellettuali di provincia, angusta e molto poco internazionale. Il Sessantotto era un fenomeno che coinvolgeva tutto il mondo, da Roma a Berlino, da San Francisco a Madrid: la manifestazione di una nuova classe dirigente che si sentiva stretta nei vecchi panni. Eravamo i primi della classe; mica, sia detto senza offesa, come gli straccioni del '77". 

www.media68.com 
febbraio 1998 



ENZO SICILIANO 
Pasolini e il '68 di Ferrara 
La Repubblica, 2 marzo 1998

Interrogato sul '68, sugli scontri di Valle Giulia fra studenti e polizia, Giuliano Ferrara ha ricordato non solo se stesso ("eravamo i primi della classe"), ha ricordato anche Pasolini e la sua poesia contro gli studenti. 
"La presa di posizione di Pasolini non nasceva da un sentimento di solidarietà con i poliziotti": Pasolini, secondo Ferrara, "semplicemente" avrebbe cercato di contrastare "una generazione ambiziosa che gli avrebbe tolto spazio". Un atto di "furbizia" quello di Pasolini, o di resistenza, da "intellettuali di provincia", contro l'emergere di "una nuova classe dirigente". 
Mah! Non sto qui a difendere Pasolini. Non credo abbia bisogno di difesa. Mi domando che "primo della classe" è stato Ferrara. Che lo sia stato, è vero: posso testimoniarlo perché lo conosco da allora, e aveva diciassette anni. Ma credo, come è giusto, che la storia di una persona complichi o cancelli certe sue qualità originarie. 
Se Giuliano era un primo della classe, non era un secchione: era uno che appunto andava a Valle Giulia per fare a botte, avendo magari chiara in mente una pagina della "Repubblica" di Platone. Poteva anche conoscere le assurde tesi di Stalin sulla linguistica e tenerle per buone. I comunisti italiani di quel tempo, anche i giovani comunisti, erano in parte così. 
Erano comunisti, come scrisse Pasolini, "in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote". 
Ecco, è vero, non si può dire che Giuliano amasse la litote o la logica attenuativa: questo scarto l'aveva già compiuto. E si sentiva, oltre che "primo della classe", "classe dirigente". Per questo andò a Valle Giulia. Benissimo. Lo stesso Pasolini l'avrebbe sottolineato con partecipazione: benissimo. 
Ma il nostro primo della classe oggi scalcia: butta Pasolini nella spazzatura, gli dà del provinciale, e lo giudica con il metro di giudizio che è suo, proprio il suo di ora, e che lo diversifica dall'immagine di un ragazzo andato liberamente a Valle Giulia per una dimostrazione da tenersi sulla scalinata della romana Facoltà di Architettura. 
Pasolini, alla luce di questa ottica, ne esce fuori come un furbastro o un malandrino: uno che "semplicemente" mette a ferro e fuoco il giornalismo e le lettere italiane difendendo i poliziotti, "figli dei poveri", contro gli studenti, "figli di papà" perché temeva che questi ultimi gli rubassero "spazio". 
Il "primo della classe" diciassettenne, che aveva Platone o la Politica di Aristotele in mente, passati gli anni - dopo un transito in Germania, compiuto per raffinarvi da vero borghese la propria informazione filosofica - ormai non vede il mondo se non con le lenti delle furberie di piccolo cabotaggio o delle malandrinate teorizzate alcuni mesi fa. Il malandrinaggio come chiave interpretativa della storia, degli uomini, della cultura. 
È servita solo a questo quella generosa, fatidica battaglia combattuta a Valle Giulia una mattina di marzo del '68 con tanto dispendio di orgoglio e buona fede? A questo si sono ridotti quei "primi della classe", quella "classe dirigente" in erba che aveva in animo di mutare politica e morale di un paese intero lanciando sassi contro le camionette della Celere? 
So che gli interrogativi retorici servono a poco, ma è possibile che Ferrara deliberatamente ignori il ragionamento di Pasolini nella sua interezza, composto cioè da "Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una "Apologia""? 
I primi della classe possono essere scavezzacolli, ma pignoli debbono esserlo, pignoli fino allo spasimo. 
Comunque, cerco di riassumere quel ragionamento, anche con qualche citazione dall'"Apologia". Pasolini ha voluto deliberatamente provocare gli studenti di allora, "l'ultima generazione degli operai e dei contadini". Pasolini temeva con ragione l'"entropia borghese" ("la borghesia sta diventando la condizione umana"); e aggiungeva che "chi è nato in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuori". Di qui la provocazione ai giovani, proprio agli studenti ("in che altro modo mettermi in rapporto con loro, se non così?"). 
E, questa provocazione, che effetti avrebbe dovuto ottenere? Spingerli a liberarsi - "al di fuori così della sociologia come dei classici del marxismo" - del loro essere piccoli borghesi, a diventare "intellettuali", a usare in senso critico, non più ideologico o cristallizzante, la propria intelligenza. A liquidare il cinismo metodico del piccolo borghese, per cui tutto è visto come spicciolo pragmatismo, malandrinata, spazzatura. 
Ahimè, il primo della classe Giuliano Ferrara questo strappo, pur con tutti i libri che ha letto, la litote cancellata e il vissuto che ha alle spalle, non l'ha compiuto. Anzi, il non averlo compiuto lo ha tradotto in un valore, per cui ritiene suo diritto giudicare ogni altra esperienza secondo il cinismo e la malandrineria che quel giorno a Valle Giulia avrebbe dovuto calpestare, mai più coltivare, prigioniero ancora di una ontologia da cui il "provinciale" Pasolini lo provocava a liberarsi. 

www.media68.com 
febbraio 1998 



Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog