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sabato 1 luglio 2017

Il Vangelo Secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini. - Recensione di Cobra Verde

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Il Vangelo Secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini

Recensione di Cobra Verde

con: Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Susanna Pasolini, Marcello Morante, Mario Socrate, Settimio di Porto, Enrico Maria Salerno, Umberto Bevilacqua, Ninetto Davoli.

Italia , Francia (1964)


Nel 1964 Pier Paolo Pasolini era uno scrittore ed un regista affermato; la cultura "di sinistra" che permeava le sue opere era purgata da ogni stretto riferimento marxista e dogmatico e spesso accostata alla sacralità in modo diretto, come nello splendido finale di "Mamma Roma" (1962); la sua formazione cattolica e il suo sentimento religioso di stampo laico e, anche qui, privo di dogmi e oscurantismi era noto ai più fin dai suoi esordi come editorialista; eppure, l'entrata in produzione de "Il Vangelo Secondo Matteo" fu comunque accompagnata da scandali e sensazionalismi sia sul fronte della classe intellettuale "di sinistra", sia (come prevedibile) negli ambienti cattolici più oltranzisti; quello che gli "intellettuali" dell'epoca non avevano inteso (o non avevano voluto intendere) era la natura strettamente umanitaria della fede del grande autore di origine emiliana; umanità che la rendeva di per sé stessa rivoluzionaria e al contempo fortemente "cattolica", come si evince da ogni singolo fotogramma del suo capolavoro.


Quello di Pasolini è un intento rivoluzionario e al contempo caritatevole: restituire ai popoli la figura di Cristo così come veniva concepita nel Vangelo, prima che la retorica ecclesiastica e borghese, da un lato, e quella marxista, dall'altro, ne traviassero o oscurassero il messaggio "rivoluzionario"; in particolare, Pasolini riprende la figura del Cristo come descritta nella versione di Matteo, ossia quella che presenta un Salvatore più vicino alla sua natura umana che divina, un "Dio fatto uomo" che non rinuncia alla sua natura umana e che anzi la accetta come tale: Gesù è Dio E uomo, e solo l'accettazione di questa sua duplice natura da parte del lettore/spettatore può permettergli di accogliere davvero il suo messaggio di redenzione.


La messa in scena della vita di Cristo diviene l'emblema della lotta per l'emancipazione dei popoli; la figura di Gesù si carica di una componente rivoluzionaria unica (almeno sul grande schermo), così come presentata nelle pagine dei testi sacri; il messaggio evangelico diviene così al contempo testo di fede e invito al risveglio; il messaggio di Gesù, secondo Pasolini, è rivoluzionario fin nel midollo: laddove la società imponeva la violenza e la sopraffazione, egli predicava amore e perdono, laddove la legge del "mos maiorum" tollerava la vendetta di sangue, egli invitava a porgere l'altra guancia; e non per nulla fu l'autore stesso a dichiarare che "mi sembra un'idea un po' strana della Rivoluzione questa per cui la Rivoluzione va fatta a suon di legnate, o dietro le barricate, o col mitra in mano: è un'idea almeno anti-storicistica. Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente 'porgi al nemico l'altra guancia' era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo insostenibile: e infatti l'hanno crocifisso. Non vedo come in questo senso Cristo non debba essere eccepito come Rivoluzionario"; Pasolini, in sostanza, si oppone tramite questa sua visione al concetto "retrogrado" del messaggio evangelico proprio della Chiesa antecedente al Concilio Vaticano II per cui è solo la fede cieca a portare la salvezza al popolo; e al contempo tira uno "schiaffo morale" agli pseudo-rivoluzionari dell'epoca presentandogli il simbolo della società conservatrice che tanto aborriva per quello che era: l'unico vero rivoluzionario della storia. E nel ritrarre il Cristo come un anticonformista, riportandolo alla sua dimensione primigenea e spogliandolo di ogni connotazione conservatrice e "medioevale", Pasolini resta fedele alla sua filosofia e ai temi suoi cari; di fatto, non vi è poi molta differenza tra il Cristo de "Il Vangelo" e qualsiasi altro personaggio della filmografia pasoliniana: anch'egli è un diverso, un estraneo in un mondo ingiusto, il quale anzicchè subirne passivamente le leggi ed assorbirne la corruzione, tenta di cambiarlo in meglio, sacrificando tutto sé stesso per il proprio ideale.


Per la prima volta al cinema la figura di Cristo si riappropria della sua componente sacrale; purgato da ogni velleità agigrafica e ricattatoria, abbandonata la paura per ogni forma di retorica e abbracciata la natura sacrale del testo di origine, Gesù non è più il semplice protagonista di una serie di eventi narrati come un romanzo (come avveniva nei kolossal americani del decennio precedente), ma una figura carismatica, la cui predicazione viene costruita da Pasolini quasi esclusivamente mediante una serie di primi piani dall'espressività sbalorditiva, volti ad eliminare ogni forma di separazione tra il messaggio e lo spettatore, che per la prima volta si ritrova "faccia a faccia" con gli insegnamenti evangelici.


Un Gesù "emancipatore" il cui volto è quello di Enrique Irazoqui, studente di origine iberica e attore non professionista, scelto da Pasolini proprio per quel suo viso "ordinario" (in ossequio ai canoni neorealistici che ancora segue in questa sua fase artistica) perfetto per dare una fisionomia "universale" al Salvatore, ma la cui voce è quella alta e suadente di Enrico Maria Salerno; una voce ferma e forte, perfetta per predicare il messaggio evangelico di salvazione presso la massa, per risvegliarla dal torpore e imprimere per sempre in essa le parole della salvezza. Un Salvatore ritratto anche e soprattutto come uomo: ai miracoli e alla Resurrezione, Pasolini affianca anche gli episodi più "umani" della vita di Gesù, come l'ira contro i mercanti, proto-borghesi che hanno insozzato la casa del Padre con i concetti "luridi" del profitto e dell'affermazione individuale, o come la critica contro i Farisei, coloro che "hanno imbiancato i sepolcri", ossia i sacerdoti rei di aver piegato la parola di Dio ai propri fini, simbolo di una Chiesa corrotta e lontana dai popoli; o ancora e soprattutto il monologo sulla "spada", nel quale il Cristo afferma di non essere venuto sulla Terra per portare la pace, ma per mettere i padri contro figli qualora qualcuno di questi si rifiuti di seguire la parola di Dio. Il Cristo, per Pasolini, è tanto umano quanto divino: redentore e rivoluzinario, Salvatore e al contempo distruttore e proprio per questo messia il cui messaggio di fede e speranza è universale, non conosce barriere ne eccezioni, capace di arrivare a tutti gli uomini grazie ad un'opera di laicizzazione che l'autore affronta n modo certosino, ma privo di qualsiasi carica polemica.


In ossequio allo "spirito dell'ambivalenza", Pasolini mischia anche qui la tradizione neorealista con il suo sincero amore per l'arte neoclassica; la pittoricità delle inquadrature raggiunge qui l'apice: la Terra Santa, ricstruita tra i Sassi di Matera (all'epoca davvero "Terra degli Ultimi") diviene uno sfondo roccioso ed avvolgente, i cui paesaggi duri incorniciano perfettamente la fisicità degli attori non professionisti, tutti doppiati con accenti meridionali; ai volti "umili" l'autore affianca un commento musicale "classico", con arie di Bach e Mozart, raggiungendo vette di liricità unica; la fascinazione del sacro prende così la forma dell'arte classica rivisitata con un occhio moderno e del tutto anticonformista, che non ha paura di osare combinazioni ardite pur di trasformare una storia vista (allora come ora) come retaggio della borghesia capitalista e conservatrice in un messaggio di speranza per l'umanità tutta; e non per nulla, nell'ultima scena, la Resurrezione, Pasolini usa un commento musicale "post-modernista", ibrido di vecchio e nuovo, di sacro e profano: "Gloria", una messa cantata nel quale si mischiano le parole in latino del cerimoniale con il ritmo congolese della musica.

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Pasolini, Passione e Ideologia.

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Biblioteca nazionale centrale di Roma
Biblioteca nazionale centrale di Roma


Passione e ideologia è un saggio scritto da Pier Paolo Pasolini e pubblicato da Garzanti nel 1960.
Il saggio, del quale vi è un precedente progetto per l'editore Lerici del 1957 con il titolo Dal Pascoli ai neo-sperimentali che passerà nella seconda parte di Passione e ideologia, è dedicato allo scrittore Alberto Moravia.
L'aspetto altamente autobiografico dell'opera saggistica viene indicato da Pasolini in un frammento introduttivo, dattiloscritto e non inserito nel volume dove si legge: "Ho cercato di dare con gli insicuri mezzi offerti da quella educazione a me, ineducabile per definizione, una certe veste di normalità ai tentativi più puerili e gratuiti di conoscere degli stati, delle irresoluzioni, negli altri, che mi pareva di aver sperimentato".

Prima Parte:

L'opera è divisa in due parti. La prima parte è intitolata "Due studi panoramici" ed è a sua volta divisa in due sezioni: la prima sezione, intitolata La poesia dialettale del Novecento, riprende, con qualche leggera variante, l'introduzione all'antologia del 1952, Poesia dialettale del Novecento, mentre la seconda sezione, che deriva dall'introduzione al Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare del 1955, è intitolata La poesia popolare italiana.

Nella prima sezione l'autore, nel tratteggiare l'universo poetico dialettale, inizia dall'Italia meridionale con Di Giacomo e percorre la Sicilia, la Sardegna, la Calabria, le Puglie per giungere a Roma e a Milano, facendo notare il distacco di Pascarella e di Trilussa dal mondo poetico di Belli e l'allontanamento di Tessa dal Porta.
Il passaggio alle regioni del Nord vede molti personaggi del Piemonte, della Liguria (soprattutto Edoardo Firpo), dell'Emilia, della Romagna, del Veneto. Nel passare poi alla Trieste del Giotti e alla Grado di Marin, Pasolini compie un excursus nel quale mette in evidenza la mancanza di una poesia dialettale antifascista.
La prima sezione termina con il capitolo Il Friuli, dedicato alla regione e al dialetto dell'autore.

La seconda sezione si apre con il capitolo di discussione sulla letteratura critica intitolato Un secolo di studi sulla poesia popolare che vede come protagonisti Tommaseo, D'Ancona, Nigra, Croce, Gramsci.
Nel secondo capitolo, intitolato Il problema, Pasolini dà la definizione della poesia popolare che egli intende come prodotto del rapporto tra la classe dominante e quella dominata, tra la cultura del ceto alto a quella arcaica del popolo. L'autore prosegue poi il suo percorso geografico partendo questa volta dall'Italia settentrionale, attraversando l'Italia centrale per arrivare nell'Italia meridionale. I problemi che affronta sono, tra i tanti, quelli del "realismo" della poesia popolare, della "semi-popolarità" per i canti toscani, della natura "collettiva" del poeta popolare. Pasolini si sofferma su testi particolari, come la Baronessa di Carini siciliana e Fenesta ch'a lucive partenopea che gli ispirano pagine molto belle come quelle sul mondo friulano.
L'ultimo capitolo si occupa di Poesia folclorica e canti militari e si conclude sulla metà degli anni Cinquanta dove l'autore denuncia la tendenza del canto popolare a scomparire a causa del "mutato" rapporto sociale-letterario delle due classi, per "la forte diminuzione dell'analfabetismo, la stampa, il cinema, la radio" e per "la recente formazione di una lingua italiana, che non è più il semplice italiano letterario per élite, ma una diffusissima koinè: una seconda lingua parlata dopo il dialetto".

Seconda Parte:

La seconda parte dell'opera intitolata Dal Pascoli ai neo-sperimentali parte dal saggio di Giovanni Pascoli del 1955 scritto per inaugurare la rivista Officina al quale segue una panoramica su tutto il Novecento. Il saggio seguente sarà su Montale, una recensione a La bufera e altro del 1956, a cui seguiranno Un poeta in genovese del 1957 su Edoardo Firpo, Un poeta in abruzzese del 1952 su Vittorio Clemente e Un poeta molisano del 1957 su Eugenio Cirese. Seguono due saggi su Gadda, la recensione alle Novelle del Ducato in fiamme del 1953 e uno scritto sul Pasticciaccio del 1958.
Nel procedere nella lettura di questa seconda parte si incontra un lungo saggio, che era già apparso nel 1956, dal titolo La confusione degli stili, sintesi della situazione letteraria italiana. Segue una sezione "Sui testi" che è articolata in recensioni dedicati a Carducci, a Ungaretti, a Rebora, a Sbarbaro, a Saba, a Barile, a Penna, a Bertolucci, a Bassani, ai poeti di Luciano Anceschi, a Paolo Volponi poeta, a Francesco Leonetti, a Sergio Solmi, a Mario Luzi, a Parronchi, a Matacotta, a Zanzotto, a Fortini.
L'opera si conclude con due saggi importanti, quello su Il neo-realismo del 1956 e La libertà stilistica del 1957. Nel primo viene individuato il paesaggio letterario italiano con i giovani Elio Pagliarani, Leonetti, Giuliani e altri, mentre nel secondo, che era già apparso su Officina come introduzione a una silloge di poeti neosperimentali, come Arbasino e Sanguineti, Pasolini colloca i poeti che appartengono al periodo della "libertà stilistica".


Biblioteca nazionale centrale di Roma


Passione e ideologia
1960
commento di Massimiliano Valente
Tratto da Pagine Corsare di Angela Molteni


    "Passione e ideologia": questo e non vuole costituire un'endiadi (passione ideologica o appassionata ideologia), se non come significato appena secondario. Né una concomitanza, ossia: "Passione e nel tempo stesso ideologia". Vuol essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che pone una graduazione cronologica: "Prima passione e poi ideologia", o meglio "Prima passione, ma poi ideologia". Il lettore potrà capire questo passaggio sia con l'imbattersi in dichiarazioni esplicite, sia col seguire le trasformazioni e le varie vicende di due gruppi tematici: la poesia regionale dialettale e Pascoli. Vedrà come nei saggi più vecchi l'individuazione dell'esistenza di questi due fatti si limiti a se stessa, quasi che il suo attuarsi fosse di per sé una ragione critica esauriente. E non nego che in qualche modo lo fosse, data la sovversione di certi valori e di certe abitudini ch'essa implicava. Ma il lettore vedrà poi come, invece, quei due gruppi tematici, pur ritornando, pressocché ossessivi, per tutto il libro, prevedano una visione storica in cui la loro semplice constatazione non è più sufficiente. La passione, per sua natura analitica, lascia il posto all'ideologia, per sua natura sintetica... (1)
In questa nota contenuta nel volume Pasolini spiega il suo atteggiamento culurale perennemente in bilico tra ricerca e studio appassionato seguito e integrato dall'ideologia.Passione e ideologia viene pubblicato nel 1960, anno cruciale per Pasolini, che vede pubblicata la raccolta di poesie La religione del mio tempo, e la lavorazione del suo primo film da regista, Accattone.
Gli scritti conenuti in questa raccolta saggistica riguardano l'attività letteraria svolta da Pasolini tra il 1948 e il 1958.
La parte centrale del volume è costituita da due lunghe e corpose introduzioni alle antologie realizzate per l'editore Guanda: La poesia dialettale del Novecento, curata con Mario Dell'Arco e pubblicata nel '52, e Canzoniere italiano, antologia della poesia popolare pubblicato nel '55.
In Passione e ideologia Pasolini volge il proprio sguardo a una elaborazione critica, che si focalizza in particolare sulle scelte stilistiche della sua narrativa, nonché le tensioni tipiche del primo periodo poetico dialettale.
Secondo Pasolini, la produzione letteraria è influenzata dallo sviluppo storico e, quindi, dai cambiamenti dei rapporti di forze tra le varie classi sociali e dall'influsso geografico. La prima parte di Passione e ideologia rappresenta per Pasolini un modo per affrontare le problematiche linguistiche che via via avrebbe ritrovato nei componimenti delle proprie opere successive. Come punti di riferimento prende il dialetto e la cultura popolare.
Nella seconda parte del volume, che ha per titolo Da Pascoli ai neosperimentali, Pasolini affronta alcuni autori che sente particolarmente vicini a sé, attraverso l'analisi delle strutture stilistiche. Da questo punto vista Pasolini vede in Giovanni Pascoli l'innovatore per eccellenza della poesia italiana del Novecento (Pasolini si laureò con un tesi su Pascoli). Scrive:
    "Il plurilinguismo pascoliano (il suo sperimentalismo antitradizionalistico, le sue prove di parlato e prosaico, le sue tonalità sentimentali e umanitarie al posto della casistica sensuale religiosa petrarchesca) è di tipo rivoluzionario, ma solo in senso linguistico, o, per intenderci meglio, verbale: la figura umana e letteraria del Pascoli risulta dunque soltanto una variante moderna, o borghese nel senso moderno, dell'archetipo italiano, con incompleta coscienza della propria forza, comunque innovativa". (1)
Nel tracciare un giudizio sugli autori presi in considerazione Pasolini si riferisce continuamente ai modelli letterari del Pascoli e alle prime esperienze del Novecento. Secondo Pasolini, infatti, i prodotti letterari moderni non sono altro che l'elaborazione delle opere del passato e non solo in funzione del pensiero morale, ma anche in relazione al mutamento della lingua. Questo non deve far pensare che la critica pasoliniana non sia altro che una sistematizzazione del passato in funzione di una revisione, ma una libera scelta critica. Scrive Pasolini:
"Al critico fin troppo appassionato, si mescola in me... l'ideologo. E la mia lotta ideologica si è svolta tutta contro l'ermetismo e il novecentismo, sotto il segno di Gramsci". (2)
(1) Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960.
(2) Pier Paolo Pasolini, Il portico della morte, a cura di Cesare Segre, Fondo Pasolini 1988.





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