Pagine

Le pagine corsare - Riflessioni su "Processo alla DC"

Pasolini, l'ideologia

Il Friuli di Pier Paolo Pasolini

Guido Alberto Pasolini

Le poesie

La saggistica

La narrativa

Pasolini - docufilm, cortometraggi e collaborazioni varie.

Il teatro di Pasolini

Atti del processo

Omicidio Pasolini - Inchiesta MicroMega

Interrogatorio di Pino Pelosi

Arringa dell'avvocato Guido Calvi

Le Incogruenze

I sei errori della polizia

Omicidio Pasolini, video

venerdì 1 dicembre 2017

Salò o le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini - Recensione di Cobra Verde

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Salò o le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini
Recensione di Cobra Verde



 con: Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle, Aldo Valletti, Caterina Barotto, Elsa de Giorgi, Helene Surgere, Ines Pellegrini, Sergio Fascetti, Giuliana Melis, Fardiah Malik.

Italia, Francia (1975)

La notte tra l'1 e il 2 novembre 1975, sulla spiaggia di Ostia, Pier Paolo Pasolini viene linciato da un gruppo di ragazzi appartenenti all'estrema destra extraparlamentare e successivamente ucciso da Pino Pelosi, giovane appartenente al sottoproletariato romano, lo stesso che il grande artista descriveva nei suoi "Ragazzi di Vita"; stroncato in maniera atroce e vigliacca, Pasolini lascia ai posteri come suo precoce testamento poetico e spirituale "Salò o le 120 giornate di Sodoma", la sua opera più genuinamente provocatoria, feroce e spiazzante, foriera di scandali ed incomprensioni, ma anche pregna di significati e riflessioni tutt'ora urgenti.


Tratto da "Le 120 Giornate di Sodoma" del Marchese De Sade; nel 1944, a Salò, quattro potenti, un Duca (Paolo Bonacelli), un Magistrato (Umberto Quintavalle), un Presidente (Aldo Valletti) ed un Vescovo (Giorgio Cataldi), siglano un accordo: sposare le reciproche figlie per rinsaldare il proprio potere e ritirarsi in una villa di Marzabotto per dedicarsi ai piaceri più bassi e lascivi; sequestrati nove ragazzi e nove ragazze (due dei quali moriranno nei primissimi minuti) tutti di umili origini, aiutati da quattro repubblichini coartati tra gli strati più bassi della società, quattro giovani fascisti e quattro megere (tutte ex prostitute), i quattro si abbandonano a riti orgiastici e sadici verso i giovani, senza remore né limiti.


Abbandonato ogni compromesso estetico e visivo, Pasolini crea la sua opera più esplicita e violenta, ancora più cristallina nelle metafore rispetto ai quattro film del Ciclo del Mito, un puro impeto di rabbia in immagini. "Salò" è l'inferno in Terra; la Trilogia della Vita si era conclusa appena un anno prima, con il trionfo della gioia e dell'amore nel finale dello splendido "Il Fiore delle Mille e una Notte"; ora comincia la (purtroppo mai completata) Trilogia della Morte, di cui "Salò" è al contempo prologo ed epilogo. Non vi è gioia nel sesso, non vi è esaltazione nella carnalità: il corpo diviene il supremo strumento di tortura, perfetto mezzo per infliggere dolore e ricevere piacere. La divisione tra vittime e carnefici è netta: da un lato i quattro potenti, simboli di una classe dirigente pronta a tutto pur di soddisfare le sue voglie; dall'altra i giovani figli del "quarto stato" e dei Partigiani (ossia di coloro che si sono ribellati allo status quo), pura carne da macello da schernire e divorare; in mezzo vi sono tre categorie di figure ancillari al potere: i giovani repubblichini e le camice nere, che si accompagnano spontaneamente ai potenti ricoprendo a seconda dei casi il ruolo di carnefice o partner sessuale, e le megere, le "donne del potere" che dilettano gli uomini con le storie delle loro passate esperienze.


Con Pasolini lo stupro del potere diviene una cerimonia sacrale; una volta entrati nella villa assieme ai personaggi si assiste ad un serie infinita di riti parareligiosi volti all'esasperazione della carnalità più brutale e deviata; la sottomissione sessuale viene perpetrata mediante una serie di rituali precisi e coreografati come una messa blasfema, foriera di una numerologia precisa; il numero 4, emblema dei primi quattro gironi infernali del primo cerchio, dedicato agli "incontinenti" nell' "Inferno" di Dante, ritorna più volte nella pellicola: 4 sono i capitoli in cui è diviso il film (un "antinferno" e tre gironi), 120 giorni, ossia 4 mesi, è la durata del soggiorno a Marzabotto, 4 sono i simboli del potere, 4 sono le meretrici che gli accompagnano, 4 sono i giovani repubblichini e i giovani fascisti, 4 sono le serve nude che presiedono ai banchetti e 16 (ossia 4x4) sono le giovani vittime sacrificali. La cerimonia si svolge secondo un rito preciso: nella "sala delle orge" una megera per ogni girone racconta una serie di rivoltanti episodi che l'hanno vista protagonista in gioventù, al fine di risvegliare i sensi dei padroni; durante il racconto questi possono liberamente abusare di qualsiasi vittima, a prescindere dal loro sesso; durante i pasti, nel refettorio, serve e vittime sono alla mercè, sessuale e non, dei signori e dei loro aiutanti; nell' "ultima stanza" si svolgono i riti più feroci e blasfemi: i matrimoni parodistici, la gara di deretani e la degradazione dell'essere umano a forma animale; nel cortile antistante la villa, in ultimo, si svolge il rituale definitivo: il massacro della carne da macello per la soddisfazione definitva della libidine più depravata. Quella di "Salò" è in fondo la descrizione di lungo rito satanico, una cerimonia volta a parodizzare l'effetto del potere sulle masse per esplicitarne la carica distruttiva e lo scandalo in esso intrinseco: un potere che non conosce limiti, che non tollera ciò che vi si può opporre e che distrugge tutto per l'appagamento di sé stesso.


E se il potere è prevaricazione; la sodomia e la sottomissione sessuale divengono emblemi di una classe dirigente che crea regole (il regolamento letto all'ingresso della villa) volte a disciplinare la convivenza civile (il soggiorno a Marzabotto) di un numero preciso di persone, che in realtà altro non sono se non un giogo con il quale avvinghiare i più deboli; la supremazia del più forte (il più agiato) sul più indifeso (i meno abbienti) si esplicita nella trasformazione in giocattolo sessuale; supremazia non squisitamente gerontocratica: anche tra i carnefici vi sono giovani, pronti a sostituire i loro maestri/padroni nel finale; quella di Pasolini è in realtà un'accusa universale, non strettamente circoscritta all'Italia fascista, per quanto ad essa perfettamente calzante: è la società stessa ad essere marcia, corrotta fin nelle fondamenta, a prescindere da chi sia al potere; e non per nulla, è la società italiana degli anni '70 ad aver ispirato la profonda sfiducia che l'autore vive nei suoi ultimi mesi di vita: un paese ormai sociologicamente al collasso, dimentico di valori umani o morali, nel quale la massificazione consumistica sta trasformando le persone in oggetti tramite un processo ancora più disumano rispetto a quello del decennio precedente, del famoso"boom economico" descritto sarcasticamente in "Uccellacci e Uccellini" (1966); e non per nulla, la Democrazia Cristiana allora ancora saldamente al potere altro non era se non un'ideale riproposizione di quella stessa classe dirigente che aveva creato la vera Salò, fatta di vecchi fascisti sotto mentite spoglie, grossi imprenditori senza scrupoli, vecchi nobili viscidamente attaccati al potere e chierici collusi con lo Stato.


In tale ottica, la villa diviene ideale cartina di tornasole dell'Italia tutta, governata da un gruppo di fanatici volti all'autocompiacimento le cui atrocità sono accompagnate da battute di scherno e barzellette innocue che ne accentuano la cattiveria; tra di loro non vi è spazio per i sentimenti, se non che per quelli di rabbia e libidine; i quattro "signori della villa" sono dei cani feroci pronti a sbranare le loro vittime e dedite al culto della depravazione; una depravazione che trova tre forme, racchiuse in tre gironi ideali contraltari di quelli danteschi.

 

L'introduzione è l'"Antinferno", prologo girato in esterni e con camera a mano, sulla scorta di un ritrovato gusto neorealista; il contratto tra i potenti viene siglato, viene celebrato il rituale delle nozze incestuose, i repubblichini che affiancheranno i potenti sono raccolti per le campagne e, dal canto loro, si concedono volentieri ai loro signori; le giovani vittime vengono scelte come carne dal macellaio: rapite dalle loro famiglie e denudate di fronte ai padroni per saggiarne la costituzione e la bellezza. All'arrivo alla villa viene letto il regolamento: essi esistono solo per soddisare le loro voglie, qualsiasi violazione delle regole (compreso il recitare le preghiere) sarà punito con la morte immediata. Le regole sono fissate, le portate del "banchetto" pronte all'uso; non vi è spazio per i dissidenti: chi si rifiuta di sottostare alle regole o cerca di fuggire viene fucilato; l'atto della preghiera, inteso come esplicitazione della forza dello spirito, viene represso: le vittime non hanno anima, sono pura carne da consumo; la negazione di tale status è affermazione di una qualità che il potere non riconosce e per questo deve essere annientato, negato tramite la morte fisica di colui che lo afferma.


Il "Girone delle Manie", introdotto dai racconti della sig.ra Vaccari (Helene Surgere), apre i giochi; si entra nella villa: da qui in poi la messa in scena si fa estrema quanto le immagini mostrate; la pittoricità da sempre propria delle inquadrature pasoliniane qui si fa ancora più plastica e profonda; volti e corpi divengono quadri in movimento, in un tripudio di forme ipnotiche, espressione perfetta della ritualità della carne che in esse vi si consuma. In tale girone rientrano tutte le stramberie più folli ed atroci; i giovani divengono trastulli per la masturbazione, cani a cui viene lanciato il cibo, corpi nudi da frustare alla prima disobbedienza; il cibo che viene loro lanciato serve a sottolinearne la natura animalesca, di bracchetti da compagnia; e lo scherzo dei chiodi nella polenta (una delle scene più genuinamente disturbanti mai concepite), uno scherzo volto alla sottomissione totale; durante il pranzo, una delle camicie nere sodomizza una serva per il puro piacere e a sua volta viene usato come strumento di piacere da parte del Presidente: la sodomizzazione è forma di affermazione della superiorità da parte di chi fa le veci potere, ma anche piacere per chi quel potere lo detiene; il sacramento del matrimonio, fondamento della società stessa, viene schernito in una cerimonia blasfema, nella quale due vittime vengono fatte sposare, ma la cui consumazione viene sottratta dai padroni, riproposizione in chiave moderna dello "Ius Prime Noctis" medioevale: nella privazione dell'autonomia del coito, il potere trova la sua forma più viscerale e scellerata.


Secondo girone, "Girone della Merda", introdotto dai racconti della sig.ra Maggi (Elsa de Giorgi): la coprofagia come sinonimo di una società che si cannibalizza; la classe dirigente produce escrementi, il popolo si ciba di questi escrementi; la merda diviene cibo e motore unico dell'intera civiltà; il dominio del corpo diviene dominio dell'intera funzione biologica: i ragazzi sono chiamati a defecare a comando; il deretano stesso diviene oggetto di culto: viene istituita una gara per scoprire chi ha il culo più bello; il premio è la morte: non la morte istantanea, ché sarebbe liberazione dalle sofferenze, ma la morte infinita, volta alla distruzione totale dell'individuo nella reiterazione della sofferenza inflitta. La deviazione verso la coprofagia è suprema forma di umiliazione ed assoggettamento: le vittime devono mangiare feci assieme ai loro padroni; viene celebrato un secondo matrimonio: il Presidente sposa una ragazzo e lo forza a cibarsi di feci, il nutrimento ideale per la prima notte di nozze; l'unione è qui sopraffazione, nonchè comunione basata sull'escremento, ossia sullo scarto più inutile.


Ultimo girone, "Girone del Sangue", accompagnato da un'unica storia narrata dalla sig.ra Castelli (Caterina Borrato): il sadismo come forma definitiva di oppressione; il girone si apre con un terzo (ed ultimo) matrimonio blasfemo, celebrato dal Vescovo e che vede l'unione dei tre padroni con altrettante camice nere; nel "Girone del Sangue" si arriva al castigo definitivo, forma di selezione per "scremare" coloro che non sono degni di rientrare a Salò; la tortura è qui l'estrema espressione della sessualità: a turno, ciascun signore si diverte ad infliggere dolore e morte alle vittime colpevoli di aver violato il regolamento; i repubblichini divengono definitivamente i valletti volti al sollazzo di colui che osserva le torture; la società viene scissa in distinte sotto-categorie: dapprima in due parti, con tre carnefici, un gruppo di vittime ed un osservatore che riceve il piacere dalle torture; in secondo luogo anche tra i giovani avviene una divisione: da un lato i penitenti, condannati a soggiornare prima nella merda, poi all'uccisione violenta, dall'altro coloro che saranno salvati. La violenza inflitta diviene puro atto sessuale, la cui ferocia divide anche gli ultimi: colti in flagranza durante atti amorosi o minacciati di morte per il semplice fatto di possedere una fotografia, i ragazzi si vendono a vicenda al Vescovo, espressione di una religiosità deviata verso il puro potere, ossia verso la sopraffazione delle folle e dunque perfetto "primo carnefice"; l'unico a resistere è un ragazzo colpevole di aver copulato con la serva di colore: simbolo della ribellione politica, esso è l'unico "coraggioso" che non indietreggia dinanzi alla violenza dei padroni, che anzi sfida sollevando il pugno sinistro, simbolo di tutto ciò che va contro l'ideale della maggioranza; unico gesto in grado di intimidire i quattro sadici, viene stroncato in un tripudio di violenza: il potere non può ammettere alcuna differenza, ogni dissenso va distrutto.
Immersi tra le feci, i penitenti invocano invano l'aiuto di Dio: non vi è salvezza in un mondo privo di ideali, non c'è un Dio pronto a salvare gli innocenti; tutto quello che resta è carne sminuzzata, occhi strappati e lingue mozzate.


Nella totale mancanza di speranza, nella negazione ultima e definitiva di una qualsiasi forma di salvezza o penitenza volta al riscatto, Pasolini trova il punto definitivo e più spiazzante della sua intera riflessione filosofica; se in "Edipo Re" (1967) le colpe del sovrano non trovavano una redenzione, ma almeno una forma di castigo, in "Teorema" (1968) il pater familias conscio dei suoi peccati si avviava ad un disperato cammino di redenzione e in "Porcile" (1969) vi era una forma di riscatto per una società preistorica che condannava i suoi mostri, nel mondo che preconizza in "Salò" non vi è condanna alcuna per i carnefici, bensì il loro duplice trionfo: da un lato quello sulla nuova generazione di sottoproletari e ribelli, ridotta a carne da macello; dall'altra quello sulla società tutta, con i repubblichini pronti a prenderne le redini una volta plasmatisi a immagine e somiglianza.


Un mondo fatto unicamente di sopraffazione e violenza, quello di "Salò"; un incubo ad occhi aperti oggi più spaventoso di quarant'anni fa; perchè nel mezzo ci sono stati gli anni '80 con la "Milano da Bere", il crollo delle ideologie, la fine degli intellettuali, il berlusconismo feroce e il culto dell'apparenza; la visione di Pasolini si realizza: a partire da meno di cinque anni dalla sua morte, i quattro padroni hanno sottomesso il Paese, colui che si è ribellato è stato ucciso senza remore, la classe dirigente cannibalizza il resto della società civile e tutto quello che si produce e consuma è pura spazzatura.

 

E sarà proprio quella società plasmatasi sulla falsariga dei modelli dei quattro padroni a distruggere per sempre Pier Paolo Pasolini: un gruppo di ragazzi indottrinati dalle ideologie neofasciste e un diciassettenne di strada che vedeva nel sesso e nella violenza le uniche forme di sopravvivenza. E al di là della tristezza e del rimpianto per la sua prematura scomparsa, sorge un dubbio atroce: cosa ne sarebbe stato del grande intellettuale uno volta che questi sarebbe stato "condannato" a vivere in un mondo che è celebrazione delle sue paure più aberranti? Una domanda retorica perchè priva di effettiva risposta; eppure, una forma di (spaventosa) certezza non può non affacciarsi nella mente di chiunque abbia assimilato la sua filosofia: il suo unico destino poteva essere solo il suicidio, l'autodistruzione generata dall'impossibilità di soffrire un mondo oramai privo di ogni forma di morale.

EXTRA

Il film doveva essere inizialmente diretto da Sergio Citti, fratello di Franco e collaboratore di Pasolini fin dal suo esordio; alla scenneggiatura collaborarono, non accreditati, anche Maurizio Costanzo e Pupi Avati, oltre allo stesso Citti.

Ottenuto il visto-censura solo dopo un ricorso in appello, "Salò" venne distribuito in Italia, nei cinema di Milano, a partire dal 10 gennaio 1976; dopo appena tre giorni di programmazione il film fu sequestrato dalla Procura della Repubblica di Milano e il produttore Alberto Grimaldi venne addirittura condannato per direttissima a due mesi di reclusione per il reato di oscenità; Grimaldi fu in seguito assolto in appello e il film tornò nelle sale, in una versione censurata, a partire dal 10 marzo 1977; il successivo 6 giugno, tuttavia, il pretore di Grottaglie ne ordinò di nuovo il sequestro su tutto il territorio nazionale per "offesa verso il comune senso del pudore".

Nel 2006, Giuseppe Bertolucci ha diretto "Pasolini Prossimo Nostro", documentario di circa un ora che ricostruisce il pensiero dell'autore tramite una serie di interviste d'epoca montate sulle splendide foto di scena scattate nel dietro le quinte di "Salò"



A seguito della morte di Pasolini, sulla spiaggia di Ostia, nel punto preciso in cui fu rinvenuto il cadavere, venne eretto un monumento in sua memoria.

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

sabato 2 settembre 2017

«Dove vai mia gioventù? Dove vai mia vita?» - FRATELLO SELVAGGIO PIER PAOLO PASOLINI TRA GIOVENTÙ E NUOVA GIOVENTÙ - Introduzione di Gian Maria Annovi

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





FRATELLO SELVAGGIO
PIER PAOLO PASOLINI TRA GIOVENTÙ E NUOVA GIOVENTÙ
a cura di Gian Maria Annovi 
Transeuropa, 2013


Introduzione di Gian Maria Annovi



«Dove vai mia gioventù? Dove vai mia vita?». 


   Sono le domande che l’Edipo interpretato da Franco Citti, dopo aver appreso il proprio tragico destino dall’oracolo di Delfi, rivolge a se stesso nella versione cinematografia di Pasolini, nella quale il mito si sovrappone apertamente alla biografia dell’autore. Anche per Pasolini, si potrebbe sostenere, la gioventù sembra aver sempre rappresentato un concetto in fuga, mobile, un’idea in cammino, i cui tragitti – proprio come quelli di Edipo nel film – non sono né lineari, né razionali, e anzi procedono spesso all’indietro, nelle zone regressive dell’inconscio. Questo volume, che raccoglie gli interventi di una giornata di studio internazionale promossa dal Comune di Scandiano, si propone di ripercorrere alcuni di questi complessi percorsi e di indagare verso quali conclusioni possa condurre l’analisi di un tema vasto come quello della gioventù nell’ormai studiatissima e commentatissima opera pasoliniana. 

   I giovani non sono solo i protagonisti di romanzi come Ragazzi di vita (1956), Una vita violenta (1959) e Il sogno di una cosa (1962), cui si deve gran parte dell’iniziale successo pasoliniano tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, ma lo stesso termine “gioventù” compare con una certa importanza e frequenza in tutta l’opera di Pasolini. Il caso forse più eclatante resta ovviamente quello della raccolta poetica del 1954, La meglio gioventù, intitolata così prendendo a prestito il verso di un canto alpino che aveva fatto da ponte tra Prima e Seconda Guerra mondiale, e che curiosamente collega fra loro anche le prime poesie di Pasolini con il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), dove il canto risuona nelle lugubri stanze in cui proprio un gruppo di giovani costituisce il centro di un’atroce metafora del potere nella società neo-capitalista. Come per Edipo, anche nel caso del titolo della raccolta del ’54 la gioventù non è associata a un’epoca di leggera spensieratezza ma piuttosto al momento in cui la tragedia si manifesta sulla scena, al cambio di un paradigma. Se, tramite la citazione di quel titolo, sulla giovinezza si proietta infatti l’ombra funerea della storia, non è solo per le ragioni della personale mito-biografia pasoliniana, ma perché nei primi decenni del Novecento generazioni intere di giovani sono davvero state offerte in pasto al Moloch della guerra. D’altronde, è tutta la storia dei giovani nel secolo scorso ad essere segnata dal senso del conflitto: dalle guerre agli scontri degli anni Sessanta e alla lotta armata del decennio successivo. L’anno di nascita di Pasolini, ad esempio, coincide con l’inizio della storia del ventennio fascista, la cui ideologia ha fatto proprio della gioventù, usata come metafora di cambiamento sociale, uno dei centri focali della propria propaganda, tanto da eleggere il canto Giovinezza a proprio inno.(1)


   Anche Pasolini, fino almeno ai primi anni Quaranta, attraversa una a una le esperienze con cui il regime controlla la gioventù: il GUF, il GIL, i Littoriali della cultura e le redazioni di riviste come «Architrave» e «Il setaccio», su cui pubblica alcuni dei suoi primi interventi.(2) Come testimonia un breve articolo del 1942, Pasolini compie persino un viaggio a Weimar, nella Germania nazista, per incontrare la gioventù universitaria di altri paesi fascisti. Cito l’episodio di questo viaggio giovanile non perché contenga particolari elementi per comprendere il Pasolini successivo, e il suo deciso antifascismo, ma per sottolineare che se l’opera pasoliniana rappresenta al meglio quello che da più parti è stato definito «il secolo dei giovani»(3) è anche perché egli ha davvero attraversato un’Italia in cui i giovani hanno avuto un ruolo di protagonisti, dai campi del Friuli, alle adunate del Ventennio, alle proteste di piazza dei movimenti. Queste realtà giovanili Pasolini le ha insomma conosciute, vissute direttamente e con esse si è anche scontrato e, più spesso, confrontato: basti pensare al film 12 Dicembre (dalla data della strage di Piazza Fontana), nato nel 1972 dalla collaborazione con Lotta Continua, al cui giornale Pasolini presterà – pur non senza criticarne la linea editoriale e politica – la sua firma di direttore responsabile finendo anche sotto processo.(4)


   Il viaggio della gioventù è, nel caso di questo volume, non solo un sintetico percorso nella storia dell’Italia del Novecento, ma anche un itinerario nella giovinezza pasoliniana, che accidentalmente è stata caratterizzata da frequenti spostamenti. Infatti, a causa della professione del padre, Carlo Alberto, un ufficiale di carriera, dopo la nascita di Pier Paolo la famiglia Pasolini si sposta per molti luoghi dell’Italia settentrionale, «da Bologna a Parma, da Parma a Belluno, da Belluno a Conegliano, a Sacile, a Idria, di nuovo a Sacile, a Cremona, a Scandiano…».(5) Proprio a Scandiano, la cittadina emiliana che ha dato i natali a letterati quali Matteo Maria Boiardo e scienziati come Lazzaro Spallanzani, Pasolini trascorre da adolescente circa due anni, dal 24 giugno del 1935 all’11 ottobre del 1937. Sarebbe eccessivo voler fare di questo breve periodo un momento fondamentale nella sua formazione, ma è importante ricordare che è proprio a Reggio Emilia, dove il giovane Pasolini frequenta il ginnasio, che nascono le sue prime amicizie importanti, in particolare quella con Luciano Serra,(6) ampiamente documentata dallo scambio epistolare che i due ragazzi intrattengono negli anni bolognesi dell’università.(7) Credo sia facile comprendere come, accogliendo l’invito dell’amministrazione del Comune di Scandiano a organizzare una giornata di studi su Pasolini in occasione del novantesimo anniversario della sua nascita, non abbia potuto che optare proprio per il tema della gioventù, anche alla luce di una pagina di prosa pasoliniana poco conosciuta, in cui lo scrittore rievoca proprio i giovanili anni scandianesi e l’immagine del «trenino buffo, col tetto rotondo e con delle civettuole terrazzine agli estremi dei vagoni, piccoli, tozzi, in stile liberty» che ogni mattina lo portava da Scandiano a Reggio Emilia: 


Partiva ch’era ormai giorno, e in poco tempo arrivava alla meta, la stazione in stile novecento fascista di Reggio. Inoltre era sempre pieno. Io ero ormai un giovinetto, nel periodo in cui i giovinetti, nell’Italia del Nord, sono brutti e timidi. Facevo la quarta ginnasio. Scrivevo ancora poesie, ma al tavolino, ormai: con una piccola biblioteca appesa al muro. Benché non avessi ancora compiuto quattordici anni, stavo leggendo, con una passione infinita, l’intero Carducci, in quell’edizione dalla copertina rossa e dalle pagine leggerissime e nel tempo stesso robuste, in cui una solida tipografia del principio del secolo aveva impresso i versi in caratteri che erano, per definizione, quelli delle poesie, della Poesia. Impazzivo per l’Italia agreste e Barbara, per la classicità dei bovi dalle corna lunate del Clitunno, umile e grandiose: provavo per quel mondo gli stessi spasimi che provavo per i primi corpi di cui mi innamoravo. Il trenino di Scandiano fu infatti teatro di amori e di relazioni sociali. Ricordo come al primo viaggio, al primo giorno di scuola, mio padre, accompagnandomi volle presentarmi a degli altri studenti, per introdurmi nell’ambiente. Io morivo di timidezza. Odiavo quella forma così scoperta, e quasi impudica, di rendere l’inizio di un episodio della mia vita simile all’inizio di un episodio da romanzo, precostituito e socializzato. Inoltre mi atterriva in quel gruppo di habitué la loro competenza su un fatto che per me era completamente nuovo: l’essere del posto, di Scandiano, e il conoscere quel treno, con tutte le sue abitudini.(8)

  Proprio in quanto ricordo, e non pagina di diario, queste righe non sono tanto la testimonianza del Pasolini «giovinetto», il cui ritratto psicologico-culturale non può più essere ricostruito direttamente (le sue prime lettere sopravvissute, ad esempio, risalgono al ’40-41), ma offrono piuttosto un’immagine abbastanza chiara del Pasolini già maturo, che ha ormai ben definito non solo i temi e problemi della propria opera, ma che è anche già divenuto espertissimo nell’orchestrare e costruire come un’opera letteraria la propria immagine di autore (ne è indice l’espressione «un episodio da romanzo», impiegata non a caso anche nell’autobiografia in versi intitolata Poeta delle ceneri),(9) in cui anche il rapporto con i giovani e la gioventù gioca un ruolo non trascurabile. 


   Nel brano che ho riportato ciò che colpisce è soprattutto la doppia dichiarazione d’amore per l’Italia rurale (filtrata dall’esperienza estetica della poesia di Carducci), e quella per i primi corpi di cui il giovane Pasolini s’innamora. Sappiamo bene, anche alla luce delle pagine dei diari,(10) che tali corpi sono quelli di ragazzetti «rozzi»,(11) in particolare quelli dei giovani contadini friulani, cui sono dedicati versi, pagine di prosa e persino ritratti. È su un aggettivo, però, che occorre brevemente soffermarsi: «umile». Impiegato qui per descrivere le corna degli armenti nelle poesie carducciane, e dunque metonimicamente l’idealizzato mondo contadino, proprio questo aggettivo rappresenta il senhal del complesso intreccio tra il mondo rurale e l’eros pasoliniano. Infatti, così come è «umile» l’Italia che – via Dante – dà il titolo a una delle poesie più celebri de Le ceneri di Gramsci (1957), lo stesso aggettivo serve, nelle poesie, nelle prose, ma anche nel cinema, come testimonia la descrizione di Ettore nella sceneggiatura di Mamma Roma («corpo di adolescente, bruno, umile e agile»),(12) a caratterizzare l’aspetto fisico e la vita degli adolescenti estranei al mondo piccolo borghese: «Borghi del settentrione, dove / dal ragazzo con fierezza / e allegra umiltà nasce il giovane, / e vive la sua giovinezza».(13) E ancora, è «umile» il fratello-Gramsci, nella poesia eponima della raccolta del 1957, nella quale Pasolini non solo dichiara il proprio irregolare marxismo, ma indirettamente rende esplicita anche la propria avversione per ogni figura paterna, in un celebre verso che definisce l’autore dei Quaderni, «non padre, ma umile fratello».(14) 


   Come già aveva avuto modo di ricordare Gianfranco Contini, Pasolini è stato un «grande odiatore del padre»(15) e la sua difficoltà nel rapportarsi con la figura paterna emerge anche nel ricordo scandianese (dove è proprio «odiavo» il verbo riferito a Carlo Alberto). Il manifesto desiderio di aggirare, sostituendo “padre” con “fratello”, le complicazioni edipiche nel verso de Le ceneri di Gramsci ha ispirato anche il titolo di questo volume. Fratello selvaggio, infatti, attraverso una simile sostituzione operata sul titolo del trattamento cinematografico Il padre selvaggio (scritto intorno al 1962 ma mai sviluppato), si propone come un invito a non considerare Pasolini come un padre castrante, una rigida figura di cultura, ma piuttosto come un fratello con il quale confrontarsi. D’altra parte, e i saggi raccolti in questo volume ne danno particolare testimonianza, Pasolini ha sempre rigettato ogni ruolo di padre simbolico, esigendo un contatto fraterno,(16) seppur da irruento fratello maggiore, con le generazioni più giovani, anche quando negli anni Settanta i ragazzi gli apparivano come «infelici fantasmi»,(17) senza più alcun contatto con il vagheggiato umile mondo contadino. È proprio per sfuggire a questi fantasmi che Pasolini si lancia in una ben nota fuga contro il tempo, all’inseguimento del proprio ideale di gioventù, dal Friuli alle borgate romane dei vari Riccetti e da queste ai paesi del Terzo mondo, in particolare l’Africa, in cui, fino almeno all’Abiura dalla Trilogia della vita (1975), crede di poter ritrovare l’incarnazione del proprio mito popolare e dunque anche l’immagine di una gioventù non ancora omologata dal potere dei consumi. 

   Nel Padre selvaggio, l’insegnante bianco che giunge in una povera scuola del Congo (una figura dietro la quale non è difficile scorgere proprio il Pasolini pedagogo), sembra sin dall’inizio attirato da un istintivo senso di fratellanza, contrapposto all’ordine paterno che gli imporrebbe il suo ruolo di educatore. Ecco le prime righe di quel testo: 


Attraverso uno spiazzo di capanne, di mogani, l’insegnante arriva alla scuola. È il primo giorno. Tremore, voce interna che parla, ecc. Sente delle grida: «Fratello, fratello!», è così che si chiamano i ragazzi giocando a pallone in un prato funebremente rosa davanti alle baracche della scuola. L’insegnante sta ad ascoltare quei ragazzi che giocando con goffaggine di contadini, si chiedono il pallone gridandosi: «Fratello, fratello!».(18) 


   Il grido «Fratello, fratello!» fa da leitmotiv all’intera vicenda (una serrata critica al conformismo colonialista) e l’immagine dei ragazzi che giocano a calcio in un prato polveroso, non a caso paragonati a «contadini», si ritrovano anche nelle poesie romane, nei film, ma anche in alcune celebri fotografie di Federico Garolla che vedono un Pasolini calciatore insieme ai ragazzi delle borgate. Se credo non ci siano dubbi sul significato attribuito al termine “fratello” nel titolo di questa raccolta di saggi, è bene chiarirsi anche sull’aggettivo che lo connota: “selvaggio”. 

   In un’intervista a Luigi Biabonte, Pasolini ricorda che nel suo trattamento il termine selvaggio è usato nel senso nobile, a indicare qualcosa di «antico», di primitivo.(19) Ben lontani dal quel significato, con selvaggio s’intende qui qualcuno incapace di sottostare a regole condivise, fuori dagli schemi, perché ancora oggi, a quasi quarant’anni dalla sua morte, non è possibile avere un rapporto pacificato con Pasolini, fratello maggiore capace ancora di metterci in crisi, di pungolarci e dunque di farci pensare. D’altra parte l’immagine che Pasolini ha dei giovani è satura – come tutto nella sua vicenda umana e intellettuale – di contraddizioni, e oscilla tra la norma e la sua continua eversione. Lo prova anche questo breve brano in cui Pasolini si osserva, ragazzino, attraverso una fotografia ingiallita:


Rivedo una fotografia del ’29, in cui io con un vestito a righe marrone e bianche, compaio sul balcone della Canonica, insieme a una trentina di fanciulli, miei compagni di classe. […] so assai bene cos’era quel ragazzino: era, mitologicamente, qualcosa come un incrocio fra Catone e un piccolo Belzebù.(20)  

   Catone e Belzebù. Come a dire purezza e peccato. Ideologia e passione. La lista delle ben conosciute dicotomie pasoliniane che si presentano anche affrontando il tema della gioventù è pressoché infinita. Gli interventi raccolti in questo volume non hanno dunque alcuna pretesa di esaurire un tema tanto vasto, ma piuttosto di fornire una mappatura dei vari, possibili percorsi cui si accennava all’inizio e qui sommariamente accennati.


   Ad aprire la raccolta sono due saggi dedicati a figure di giovani che hanno segnato in maniera nettissima la vita e l’opera di Pasolini. Nel primo, Marco Antonio Bazzocchi dedica un’attenta analisi al ruolo di Ninetto Davoli, giovane non facilmente catalogabile nel  suo sistema erotico ed estetico. Secondo Bazzocchi ciò si deve al fatto che in tutti i film cui Ninetto prende parte, da Uccellacci e uccellini a Il fiore delle Mille e una notte, egli non raggiunge mai la compiutezza del personaggio ma resta sempre Ninetto. La sua funzione principale parrebbe infatti quella di togliere completezza alla finzione artistica mettendo in contatto i vari piani del reale. Se Ninetto rappresenta il nesso tra gioventù e vitalità, il fratello più giovane di Pasolini, Guido, ucciso appena ventenne durante la Resistenza in uno scontro tra gruppi partigiani, rappresenta il contatto con la morte. Per Hervé Joubert-Laurencin, che dedica il suo saggio proprio alla presenza del fantasma di Guido nell’opera pasoliniana, non basta considerare il fratello caduto come l’elemento di una mitologia personale che fissa in maniera definitiva il rapporto di Pasolini con la gioventù. Attraverso un serrato parallelo tra l’opera e l’esperienza biografica del filosofo Gilles Deleuze, lo studioso francese mostra invece come il fantasma di Guido costituisca solo uno dei molti elementi nel complesso processo d’individuazione dello scrittore. 

   Se i primi due interventi affrontano il tema della gioventù da una prospettiva parzialmente biografica, Franco Zabagli fornisce un’elegante quanto avvincente lettura stilistica dei motivi e delle figure della giovinezza nelle poesie friulane. In particolare, la sua riflessione si sofferma sulla fenomenologia narcisistica pasoliniana nel passaggio tra La meglio gioventù e la sua riscrittura in negativo del 1973, rintracciando anche inediti elementi di continuità tra le figure fanciullesche in Pasolini e Pascoli. Anche l’intervento di chi scrive questa introduzione prende avvio dagli anni friulani, tracciando però un parallelo tra le prose e le poesie di quel periodo e l’esperienza coeva della pittura, nello specifico la pratica del dell’autoritratto, tramite la quale Pasolini sembra fissare un’immagine di sé eternamente giovanile, che offre un’opportunità per ripercorre le tappe della sua relazione con la diverse generazioni di ragazzi. 

   I due saggi successivi rappresentano contributi importanti per comprendere appieno l’atteggiamento di Pasolini rispetto ai movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta. La tesi sostenuta da Simona Bondavalli è che per Pasolini la forma perfetta di giovinezza si trova nell’intersezione tra innocenza astorica e ribellione storicamente determinata. Per dare corpo alla propria riflessione la studiosa si concentra principalmente sull’analisi di alcuni temi (la sagra, lo sciopero, la simbologia floreale) nel romanzo Il sogno di una cosa, ambientato negli anni quaranta ma pubblicato nel 1962, quando la cosiddetta “questione giovanile” inizia a occupare le pagine dei quotidiani italiani. Antonio Tricomi offre invece una serratissima critica della controversa posizione di Pasolini sul ’68 studentesco, attraverso la lettura incrociata di due scritti critici dei primi anni Settanta. Tricomi suggerisce di leggere quella di Pasolini come una lettura sostanzialmente gramsciana del movimento studentesco, una rivolta borghese che in quanto tale porta a compimento la distruzione dei codici culturali di origine popolare denunciata da Pasolini già dagli anni Cinquanta. 


   Al cinema pasoliniano sono dedicati gli ultimi interventi del volume. Tomaso Subini, ad esempio, riflette sul rapporto di Pasolini con i giovani registi della Nouvelle Vague francese. La sua analisi, mostra come tale rapporto, caratterizzato da un sentimento insieme di diffidenza e fascinazione, non sia meno problematico di quello stabilito con il mondo giovanile in genere. Se Subini si concentra su un aspetto specifico della cultura cinematografica pasoliniana, Roberto Chiesi presenta invece un ampio panorama delle immagini della giovinezza nell’ultimo Pasolini: dalla figura tragica del giovane fascista cui lo scrittore affida il proprio testamento in La nuova gioventù, all’immagine idealizzata di Gennariello, il protagonista immaginario dell’incompiuto trattatello pedagogico di Lettere luterane, per chiudere con un’approfondita lettura di Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove Pasolini racconta anche la corruzione della gioventù del suo presente. 

    Il romanzo incompiuto Petrolio e una sua recente rilettura offrono infine qualche spunto di riflessione a Gianni Vattimo, che sigilla questo volume con una breve testimonianza in cui discute – non senza spirito polemico – Pasolini in quanto «figura di coscienza». Anche il filosofo conferma a suo modo che Pasolini non ha nulla dell’ingessata, intoccabile immagine del padre culturale, e che la naturale relazione tra lui e chi continua a misurarsi con la sua opera non può che essere quella che si ha con un fratello inquieto, che constantemente provoca, contraddice contraddicendosi, interroga, ma soprattutto spinge a metterlo in discussione, a pensarlo in maniera sempre nuova.

Note:

(1). Cfr. Luisa Passerini, Youth as a Metaphor of Social Change: Fascist Italy and America in the 1950s, in G. Levi and J.-C. Schmitt (a cura di), A History of Young People in the West, vol. 2, Cambridge, Mass.: Harvard University Press 1997, pp. 283-308.
(2). Cfr. Matteo Ricci, Pasolini e “Il Setaccio”, Bologna: Cappelli 1977 e Davide Ferrari e Gianni Scalia, Pasolini e Bologna, Bologna: Pendragon 1988.
(3). Cfr. Paolo Sorcinelli e Angela Varni (a cura di), Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Roma: Donzelli 2004.
(4). Lotta Continua e Pier Paolo Pasolini, 12 Dicembre, un film e un libro, Rimini: NdA Press 2011.
(5). Pier Paolo Pasolini, Il treno per Casarsa, in Poesie e pagine ritrovate, a cura di Andrea Zanzotto e Nico Naldini, Verona: Lato Side 25 1980, p. 163.
(6). Nato a Reggio Emilia nel 1920, Luciano Serra è stato docente di materie letterarie. Poeta e saggista, è considerato tra i maggiori studiosi del Boiardo e dell’Ariosto.
(7). Pier Paolo Pasolini, Lettere agli amici 1941-1945, a cura di Luciano Serra, Parma: Guanda 1976.
(8). Pier Paolo Pasolini, Il treno per Casarsa, cit., pp. 164-165.
(9). Pier Paolo Pasolini, Poeta delle ceneri, Milano: Archinto 2010.
(10). Pier Paolo Pasolini, Dai ‘Quaderni rossi’, in Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, vol. 1, Milano: Mondadori 1998.
(11). Così sono definiti anche i giovani scandianesi, incontrati su quel treno. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Il treno per Casarsa, cit.. p. 165.
(12). Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma, in Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, vol. 1, Milano: Mondadori 2001, p. 162.
(13). Pier Paolo Pasolini, L’umile Italia, in Le poesie, a cura di W. Siti, vol. 1, Milano: Mondadori 2003, p. 800.
(14). Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Le poesie, cit., p. 815.
(15). Cfr. Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, 1946-1961, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano: Mondadori 2003, p. XIX.
(16). Secondo Franco Fortini, l’esigenza di «fraternità» è uno degli elementi «all’origine delle proteste contro la società dei consumi, eterodirezione e mondo repressivo degli adulti», Franco Fortini, Il dissenso e l’autorità, in Questioni di frontiera. Scritti di politica e letteratura 1965-1977, Torino: Einaudi 1977, p. 54.
(17). Pier Paolo Pasolini, Il mio Accattone in TV dopo il genocidio, «Corriere della Sera», 8 ottobre 1975, poi in Lettere luterane, Torino: Einaudi 1975, p. 155.
(18). Pier Paolo Pasolini, Il padre selvaggio, in Per il cinema, vol. 1, cit., p. 267.
(19). Ivi, p. 3052.
(20). Pier Paolo Pasolini, I dispetti, in Poesie e pagine ritrovate, cit., pp. 130-131.


Questo volume nasce dalla giornata di studio internazionale Fratello selvaggio: Pier Paolo Pasolini e i giovani tenutasi presso la Rocca dei Boiardo di Scandiano in data 9 giugno 2012. Desidero ringraziare il Sindaco del Comune di Scandiano, Alessio Mammi e l’Assessore alla Cultura, Giulia Iotti, per aver reso possibile questo evento, e Lorena Mammi dell’Ufficio Cultura per la preziosa assistenza logistica. Un ringraziamento speciale a Graziella Chiarcossi per aver acconsentito alla riproduzione del dipinto di Pasolini Autoritratto col fiore in bocca, conservato presso l’Archivio Contemporaneo del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze. Questo volume non avrebbe visto la luce senza il generoso contributo di General Com Spa e Subeltek Energy Srl, che ringrazio sentitamente nelle persone di Luciano Panciroli e Lorenzo Bacci.



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

lunedì 28 agosto 2017

Alessandro Barbato - Nota per un’antropologia poetica della realtà: P. P. Pasolini tra letteratura, cinema e antropologia.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Alfonso Maria Di Nola e Pasolini


Nota per un’antropologia poetica della realtà: P. P. Pasolini tra letteratura, cinema e antropologia.



“Passavo ore di fronte a una foglia o a una mano
per capirle cioè per valicare il limite o la sutura dove io 
terminavo e cominciava l’altro, la foglia il tronco. 
Non pensavo direttamente a Dio, ma all’Altro, 
cosa molto più importante per me”.

P. P. Pasolini, 
Lettere (1940 – 1954)
Einaudi, Torino 1986.

È ormai un fatto assodato, e il continuo proliferare di studi specialistici in materia ne è la conferma più evidente, che Pier Paolo Pasolini sia stato il più antropologo degli scrittori italiani, tanto che in tempi non sospetti fu lui stesso a invitare i suoi colleghi a dotarsi di quegli strumenti, come appunto l’antropologia e la storia delle religioni, considerati indispensabili per la comprensione di un mondo sempre più complesso e in continua trasformazione:
“Nei miei urti polemici e nelle mie discussioni con gli stessi miei colleghi letterati, viene sempre fuori che essi sono sistematicamente privi di nozioni etnologiche e antropologiche, che io possiedo, né da professionista, né da dilettante, ma da semplice letterato che ha scelto «pour cause» tali letture.”(1)

Alfonso Maria Di Nola e Pasolini
E a ben vedere antropologo Pasolini lo è stato sin dagli esordi. Lo era il suo modo di osservare luoghi e persone, individui e culture, sebbene l’impulso primigenio sia stato sempre, prima di tutto, quello poetico. Il suo, infatti, non era certo, e in origine non poteva esserlo in nessun modo, il rigido piglio dello scienziato o dello specialista in materia, ma forse proprio per questo, egli ha potuto cogliere in maniera assolutamente libera e originale le enormi potenzialità della disciplina; riconducendola, in un certo senso, nel seno di quella dimensione anche letteraria che l’ormai raggiunto pieno riconoscimento accademico le aveva sottratto, respingendo, più o meno apertamente, tali nervature del sapere antropologico in un angolo poco frequentato da chi dell’antropologia aveva fatto il suo mestiere.

Nei racconti giovanili l’inconsapevole inclinazione antropologica, se così possiamo definirla, dello scrittore si può già “odorare” nelle complesse – e raffinatissime - descrizioni della vita contadina, nei suoi tramonti tratteggiati sulle vite campestri, nelle pagine in cui il giovane autore indugia nel racconto dell’andirivieni dei migranti friulani dalle miniere del Belgio scolpendone visi e pose nel dettaglio; nelle atmosfere e nei lampi poetici che ci giungono “da quel lontano Friuli” di cui, oltre a una “topografia sentimentale”, ci ha donato anche una “poetica antropologia” in cui, leirisianamente, si mescolano letteratura ed etnografia.(2) Intense le suggestioni “protoantropologiche” anche nelle pagine dell’incompiuto progetto di romanzo sul mare: in maniera evidentissima nel Coleo di Samo, più sotterranee nell’Operetta marina; estremi di un disegno narrativo complesso e affascinante che, a mio avviso, brilla come una vera e propria gemma nella produzione giovanile dell’autore.(3)
Poi venne Roma e la scoperta di un mondo sottoproletario che irruppe prepotentemente nella sua scrittura: nei saggi linguistici, nelle prose e nei versi in cui quella predisposizione all’indagine sull’Altro divenne sempre più scoperta, più manifesta, più strutturata e, pian piano, accompagnata da letture e da “conquiste intellettuali” che la sostennero e la nutrirono incessantemente. Nei romanzi romani e nei tanti “non finiti” pasoliniani di quegli anni, infatti, la lente di osservazione, prima ancora della scrittura in sé, intreccia squarci lirici intensissimi ad analisi da “antropologia del vicino” che, per quanto “spontanee”, come direbbero i puristi della disciplina, si offrono al lettore quasi come fossero un documento di prima mano di un mondo sommerso eppure vivido nella sua rappresentazione. Il mondo delle borgate romane, oltre a essere indagato nel suo vitalismo duro e fangoso, si propone inizialmente come potente e irrinunciabile forma dell’alterità: quasi fosse l’unico ariete in grado di scardinare il muro e i muri che le convezioni borghesi erigevano tra individuo e individuo, tra il singolo e la società, tra culture particolaristiche e ceto dominante; il quale, intanto, andava modellando un “universo orrendo”, fatto a propria immagine e somiglianza, in cui ogni distinzione era annullata:
La cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è quella di non saper riconoscere altre esperienze vitali che la propria: e di ricondurre tutte le altre esperienze vitali ad una sostanziale analogia con la propria. È una vera offesa che egli compie verso gli altri uomini in condizioni sociali e storiche diverse.”(4)

Alfonso Maria Di Nola e Pasolini
Ben presto, però, le speranze riposte nel sottoproletariato si rivelarono effimere, fonte di una angoscia irrimediabile ed espressa con tinte sempre più fosche. Così “il sogno di una cosa” pasoliniano assume sembianze indiane, africane e mediorientali. Sono gli anni dell’“Africa unica alternativa”: grido pronunciato all’inizio degli anni sessanta e già disperato, lucidamente consapevole di risuonare come un rimbaudiano canto del cigno di fronte al sempre più disinvolto processo di omologazione delle menti e dei corpi di cui Pasolini nelle sue opere seppe dare lungimirante testimonianza. Dall’inizio degli anni Sessanta, inoltre, Pasolini aveva cominciato a viaggiare verso i paesi del cosiddetto Terzo Mondo che per un discreto periodo alimentarono una delle sue stagioni creative più fertili, coinvolgendo tutti i campi in cui si dispiegava la traboccante creatività pasoliniana: scritti e inquadrature in cui l’alterità extraoccidentale è colta e rappresentata nelle sue affinità così come nelle irriducibili differenze che tale forza incarna rispetto all’universo culturale domestico; in piena consonanza, peraltro, con quelli che erano gli insegnamenti e i problemi indagati da quegli intellettuali, come Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni che, per usare una efficace formula coniata più tardi da Pasolini stesso in una entusiastica recensione dell’opera di Alfonso M. Di Nola, Antropologia religiosa, rappresentavano la via italiana all’antropologia e alla storia delle religioni:
[…] si tratta di un vero «Manifesto» che potrebbe aprire, nel nome di De Martino e magari Pettazzoni, la via italiana alla storia delle religioni. Secondo l’autore tale via si configurerebbe in una specie di fusione tra le due scienze distinte costituite appunto dalla storia delle religioni e dell’antropologia: in modo però che l’antropologia abbia una funzione integrante […]”.(5)

Alfonso Maria Di Nola e Pasolini
In tempi non sospetti, dunque, e in misura via via crescente, Pasolini assegnò all’antropologia e alla storia delle religioni quella centralità la cui mancanza proprio oggi, e in modo sempre più accorato, gli antropologi lamentano. E così, in quegli anni per lui così densi di opere e di progetti, tali discipline guadagnano sempre più spazio nei lavori del poeta e dello scrittore, così come del regista e del polemista. Si pensi al ruolo che tale approccio epistemologico riveste nei saggi di linguistica dell’autore, ai versi scritti in occasione della lavorazione di pellicole come “Medea”, che è probabilmente il prodotto più maturo in chiave di dialogo tra grande arte e grande antropologia, densa com’è di ricercate citazioni tratte dalla grande letteratura di settore; a film come “Porcile” e “Teorema”; ai grandiosi progetti incompiuti come “Gli Appunti per un poema del Terzo Mondo”, alla più tarda e ormai celebre riflessione sulla “mutazione antropologica” del “Pasolini corsaro”.
Proprio per questo, sebbene oggi non si fatichi, nemmeno tra gli specialisti del mondo accademico, ad accettare il coté antropologico del cinema pasoliniano che è oggetto di ricerche sempre più approfondite e stimolanti, sarebbe errato e riduttivo ridurre alla sola produzione cinematografica l’utilizzo di un modus operandi che attraversa, come si è accennato sin dalle prime battute, l’intera produzione dell’autore, come peraltro lucidamente rilevato da Teresa Biondi in un suo denso contributo, Lo sguardo antropologico di P. P. Pasolini, pubblicato nel 2006 in «La rivista del documentario», a. I, n. 4 luglio.(6)
Nella voluminosissima e multiforme produzione pasoliniana, talvolta si sarebbe tentati di assegnare all’autore una etichetta che possa in qualche modo fungere da rassicurante griglia interpretativa in grado di sistemare organicamente scritti eterogenei e,in qualche caso, anche distanti esteticamente e concettualmente gli uni dagli altri. Per tale ragione definire Pasolini antropologo, dopo averlo detto poeta, regista, scrittore o polemista, potrebbe essere un comodo escamotage, un modo per tentare di dare un ordine alle cose e alle carte. Ma Pasolini non fu, è chiaro, un antropologo; semmai fu anche antropologo, oltre che poeta, regista, narratore. Detto in una parola, fu un intellettuale nel senso sartriano del termine, quindi non un tuttologo né uno specialista, ma un libero pensatore che nel suo percorso conoscitivo si avventura anche in territori incogniti; rischiando di prendere cantonate, forse, ma riuscendo talvolta a cogliere problemi e questioni che sfuggono agli specialisti, proprio in virtù di tale indipendenza e libertà.(7)
Ed ecco che allora, scorrendo ancora un po’ la già citata recensione pasoliniana all’opera di Alfonso M. Di Nola, si comprende meglio anche il ruolo che gli studi antropologici possono offrire alla ricerca intellettuale ed espressiva di Pasolini e più in generale alla comprensione della realtà, con quest’ultimo che, parafrasando quanto enunciato dallo studioso in apertura alla sua opera, afferma:
 “L’insegnamento antropologico ha aiutato a vincere e a vanificare la grave tara eurocentrica e, nella fattispecie, la «violenza immorale» (in Italia) del neo – idealismo e del crocianesimo, che portano alla negazione della comprensione di ogni uomo (non occidentale) come portatore di diversità e di alienità.”(8)

Alfonso Maria Di Nola e Pasolini
Quell’alterità che nell’ottica di Pasolini era invece l’ultimo baluardo eretto contro l’omologazione e la mercificazione delle vite e della vita. Un’alterità che è anche quella della Poesia e di ogni grande poeta in una società che della poesia non sa più che farsene, che non ne sente il bisogno né la mancanza. Poesia nell’accezione più alta e nobile del termine e che, probabilmente, così concepita rappresenta il solo, per quanto fragile, collante in grado di rendere se non omogeneo certamente coerente l’intero percorso umano e intellettuale di Pier Paolo Pasolini che, dunque, se in qualche modo ha contribuito al progresso e alla diffusione degli insegnamenti antropologici, non poteva che farlo en poète, per utilizzare una formula cara all’autore. Accettare che Pasolini sia stato anche antropologo e che lo sia stato coniugando il dato antropologico al processo poietico, significa allora aprire la strada all’idea che sia possibile una antropologia poetica della realtà; ipotesi che certamente farà rabbrividire la quasi totalità degli studiosi impegnati nella ricerca antropologica e storico religiosa, ma che al di là della ormai sempre più sterile difesa dei confini epistemologici della disciplina e degli steccati accademici, rappresenta forse uno dei molteplici orizzonti d’azione intellettuale di cui Pier Paolo Pasolini fu tra i precursori.
Ed ecco perché, nella sua incessante, quasi eroica volontà di comprendere il mutamento e proprio mentre lamenta la crisi che affliggeva il mondo intellettuale - preludio dell’odierna eclissi degli intellettuali dal dibattito politico e culturale, a meno che non si vogliano considerare tali, figure che hanno più a che fare con l’avanspettacolo da salotto televisivo o con il chiacchiericcio da uso compulsivo dei social network- , Pasolini bacchettava i suoi colleghi per delle lacune evidentemente inaccettabili per chi come lui aveva deciso di gettare concretamente il suo “corpo nella lotta”, nello sforzo impari di offrire una concreta alternativa al decadente spettacolo di un mondo cieco nei confronti di ogni altra possibilità, che non sia quella borghese, di essere uomini in società.
 
Alessandro Barbato

Note:


1) Si tratta di un estratto dalla recensione all’opera dello storico delle religioni Mircea Eliade Mito e Realtà, pubblicata nell’agosto del 1974 su «Tempo», poi in Id., Descrizioni di descrizioni, oggi in P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude con un saggio di C. Segre, Mondadori, Milano 1999, tomo II, p. 2116. 

2) Il riferimento è alle deliziose prose giovanili racchiuse nel volume, curato da Nico Naldini, P. P. Pasolini, Un paese di temporali e di primule, Guanda, Milano 1993. 

3) Coleo di Samo e Operetta Marina sono stati pubblicati, uno dietro l’altro e riuniti con il titolo Frammenti per un romanzo del Mare, a cura di Walter Siti in P. P. Pasolini, Romanzi e Racconti, tomo I (1946-1961), Mondadori, Milano 1998, pp. 337-420.

4) P. P. Pasolini, Intervento sul discorso libero indiretto, in «Paragone», a. XV, n. 184, giugno 1965, poi in Id., Empirismo eretico, ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., tomo I, p. 1360. 

5) P. P. Pasolini, Quando il grande Iddio si mette a ridere (Alfonso M. Di Nola, Antropologia religiosa – Paul Arnold, Viaggio fra i mistici del Giappone, in «Tempo», 27 settembre 1974, poi in Id., Descrizioni di descrizioni, ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., tomo II, p. 2135. 

6) l contributo in questione, grazie al prezioso ed erudito lavoro dell’infaticabile Bruno Esposito, è pubblicato anche qui, sul Blog, alla data del 6 settembre 2014. 

7) Cfr.: J. P. Sartre, Apologia degli intellettuali, 1972. 

8) P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., tomo II, p. 2135.




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi