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giovedì 14 luglio 2016

Il partigiano di Bandung. Pier Paolo Pasolini e l’alba del mito terzomondista - di Alessandro Barbato

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Il partigiano di Bandung. 
Pier Paolo Pasolini e l’alba del mito terzomondista
di Alessandro Barbato


Chi c’è stato, nei regni della fame,
non può rimpatriare.”
Pier Paolo Pasolini, L’uomo di Bandung, 1964.


È probabilmente più complesso di quello che si crede, oggi, persuadere vecchie e nuove generazioni all’idea che l’Africa, il continente dove gli estremi si congiungono, quello con i più alti tassi di natalità e mortalità, triste teatro di epidemie, guerre civili e massacri; una terra da cui i notiziari fanno rimbalzare lugubri echi di tragedie, attentati e conflitti che ne insanguinano villaggi e comunità con cadenza quasi quotidiana, sia stata, qualche decennio indietro, la culla di quel sogno terzomondista(1) che accese un fuoco, che oggi purtroppo sappiamo essere stato fatuo, di idee e di programmi in una vasta area del mondo intellettuale europeo che proprio verso il Continente nero indirizzava i suoi sogni e le sue speranze di rigenerazione e di realizzazione di quegli ideali di equità e giustizia sociale sorti nel cuore della lotta al mostro nazifascista. Disegni e progetti che già all’alba degli anni Sessanta in Occidente, almeno per i più avveduti, sembravano ormai avviati verso un mesto tramonto, soffocati dalla logica disumana del neocapitalismo da un lato e dalla feroce dittatura sovietica dall’altro e che, proprio per questo, convinse molti a indirizzare il proprio sguardo verso un’Africa allora alle prese con le lotte di liberazione dal giogo coloniale e ancora pericolosamente ondeggiante tra imperialismo occidentale e sovietico e dunque terreno ideale di proseguimento di una lotta che poteva e doveva finire in maniera diversa rispetto alla situazione che si stava delineando in Europa.

Tra gli intellettuali che si distinsero per l’originalità della propria riflessione, ma ahimé ancora poco noto a gran parte del pubblico italiano, almeno a quello non specialistico, va senza dubbio segnalato Michel Leiris: poeta, scrittore e antropologo francese che ha avuto il merito di impostare in maniera sensibilmente differente il ragionamento su quello che era l’apporto che i popoli del cosiddetto Terzo Mondo potevano consegnare a un Occidente pericolosamente lanciato verso un futuro alienante e alienato. Leiris, che dopo aver smascherato l’ingenuità di ogni visione romantica e idealistica dell’Africa nel suo surreale e provocatorio diario di viaggio conosciuto con il titolo di Africa fantasma,(2) non rinunciò a elaborare un suo personale Messaggio dall’Africa(3), frutto di sofferte meditazioni e lente conquiste culturali: 
«Nelle società industrializzate, l’ipertrofia del perfezionamento tecnico comporta una divisione del lavoro esasperata e una ripartizione delle attività umane in sfere nettamente differenziate, con conseguente impossibilità per l’uomo di essere semplicemente se stesso, di essere un uomo integrale: e non un frammento d’uomo […] senza alcuno dei grandi momenti, esemplificati dalle feste africane […] che sono manifestazioni di vita totale (poiché vi sono rappresentati tutti gli aspetti, o quasi, della vita in società), dove l’uomo riesce a soddisfare concretamente quella sete di pienezza che, nelle nostre civiltà può estinguere solo in senso figurato, con la mediazione dell’invenzione poetica. Dobbiamo perciò ammettere che, se abbiamo un evidente vantaggio tecnico sui contadini africani, per altri aspetti sono loro che avrebbero dei punti da darci.»(4) 
Per certi versi è sorprendente constatare come già nel 1948, dunque con considerevole anticipo rispetto alle tesi di Herbert Marcuse e del suo, ormai classico, L’uomo a una dimensione (1964), Leiris, sebbene con un’altra terminologia, parli di “unidimensionalità” dell’uomo occidentale indicandola come il sommo pericolo che insidiava la società moderna, ovvero quello di vedere azzerata e ridotta a un solo aspetto la complessità dell’essere umano. Un rischio su cui occorreva mobilitare le coscienze e che agiva da forza motrice rispetto a un impegno intellettuale che si proponeva di cogliere dalle società “altre” quegli spunti in grado di ridestare l’Occidente dal suo sogno di dominio tecnocratico prima che lo stesso assumesse i contorni dell’incubo disperato.

Poeta e intellettuale decisamente immerso nella Storia e nel mondo, Pier Paolo Pasolini non poteva esimersi dall’esporre la propria visione su una materia così affascinante e discussa. Certo, in Italia il dibattito sul terzomondismo non fu così sviluppato e ampio come nella Francia di Leiris, e questo per evidenti ragioni storiche e culturali, tuttavia l’attenzione e la passione che Pasolini aveva riversato sull’universo contadino in procinto di eclissarsi, la profonda caratura civile e politica della sua lente di osservazione sulla realtà infuocata di quegli anni, non potevano non condurlo nel seno di una tematica che finì per appassionarlo e coinvolgerlo in maniera durevole durante tutto il corso del decennio più fecondo della sua attività artistica e intellettuale. Nel corso degli anni Sessanta, infatti, Pasolini ha dedicato numerose opere e interventi all’Africa post-coloniale e, più in generale, al Terzo Mondo, opere che risultano essere tra i suoi lavori più convincenti sia sul piano estetico sia per quel che riguarda gli impulsi che sono in grado di trasmettere ancora oggi.

Chiariamo subito che l’Africa anche per Pasolini, in continuità con quanto affermato in apertura del presente contributo, sembra indicare una sorta di allargamento di orizzonte rispetto ai temi già sviluppati in precedenza tanto nell’opera scritta quanto in quella filmata. Allargamento che proprio in quanto tale non coincide pedissequamente con la riproposizione di «un discorso ormai esaurito», come vorrebbe il pur acuto Ferrero(5), ma al contrario risponde all’esigenza, questa sì non nuova, di essere il cantore di una civiltà in atto di eclissarsi lasciando il campo aperto ai fantasmi di una nuova ed eterna preistoria: inferno tecnologico e bulimico in grado di inghiottire i residui di umanità che sopravvivono ormai quasi solo nello spazio del ricordo struggente e disperato. È però sin troppo evidente, e sarebbe assurdo negarla, una profonda corrispondenza tra il Pasolini che celebra la sacralità del mondo contadino prima e sottoproletario poi con quello impegnato a tessere il mito di un’Africa al tempo stesso antica e moderna, terra dove era forse ancora possibile riannodare i fili di quel discorso politico e culturale incenerito dallo sviluppo imperioso della macchina neocapitalistica. Tuttavia, dal momento in cui Pasolini volge lo sguardo oltre l’angusta realtà italiana di quegli anni per misurare su un altro terreno la validità dei suoi assunti, ecco che gli si rendono indispensabili quegli strumenti intellettuali, come la storia delle religioni e l’antropologia, che arricchiranno in modo inequivocabile la sua produzione, infondendole quell’originalità che la rende, per certi aspetti, unica nel panorama culturale italiano, ed è questa probabilmente la novità più importante di questa fase della sua elaborazione artistica.

Pier Paolo Pasolini raggiunge per la prima volta un paese africano, il Kenya, nel febbraio del 1961. Dal mese precedente, in compagnia di Alberto Moravia e di Elsa Morante, ha lasciato l’Italia per dirigersi dapprima in India, terra a cui avrebbe dedicato una serie di articoli, sotto forma di racconto, pubblicati sul quotidiano «Il Giorno» e poi riuniti in un fortunato volumetto che ancora oggi viene ristampato con successo, L’odore dell’India, apparso per la prima volta nel 1962. In quel momento l’Africa era in pieno fermento a causa delle lotte per l’indipendenza e le guerre civili che ne accompagnavano la difficile fase di transizione. In quello stesso anno, Pasolini scrive anche una originale prefazione, oggi quasi dimenticata, per una antologia poetica di autori di origine africana: un testo che ci aiuta a comprendere come l’Africa più tardi rappresentata nelle sue opere sia percepita proprio come l’ideale prosecuzione di un sogno che era sorto anni addietro, nel cuore della lotta combattuta contro il nemico nazifascista e all’alba del secondo dopoguerra. Il titolo dello scritto, La Resistenza negra, riesce già a indirizzare il lettore sul senso e sul valore che le esperienze, testimoniate nelle liriche raccolte e antologizzate da M. De Andrade, in qualche modo resuscitano nell’animo del Poeta.(6) Nell’incipit Pasolini esplicita subito il riferimento al proprio passato, individuale e collettivo, spiegando che la prima impressione che si ricava dalla lettura dei versi della raccolta, è quella di una lettura «un po’antiquata»(7), come se fossero stati scritti almeno dieci anni prima, ovvero agli inizi di quegli anni Cinquanta che avrebbero dovuto coincidere con l’affermazione di quella giustizia sociale che in molti ritenevano essere il vero lascito di una stagione di intense lotte che avevano attraversato il Paese. Tuttavia, subito dopo, egli precisa come il valore di tali liriche non sia solo la scia nostalgica che esse possono evocare nel lettore occidentale, poiché quello sprigionato dai poeti neri contemporanei è 
«un sapore estremamente significante, non solo per il rimpianto, […] non solo per quel tanto di poeticità oggettiva che c’è in esso, non solo: perché la Resistenza negra non è finita; e pare non debba finire com’è finita da noi»(8).
 Significativa anche la distinzione, che Pasolini introduce subito dopo, tra l’idea di “Resistenza” - vero e proprio valore culturale universale reso, proprio per questo, con la lettera maiuscola – e “resistenza”, intesa come categoria storica che identifica una particolare stagione che in Italia, a giudizio di Pasolini, si era chiusa con la chiara sconfitta delle istanze rivoluzionarie di cui essa era portatrice: 
«se per noi la “Resistenza” equivale, ancora, a “speranza”, la resistenza storica […] è ormai senza speranza», mentre al contrario, «in Africa, è chiaro, non è avvenuta la scissione tra resistenza e Resistenza. Si lotta dappertutto».(9)

Subito dopo Pasolini fornisce una breve analisi linguistica e tematica dei testi presentati nell’antologia, sostenendo che il loro carattere dominante non poteva che essere la clandestinità che nasce dall’urgenza dell’azione che ha la meglio anche sulla forma. Per tale ragione tale poesia non può generare “un prodotto culturale autonomo” ma una sorta di ibrido, una sintesi tra i modelli linguistici antecedenti, dagli accenti decadenti, e una lingua ancora nuova, ignara di ogni tradizione, sia che si tratti di testi provenienti dall’Africa, sia che riguardi opere statunitensi o provenienti dell’America del Sud. Tra i capolavori presenti nella raccolta, Pasolini indica Io non amo l’Africa di Paul Niger, Appello alla giovane Africa di Dennis Osadebay e, infine, Istantanee del Sud cotoniero dell’americano Frank Marshall Davis. Su quest’ultima lirica Pasolini aggiunge: 
«è un grande appello, il più progressista inimmaginabile, alle enormi masse dei sottoproletari di metà del mondo: la metà del mondo che non produce, ma consuma, che non fa storia, ma la subisce, ma che intanto è alla testa della comune lotta.»(10)

L’articolata prefazione prosegue con ulteriori precisazioni: interessante, ad esempio, la presentazione dei due estremi entro i quali, a detta di Pasolini, si muove la poesia della Resistenza negra: al limite che egli definisce «il più basso» si collocano le poesie che presentano un tipico risvolto psicologico secondo il quale tutto quello che umilia i cantori neri «si riscatta e si fa quindi ragione di palingenesi anziché di denuncia»(11). Qualcosa di simile, secondo Pasolini, lo si può trovare nella poesia meridionalistica italiana in cui «le disgrazie del Sud vengono enunciate in tono auto consolatorio, quasi che chi le vive potesse trovare in esse un’esperienza di per sé palingenetica. […] È l’alternativa della vitalità».(12) Vitalità che, in quanto retorica accettazione di una realtà inaccettabile, è respinta dai poeti neri più avveduti, quelli che si muovono sul secondo estremo e che sono, appunto, delusi da tale rassegnazione. Tra questi Davidson Nicol, poeta che non conosceva l’Africa e che, dopo averla visitata, di fronte alla passività di una terra di cui dice «tutto qui ciò che sei?», non può che concludere affermando «…Tu non sei un paese,/ Africa, tu sei un concetto.» permettendo a Pasolini di chiosare in questo modo: 
«Per un poeta come il Nicol, di origine negra, ma di cultura europea, l’Africa è quello che è per tutti noi […] il concetto “Africa” è il concetto di una condizione sottoproletaria estremamente complessa ancora inutilizzata come forza rivoluzionaria reale. E forse si può definirlo meglio, questo concetto, se s’identifica l’Africa con l’intero mondo di Bandung, l’Afroasia, che, diciamocelo chiaramente, comincia alla periferia di Roma, comprende il nostro Meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente. […] È l’inquietudine “angosciosa”, mista alle vertigini inebrianti della vitalità, di questo mondo escluso che i poeti negri di questa antologia esprimono; l’inquietudine angosciosa non esorcizzata ancora che da una confusa speranza o dall’allusione a una lotta armata in atto. Perché – e questo è il dato più importante dell’intera questione – questa lotta c’è: e se l’obiettivo immediato di essa è l’indipendenza, l’obiettivo vero è la “giustizia sociale” […] È fortemente sintomatico che a lottare per la giustizia sociale siano i popoli più lontani dalla civiltà industriale che si possono immaginare: dei sottoproletari addirittura preistorici rispetto a tale civiltà. Questo mi sembra il fenomeno più significativo del nostro momento storico.»(13)

Pasolini propone in questa sede un discorso che sulle pagine della rivista «Vie Nuove», più o meno negli stessi mesi, lo aveva portato a indicare in Bandung(14) la capitale di quell’Italia umile e sottoproletaria che intanto aveva preso a immortalare in pellicole come “Accattone” che, sempre nel 1961, segnò il suo esordio come regista e autore dopo anni di collaborazioni e consulenze per registi del calibro di Fellini e Bolognini. Il cinema, forse ancora di più e meglio della poesia, consentirà a Pasolini di interpretare fino in fondo il ruolo che sin dagli esordi sembrava caratterizzarlo: quello di aedo di una civiltà che, proprio attraverso lo strumento che tale civiltà aveva ideato per celebrarli, declama i propri sacri racconti mitici. Mito popolare, prima di tutto, quello di cui proprio i primi lavori cinematografici sanciscono la definitiva caduta nell’oblio facendone una esperienza che può sopravvivere solo sul piano estetico e che l’Africa, al contrario, almeno in apparenza, pare poter nuovamente risvegliare anche attraverso le varianti che tale “concetto” potrebbe introdurvi. Varianti mitiche che affiorano con evidenza già in una silloge poetica come La religione del mio tempo, lavoro che secondo l’autore «esprime la crisi degli anni Sessanta. La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue.»(15)

Un vuoto che, come credo inizi a delinearsi chiaramente, sembrerebbe trovare un modo per essere colmato proprio attraverso il sostegno alla lotta che unisce idealmente i tanti Accattone della periferia romana ai milioni di disperati che abitano le periferie del mondo; e questo non solo per permettere al Poeta di rivivere, quasi religiosamente, il tempo mitico di una gioventù ormai consumata attraverso una sorta di riattualizzazione africana, ma anche per intravedere una possibilità di futuro di segno diverso rispetto a quello verso cui procedeva la civiltà occidentale. Tale messaggio sarà ribadito nei versi di una poesia, certamente non tra le più note, significativamente intitolata L’uomo di Bandung. La lirica è datata ancora una volta 1961 ma apparve per la prima volta solo nel 1964 su una piccola rivista friulana.(16) Il testo si apre con un invito alla fuga verso Oriente di matrice rimbaudiana, anche se subito si chiarisce come la destinazione indicata sia un luogo ideale che comincia già dalla via Appia per proseguire fino ad Aversa e da lì in Africa, «nei regni della fame», ed è probabilmente compiuta per sfuggire alla maledizione che più oltre il Poeta stesso lancia al mondo che vorrebbe lasciarsi alle spalle: 
«Abbiate figli fascisti!/ Che vi distruggano con le idee/ nate dalle vostre idee!/ Con l’odio/ nato dal vostro odio! Nei regni della fame,/ sono i miei figli; cuccioli neri o marrone,/ nati da seme di vittime ignare, dolci/ dannati alla vergogna della miseria./ Anzi, io l’ho visto il mio bambino,/ che mi assomigliava come nessuno in Italia:/ era là, poverino, sotto i miei ginocchi/ e io non lo vedevo, in uno spiazzo/ dove Denka nudi e mascherati da tigri/ ballavano un loro ballo pazzesco».(17)

Occorre però sottolineare come già in questa poesia, tuttavia, Pasolini mostri di non credere fino in fondo nella speranza riaccesa da un’Africa umiliata dalla povertà e dalla fame, e come Bandung sia soprattutto l’espressione di un utopico sogno che appare probabilmente già minato alle fondamenta, tanto che il tema della ridiscesa nel passato prevale nettamente rispetto alle aperture verso il futuro che il Continente nero dovrebbe al contempo rappresentare e che, quando ci sono, sembrano far presagire le medesime ombre inquietanti che aleggiavano sull’Occidente. Eloquente in proposito il passaggio in cui si afferma:
 «Col corpo vivo di chi è nato nel tempo/ della produzione, percorrere all’indietro/ i secoli fino alla visione della Preistoria/ perduta nel fetore di pecora del mondo/ che mangia i suoi prodotti. Qui il futuro/ è il nostro presente».(18)
  Tuttavia sarebbe ingeneroso ridurre il tutto alle nostalgie regressive dell’autore, il quale peraltro non fece mai mistero delle proprie irrazionali malinconie, o alle apocalittiche sue visioni sulle sorti dell’umanità senza provare a circoscrivere nel dettaglio il senso di un rapporto con il tempo che rappresenterà per Pasolini uno dei fili conduttori della sua produzione in questo decennio, nonché la porta di ingresso verso l’utilizzo di una forma di sapere, quella storico religiosa, che sarà la piattaforma teorica su cui in seguito avrebbe poggiato “Medea”, pellicola che, in un certo senso, rappresenta il punto di arrivo, disperato e disperante, di questo discorso.

Nei versi citati poc’anzi, infatti, Pasolini indica il presente dal quale è fuggito poeticamente come futuro delle genti incontrate in quell’immenso Terzo Mondo che ingloba anche gran parte della penisola italiana. Tuttavia, il presente di quelle stesse persone che ballano «un loro ballo pazzesco,/ con le donne in cerchio come drogate», corrisponde al passato ancestrale e mitico cui appartiene anche il decantato universo contadino con il suo senso ciclico del tempo. Analizzata in questa chiave, dunque, non stupisce più di tanto l’identificazione del poeta con quel bambino accovacciato tra le sue ginocchia, un «negretto battezzato,/ coi calzoncini bianchi tra i Denka nudi», che nei versi successivi, sollecitato dall’autore, dice di chiamarsi addirittura Paolino, palesando ancor di più tale sovrapposizione. Come se si trattasse di quello che osiamo definire un “rito poetico”, Pasolini esprime allora quella che, utilizzando la terminologia propria del sapere storico religioso, potremmo chiamare “destorificazione”, in questo caso una “destorificazione metaforica”, ovvero l’espressione poetica di ciò che Ernesto De Martino, grande etnologo e storico delle religioni italiano, definisce così: 
«il divenire angoscia, soprattutto nei momenti critici dell’esistenza: l’istituto della destorificazione religiosa sottrae questi momenti all’iniziativa umana e li risolve nella iterazione dell’identico»(19)
Ed è proprio su tale ripetizione che si fonda la diversità di quelle civiltà altre alle quali Pasolini affratella il cristianesimo rurale e primitivo dei contadini friulani conosciuti da giovinetto. Una diversità salvifica che si palesa nella loro sensibilità all’appello del sacro, il quale consente di recuperare, attraverso l’immersione rigenerante nella metastoria, cioè nella dimensione in cui la crisi presente si annulla nella ripetizione del passato mitico, un rapporto più equilibrato con la storia: quella storia in cui Pasolini spera di poter finalmente vedere realizzato il processo rivoluzionario interrotto in Occidente dall’avvento del neocapitalismo.

Dunque è proprio questo continuo ritornare al proprio passato e nel proprio passato che permette all’uomo di Bandung di essere «più moderno di ogni moderno». La sua possibilità di futuro risiede proprio nella forza del suo passato, nell’immensa riserva vitale di un patrimonio simbolico che la modernità barbarica con cui Pasolini definisce la civiltà neocapitalistica sta, invece, seppellendo sotto il cemento dei nuovi palazzoni periferici, sotto la compulsività di un consumismo agli esordi ma già feroce, nella rimozione di ogni diversità. Siamo qui alle soglie di un percorso che Pasolini svilupperà e amplierà fino alla morte; e che come accennato già in questa fase appare consapevole del suo connotato utopico e malinconico assumendo, con il passare del tempo, i contorni della vera e propria tragedia, quella di un mondo in cui «niente è più possibile, ormai». Progressivamente la Preistoria mitica e sacrale, alla quale come si è visto appartengono i Denka così come i contadini friulani e i sottoproletari meridionali, sarà contrapposta alla Nuova Preistoria interamente profana della civiltà dei consumi; con la differenza, non di poco conto, che la prima, proprio grazie al suo rapporto con il sacro aveva potuto elevarsi dalla contingenza elaborando il proprio repertorio di simboli e valori; una via ormai preclusa alla seconda. Nelle poesie cui lavora nei primi anni Sessanta, molte delle quali confluiranno nella silloge Poesia in forma di rosa, Pasolini propone con forza la dicotomia che ormai vedeva contrapposte più che due classi, due razze distinte, due tipi di umanità il cui destino – e occorre segnalare quanto questo sia ben chiaro nella coscienza del Poeta sin dalle prime fasi di questo discorso - era drammaticamente segnato per entrambe. Si tratta di temi che verranno sviluppati nell’arco di un decennio e che se spesso si mescolano a uno scoperto impulso regressivo, non giustificano affatto un’interpretazione in chiave semplicemente antimoderna del discorso pasoliniano. Già in questa primissima fase, da alcune risposte che l’autore dava ai lettori delle rubrica settimanale che teneva su «Vie Nuove», è possibile evincere il vero significato di certe prese di posizione che i coevi il più delle volte interpretarono come semplici provocazioni: «bisogna strappare ai tradizionalisti il monopolio della tradizione […] i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente retoriche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o “monumentale”, come diceva Schopenhauer, non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia».(20) Ed è per queste ragioni che l’Africa per Pasolini, nello spazio sacro della poesia, sembra poter ancora racchiudere in sé passato e futuro, può rappresentare un caldo rifugio nel già vissuto e uno stimolo ad andare oltre il presente, può essere al tempo stesso un ritorno e una nuova partenza, proprio come cantato ne L’uomo di Bandung:
 «non tornerò/ dalla periferia di Roma o del Mondo/ secondo il destino del Figliol Prodigo, su cui voi sareste pronti a scommettere,/ borghesi volgari e borghesi squisiti,/ o meglio, tornerò, se così è umano, ma andando sempre più lontano».(21)

Alessandro Barbato


Note:


1) La definizione Terzo Mondo, come è noto, fu coniata dal geografo francese Alfred Sauvy agli inizi degli anni Cinquanta, nel 1952 per la precisione, per indicare tutti quei Paesi non allineati al modello occidentale né a quello sovietico. La definizione venne poi fatta propria dagli Stati che si riunirono, nel 1955, nella Conferenza afroasiatica di Bandung proprio per proporsi come concreta alternativa ai modelli sopracitati.


2) Cfr. M. Leiris, L’Afrique fantôme, Paris 1934 [trad. it. L’Africa fantasma, Milano 1984.]. Si tratta del diario di viaggio che Leiris scrisse durante la sua partecipazione alla celeberrima missione etnografica “Dakar-Gibuti” tra il 1931 e il 1933. Diario che suscitò numerose polemiche che fruttarono a Leiris un isolamento accademico che durò per anni soprattutto per la schiettezza con la quale l’autore denunciò i comportamenti e le scorribande, ai limiti della razzia, che accompagnarono la missione; che, va detto, raggiunse considerevoli risultati scientifici e consacrò la ricerca etnografica francese sul campo. Per un approfondimento si veda: A. Barbato, L’alternativa fantasma. Leiris e Pasolini: percorsi antropologici, Padova 2010.


3) Cfr. M. Leiris, Message de l’Afrique, in Id., Miroir de l’Afrique, a cura di J. Jamin, Paris 1996 [trad. It. in Id., L’occhio dell’etnografo. Razza e civiltà e altri scritti 1929-1960, Torino 2005.]


4) M. Leiris, Message de l’Afrique, in Id., Miroir de l’Afrique, a cura di J. Jamin, Paris 1996 [trad. It. in Id., L’occhio dell’etnografo. Razza e civiltà e altri scritti 1929-1960, Torino 2005, p. 168.]


5) Cfr. A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Venezia 1977.


6) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, prefazione a M. De Andrade, (a cura di), Letteratura negra. La poesia, Roma 1961. Oggi in P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano 1999, tomo II, pp. 2344-2355.


7) Ivi, p. 2344.


8) Ibidem.


9) Ibidem.


10) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, op. cit., p. 2350.


11) Ibidem.


12) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, op. cit., pp. 2350-2351.


13) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, op. cit., pp. 2353-2354.


14) Cfr. P. P. Pasolini, Bandung capitale di mezza Italia, in «Vie Nuove», n. 30, a. XVI, 29 luglio 1961.


15) P. P. Pasolini, Salinari: risposta e replica, in «Vie Nuove», n. 45, a. XVI, 16 novembre 1961.


16) P. P. Pasolini, L’uomo di Bandung, in «Julia Gens», Udine, gennaio-febbraio 1964. Poi inclusa in P. P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Milano 1993, vol. II, pp. 1773-1782. Ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie (2 voll.), a cura di W. Siti, Milano 2003, tomo I, pp. 1305-1313.


17) P. P. Pasolini, L’uomo di Bandung, in P. P. Pasolini, Tutte le poesie (2 voll.), a cura di W. Siti, Milano 2003, tomo I, pp. 1312-1313.


18) Ivi, p. 1310.


19) E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in Id., Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, con introduzione e cura di Marcello Massenzio, Lecce 1995, p. 62.


20) P. P. Pasolini, Risposta a un insoddisfatto, in «Vie Nuove», n. 44, a. XVII, 8 novembre 1962.


21) P. P. Pasolini, L’uomo di Bandung, op. cit., p. 1313.





Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi