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mercoledì 8 aprile 2015

La meglio gioventù - La nuova gioventù - commento di Angela Molteni

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 

La meglio gioventù - La nuova gioventù
commento di Angela Molteni


Vol. I Poesie a Casarsa 1941-1943
 
I. Poesie a Casarsa
I. Casarsa
II. Alelujia
III. La domenica uliva
II. Suite furlana 1944-1949
I. Linguaggio dei fanciulli di sera
II. Danze
III. Lieder
Appendice 1950-1953

Vol. II Romancero 1947-1953

I. Il testament Coràn 1947-1952
II. Romancero 1953
I. I colus
II. Il Vecchio Testamento
Nota

La meglio gioventù 1941-1953
Seconda forma de
“La meglio gioventù” 1974

1. - Poesie a Casarsa
I. Casarsa
II. Alelujia
III. La domenica uliva

2. - Suite furlana 1944-1949
I. Linguaggio dei fanciulli di sera
II. Danze
Tetro entusiasmo 1973-1974
(Poesie italo-friulane)
Nota 1974

Poesie a Casarsa 1942

(A mio padre)
I. Poesie a Casarsa
II. La domenica uliva
Dov’è la mia patria 1949

Edizioni dell’Academiuta de Lenga Furlana, Casarsa
con 13 disegni di Giuseppe Zigaina

Tal còur di un frut
(Nel cuore di un fanciullo)
I. Ciasarsa
II. Tal còur di un frut
III. Suite furlana
IV. Chan plor

Poesie dimenticate

La Julia 1943
A Versuta 1943-1945
Lieder 1949
Il Gloria 1950-1953

Poesie disperse I (solo in parte in friulano)
Poesie disperse II (solo in parte in friulano)
Poesie inedite

Da Poesie furlane 1946-1947

Ciasarsa


“Non è soltanto una eccezionale intelligenza ma un poeta, con un fulmineo senso della costruzione e del particolare, dell’intonazione e delle risorse metriche. A differenza di quasi tutta la poesia del Novecento e dell’Avanguardia italiana, ha rifuggito dalla purezza, omogeneità e assolutezza: ha accettato il trucco, la maschera, la circonlocuzione, la contaminazione di stili tecniche linguaggi, ha perseguito l’autenticità attraverso il suo opposto.” Così si esprime a proposito di Pasolini un altro grande poeta del Novecento, Franco Fortini.
Pasolini iniziò la propria esperienza poetica nei primi anni Quaranta, scrivendo versi nel dialetto friulano di Casarsa. Trascorsa l’infanzia a Casarsa, il paese originario della madre, si trasferì a Cremona dopo aver iniziato il ginnasio a Conegliano; subito dopo andò a vivere a Scandiano, vicino a Reggio Emilia; dal 1936 terminò il liceo a Bologna, e in questa città si iscrisse poi all’Università. Con la guerra e i bombardamenti delle città italiane, nell’inverno 1942-43, Susanna Pasolini decise di sfollare con i due figli, Pier Paolo e Guido, a Casarsa, suo paese di origine in Friuli.
Di questa “patria friulana” Pier Paolo Pasolini dirà, scrivendo a un amico: “Ogni immagine di questa terra, ogni volto umano, ogni battere di campane, mi viene gettato contro il cuore ferendomi con un dolore quasi fisico. Non ho un momento di calma, perché vivo sempre gettato nel futuro: se bevo un bicchiere di vino, e rido forte con gli amici, mi vedo bere, e mi sento gridare, con disperazione immensa e accorata, con un rimpianto prematuro di quanto faccio e godo, una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo”.
In quei luoghi, nei quali ogni gesto che fanno coloro che sono intorno a lui è una fitta al cuore (“chiede una collocazione nuova nella mia immagine del mondo”), Pasolini scrive quello che sarà il suo primo libro pubblicato, Poesie a Casarsa. Il volume è del 1942 e l’editore è la Libreria antiquaria Mario Landi di Bologna. Gianfranco Contini, insegnante di filologia romanza a Friburgo - che ricevette il libro dal libraio Landi, suo amico - comunicò a Pasolini che le poesie gli erano piaciute e ne avrebbe fatto una recensione (“Ho saltato e ballato per i portici di Bologna”, dirà a sua volta il poeta). La recensione avrebbe dovuto uscire su “Primato”, una pubblicazione dell’epoca, ma il periodico, trattandosi di un commento a una raccolta di poesie dialettali, la censurò: apparve invece sul “Corriere di Lugano” del 24 aprile 1943. Diceva, tra l’altro: “L’odore era quello irrefutabile della poesia, in una specie inconsueta, per di più in una di quelle non so se dire quasi-lingue o lingue minori che era mia passione e professione frequentare […] Basti senz’altro raffigurarsi innanzi il suo mondo poetico, per rendersi conto dello scandalo ch’esso introduce negli annali della letteratura dialettale”.
Lo “scandalo” era la trasgressione costituita dall’uso di un dialetto, in un paese a regime fascista che osteggiava l’uso delle “lingue barbare”: “Il fascismo, con mia grande sorpresa, non ammetteva che in Italia ci fossero dei particolarismi locali e degli idiomi di ostinati imbelli […] Ormai l’antifascismo cessava di essere puramente culturale: sì, poiché il Male lo sperimentavo nel mio caso”, commentò Pasolini. Nelle Poesie a Casarsa, inoltre, vi era lo “scandalo”, anche se molto delicato, discreto e nascosto, di un sottile filo omoerotico che attraversava quelle composizioni.


Dili

Ti jos, Dili, ta li cassis
a plòuf. I cians si scunìssin
pal plan verdùt.
Ti jos, tai nustris cuàrps,
la fres-cia rosada
dal timp pirdùt.

DILIO. Vedi, Dilio, sulle acacie piove. I cani si sfiatano per il piano verdino.
Vedi, fanciullo, sui nostri corpi la fresca riguada del tempo perduto.
(da Poesie a Casarsa)


A Rosari

Tu la ciera la ciar a pesa
tal sèil a ven di lus.
No sta sbassà i vuj, puòr zòvin,
se tal grin l’ombrena a è greva.
Rit, tu, zòvin lizèir,
sintìnt in tal to cuàrp
la ciera cialda e scura
e il fresc, clar sèil.
In miès da la puora Glisia
al è pens di peciàt il to scur
ma ta la to lus lizera
al rit il distìn di un pur.

A ROSARIO. Nella terra la carne è greve, nel cielo si fa di luce. Non abbassare gli occhi, povero giovane, se nel grembo l’ombra pesa.
Ridi tu, giovane leggero, sentendo nel tuo corpo la terra calda e scura e il fresco, chiaro cielo.
In mezzo alla povera chiesa è pieno di peccato il tuo buio, ma nella tua luce leggera ride il destino di un puro.
(da Suite furlana)


Poesie a Casarsa (1941-1943) sarà poi ripubblicato, più avanti, in seconda stesura, insieme a una Suite furlana (1944-1949), a un’Appendice del 1950-1953, e a Il testament Coran, del 1947-1952 (poesie ispirate agli eventi partigiani). Delle traduzioni italiane che appaiono sempre dopo il testo in friulano, Pasolini dirà che egli stesso le ha stese con cura “e quasi, idealmente, contemporaneamente al friulano, pensando che piuttosto che non essere letto fosse preferibile essere letto soltanto in esse”. Il titolo di questa seconda raccolta è La meglio gioventù; riecheggia un triste canto degli alpini della prima guerra mondiale (la megio zoventù la va soto tera). Il volume sarà dedicato proprio a suo primo recensore, Gianfranco Contini.

Dansa di Narcìs

Jo i soj neri di amòur
né frut né rosignòul
dut intèir coma un flòur
i brami sensa sen.
Soj levat ienfra li violis
intant ch’a sclariva,
ciantànt un ciant dismintiàt
ta la not vualiva.
Mi soj dit: «Narcìs!»
e un spirt cu’l me vis
al scuriva la erba
cu’l clar dai so ris.

DANZA DI NARCISO. Io sono nero di amore, né fanciullo né usignolo, tutto intero come un fiore, desidero senza desiderio.
Mi sono alzato tra le viole, mentre albeggiava, cantando un canto dimenticato nella notte uguale. Mi sono detto: «Narciso!», e uno spirito col mio viso oscurava l’erba al chiarore dei suoi ricci.
(da Suite furlana, II Danze)


Il “viaggio al cuore della lingua materna” nasce da un’attenzione del poeta ai particolari anche minuti della vita quotidiana, alla creatività che egli sa cogliere nelle parole dei contadini, al loro “attenersi alle regole d’onore della lingua […] senza temere di variarla con personali e azzardate invenzioni”.
“La madre di Stefano stava appoggiata alla sponda del letto, interloquendo con grazia e vivacità, assistita dal tepore dei suoi occhi neri e dall’inconscio vezzo di ripiegare il capo con un gesto di bambina imbarazzata ma non timida, e, nel parlare, si copriva la bocca con la mano gonfia (altra fonte di commozione), certo per tener nascosti almeno in parte i suoi errori di alloglotta, certi mi dolcemente veneti al posto del friulano jo, certi dolci th che, sostituendo l’s sonora, davano alle parole non so che intonazione fanciullesca.”
Pasolini estende agevolmente le proprie osservazioni all’intero Friuli, poiché “era possibile in dieci minuti di bicicletta passare da un’area linguistica a un’altra più arcaica di cinquant’anni, o un secolo, o anche due secoli”. E le sue poesie nascono come frutto di “immediata gioia espressiva” secondo una definizione di Enzo Siciliano (Pasolini, una vita). Lo dichiara Pasolini, parlando di se stesso in terza persona: “in questa gioia immediata, che egli cercava di sagra in sagra, di gioventù in gioventù, persisteva però sempre un fondo di angoscia, una tetra sensazione, di non poter mai giungere al centro di quella vita che, così accorante e invidiabile, si svolgeva nel cuore di quei paesi”.


Lùnis

I.
Timp furlan! Na scussa umida
di sanbùc, na stela
nassuda nenfra il fun
dai fogolàrs, na sera
pluvisina - un pulvìn di fen.
tai ciavièj o in tal sen
di un frut ch’al ven
sudàt da la ciampagna
ta la sera rovana.
[…]

LUNEDÌ. I. Tempo friulano! Una scorza umida di sambuco, una stella nata in mezzo al fumo dei focolari, in una sera piovigginosa – un pulviscolo di fieno nei capelli o nel petto di un ragazzo, che viene sudato dalla campagna nella sera infuocata. […]
(da La meglio gioventù)


Cansion

Lassàt in tal recuàrt
a fruvati, e in ta la lontanansa
a lusi, sensa dòul jo i mi inpensi
di te, sensa speransa.
(Al ven sempri pì sidìn e alt
il mar dai àins; e i to pras plens
di timp romai àrsit, i to puòrs vencs
ros di muarta padima, a son ta l’or
di chel mar: pierdùs, e no planzùs).
Lassàs là scunussùs
ta ciamps fores-c’ dopu che tant intòr
di lòur ài spasemàt
di amòur par capiju, par capì il puòr
lusìnt e pens so essi, a si àn sieràt
cun te i to òmis sot di un sèil nulàt.
[…]

CANZONE. Lasciato nella memoria a logorarti, e nella lontananza a splendere, io mi ricordo di te, senza pena, senza speranza. (Si fa sempre più silenzioso e alto il mare degli anni; e i tuoi prati pieni di tempo ormai arso, i tuoi poveri venchi rossi di un morto riposo, sono sull’orlo di quel mare: perduti e non pianti). Lasciati là sconosciuti, in campi stranieri dopo che tanto intorno ad essi ho spasimato di amore per capirli, per capire il povero, lucente e duro loro essere, si sono chiusi con te i tuoi uomini sotto un cielo annuvolato. […]
(da La meglio gioventù)


Franco Fortini fu molto impressionato dalle poesie di La meglio gioventù, pubblicate dalle Edizioni dell’Academiuta de Lenga Furlana, di Casarsa, nel 1949 e che conobbe in una successiva edizione Sansoni (1964). Fortini dice, in Attraverso Pasolini, di ricordare, in particolare El testament Coràn, una poesia in settantadue versi di particolare bellezza anche per la musicalità della lingua friulana
El testament Coràn narra di un ragazzo di sedici anni (la vicenda è del 1944), comunista, dal “cuore ruvido e disordinato”. Orfano, lavorava per una famiglia di vicini, e la notte andava a prendere rane con altri ragazzi e poi si fermava con loro nel boschetto a giocare a carte e a cantare. La domenica, con la stessa compagnia, andava “via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo”. Incontra una ragazzina, Neta, di tredici anni, e va con lei…: è la sua “prima volta”. Scappa “pieno di ardore” a raccontare agli amici la grande novità della sua vita: ma il paese è “deserto come un mare”, la casa dei vicini brucia, le luci sono tutte spente; nella piazza vede un morto, in una pozza di sangue rappreso. Quattro tedeschi lo prendono, lo caricano su un camion: dopo tre giorni lo impiccano “al gelso dell’osteria”. Il ragazzo dichiara di lasciare in eredità la propria immagine “nella coscienza dei ricchi” e il suo ultimo “evviva” è per il “coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri”. C’è nella bellissima poesia un coraggio e un eroismo che commuovono e che ispirano profondo dolore ma anche una sorta di luminosa speranza nel futuro.


El testament Coràn

In ta l’an dal quaranta quatro
fevi el gardòn dei Botèrs:
al era il nuostri timp sacro
sabuìt dal soul del dovèr.
Nuvuli negri tal foghèr
thàculi blanci in tal thièl
a eri la pòura e el piathèr
de amà la falth e el martièl
[…]
Lassi in reditàt la me imàdin
ta la cosientha dai siòrs.
I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin
dei me tamari sudòurs,
Coi todescs no ài vut timour
de tradì la me dovenetha.
Viva il coragiu, el dolòur
e la nothentha dei puarèth!

IL TESTAMENTO CORAN. Nel mille novecento quaranta quattro facevo il famiglio dei Botèr; era il nostro tempo sacro, arso dal sole del dovere. Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello. […]
Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori. Coi tedeschi non ho avuto paura di tradire la mia giovinezza. Evviva il coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri!
(Da La meglio gioventù)


Nel volume già citato, Enzo Siciliano chiarisce ancora: “Scrivere poesia in friulano legava il poeta al nucleo di quella ‘vita’ [quella delle campagne friulane], ma, insieme, vistosamente segnava la sua lontananza e diversità da essa. Solo uno ‘straniero’ avrebbe potuto trascegliere suono da suono, vocabolo da vocabolo nelle proprie vergini orecchie”.
In sintonia con Siciliano è Fortini: “Per Pasolini la poetica romantico-popolareggiante e la poetica veristica si sono realizzate quasi unicamente nei dialetti e ‘delineare una storia di questo fenomeno sarebbe forse dare un volto meglio contornato all’Italia umbertina’. […] Ci si inoltra nella lettura di testi noti e ignoti, spesso straordinari, sempre rivelatori, con l’impressione di curvarsi sul mistero della nostra provincia e della nostra storia recente”.


Agreste n. 3

A sgrìsulin, a ùitin, a piulin
als, als, als, tal sèil i usiei.
La neif tai mons a brila
alta tsal sèil. I usiei
in-t-al çaldùt dal nul
a clamin
tan prin soreli a clamin
la primavera.

[Trillano, cinguettano, pigolano, alti, alti, alti nel cielo gli uccelli. La neve sui monti brilla alta nel cielo. Gli uccelli nel calduccio del nuvolo, chiamano, nel primo sole chiamano, la primavera.]
(da Poesie disperse I)


Nel 1952 Pasolini curò con Mario Dell’Arco una antologia dal titolo Poesia dialettale del Novecento. Franco Fortini così intervenne su «Comunità» in merito a tale lavoro: “Il saggio [di Pasolini-Dell’Arco] contiene, in filigrana, la tesi che nella poesia dialettale di questo mezzo secolo si debba vedere, in partenza, il conflitto fra il ‘populismo’ piccolo-borghese, romantico-veristico e l’ansia internazionale, cosmopolitica, della cultura in lingua, quella che Gramsci chiama la vocazione cosmopolitica degli intellettuali italiani con la loro «disorganicità» apparente (cui corrisponde una inconscia, e quindi deleteria, inserzione organica al servizio delle ideologie della classe dominante); e, in arrivo, un vero e proprio «genere letterario», quale può nascere non già dal rifiuto ma dall’accettazione della cultura internazionale. […]
“Non conosco, insomma, un libro di poesia che come questo avvii la possibilità d’una storia reale e nuova della nostra generazione. Se è possibile - con l’improntitudine delle quattro parole - accennare ai termini nei quali il discorso sui dialettali potrebb’esser ripreso, Gramsci e Pavese potrebbero darci consigli utili. Il primo, mostrandoci - come in parte ha inteso il Pasolini - a quali complessi ideologici e sociali riferire la polemica dei dialettali, quale sia il loro «regresso» e quale il loro «progresso»; e come la debolezza della nostra borghesia nazionale, l’incapacità a prender coscienza di sé e a far fronte al mondo moderno, abbia favorito, forse in Italia più che altrove, la scissione e la contraddizione fra la letteratura d’avanguardia e la letteratura e cultura regionali; questa, impedita ad un certo punto dal risolversi in lingua, quella tagliata fuori dalle radici sociali e diventata letteratura di déracinés” (sradicati).


Alba

O sen svejàt
dal nòuf soreli!
O me cialt jet
bagnàt di àgrimis!
Cu n’altra lus
mi svej a planzi
i dìs ch’a svualin
via come ombrenis.

ALBA. O petto svegliato dal nuovo sole! O mio caldo letto bagnato di lacrime!
Con un’altra luce mi sveglio a piangere i giorni che volano via come ombre.
[Versione friulana di Alba in L’usignolo della Chiesa Cattolica]
(Da Poesie dimenticate, Società filologica friulana, Udine 1965)


di Angela Molteni



@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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La religione del mio tempo - commento di Massimiliano Valente

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 

La religione del mio tempo
commento di Massimiliano Valente


"La religione del mio tempo esprime la crisi degli anni sessanta... La sirena neo-capitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall'altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue. Quando l'azione politica si attenua, o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell'evasione, del sogno ('Africa, unica mia alternativa') o una insorgenza moralistica (la mia irritazione contro certa ipocrisia delle sinistre: per cui si tende ad attenuare, classicisticamente la realtà: si chiama 'errore del passato', eufemisticamente, la tragedia staliniana ecc.". (1)
Così Pasolini spiega sulle pagine del settimanale del Pci "Vie nuove" parte del messaggio della raccolta di poesie La religione del mio tempo; uscito nel maggio del 1961, raccogliendo testi scritti tra il 1955 e il 1960. Anni particolarmente importanti, questi, per l'affermazione di Pasolini come letterato e regista. Sono gli anni di "Officina", e proprio sulla rivista creata insieme a Roversi e Leonetti vengono pubblicate per la prima volta le poesie La religione del mio tempo, Una polemica in versi, e gli epigrammi di Umiliato e offeso.
Se ne Le ceneri di Gramsci era evidente lo scontro tra passione e ideologia, tra religiosità e marxismo, ne La religione del mio tempo questi temi vengono assorbiti nella ideologizzazione del mito popolare, con punte evidenti di autobiografismo. Vengono, comunque, abbozzati i punti fondamentali del pensiero pasoliniano degli anni successivi. Particolarmente rilevanti i riferimenti all'"abbassamento del livello culturale sottoproletario" e alla latente omologazione del neo-capitalismo.
Nell'epigramma Alla Francia, Pasolini reincarna la mitologia del sottoproletariato africano e questo, successivamente, rappresenterà uno dei temi fondamentali, a livello documentaristico, del suo cinema.
Il volume testimonia il passaggio tra il populismo (che Pasolini ha smentito solo in parte) caratterizzante la sua opera e gli sfoghi autobiografici e alle avvilite riflessione delle Poesie incivili.
La ricchezza apre questa seconda raccolta poetica "romana" di Pasolini. Il pometto si apre con la descrizione di un operaio "col suo minuto cranio, le sue rase / mascelle" (2) davanti agli affreschi di Piero della Francesca, il ciclo pittorico della Leggenda della croce, nel coro della chiesa di San Francesco ad Arezzo.
"Il primo capitolo o movimento del racconto (tutta La ricchezza si sviluppa a lasse di libere strofe, in versi sciolti dall'obbligo di misura e di rima, con un sommario in frontespizio di capitolo) si chiude con la dizione di Nostalgia della vita, ad indicare un viaggio dal di dentro al fuori, dal tempo allo spazio, dalla memoria alla presenza. E' il tema eminentemente pasoliniano - e, certo, già proustiano - del passato presente, e di quella struggente partecipazione dell'escluso che fu già nel paradigma sentimentale di Leopardi. [...] Si potrebbe dire, rischiando la banalità, che la costruzione de La ricchezza ricalchi un'impostazione filmica del discorso vissuto, cui presiede la regola del viaggio e del montaggio, della carrellata e della soggettiva; insomma una struttura itinerante e deambulatoria, che si dichiara come fondante tutti i poemetti di Pasolini, dove il passo, il viaggio, l'andatura rispondono alla funzione argomentativa, che illustra e riflette accompagnando lo sguardo. Questa funzione diventa narrativa attraverso il movimento, il passaggio delle sequenze, il procedere di un sopralluogo e di un discorso che investe l'esperienza, la nostalgia di una presenza o di un'azione. [...] Un'altra soggettiva, un piano-sequenza, però spezzato da quel montaggio che nella lingua scritta della poesia è il pensiero metrico, con il taglio secco dell'enjambement, probabile equivalente verbale del découpage. [....] L'antinaturalismo primitivo e sperimentale del film, con l'uso di campi e controcampi (e dunque del montaggio) a infrangere l'apparente naturalezza del tempo dei corpi e della vita". (3)
Il poemetto ci porta da Arezzo, al paesaggio toscano, poi umbro attraverso l'Appennino e infine in una serata romana, fino alla visione di Roma citta' aperta:

..ecco.... la Casilina,
su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini...
ecco l'epico paesaggio neorealista,
coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano
le tetre forme della dominazione nazista...
Quasi emblema, ormai, l'urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiate vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
E' lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi. (2)

"Il nucleo del poemetto (diviso in sei grandi capitoli o movimenti interni, tranne il terzo interamente monologico della allucinata epifania romana) resta comunque consegnato a una sorta di mitografia e poetografia del sé, e cioè al racconto del proprio possesso culturale del mondo, tra 'ricchezza del sapere' e 'privilegio di pensare', tra le ossessioni della testimonianza, dell'amore e della sopravvivenza". (3)
"La parte iniziale della Religione del mio tempo si colora d'una malinconia dolce ed intensa, proprio perché lo sguardo del poeta s'affissa su due adolescenti plebei, che passano sotto le sue finestre di malato, già un pò malandrini, ma ancora allegri, ancora pienamente posseduti da 'da quel povero impeto | del loro cuore quasi animale'.
Abbiamo peraltro già detto che l'interesse di questa raccolta non è costituito dal ripetersi di temi populistici, ormai divenuti usuali nelle opere di Pasolini. Il tono dominante dell'opera è dato viceversa da un'esigenza di revisione, che investe non solo il presente, ma anche il passato e addirittura il futuro dello scrittore". (4)
La piccola ode A un ragazzo, come scrive lo stesso Pasolini :"Il ragazzo è Bernardo Bertolucci, figlio del poeta Attilio Bertolucci, e ora bravissimo poeta lui stesso". (5) L'ode si colora dell'elegia al fratello Guido, partigiano caduto per mano di partigiani nella Venezia Giulia. Pasolini sente quasi come una colpa la morte del fratello e così ricorda l'ultimo loro incontro:

"Era un mattino in cui sognava ignara
nei ròsi orizzonti una luce di mare:
ogni filo d'erba come cresciuto a stento
era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine
lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
granaio tra i campi ch'era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiva esanime
nel terrore dell'ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal solo contro l'ombra dei monti,
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l'erba
del binario, attendeva il treno per Spilimbergo...
L'ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella,
nel bianco colore dell'aria e della terra.
Le spalle un po' strette dentro la giacchetta
ch'era stata mia, la nuca giovinetta...". (6)

Il poemetto La religione del mio tempo é diviso in sei capitoli e scritto in terzine rimate, risente del clima politico creatosi dopo la repressione ungherese del 1956.
"In realt° nel mio libro una 'crisi' c'è: ed è detta, espressa, esplicita. [...] C'erano nel mio libro delle critiche dirette al Partito comunista: critiche, natuaralmente, nella lingua della poesia: ma comunque facilmente decifrabili e traducibili in termini logici. C'erano critiche al partito, quello concreto e operante, quello che è hic et nunc. Non certo alla ideologia marxista e al Comunismo! [...] L'ideologia de La religione del mio tempo, si deduce da La religione del mio tempo: non ne è preesistente in uno schema politico, più o meno rigido. Le opinioni politiche del mio libro non sono solo opinioni politiche, ma sono, insieme, poetiche; hanno cioè subito quella trasformazione radicale di qualità che è il processo stilistico". (7)
Il poemetto si apre con due ragazzi che si allontanano tra i palazzoni di Donna Olimpia, mentre nel quinto lemma vi e' una rievocazione di una nottata in auto con Federico Fellini verso il litorale romane. Pasolini rifiuta in blocco la nascente società neocapitalista e quella ipocrita e volgare dei clericali. Una Chiesa e uno Stato non hanno nulla a che fare con il sogno di resistenza religiosa che il ragazzo Pasolini aveva idealizzato. V'è in questi versi il netto rifiuto dello sviluppo scambiato per progresso.Una religiosità che porta il poeta, ora a esiti poetici altamente drammatici, ora a una spietata nostalgia, con quello che Fortini ha definito un "raro ateismo".
"La religione del mio tempo segna un momento di riflusso: l'effusione autobiografica, l'intenerimento sul proprio 'dolce' e 'infantile pianto', lo struggente vagheggiamento dell'antica 'religione' dell'Usignolo della Chiesa Cattolica reincarnata nel mito di un popolo 'allegro' e miserabile, 'ingenuo' e 'corrotto', 'stracciato' ed 'elegante' , goduto-sofferto al di là di ogni conflitto e confronto, al di là della società e della storia. Più precisamente Pasolini ripropone la sua ricorrente cotrapposizione tra quel 'popolo' e la città-società che lo confina alla sua periferia, dentro le borgate, nei termini di un contrasto tra 'religione' di 'cristi' sottoproletari e 'irreligiosità' del neocapitalismo, tra il 'sacrilego, ma religioso amore' e la Chiesa degenere e 'spietata', tra eresia evangelico-viscerale e 'Autorità', tra 'peccatori innocenti' e 'turpi alunni' di Gesù, tra l'aristocratica sordidezza dei sottoproletari e la 'volgare fiumana dei pii possessori di lotti'. Che non arriva a ricostituire qui un vero e nuovo dramma (e neppure a sviluppare quell'operazione sperimentale), ma al contrario si divarica sempre più in due direzioni opposte: l'invettiva oratoria, esclamativa ed enfatica, contro la Chiesa e lo Stato borghese da un lato, e l'idoleggiamento o rimpianto del mito friulano-materno e delle sue reincarnazioni, dall'altro con tutte le conseguenze relative al livello del linguaggio e dello stile. Solo in seguito Pasolini maturerà ed esplicherà con echi e significati più vasti, quel motivo di una mitologia preindustriale come momento di demistificazione e di rottura nei confronti del neocapitalismo". (8)
Il senso di crisi e le controversie letterarie e politiche di Pasolini si ritrovano nei dodici epigrammi di Umiliato e offeso e nei sedici Nuovi epigrammi che, insieme all'orazione poetica di In morte del realismo, compongono la seconda parte del libro. L'epigramma A un Papa apparso per la prima volta su "Officina" del marzo-aprile 1959 causa la rottura con l'editore della rivista Bompiani, e acutizza la progressiva e inarrestabile crisi dell'esperimento officinesco.
Nello stesso numero di Officina appare l'epigramma Ai redattori di "Officina", ovvero Leonetti, Roversi, Scalia, Romanò e Fortini:

"Donchisciotteschi e duri, aggrediamo la nuova lingua
che ancora non conosciamo, che dobbiamo tentare". (9)

Così Pasolini ai lettori di "Vie Nuove":

"I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia (epigramma intitolato Alla mia nazione) di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi - nei casi migliori - perché sono un poeta, cioè un matto. Come Pound: che é stato fascista, traditore della patria, ma lo si perdona in nome della poesia-pazzia... Ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante benpensante, ipocrita e disumana. [...] Per esempio, un epigramma intitolato Alla bandiera rossa. In esso delineo una tragica situazione di regresso nel sud (come si sa, coincidente con il progresso economico, almeno apparente, del nord) e concludo augurandomi che la bandiera rossa ridiventi un povero straccio sventolato dal più povero dei contadini meridionali. Forse per questo Salinari mi chiama, senza mezzi termini, senza appello, 'populista'". (7)

"Nei versi d'occasione 'ricalcati su Shakespeare' de In morte del realismo, Pasolini difende l'eredità 'dellostile mimetico e oggettivo / - la grande ideologia del reale -', in una sorta di testamento sulla tomba calda dell'ucciso che fu grande e diede, con l'opera di Gadda, Moravia, Levi, Bassani, Morante, Calvino, 'e una piccola Officina bolognese', buoni motivi per lasciare a ciascuno un po' di 'rinnovato / senso della storia'. La polemica e' contro 'tutti i neo-puristi', rappresentati da Cassola. [...] Gli oggetti polemici sono, a pari merito, il finalismo cattolico e laico, l'ottimismo rivoluzionario e il cinismo spiritualista, il puritanesimo ideologico del progressivismo e la calcolante ideologia della caducità cristiana, asservita ai fini uniformanti e conformi dei 'monopolisti della morte'. Tra questi, i poeti, che non dichiarano la coscienza della propria miseria storica, che si specchia comunque nel frutto di servitù della lingua: 'Nella lingua si rispecchia la reazione'". (3)
La raccolta si chiude con le Poesie incivili in cui Pasolini è in bilico tra il desiderio di fuga e la giustificazione della sconfitta privata. Tra i versi più belli e' Frammento alla morte dedicata a Fortini: "Una nera rabbia di poesia nel petto / Una pazza vecchiaia di giovinetto".
"Poesie come La rabbia e Il glicine, rappresentano seriamente la chiusura di una lunga fase dell'esperienza pasoliniana, senza riuscire peraltro a prospettare l'indicazione di una nuova e più feconda strada.
[...] Il motivo anche qui dominante è quello della crisi, della disperazione. Ma, più esattamente, esso assume ora il volto della rabbia. [...] Nella Rabbia è la rosa solitaria dello stento giardino del poeta a suscitare in lui un'ondata irrefrenabile di commozione e dolce-amara tristezza.." (4)
Ne La religione del mio tempo il nucleo centrale de Le ceneri di Gramsci, la poetica del 'dramma irrisolto', lo scontro tra 'l'essere con Gramsci' e 'le buie viscere', non viene risolto ma divaricato, attraverso la polemica in versi, la mitizazzione del popolo, ma anche la confessione autobiografica e il ritorno ad un mondo originario. In questo continuo riferirsi a un "inaridito io" in un mondo del tutto estraneo (A me), e all'opposto a una serie di personaggi pubblici è sintomatico di questa contraddizione. Ma la crisi che attraversa La religione del mio tempo è molto più profonda di questo dualismo e pone le basi per una grande ripresa del pensiero pasoliniano. Nell'epigramma A un papa Pasolini pone il contrasto tra la irreligiosità della Chiesa e la sincera religiosità dei sottoproletari attraverso una rivolta lucida e ferma; in Alla Francia Pasolini reincarna il mito sottoproletario nel mondo africano di Bandung, attraverso una documentazione che costituirà, in futuro, uno dei punti fondamentali della sua ricerca.
Massimiliano Valenti

Note:

(1) Pier Paolo Pasolini, da un articolo su "Vie Nuove" del 16 novembre 1961, raccolta nel volume Le belle bandiere, Editori Riuniti.
(2) Pier Paolo Pasolini, La ricchezza, da La religione del mio tempo, Garzanti.
(3) Gianni D'Elia, dalla prefazione al volume La religione del mio tempo, citato.
(4) Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Einaudi.
(5) Pier Paolo Pasolini, note da La religione del mio tempo, Garzanti.
(6) Pier Paolo Pasolini, A un ragazzo, da La religione del mio tempo, Garzanti.
(7) Pier Paolo Pasolini, da un articolo su "Vie Nuove" del 9 novembre 1961, raccolta nel volume Le belle bandiere, Editori Riuniti.
(8) Gian Carlo Ferretti, da Saggio introduttivo a Officina - cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, Einaudi.
(9) Pier Paolo Pasolini, Ai redattori di "Officina" - da La religione del mio tempo, Garzanti.


Tratto dal sito web di Angela Molteni

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