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martedì 27 ottobre 2015

Caro Ferretti - Caro Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Jesi, 6 dicembre 1956.
Caro Pasolini,

oggi sono disperato, ma la lettera che ti scrivo non è il frutto sgrammaticato della disperazione: è solo il totale di una somma che dovevo fare da tempo. Sapevo che i miei racconti non valevano niente, eppure li avevo inviati a Vittorini con patetiche speranze di vederli pubblicati nei "Gettoni". E ora mi brucia parecchio la lettera di rifiuto.
Con mio padre è ancora peggio. Il due di questo mese sono dovuto scappare a Perugia, e ho trascorso tutta la giornata vicino alla stufa; alla sera non ho neanche mangiato. Il giorno dopo ho conosciuto una ragazza e mi sono innamorato; ma finirà subito; è troppo esperta per me. Sono tornato a Jesi e ho scritto qualche verso d'amore. Ma a casa ho trovato la bufera.
Non posso più studiare: devo a tutti i costi andarmene da casa.
Tu sei il mio solo amico: e se sei davvero un “ragazzo ancora eternamente indifeso” come dici, devi aiutarmi. Tu frequenti l’ambiente del cinematografo; e io porto dentro di me un attore; certo, bello non sono e sono pure timido e selvatico; incontrerei enormi difficoltà, ma se fossi un po' capito potrei arrivare a risultati imprevisti. Fammi conoscere qualche regista: non te ne pentirai, te lo assicuro.
E non pensare che che io m'immagini Cinecittà come un sogno luccicante, e che pensi che l'attore sia un mestiere facile; ma almeno potrei farlo con tutto l'impegno.
Non mi basta più scrivere, e non voglio fare sciocchezze definitive: io voglio vivere. E t'assicuro che farei la vita più sana normale e regolare. Mi limiterei perfino sul mangiare.
Ma aiutami: se mi abbandoni non ho più speranze: e dovrò fare 'tutto' da solo.
Massimo Ferretti

*

Caro Ferretti,

il trauma causatomi dalla tua lettera è stato alquanto attutito dal viaggio che ho fatto in Belgio e in Olanda. Mi riesce quindi ora di risponderti con calma e anzi una certa leggerezza. Non posso e non voglio aiutarti nel tuo progetto. Innanzitutto, non posso per ragioni soggettive: io sto lavorando come un dannato, da massacrarmi, 'per vivere'. Fino a due anni fa insegnavo in una scuola parificata di Ciampino (un'ora e mezza di tram tutte le mattine), per 25.000 lire al mese. E ho fatto questa vita per tre anni. Adesso le cose vanno meglio: collaboro a riviste e lavoro un po' per il cinema. Devo essere spietato con me e con gli altri. Ho dei doveri soprattutto verso i miei genitori, che a causa mia hanno sofferto per tanti anni. Poi per ragioni oggettive, non posso: a Roma non c'è lavoro, e il cinema è in piena crisi: migliaia di generici e piccoli attori sono alla fame. Io sto lavorando per puro caso.
Ma anche se mi fosse possibile aiutarti, non lo farei: tu devi studiare, devi laurearti. Non fare il super-uomo, ce n’è già stati abbastanza. Cerca di essere più umile, cerca di capire anche la ‘realtà’ degli altri, anche quella di tuo padre. E' vero, studiare è faticoso, a volte è nauseante. Ma se sei un uomo, devi vincere te stesso. Altrimenti dimostri di essere il solito mandolinista italiano, il solito poetastro rompicoglioni.
Tieni presente che dai 17 ai 24 anni è, per noi, il periodo più brutto della vita; poi, se si ha un minimo di forza, ci si riprende. Così è successo anche a me.
Mio caro, hai vent'anni. E la giovinezza è bella e dolorosa dappertutto. Dappertutto trovi una bella ragazzetta da corteggiare e una puttana da chiavare.
A Roma potrai, anzi dovrai venire, ma con la laurea in tasca e per ragioni serie. Non spinto da maleodorante romanticismo. Non per fare l’attore, ma per essere compiutamente e pienamente uomo, per quanto è possibile. Ti stringo la mano con molto affetto. Coraggio, e lavora.
P.P.Pasolini

*

Roma, 2 marzo 1956
Caro Ferretti,

scusa il lunghissimo silenzio, davvero poco scusabile. Ma sono stato per un periodo su in Friuli e a Trieste. “Officina” sta per uscire (fra una quindicina di giorni): tu sei in compagnia con Sbarbaro, Vivaldi e Volponi. Di te ho scelto, in linea di massima, abbondando: “Falloforia del principe”, “In memoria di un albero”, “Ballata interrotta”, “Anch’io sono il mare”, “Raucedine”, “1955: la vostra angoscia…”, l’ultimo pezzo dell’Ode (che mi sono permesso di intitolare “Ode a un amico poeta”, sostituendo nel testo “amico” a “Pier Paolo”). Quanto a l’Ode, mi ha moto impressionato: te ne ringrazio moltissimo. L’ultima parte appunto, in endecasillabi, mi pare la più felice. Ho letto con grande interesse anche il radiodramma: che mi sembra rispecchiare la tua situazione presente. Rispecchiarla fin troppo. Ma mentre le poesie, di tale situazione, rispecchiano la parte misteriosamente matura, irrazionalmente compiuta, qui tu appari anche nella tua immaturità, nella tua inquietudine minore, anti-borghese, anarchica, un po’ maudite, nella tua impazienza anti-sociale e anti-culturale. Condizione meravigliosa dei ventanni. Per questo, benché non creda sia il caso di “passare” il dramma ai borghesoni della Rai, non brucerò affatto il manoscritto. E’ una preziosa pezza d’appoggio. Scrivine un altro: cercando di non parlare di te: di non metterci giovani della tua età: e cercando o di essere oggettivo, di sceneggiare, una storia, oppure, se proprio ancora non ti riesce di prescinderti, di essere ancora più sperimentale e poetico: di evitare cioè le contaminazioni. Stammi bene, e ricevi i più affettuosi saluti dal tuo
Pier Paolo Pasolini




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Mamma Roma, di Pier Paolo Pasolini. - Recensione di Cobra Verde

"ERETICO & CORSARO"


Mamma Roma, di Pier Paolo Pasolini




Con "Mamma Roma", Pasolini continua la sua analisi del sottoproletariato italiano e sopratutto porta a compimento la sua personale riflessione stilistica, che lo porta, qui più che nel precedente "Accattone" (1961) ad elaborare uno stile che può essere descritto con un unico sostantivo: "ambivalenza"; l'ambivalenza era un tema, o per meglio dire "status"  ben presente nella figura del compianto regista, sopratutto sul piano personale; cattolico credente (ma laico), tuttavia iscritto al Partito Comunista (dal quale fu scacciato, nei primi anni '60, a causa della sua omosessualità), scrutatore e vivisezionatore della classe più povera e abietta dell'Italia dell'epoca, ma, per forza di cose, esponente della borghesia; e poi accusatore di questa stessa classe cui apparteneva, tacciata di immane stupidità ed ingavia; intellettuale colto e raffinato, esteta provetto, eppure affascinato dal neorealismo e dai toni sporchi e crudi.
"Mamma Roma" rappresenta l'emblema delle pulsioni opposte e complementari che si agitavano nella mente de Pasolini; oltre ad essere il suo ultimo film squisitamente "neorealista", o quanto meno l'ultimo in cui l'influenza del cinema italiano degli anni '40 si avverte ancora prepotente.

Mamma Roma (Anna Magnani) è una prostituta non più giovane che vive nell'estrema periferia della capitale; dopo il matrimonio del suo protettore Carmine (Franco Citti), la donna decide di abbandonare la strada per crescere come si deve il suo figlio sedicenne Ettore (Ettore Garofalo); il suo sogno è quello di trasformare il figlio in una persona rispettabile, ma la legge della strada, sfortunatamente, non fa sconti.

Secondo capitolo di un'ideale trilogia iniziata l'anno prima con il suo esordio "Accattone" (e terminata l'anno seguente con "La Ricotta"), "Mamma Roma" è una moderna tragedia ambientata nei sobborghi romani; Pasolini torna a scandagliare il fondo della società italiana, a ritrarne i volti scavati e la disperazione più nera in cui i personaggi affondano; la protagonista, in questo senso, rappresenta un archetipo del sottoproletariato: una donna sola, che ha vissuto sulla sua pelle le pene dell'inferno per sopravvivere in un mondo oscuro e disperato come il pozzo nero dantesco che viene citato, e che ora cerca in tutti i modi un riscatto; riscatto che ha la forma del benessere borghese, di una casa comoda in un quartiere per bene, in cui "i ragazzi studiano o lavorano", o della motocicletta che regala al figlio, quello strumento che lo stesso Pasolini descriverà come "unico valore dei ragazzi borghesi"; Mamma Roma è, fin nel nome, la figura materna per antonomasia: una donna pronta a tutto per il bene del figlio, perfino a ritornare a "fare la vita" quando costretta o ad impugnare un coltello contro chi minaccia il suo menàge familiare.

Ettore, d'altro canto, è il perfetto esponente della gioventù "de borgata" dell'epoca: scavezzacollo e scansafatiche, si perde subito per le strade polverose della capitale girovagando tra piccoli furti e lavoretti occasionali; Ettore è "il figlio", la creatura da salvare, o per meglio dire da "preservare" dalle sventure del mondo; sventure che vengono incarnate, oltre che dai "ragazzi di vita" suoi compagni, anche dalla bella ragazza di strada Bruna, figura complessa e dal simbolismo plurimo. Bruna è anzitutto una ninfa, che attira con la sua bellezza un Ettore ancora ragazzo e lo trasforma in un uomo; in questo ambito (che coincide con le prime scene in cui appare) è una figura angelica, paragonata alla Madonna con bambino, una sorta di versione più giovane di Mamma Roma e con essa in competizione per l'affetto del ragazzo; Mamma Roma, di fatto, non sopporta le attenzioni della ragazza non tanto perché gelosa del suo ruolo di nuovo polo femminile nella sua vita, quanto a causa della sua estrazione misera, simbolo di una vita di strada e di stenti dalla quale vuole, appunto, preservare il suo pargolo. E qui che il personaggio di Bruna muta e diviene anch'essa, al pari dei compagni, metafora di una vita svenduta, di una sventura da rifuggire e, in senso lato, della tentazione: quella della "vita facile", opposta al lavoro e alla onesta fatica con cui Mamma Roma tenta di emanciparsi lavorando come fruttivendola, e con il quale tenta di far emancipare, invano, anche Ettore.

Emancipazione, come accennato, del tutto vana; Ettore, nel corso della pellicola, muta anch'egli il suo ruolo; da ragazzo ingenuo, che commette piccoli furti solo per la bella Bruna, egli diviene un ragazzo di strada vero e proprio, che schiva (e schifa) il lavoro, che rinnega più volte la madre a prescindere dall'affetto e dalla bontà che gli dimostra e che sopravvive con furtarelli e truffe, come una sorta di "Accattone" ancora imberbe; l'emancipazione dalla strada, ci dice Pasolini, è impossibile: il riscatto benevolmente imposto dalla figura materna viene rifuggito in favore di una dannazione; anzi, di un martirio catartico: Ettore, nel finale, viene trascinato in una spirale distruttiva che culmina nella sua morte; una morte che il grande regista ritrae come un rituale, con uno splendido movimento che disvela il corpo idealmente crocefisso del personaggio per tre volte. Ettore è dunque, in quest'ultima parte, una "vittima sacrificale", un agnello che si condanna da solo al macello e che solo negli ultimi istanti di vita si pente invocando il nome della madre, che miracolosamente lo ascolta e corre da lui, in un finale in cui è impossibile trattenere le lacrime. E se la dannazione del ragazzo è auto-imposta, quella della madre viene invece "dal di fuori", da cause estranee e imperscrutabili, che coincidono con il ritorno del protettore Carmine, il ritorno in strada (che Pasolini incornicia in una monocromia ancora più scura e buia) e con l'invocazione all'eterno, la questione posta a Dio, ossia la preghiera come ultimo baluardo contro la perdizione.

L'ambivalenza stilistica è avvertibile per tutta la durata della pellicola; l'influenza del neorealismo viene qui unita dall'autore a esigenze del tutto contingenti e personali; ecco dunque che ai volti "da strada" che popolavano, in via esclusiva, l'esordio di Pasolini, si affianca, in veste di protagonista, Anna Magnani; l'attrice, all'epoca all'apice della fama, introduce nell'opera una vitalità unica, una carica dirompente che gonfia a dismisura tutti gli elementi di commedia e tragedia presenti; ecco dunque che il prologo, con il matrimonio di Carmine, diviene un vero e proprio pezzo da antologia della commedia all'italiana, ossia quel filone nato dallo stesso neorealismo ora massificato; la Nannarella urla a squarciagola, canta, si strugge, cade e si rialza nella sua interpretazione più sfaccettata ed incisiva; ed è anche merito suo se il finale riesce davvero a commuovere; e dagli albori del neorealismo Pasolini rievoca un altro volto storico, quello di Lamberto Maggiorani, indimenticato protagonista di "Ladri di Biciclette" (1945) che qui compare in un ruolo piccolo ma significativo.

Ambivalenza che si sostanzia ancora maggiormente nella messa in scena; agli ambienti spogli e sporchi Pasolini giustappone una musica classica per ricreare un'atmosfera sacrale e ai limiti dell'onirico; i volti e i corpi degli attori non professionisti vengono incorniciati in inquadrature ancora più "pittoriche"; l'influenza della formazione artistica dell'autore si palesa ancora più esplicitamente in questa sua seconda opera, in cui abbonda il gusto per la frontalità; da antologia le carrellate all'indietro che anticipano le "passeggiate" della Magnani sui viali, il già citato finale con Ettore novello Cristo del Mantegna, o, ancora e sopratutto, l'ultimissima inquadratura, con il volto in lacrime della Magnani attorniato dai compagni, come una novella Madonna dei reietti. Ambivalenza che si palesa, in ultimo, anche nella fotografia volutamente "bipolare" del maestro Tonino Delli Colli, che immerge in una luce accecante i "ragazzi di strada", come arsi vivi dal sole, ed adotta una  monocromia più contrastata e controllata per ritrarre la protagonista, a simboleggiarne la lotta continua e disperata contro il fato.


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Accattone, di Pier Paolo Pasolini - Recensione di Cobra Verde

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Accattone, di Pier Paolo Pasolini

Recensione di Cobra Verde



Il solo nominare il nome di Pier Paolo Pasolini riporta alla mente una realtà scomoda, spesso taciuta, molte altre volte ignorata; una realtà che il grandissimo autore è riuscito a ritrarre, nei suoi quindici anni scarsi di carriera cinematografica, con un livore ed una forza unici: quella dell'Italia del Secondo Dopoguerra; una società che, allora come ora, era composta da una borghesia altezzosa e vuota e da un proletariato sofferente ed irredento.
Una visione, la sua, scevra da ogni tipo di compromesso: Pasolini ritrae il suo mondo con un occhio cinico ed accusatorio, privo di compromessi ed ipocrisie; non cerca mai davvero la provocazione gratuita ed anzi usa un linguaggio (sopratutto visivo) forte e vibrante solo per ridestare lo spettatore dal torpore intellettuale ed intellettivo che la società borghese (e non) imponeva; e a trent'otto anni dalla sua scomparsa, il constatare come la sua filmografia sia ancora così ancorata alla realtà odierna stupisce; ma sopratutto inquieta al punto che vien naturale chiedersi che cosa penserebbe, idealmente, se avesse conosciuto l'Italia degli anni '00, in cui tutte le sue paure ed ossessioni hanno, di fatto, preso vita e potere.

L'esordio al cinema di Pasolini è datato 1961, "anno d'oro" che vedeva i trionfi del cinema europeo della Nouvelle Vague come ideale prosecuzione delle intuizioni estetiche del primo Neorealismo; ed è proprio al Neorealismo che "Accattone" deve, in parte, la sua componente estetico-narrativa: al bando attori professionisti e studi di registrazione, Pasolini si immerge nelle borgate romane, sotto un sole cocente e tra i resti di un'umanità allo sbando; prende gli attori direttamente dalla strada e li lascia recitare (e doppiare) in romanesco, lasciando intatti i modi di dire e le cadenze della strada; "Accattone" diviene così l'ideale continuazione dei romanzi "di strada" scritti in precedenza dall'autore, "I Ragazzi di Vita" e "Una Vita Violenta" , nonchè il primo capito di un'ideale trilogia cinematografica sulla "sacralità degli ultimi" che comprende anche "Mamma Roma" (1962) e "La Ricotta", episodio del film corale "Ro.Go.Pa.G." (1963)

Nella periferia romana si muove Vittorio Cataldi, detto "Accattone" (Franco Citti), magnaccia da strapazzo e ladruncolo occasionale; Accattone passa le sue giornate al bar assieme ad un gruppetto di amici, anch'essi spiantati e scansafatiche, si innamora della bella ed illibata Stella (Franca Pasut) e cerca in ogni modo di sopravvivere in un mondo ostile e desolato.

Se il Neorealismo indagava la realtà quotidiana del proletariato e della piccola borghesia, Pasolini si spinge ancora oltre, varca quell'ideale confine che, tacitamente, era stato tracciato nella rappresentazione sociale dell'epoca e, contro ogni ipocrisia, erige a protagonisti assoluti della sua opera i sotto-proletari, "ultimi tra gli ultimi": personaggi privi di lavoro, "larve" che la società del boom economico tende ad ignorare; Accattone e compagni non hanno un lavoro e nemmeno lo cercano: ciondolano da un piazzale ad un altro sbarcando il lunario con piccoli lavoretti da farabutti; in particolare, Accattone è un magnaccia, un pappone, ossia un soggetto che campa di rendita sfruttando il lavoro altrui; il che lo rende un vero e proprio "parassita", un essere totalmente incapace di provvedere a sé stesso con le sue sole forze.
L'incapacità del protagonista di provare anche una minima frazione di vergogna lo rende un essere a-morale, sprovvisto della benchè minima coscienza delle sue azioni; d'altronde, Pasolini non biasima i suoi comportamenti, ma nemmeno gli esalta; Accattone è un essere privo di speranze, un uomo ridotto ai minimi termini, che tenta ogni carta pur di sopravvivere (da qui il suo soprannome), tranne quella del lavoro, visto come una forma di schiavitù; la non-vita di Vittorio altro non è che un purgatorio in Terra, fatto di rinunce, umiliazioni e piccoli escamotagè (da qui la citazione che apre il film), che però non porta a nessuna redenzione, nessuna catarsi; persino l'amore per la bella Stella non redime Accattone dalla sua situazione di stallo.

Quella di Accattone è una corsa verso il basso, una sorta di "parabola negativa" che porta l'eroe a perdere, nel corso della storia, tutto: dapprima il lavoro come protettore, poi i suoi pochi averi, fino alla tragedia.
Su tutto, infatti, aleggia l'ombra della morte: una morte inevitabile, che Vittorio teme e che lo ossessiona, ma che non può evitare; e solo nella morte egli trova liberazione ("Mò sto bene!" esclama prima di morire); liberazione da una non-vita che egli stesso ha reso infernale; e proprio qui sta la differenza con i futuri lavori di Pasolini: non vi è una vera e propria condanna alla "società del benessere"; Accattone determina autonomamente la sua disfatta, decide da solo di schivare (e schifare) ogni lavoro e quindi ogni possibilità di cambiamento: egli è un "prodotto di sé stesso", delle sue scelte sbagliate, di un carattere talmente forte da impedirgli ogni forma di ragionamento logico; un'ignoranza, la sua dovuta ad un orgoglio immotivato, inutile e velleitario, contrapposto alla più mite "forza lavorativa" del fratello, e che si imprime con forza nella mente dello spettatore grazie ad un'immagine geniale: Franco Citti che si sporca da solo la faccia di sabbia, senza motivo, senza ragione, un gesto fatto solo con una rabbia inutile ed incomprensibile.
Pasolini si limita così a ritrarre la parabola di Vittorio, a non cercare ragioni o scuse alla miseria; il suo intento è quello di dare una voce ai reietti, a coloro che sono solitamente ignorati dal grande pubblico, ma che, pur nella loro miserevolezza, hanno una forma di dignità, un'umanità tutt'altro che scontata e che l'autore enfatizza con una ritualità sacrale, data più che altro dallo splendido commento musicale.

Quello di Pasolini è un esordio "totale": per la prima si trova a scrivere e a dirigere un film, senza avere la minima conoscenza del mezzo cinematografico, tanto che, a posteriori, confesserà di non aver capito, all'epoca, nemmeno la differenza tra una panoramica ed un piano-sequenza; affermazione che risulta ironica, finanche mendace se si dà uno sguardo alle immagini di questa sua prima opera: campi lunghi spettacolari che ritraggono la periferia romana come una moderna "terra di nessuno", popolata da morti viventi che prendono vita in primo piani potenti ed espressivi. E rispetto alla tradizione del Neorealismo, Pasolini adotta uno sguardo meno cinico: la miseria del suo protagonista viene ritratta, si, senza alcun compromesso, ma mediante una visione "sacrale", incarnata dalle splendide note di Bach, che conferiscono maggiore tragicità alle immagini;  Pasolini crea, così, una moderna parabola, priva però di riscatto; aggiunge sequenze oniriche che rafforzano la visionarietà della narrazione e avvolge su tutto un velo di pietà, uno sguardo, il suo, che non giustifica le azioni dei personaggi, ma le compatisce, in virtù di una visione laica e, al contempo, estremamente sacrale del dolore e della miseria, e proprio per questo degna di essere definita "capolavoro".



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