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venerdì 28 luglio 2017

Pasolini, Eduardo e Napoli - "Caro Eduardo giriamo un film"

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro







"Caro Eduardo giriamo un film"
Pasolini, Eduardo e Napoli



   Il rapporto tra Napoli e Pasolini è stato profondo e significativo. Tutti ricordano le sue affermazioni a proposito del suo film "Il Decameron" (riprese1970-71, girate in particolare a Napoli, Amalfi, Vesuvio, Ravello, Sorrento, Caserta) quando, paragonando Napoli a una tribù che rifiuta la società consumistica, scrisse: «Ho scelto Napoli perché è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e, così, di lasciarsi morire».
   Affermazione che va capita (se non vogliamo cadere nel sentimentalismo dell'armonia tra la città e una retorica «incontaminata natura») tenendo presente quella semiologia cinematografica pasoliniana che consiste, semplificando all´estremo, nel presentare il cinema come rappresentazione della realtà: «La realtà è un linguaggio». Il cinema rappresenterebbe una parafrasi di un «senso» in grado d´andare oltre i canoni della razionalità.
   Pasolini, attraverso Napoli, affronta una questione, ripresa spesso nei suoi saggi: la crisi sociale di un modello razionalista che ha fondato ogni ideologia di potere e d'opposizione e oggi non è in grado di spiegare l´ampia sintomatologia sovvertitrice dei valori tradizionali. Ma, proprio perché il cinema è linguaggio di realtà, Pasolini nel "Decameron" fotografa Napoli con un'attenzione rara, al di là dell'oleografia.
   Basta pensare all´attenzione maniacale per le location (tra i luoghi meno ovvi ricordiamo Palazzo Penne ai Banchi Nuovi) o all´attenzione posta nella scelta degli attori: nei panni di un pittore giottesco che cerca i volti per i suoi affreschi, Pasolini guarda ed esibisce una galleria di facce che dagli affreschi pompeiani ai quadri di Caravaggio sembrano immutate.
   Quest'attenzione per i luoghi e per i volti viene da lontano. Nel 1963 Pasolini girò un film-inchiesta sulla sessualità, "Comizi d'amore", percorrendo tutta la penisola e chiedendo a persone appartenenti a diversi ceti sociali che cosa ne pensassero dell´erotismo e dell'amore. Ne uscì un inventario di frasi fatte e di luoghi comuni; la parte napoletana, girata nei pressi di Porta Capuana, contiene le risposte più originali e spontanee.
    Il rapporto con Napoli continuò attraverso i suoi attori: con Totò, con il quale realizzò alcuni dei film migliori del grande comico, da "Uccellacci e uccellini" (1966) a "La terra vista dalla Luna" (episodio del film "Le streghe", 1966) a "Che cosa sono le nuvole?" (episodio di "Capriccio all'italiana", 1968). 
   La morte improvvisa vietò a Pasolini di portare a termine i progetti con Eduardo De Filippo: il primo aveva come tema l'Ideologia: «Una cometa (l'Ideologia) trascina dietro a sé un Re Magio (Eduardo), il quale, seguendola, fa esperienza dell´intera realtà», il secondo, da realizzarsi dopo aver girato "Salò" (1975), si sarebbe chiamato "Porno-Teo-Kolossal". Ce ne rimane una lettera, datata 24 settembre 1975, con la quale Pasolini inviava ad Eduardo la sceneggiatura: «Mancano i dialoghi, perché conto molto sulla tua collaborazione. Spero che il film ti piaccia e che tu mi aiuti e m´incoraggi ad affrontare una simile impresa».
   Profonda era la stima di Pasolini per Eduardo. Egli criticava Strehler, Squarzina e la politica culturale dei grandi teatri stabili, basata su grandi spettacoli e manierismi decorativi. Li definiva «una forma di kitsch», mentre gli piaceva molto Eduardo, che «parla l´italiano medio parlato dai napoletani, evitando il mero naturalismo con una convenzione che è purissima lingua teatrale».
   Torniamo al "Decameron", girato a Napoli e in altre località campane, e primo film della "Trilogia della vita", nel quale Pasolini si propose di esaltare i valori innocenti della vitalità sessuale: «In un mondo che è ai limiti della storia, e in un certo senso fuori della storia». Ma questa innocenza è venata di malinconia e la gioia è attraversata da una strana inquietudine. 

    Al termine del film, Pasolini-pittore festeggia l´impresa compiuta, guardando l´affresco (il suo film?) e dice: «Perché realizzare un´opera, quando è così bello sognarla soltanto?». Inoltre la colonna sonora, elaborata con Ennio Morricone, riprende una famosa canzone napoletana, triste e mortuaria, "Fenesta ca lucive", nella quale la natura malinconica e saturnina della napoletanità prende il sopravvento sul vitalismo sessuale programmatico del film.
   Lo stesso era accaduto con "Che cosa sono le nuvole?", che finisce con la morte dei due protagonisti, i burattini Jago (Totò) e Otello (Ninetto Davoli) gettati da un mondezzaro (Modugno, che lo fa cantando) in una discarica. I due si interrogano guardando il cielo: Otello dice: «… e che so' quelle?» «Quelle sono... le nuvole - risponde Jago, e aggiunge - Oh, straziante meravigliosa bellezza del creato!». Ironia sulla morte, preparata da un quadro di Velázquez, "La Venere allo specchio", appeso nella cabina del camioncino di Modugno (è nota la passione per la pittura di Pasolini, allievo di Longhi e pittore egli stesso), che rimanda a "Le parole e le cose" di Foucault, (Milano, Garzanti, 1988). 
   La morte, per Pasolini, aveva un valore speciale, che egli paragonava al montaggio cinematografico, in quanto la morte dà alla vita ciò che il montaggio dà al film, cioè il senso. La vita è «un caos dove tutto può ancora succedere»; la morte, azzerando il divenire, chiarisce ogni azione alla luce di un «mai più modificabile», un «fulmineo montaggio». Si tratta di un concetto molto importante.

Mario Martone
   È bene ribadire il fondamentale vitalismo, non solo culturale, di Pasolini, la sua ansia di portare a compimento opere e progetti che la morte improvvisa ha interrotto. E qui ricorderemo le iniziative dedicate a Pasolini dal Mercadante con la rassegna "Petrolio, 30 anni dopo, Pasolini uno tra noi", ideata e diretta da Mario Martone nel 2003, al quale parteciparono anche altri registi come Antonio Capuano e Giuseppe Bertolucci. "Petrolio" è il titolo dell´ultimo romanzo, incompiuto, di Pier Paolo Pasolini (Einaudi, 1992) del quale lui stesso così ricostruisce la genesi: «Mi sono caduti per caso gli occhi sulla parola «Petrolio» in un articoletto credo dell´"Unità", e solo per aver pensato la parola "Petrolio" come il titolo di un libro mi ha spinto poi a pensare alla trama di tale libro». Nel 2002, il giudice Vincenzo Calia, che stava conducendo l´inchiesta sulla morte del presidente dell´Eni, Enrico Mattei, allegò agli atti della sua istruttoria, alcune pagine di "Petrolio". Cosa sapeva Pasolini sulla morte di Mattei? 
   Lo spettacolo "Idroscalo 93", scritto e diretto dal napoletano Mario Gelardi, inserito all´interno del "Progetto Petrolio", lavorò sui materiali dell´inchiesta, che vede tra i protagonisti Mattei, il giornalista Mauro De Mauro, il generale Dalla Chiesa, esponenti politici come Moro e Fanfani, percorrendo il filo rosso che unisce nomi illustri ai tanti delitti irrisolti che hanno caratterizzato la storia del nostro paese. Sugli stessi materiali è basato anche lo speciale "Blu notte" di Carlo Lucarelli andato in onda su RaiTre.
   Va inoltre segnalato "La voce di Pasolini" di Mario Sesti, un documentario che recupera, attraverso un montaggio di saggi, interviste, articoli e poesie lette dalla voce forte e appassionata di Toni Servillo, l´essenza delle riflessioni provocatorie ed eretiche di Pasolini... Le immagini, quasi in chiave antropologica, mostrano scene di vita quotidiana della società italiana, brani di filmini girati in famiglia, dagli anni del regime fascista ai giorni nostri. Il documentario, in dvd, contiene anche un finale inedito di "Salò". Il ritmo narrativo è spezzato dagli inserimenti della storia di "Porno Teo-Kolossal", il film che avrebbe visto protagonista Eduardo De Filippo e che purtroppo non vedremo mai.

La lettera

   Dopo "Il fiore delle Mille e una notte", Pasolini aveva in mente la realizzazione di alcuni altri progetti cinematografici, tra cui un film su San Paolo, che avrebbe dovuto intitolarsi Bestemmia: "Ho sempre fatto film col sole […] adesso farò un film tutto di pioggia […] Evidentemente, questa mia violenza contro la Chiesa è profondamente religiosa, in quanto accuso san Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione. Io non rivivo il mito di san Paolo, lo distruggo". 
   Un altro progetto, come già ricordato, aveva come tema l'Ideologia: "Una cometa (l'Ideologia) trascina dietro a sé un Re Magio (Pasolini prevedeva per questo ruolo l'interpretazione di Eduardo De Filippo), il quale, seguendola, viaggia a lungo, facendo dunque esperienza dell'intera realtà".  A questo proposito Pasolini scrive a Eduardo la lettera sotto riportata del 24 settembre 1975 con la quale Pasolini - dopo aver girato "Salò" - propone a Eduardo di fare il film, che si sarebbe chiamato "Porno-Teo-Kolossal". 


Roma, 24 settembre 1975 

Caro Eduardo,
eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo.
Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale. 
Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. 
Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa. 
Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa.
Ti abbraccio con affetto, tuo 
Pier Paolo



   Poco più di un mese dopo la lettera che abbiamo appena visto, Pier Paolo Pasolini sarà assassinato a Ostia (2 novembre 1975). Il progetto del film con Eduardo (assieme ad altri lavori come il romanzo "Petrolio" o il film su san Paolo) non sarà purtroppo realizzato. Resta comunque la registrazione trascritta della sceneggiatura che verrà proposta successivamente in altro post dedicato a Eduardo De Filippo. Con Eduardo, Pasolini aveva già lavorato nel 1961, chiedendo agli attori della compagnia De Filippo di doppiare i napoletano di "Accattone". Purtroppo, una seconda volta non c'è mai stata...



Eduardo parla della morte di Pier Paolo Pasolini



Pier Paolo
di Eduardo De Filippo


Non li toccate
quei diciotto sassi
che fanno aiuola
con a capo issata
la ‹‹spalliera›› di Cristo.
I fiori,
sì,
quando saranno secchi,
quelli toglieteli,
ma la ‹‹spalliera››,
povera e sovrana,
e quei diciotto irregolari sassi,
messi a difesa
di una voce altissima,
non li togliete più!
Penserà il vento
a levigarli,
per addolcirne
gli angoli pungenti;
penserà il sole
a renderli cocenti,
arroventati
come il suo pensiero;
cadrà la pioggia
e li farà lucenti,
come la luce
delle sue parole;
penserà la ‹‹spalliera››
a darci ancora
la fede e la speranza
in Cristo povero.
[1975]



   Da: O’ penziero e altre poesie di Eduardo (ed. Einaudi), Pier Paolo è la poesia scritta da Eduardo dopo la morte crudele di Pasolini. I diciotto sassi erano quelli che inizialmente delimitavano, sul terreno dell'Idroscalo di Ostia, il punto esatto in cui fu ritrovato Pier Paolo Pasolini ucciso. Formavano un ovale, a un'estremità del quale era stata piantata una croce sul cui braccio orizzontale era scritto PIER PAOLO PASOLINI. Al posto dei sassi, per dare maggiore solidità e consistenza, vennero poi messi dei mattoni tenuti insieme dalla calce: all'interno venivano posti fiori in memoria del poeta. Attualmente, proprio nello stesso posto, vi è una stele in marmo commemorativa (posta nel 2005), scolpita da Mario Rosati (dopo che in precedenza era stata posta un'altra stele, simile e in cemento, dello stesso autore). L'area, chiamata "Parco Pasolini", dopo essere stata per trent'anni abbandonata a se stessa, essere diventata una discarica a cielo aperto e sede di numerose baracche abusive,  è stata ripulita dei detriti e dei rifiuti ed è ora dotata di tavole in marmo con citazioni pasoliniane che si snodano tra vialetti e panchine; è affidata alla Lipu che ne ha fatto un'oasi protetta e che provvede alla manutenzione del luogo.


Fonte:
"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini
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P.P. Pasolini, Il sostrato mentale - "Il sogno del Centauro. Incontro con Jean Duflot" (1969-1975)

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini a Firenze con il padre


Il sostrato mentale
di Pier Paolo Pasolini
da "Il sogno del Centauro. Incontro con Jean Duflot" (1969-1975)
in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999

  • «In realtà, con il passare del tempo, dopo l’infanzia, l’immagine si è moltiplicata, e insieme con essa il rifiuto si è diversificato: si è mutato in odio trans-storico o metastorico, per cui sono stato indotto a identificare con l’immagine paterna tutti i simboli dell’autorità e dell’ordine, il fascismo, la borghesia… nutro un odio viscerale, profondo, irriducibile, contro la borghesia, la sua sufficienza, la sua volgarità: un odio mitico, o se si preferisce, religioso» (Jean Duflot, "Il sogno del centauro).
  • Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. (Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa)

   Non credo che sarà per il lettore o per lo spettatore un'inno­vazione o una sorpresa se sottolineerò l'importanza assun­ta, nella sua opera, dalla relazione parentale. Ben prima di Edipo re, Lei aveva già espresso nelle sue poesie i senti­menti contraddittori che hanno diviso la sua infanzia?
Pier Paolo Pasolini
con la madre Susanna Colussi
Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentati­va della società italiana: un vero prodotto d'incrocio... un prodotto dell'unità italiana. Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una fa­miglia di contadini friulani che si sono a poco a poco in­nalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano nel ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, ciò che non le impedì affatto di avere ugualmente legami con la Sicilia e con la regione di Roma... Aspetti, non è finita: sin dalla mia più tenera età, hanno fatto di me un nomade. Passavo da un accampamento all'altro, non avevo un focolare stabile. Il tempo di nascere a Bolo­gna... ed ecco che mio padre ci trasferisce a Parma. Poi andammo a Conegliano, a Belluno, a Sacile, Idria, Cre­mona, e in altre città del Nord Italia... La mia infanzia è stata una lunga serie di trasferimenti... Mi riesce estre­mamente difficile parlare di mio padre, delle mie rela­zioni con lui, e persino di quelle che ho potuto avere con mia madre, così come mi pare pressoché impossibile esaurire il tema della mia infanzia in questo nostro dialogo. Lei mi faceva amichevolmente presente, sin dalle prime parole di questa conversazione, che non ve­niva da me in veste di giudice o di psicoanalista. Mi di­spiace quasi che non sia uno psicoanalista, perché, dal canto mio, provo una grande curiosità per questo meto­do d'indagine, e ho letto abbastanza per dubitare di po­ter parlare delle mie relazioni parentali in termini poe­tici, in modo semplice, o anche solo aneddotico. Temo di imitare il linguaggio psicoanalitico senza averne l'effi­cacia...
D
irò semplicemente che ho provato un grande amore per mia madre. La sua «presenza» fisica, il suo modo di essere, di parlare, la sua discrezione e la sua dolcezza soggiogarono tutta la mia infanzia. Sono rimasto convin­to per molto tempo che tutta la mia vita emozionale ed erotica era stata determinata esclusivamente da questa passione eccessiva, che ritenevo addirittura una forma mostruosa dell'amore. Ora ho appena scoperto, molto recentemente, che anche le mie relazioni di amore con mio padre hanno avuto la loro importanza, tutt'altro che irrilevante. Non si tratta quindi solo di rivalità e di odio.

   Fra tutte le immagini del padre che Lei propone, e la cui gerarchia simbolica non è sempre evidente, qual è quella che si avvicina maggiormente alla sua esperienza personale? Quella di Edipo re(immagine del padre ca­stratore)? quella di Teorema (in cui il padre fallito abdica ai suoi diritti)? quella del padre complice di Uccellacci e uccellini, che passa i suoi poteri al figlio insieme alle sue ricette di vita piccolo-borghese? oppure l'ultima, l'imma­gine del padre-figlio che ravvisa in sé il meccanismo di fi­gliazione dell'odio?

Tutte, probabilmente. Ho sempre dedicato a mio pa­dre un amalgama di sentimenti contraddittori. Tutti questi anni, per esempio, mi immaginavo di detestare mio padre, mentre invece probabilmente non era così. In effetti, quello che c'era tra noi due era una sorta di conflitto permanente, in cui non è escluso che abbia po­tuto scambiare l'ostilità con l'odio... Insomma, mentre per mia madre ho avuto un vero amore, che comprende­va tutta la sua persona, per mio padre ho avuto un amo­re parziale, che riguardava unicamente il sesso.

   All'infuori della tensione conflittuale «normale», ine­rente al complesso edipico e che è un dato universale delle relazioni tra genitori e figli, in quali particolari situazioni si esercitava la sua ostilità verso il padre?

[Come dicendo cose sapute a memoria e ripetute mille volte] Bisognerebbe parlare dei motivi di risentimento che formulavo contro di lui, contro ciò che da bambino - con una chiaroveggenza addirittura crudele - rifiutavo in lui di egoistico, di egocentrico, di tirannico, di autori­tario... Rifiuto ingenuo, senza concessioni... ma Lei vede come già questo rifiuto non è privo di ambiguità.
Q
uello che rifiutavo in lui, profondamente, è proba­bile che poi lo abbia rivestito di ragioni ideologiche; mio padre era ufficiale di carriera, e la sua mentalità naziona­listica, il suo stile di uomo di destra gli avevano reso pos­sibile l'accettazione del fascismo, senza troppi problemi di coscienza. Sono queste però spiegazioni a posteriori. In realtà, le relazioni tra i miei genitori erano difficili, forse a causa di una profonda disparità... Ho capito solo di recente che potesse esserci stata all'origine del suo at­teggiamento una difficoltà di stare con mia madre, e ora che lo ricordo meglio, una difficoltà di rapporto, di co­municazione, con chiunque. Ho capito ultimamente che mio padre amava molto mia madre, e che quest'amore eccessivo e imperfettamente espresso, che assumeva del­le forme così possessive e dominatrici, mancava sempli­cemente di reciprocità. Testimone più o meno cosciente di questa cattiva intesa, ho preso probabilmente partito per mia madre come fanno naturalmente tutti i bambini.
L
e dirò qualche cosa che ignoravo più o meno fino a questi ultimi tempi. Qualche cosa di nuovo, che rimette in discussione l'idea che mi ero fatto dell'odio per mio padre. Ultimamente, mentre scrivevo Affabulazione, una pièce che tratta, come Teorema o Edipo re, dei rapporti tra genitori e figli (nella fattispecie, di un rapporto «par­ticolare» tra un padre e suo figlio), mi sono reso conto che tutta questa vita emozionale ed erotica che facevo dipendere dal mio odio avrebbe potuto benissimo spie­garsi, anzitutto, con l'amore per mio padre: un amore che deve probabilmente risalire ai miei due o tre primi anni, senza che possa dare ulteriori precisazioni su que­sto periodo. Poi, mio padre è morto nel 1959. Era torna­to dal Kenya nel '46, da un campo di prigionia.

   Nonostante tutto, Lei gli ha dedicato una raccolta di poesie scritte in dialetto friulano, negli anni '41-42, all'inizio della guerra (Poesie a Casarsa)?

[Fingendo naturalezza nel parlare di cose e tempi di cui è nauseato] Potrebbe benissimo essere interpretato co­me un gesto di sfida, quantomeno un gesto abbastanza complesso e contraddittorio da parte mia, dato che non ignoravo che mio padre non aveva grande stima per il friulano. Anzi. Se vuole, la sua ostilità al friulano di mia madre era un modo di tormentarla, sentendosi spalleg­giato dall'opinione pubblica «universale», nonché dalla conformità con il disprezzo per il dialetto apertamente sfoggiato dai fascisti a quell'epoca. Tutto ciò che veniva dai margini dello Stato fascista, tutto ciò che sfuggiva al suo controllo e rispecchiava una vita particolare, delle li­bertà particolari, era sospetto. Il dialetto era un parlare «inferiore», per riprendere la terminologia sprezzante dei «pensatori» del nazional-socialismo.

   Quest'odio per il padre che Lei proietta attraverso il mito nella sua opera cinematografica, e culmina in Edipo re, lo si ritrova in Affabulazione, questa pièce che ho ap­pena finito di leggere, ma molto più torbido, più ambiguo. L'odio è divenuto lucido, ha acquistato ora la trasparenza di un concetto. Il figlio e il padre conoscono il loro odio, e se ne avvalgono per progredire o per sopravvivere.

Carlo Alberto Pasolini, militare di carriere
e padre di Pier Paolo e di Guido Alberto
Direi che la consapevolezza dell'odio non gli impedi­sce di essere complesso, composito... In realtà, col pas­sare del tempo, dopo l'infanzia, l'immagine si è moltipli­cata, e insieme con essa il rifiuto si è diversificato: si è mutato in odio trans-storico o meta-storico, per cui sono stato indotto a identificare con l'immagine paterna tutti i simboli dell'autorità e dell'ordine, il fascismo, la bor­ghesia... Nutro un odio viscerale, profondo, irriducibile contro la borghesia, la sua sufficienza, la sua volgarità; un odio mitico, o, se preferisce, religioso. [L'ha detta: e ne arrossisce aggressivamente]

   Così che la sublimazione ha assunto naturalmente in Lei la forma della vocazione poetica
.
Difficilmente potrei dirle di no, visto che scrivo poe­sie da quando ho cominciato a scrivere. Prima, fino all'età di quattro o cinque anni, disegnavo molto. A sette anni (in seconda elementare), scrivevo delle piccole poe­sie sulla natura, gli alberi, i fiori, gli uccelli; esprimevo ingenuamente il mio affetto per mia madre. Del resto, fu proprio mia madre, scrivendo una poesia che dedicò a me, a rivelarmi la possibilità di scrivere delle poesie. Mi ricordo un piccolo quaderno di poesie che ho poi smar­rito durante la guerra... e soprattutto le illustrazioni di queste poesie, dato che la mia ambizione era anche di dipingere. Tranne i temi generali che ho detto, non so più che cosa ci fosse in queste poesie. Due parole... cre­do che me ne siano rimaste in mente due parole, rosi­gnolo (deformazione francesizzante e «classicista» di usi­gnolo) e verzura (termine prezioso, inusitato nella lingua parlata), che doveva rappresentare il verde della natura, la vegetazione. Quindi, contrariamente a ciò che sarei stato da uomo, da bambino ero selettivo ed aristocratico linguisticamente: petrarchesco.

   L'ascendenza friulana, dalla parte materna, costituisce un apporto fondamentale alla sua poesia scritta? Quale uso riserva a questo dialetto, quale funzione gli ha attri­buito, esattamente, in tante sue poesie?

Il friulano non è la mia «lingua» materna, e quando di­co che fu il dialetto di mia madre, è per modo di dire, per semplificare la realtà. In effetti, si parlano tre «lingue» in Friuli: il vecchio friulano, che è una lingua completa, au­tonoma, come può essere il catalano o il bretone; il vene­ziano, parlato dalla piccola borghesia; e l'italiano. Io mi sono imbevuto del dialetto friulano in mezzo ai contadi­ni, senza mai però parlarlo veramente a mia volta. L'ho studiato da vicino solo dopo aver iniziato a fare tentativi poetici in questa lingua. Qualcosa come una passione mi­stica, una sorta di felibrismo, mi spingevano ad impadro­nirmi di questa vecchia lingua contadina, alla stregua dei poeti provenzali che scrivevano in dialetto, in un paese dove l'unità della lingua ufficiale si era stabilita da tempi immemorabili. Il gusto di una ricerca arcaica... Avevo di­ciassette anni. Scrivevo queste prime poesie friulane quando era in piena voga l'ermetismo, il cui maestro era Ungaretti. In margine a un certo simbolismo provinciale, Montale si impegnava a continuare poeti come Eliot e Pound; in poche parole, tutti i poeti ermetici vivevano nell'idea che il linguaggio poetico fosse un linguaggio as­soluto. Di qui a chiudersi in un linguaggio riservato alla poesia, precluso a qualsiasi intrusione della prosa, c'è so­lo un passo. Presi molto ingenuamente il partito di essere incomprensibile, e scelsi a questo fine il dialetto friulano. Era per me il massimo dell'ermetismo, dell'oscurità, del rifiuto di comunicare. Invece è successo ciò che non mi aspettavo. La frequentazione di questo dialetto mi diede il gusto della vita e del realismo. Per mezzo del friulano, venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il pro­prio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All'inizio ne ebbi però una visione troppo estetica, fondavo una specie di  piccola accademia di poeti friulani. Col passare del tem­po avrei imparato man mano a usare il dialetto quale stru­mento di ricerca obiettiva, realistica.
E
d è questa ricerca che conduce ai romanzi del 1955 e del 1959, Ragazzi di vita e Una vita violenta; ai film Ac­cattone, Mamma Roma e Uccellacci e uccellini. Il dialet­to romano ha sostituito il friulano, ma la funzione del dia­letto, a livello della scrittura, è sensibilmente cambiata d'allora in poi.

   Nei romanzi che Lei cita, questa funzione si situa all'opposto di quella assunta dal friulano, nella Meglio gioventù (1954) per esempio... L'ermetismo e l'esteti­smo non sono più obiettivi letterari... Il dialetto diventa lo strumento per attuare il discorso libero indiretto, at­traverso cui vivere realisticamente la vita di personaggi appartenenti a un'altra classe sociale.
L'uso permanente del dialetto avrebbe potuto fare di Lei uno scrittore populista, oppure il cantore di uno di quei miracoli custoditi all'interno delle minoranze lingui­stiche. Invece, Lei è passato dal dialetto friulano ad altri dialetti come il «romano», dal linguaggio poetico al lin­guaggio romanzesco, dalla poesia scritta alla poesia «cine­matografica», senza troppo preoccuparsi dell'eclettismo che Le si sarebbe potuto imputare, e nemmeno del perico­lo reale che rappresentava tale mutazione.

Pier Paolo Pasolini con sua madre (1955)
Ho più volte ribadito che il passaggio dalla letteratura al cinema, per esempio, non è altro che un cambiamento di tecnica. Man mano, però, mi son messo a differenziare le tecniche letterarie e cinematografiche. Il linguaggio letterario usato dallo scrittore per scrivere una poesia o un romanzo, o un saggio, costituisce un sistema simboli­co convenzionale: per di più, ogni linguaggio scritto o parlato è definito da una serie di limiti storici, geopolitici o, se preferisce, nazionali (regionali)... Il cinema, invece, è un sistema di segni non simbolici, di segni viventi, di se­gni-oggetti... Il linguaggio cinematografico non esprime quindi la realtà attraverso una serie di simboli linguistici, ma per mezzo della realtà stessa. Non è un linguaggio na­zionale o regionale, bensì trans-nazionale... Torneremo, se vuole, sull'aspetto tecnico del linguaggio cinematogra­fico. Lei mi chiede, in fondo, di spiegare o di giustificare una scelta... Credo che ci siano diverse ragioni serie per questa traslazione. Prima però vorrei precisare che non abbandono né la poesia scritta né l'espressione letteraria.


Vediamo adesso le ragioni di questa modificazione di linguaggio o piuttosto di espressione. Credo di poter di­re ora che scrivere delle poesie o dei romanzi fu per me il mezzo per esprimere il mio rifiuto di una certa realtà italiana, o personale, in un determinato momento della mia esistenza. Ma queste mediazioni poetiche o roman­zesche frapponevano tra la vita e me una sorta di parete simbolica, uno schermo di parole... Ed è li forse la vera tragedia di ogni poeta, di non raggiungere il mondo se non metaforicamente, secondo le regole di una magia in definitiva limitata nel suo modo di impossessarsi del mondo. Già il dialetto era per me il mezzo di un approc­cio più fisico ai contadini, alla terra, e nei romanzi «ro­mani» il dialetto popolare mi offriva lo stesso approccio concreto, e per così dire materiale. Ora, ho scoperto molto presto che l'espressione cinematografica mi offri­va, grazie alla sua analogia sul piano semiologico (ho sempre sognato un'idea cara a vari linguisti, vale a dire una semiologia totale della realtà) con la realtà stessa, la possibilità di raggiungere la vita in modo più completo. Di impossessarmene, di viverla mentre la ricreavo. Il ci­nema mi consente di mantenere il contatto con la realtà, un contatto fisico, carnale, direi addirittura sensuale.

Fonte:

"Pagine corsare", blog dedicato a Pier Paolo Pasolini
Autori e curatori: Angela Molteni, Bruno EspositoManolo Trinci
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giovedì 27 luglio 2017

LETTERA AD ANNA MAGNANI - di Pier Paolo Pasolini - Il Caos

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Biblioteca nazionale centrale - Roma


Lettera ad Anna Magnani
di Pier Paolo Pasolini 
"Tempo"
13 dicembre 1969
Il Caos


Cara Anna,
Biblioteca nazionale centrale - Roma
ricordo un pomeriggio del settembre 1943. C’è il sole, l’odore della campagna calda. Davanti a me vedo la stazione di Casarsa. È stranamente deserta. Deserto il piazzale, deserta la strada bianca e polverosa che va verso San Giovanni. Si sentono delle voci risuonare sui binari su cui è fermo un treno merci: sono voci di soldati tedeschi.  Non so perché io sono lì: è certamente un caso o una pazzia. Ma questo ricordo galleggia solo e staccato da tutto il resto del tempo. Il treno merci di fronte alla stazione di Casarsa è pieno di militari: dentro i vagoni piombati essi stanno in piedi, gremiti, tanto da non poter muoversi. Si sentono i loro lamenti e le loro voci. Arrivano di corsa, non so da dove e da chi chiamati, due o tre carretti, coi cavalli guidati da donne e ragazze. Nei carretti ci sono cesti di frutta e del pane. Le donne allungano la roba da mangiare ai soldati attraverso i piccoli finestrini del treno, da cui sporgono disperate le mani.
Scrivo a te questa lettera perché so del tuo amore per le bestie. Ho letto in questi giorni che dei treni pieni di animali da macello, cavalli o buoi, usano stare fermi per tre o quattro giorni in certe stazioni di confine. Le bestie, gremite dentro i vagoni piombati non mangiano e non bevono: e spesso muoiono.  Anche gli uomini morivano, nei treni merci diretti verso la Germania, e i loro corpi restavano per giorni tra i corpi dei vivi, sugli escrementi. Nella mia fantasia le due immagini quella dei vagoni pieni di uomini e quella dei vagoni pieni di animali – mostruosamente si confondono. lo sono del tutto privo di sentimentalismi nei confronti degli animali: in questo sono insospettabile. Eppure proprio perché ricordo, con una angoscia ch’è rimasta uguale, i martìri che hanno patito allora gli uomini, ho pietà per i martìri che continuano a patire gli animali. Lo so che non c’è nulla da fare. Che tu, che io possiamo commuoverci quanto vogliamo, possiamo protestare quanto vogliamo. Coloro che hanno degli interessi in gioco in quel lugubre traffico di bestie da macello, sono infinitamente più forti di noi, e la vittoria sarà sempre loro. 

Pier Paolo Pasolini
“Tempo”, 13 dicembre 1969

Archivio storico L'Unità


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sabato 1 luglio 2017

Il Vangelo Secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini. - Recensione di Cobra Verde

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Il Vangelo Secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini

Recensione di Cobra Verde

con: Enrique Irazoqui, Margherita Caruso, Susanna Pasolini, Marcello Morante, Mario Socrate, Settimio di Porto, Enrico Maria Salerno, Umberto Bevilacqua, Ninetto Davoli.

Italia , Francia (1964)


Nel 1964 Pier Paolo Pasolini era uno scrittore ed un regista affermato; la cultura "di sinistra" che permeava le sue opere era purgata da ogni stretto riferimento marxista e dogmatico e spesso accostata alla sacralità in modo diretto, come nello splendido finale di "Mamma Roma" (1962); la sua formazione cattolica e il suo sentimento religioso di stampo laico e, anche qui, privo di dogmi e oscurantismi era noto ai più fin dai suoi esordi come editorialista; eppure, l'entrata in produzione de "Il Vangelo Secondo Matteo" fu comunque accompagnata da scandali e sensazionalismi sia sul fronte della classe intellettuale "di sinistra", sia (come prevedibile) negli ambienti cattolici più oltranzisti; quello che gli "intellettuali" dell'epoca non avevano inteso (o non avevano voluto intendere) era la natura strettamente umanitaria della fede del grande autore di origine emiliana; umanità che la rendeva di per sé stessa rivoluzionaria e al contempo fortemente "cattolica", come si evince da ogni singolo fotogramma del suo capolavoro.


Quello di Pasolini è un intento rivoluzionario e al contempo caritatevole: restituire ai popoli la figura di Cristo così come veniva concepita nel Vangelo, prima che la retorica ecclesiastica e borghese, da un lato, e quella marxista, dall'altro, ne traviassero o oscurassero il messaggio "rivoluzionario"; in particolare, Pasolini riprende la figura del Cristo come descritta nella versione di Matteo, ossia quella che presenta un Salvatore più vicino alla sua natura umana che divina, un "Dio fatto uomo" che non rinuncia alla sua natura umana e che anzi la accetta come tale: Gesù è Dio E uomo, e solo l'accettazione di questa sua duplice natura da parte del lettore/spettatore può permettergli di accogliere davvero il suo messaggio di redenzione.


La messa in scena della vita di Cristo diviene l'emblema della lotta per l'emancipazione dei popoli; la figura di Gesù si carica di una componente rivoluzionaria unica (almeno sul grande schermo), così come presentata nelle pagine dei testi sacri; il messaggio evangelico diviene così al contempo testo di fede e invito al risveglio; il messaggio di Gesù, secondo Pasolini, è rivoluzionario fin nel midollo: laddove la società imponeva la violenza e la sopraffazione, egli predicava amore e perdono, laddove la legge del "mos maiorum" tollerava la vendetta di sangue, egli invitava a porgere l'altra guancia; e non per nulla fu l'autore stesso a dichiarare che "mi sembra un'idea un po' strana della Rivoluzione questa per cui la Rivoluzione va fatta a suon di legnate, o dietro le barricate, o col mitra in mano: è un'idea almeno anti-storicistica. Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente 'porgi al nemico l'altra guancia' era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo insostenibile: e infatti l'hanno crocifisso. Non vedo come in questo senso Cristo non debba essere eccepito come Rivoluzionario"; Pasolini, in sostanza, si oppone tramite questa sua visione al concetto "retrogrado" del messaggio evangelico proprio della Chiesa antecedente al Concilio Vaticano II per cui è solo la fede cieca a portare la salvezza al popolo; e al contempo tira uno "schiaffo morale" agli pseudo-rivoluzionari dell'epoca presentandogli il simbolo della società conservatrice che tanto aborriva per quello che era: l'unico vero rivoluzionario della storia. E nel ritrarre il Cristo come un anticonformista, riportandolo alla sua dimensione primigenea e spogliandolo di ogni connotazione conservatrice e "medioevale", Pasolini resta fedele alla sua filosofia e ai temi suoi cari; di fatto, non vi è poi molta differenza tra il Cristo de "Il Vangelo" e qualsiasi altro personaggio della filmografia pasoliniana: anch'egli è un diverso, un estraneo in un mondo ingiusto, il quale anzicchè subirne passivamente le leggi ed assorbirne la corruzione, tenta di cambiarlo in meglio, sacrificando tutto sé stesso per il proprio ideale.


Per la prima volta al cinema la figura di Cristo si riappropria della sua componente sacrale; purgato da ogni velleità agigrafica e ricattatoria, abbandonata la paura per ogni forma di retorica e abbracciata la natura sacrale del testo di origine, Gesù non è più il semplice protagonista di una serie di eventi narrati come un romanzo (come avveniva nei kolossal americani del decennio precedente), ma una figura carismatica, la cui predicazione viene costruita da Pasolini quasi esclusivamente mediante una serie di primi piani dall'espressività sbalorditiva, volti ad eliminare ogni forma di separazione tra il messaggio e lo spettatore, che per la prima volta si ritrova "faccia a faccia" con gli insegnamenti evangelici.


Un Gesù "emancipatore" il cui volto è quello di Enrique Irazoqui, studente di origine iberica e attore non professionista, scelto da Pasolini proprio per quel suo viso "ordinario" (in ossequio ai canoni neorealistici che ancora segue in questa sua fase artistica) perfetto per dare una fisionomia "universale" al Salvatore, ma la cui voce è quella alta e suadente di Enrico Maria Salerno; una voce ferma e forte, perfetta per predicare il messaggio evangelico di salvazione presso la massa, per risvegliarla dal torpore e imprimere per sempre in essa le parole della salvezza. Un Salvatore ritratto anche e soprattutto come uomo: ai miracoli e alla Resurrezione, Pasolini affianca anche gli episodi più "umani" della vita di Gesù, come l'ira contro i mercanti, proto-borghesi che hanno insozzato la casa del Padre con i concetti "luridi" del profitto e dell'affermazione individuale, o come la critica contro i Farisei, coloro che "hanno imbiancato i sepolcri", ossia i sacerdoti rei di aver piegato la parola di Dio ai propri fini, simbolo di una Chiesa corrotta e lontana dai popoli; o ancora e soprattutto il monologo sulla "spada", nel quale il Cristo afferma di non essere venuto sulla Terra per portare la pace, ma per mettere i padri contro figli qualora qualcuno di questi si rifiuti di seguire la parola di Dio. Il Cristo, per Pasolini, è tanto umano quanto divino: redentore e rivoluzinario, Salvatore e al contempo distruttore e proprio per questo messia il cui messaggio di fede e speranza è universale, non conosce barriere ne eccezioni, capace di arrivare a tutti gli uomini grazie ad un'opera di laicizzazione che l'autore affronta n modo certosino, ma privo di qualsiasi carica polemica.


In ossequio allo "spirito dell'ambivalenza", Pasolini mischia anche qui la tradizione neorealista con il suo sincero amore per l'arte neoclassica; la pittoricità delle inquadrature raggiunge qui l'apice: la Terra Santa, ricstruita tra i Sassi di Matera (all'epoca davvero "Terra degli Ultimi") diviene uno sfondo roccioso ed avvolgente, i cui paesaggi duri incorniciano perfettamente la fisicità degli attori non professionisti, tutti doppiati con accenti meridionali; ai volti "umili" l'autore affianca un commento musicale "classico", con arie di Bach e Mozart, raggiungendo vette di liricità unica; la fascinazione del sacro prende così la forma dell'arte classica rivisitata con un occhio moderno e del tutto anticonformista, che non ha paura di osare combinazioni ardite pur di trasformare una storia vista (allora come ora) come retaggio della borghesia capitalista e conservatrice in un messaggio di speranza per l'umanità tutta; e non per nulla, nell'ultima scena, la Resurrezione, Pasolini usa un commento musicale "post-modernista", ibrido di vecchio e nuovo, di sacro e profano: "Gloria", una messa cantata nel quale si mischiano le parole in latino del cerimoniale con il ritmo congolese della musica.

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