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martedì 27 gennaio 2015

P.P. Pasolini e il fascino del"Puer Aeternus - L’Usignolo della Chiesa Cattolica - di Giovanni Avogadri

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


L’Usignolo della Chiesa Cattolica 

di Giovanni Avogadri


"L’Usignolo della Chiesa Cattolica" di P.P. Pasolini e il fascino del "Puer Aeternus"


L’"Usignolo della Chiesa Cattolica " e’ sicuramente la meno frequentata delle raccolte poetiche di P.P. Pasolini.
Un critico molto attento e poco sensibile alle mode passegere, qual è P. V.Mengaldo, presentando alcune composizioni tratte dalla sovracitata raccolta in una recente Antologia poetica del Novecento Italiano, la giudica da una parte come tematicamente complementare alla "Meglio Gioventu’"- seppur ad essa decisamente inferiore - dall’altra la ritiene incapace di fungere da cerniera con la "poesia civile" de "Le ceneri di Gramsci".
Di certo non piace al Mengaldo il tono di "cattolicesimo cerimoniale e mortuario, sensuale ed ossessionante"; la -"vernice anticheggiante per lo più falso antico di stampo fine ottocento"- in cui -"l’intreccio di autenticità e manierismo è quasi insolubile (...) La voluttà di confessare, la messa a nudo del proprio senso di colpa si mediano costantemente nel gusto formale del pastiche, anche dinanzi agli esiti migliori il lettore ha un senso di disagio, come di fronte ad una doppia esibizione -".(1)
Se è vero che non possiamo non essere d’accordo con questi giudizi di Mengaldo, tutti ampiamente riscontrabili nel testo, è però altrettanto vero che dobbiamo prendere più sul serio la precisa volontà di "scandalizzare" che attraversa tutti i componimenti: non solo questione di "gusto", quindi, ma una precisa volontà espressiva che trova nel finale di "CROCEFISSIONE" la sua immagine più emblematica:


Noi staremo offerti sulla croce
(...)
per testimoniare lo scandalo .

Questo non può non evocare quanto tutta l’opera di Pasolini si fondi sulla antitesi, sulla contraddizione, al punto che Franco Fortini osserva come la sua -" più frequente forma di linguaggio sia quella sottospecie dell’oximoron che l’antica retorica chiamava "sineciosi ". (2)
Ebbene, di sineciosi l’Usignolo ma sovrabbonda, e ne vedremo in seguito alcuni esempi tratti dalla sezione "Il pianto della rosa", nella quale si fa più consapevole il senso della colpa, e come esso venga impugnato dal poeta quasi come arma di purezza e autenticità, in modo "cinico e innocente" [L’illecito].
Da parte loro, Asor Rosa e Giorgio Barberi Squarotti hanno dedicato all’Usignolo analisi attente e appassionate e vi hanno riscontrato, seppur in modo aurorale, quello che ritengono il nucleo pulsante di tutta la poetica pasoliniana: il grido, il tentativo di esprimere in piena icasticità il -" dilaceramento della coscienza, la lotta di peccato e di rimorso, di autorità e passione, di sentimento e ragione che sono temi fondamentali di tutta l’esperienza pasoliniana.(3)
Non quindi un’opera "da dimenticare" - come l’assenza di ristampe farebbe presagire - , ma un sorta di "overture" dove ascoltare un Pasolini già pronto ad eseguire i suoi temi cruciali.


"- Nelle grandi svolte della storia della cultura, e sopratutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire d’un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi.-"
(F.Jesi,"Letteratura e mito,Einaudi1968,p.13) 


Attraversando le pagine dell’ "Usignolo della Chiesa Cattolica", può capitare di entrare in contatto con diversi nuclei tematici, che si rincorrono in un via vai continuo, emergendo dalla materia poetica asistematicamente ma incessantemennte; a noi è parso che quasi tutti possono essere ricondotti alla costellazione archetipica del "Puer Aeternus", così come James Hillmann l’ha narrata nei suoi scritti sull’argomento.(4)
Particolarmente significativi ci sono parsi i seguenti nuclei tematici:


a) Soggetti e oggetti della parola poetica sono quasi esclusivamente immagini di Puer,adolescenti e ragazzi.
b) La figura ricorrente di Cristo Dio-Puer,come dice Hillmann in "Senex et Puer",
c) Il rapporto necessario tra il Puer e la morte;
d) il "sanguinare" del Puer;
e) il rapporto tra il Puer e la Madre;
f) il rapporto tra Senex e Puer e la ricerca del Padre.

Prov
iamo ora a tracciare la fenomenologia di questi importanti nodi seguendo lo svolgersi delle sezioni della raccolta poetica.
LE ALBE, inizio della prima sezione, si direbbe disegnato a mò di sfondo di questa eretica "Memoria di Cristo" [Jesus dulcis memoria], la quale si staglierebbe in tal modo su uno sfondo mitico, caratterizzato dalla continuità immobile dei padri nei figli:
[Corpo di tuo padre, labbra di tuo padre , che morte risuona nel tuo canto, che vita nel tuo quieto non esistere?]
Segue la sezione PASSIONE, dove la figura di Cristo ricorre in un supplizio estenuato, che non si conclude mai -evangelicamente- col: -"in manus tuas Domine"....
Qui lo spasimo appare dilatato all’infinito ed il Cristo è pura e terrifica icona della contrapposizione tra cielo e terra, un Cristo che non ritrova la pace nella comunione col Padre, un Cristo di cui il dato espressivamente più forte è la sovrabbondanza delle rappresentazioni della sola corporeità, in modo tale che suoni, odori e colori tratteggiano il livido della morte.
Ma sentiamo a questo punto Hillmann a proposito del tema del "sanguinare":


-"Il sanguinare di Gesù è la trasfigurazione su un piano teologico di un fondamentale motivo puer (...) Come l’eroe (cioè il puer) non può mettere fine alla sua mania di massacro (Achille infierì per dodici giorni sul cadavere di Ettore), così l’eroe al rovescio non può arrestare il proprio sangue. Non ha lacci emostatici, anche perchè il suo sanguinare è così bello. Perchè arrestare un tale sangue? Un sangue che contiene fiori latenti? I miti ci narrano più volte che dai puer uccisi sbocciano splendidi fiori. Tramite le sue ferite il puer è trasfigurato in gloria."(5)

Perciò, in Pasolini/ Cristo eretico/ Puer , possiamo trovare una trasfigurazione poetica del soggetto che si espone come "sanguinante" per affermare la propria posizione nel mondo e così fare della croce/contraddizione un pulpito o una cattedra.
Senza dimenticare quello straordinario


[Cristo ... corpo di giovinetta]

che così improvvisamente all’inizio evoca senza mezzi termini il tema mitico (ed eretico) del Cristo/Puer/Androgino.
IN MEMORIAM, dopo tali tinte forti e fortissime, l’autore decide per una forma più " familiare" dell’immagine puer, quella del fratello partigiano morto, cifra di idealità tradita e vulnerabilità: un’immagine fermata dalla morte nel tempo del ricordo.
L’USIGNOLO è composto pure di prose poetiche e dialoghetti, che di nuovo insistono sul legame necessario tra il puer e la morte [II,VII].
Fanno però qui la loro comparsa anche due figure femminili: anzitutto la Sera, che nel dolce dialogo col Giovane assume ora le sembianze del richiamo delle feste e delle osterie, ora della dolcezza sensuale della Notte, ora dei canti di chiesa, in una descrizione dei luoghi che ritroveremo ricorrenti, tipicizzati ne "il sogno di una cosa", a dipingere un vero e proprio "epos friulano", così decisivo nel mondo dell’autore.
Ma la Notte, la Natura, Il Friuli, sono qui segni e richiami che possiamo dire materni.
Nel dialogo VIII pare ribaltarsi, infatti, l’immagine d’una poesia precedente,dedicata alla madre nella casa di Bologna,il 10 marzo del 1939:


[E tu sei nata,
mamma per essere una lodoletta]

Con un tono da idillio infantile, ora è " l’usignolo" Pier Paolo, ferito, a posare il capo sul seno della Fanciulla.
Inutile forse aggiungere qualcosa a ciò che si è detto a proposito del rapporto tra Pasolini e la madre, se non che già qui fa il suo ingresso -seppur in modo aurorale- l’immagine delle madre non solo come "tema", ma in quanto naturale scaturigine dell’atteggiamento poetico e religioso di Pasolini nei confronti della vita e della poesia: non dobbiamo dimenticare che è stata proprio Susanna Colussi-Pasolini a mostrare al piccolo Pier Paolo di 7 anni come si compone materialmente una poesia:


- "Qualche giorno dopo scrissi i miei primi versi, dove si parlava di rosignolo e di verzura"-.(6)

Ma ancora avanti, in "ANNUNCIAZIONE", i figli chiedono che


[Sia fanciulla sempre la vita
nella severa tua vita fanciulla]

e una madre-fanciulla non può che costellare una situazione mitica in cui


[pei figli vergini
io sarò vergine]

con toni pacificati e rasserenati che non troveremo più in tutta la raccolta.
Già subito dopo, nelle LITANIE, troviamo espresso lo stesso rapporto, stavolta consapevole della sua peccaminosità "santa".
Divagando e improvvisando sulla forma liturgica, un pò come le "saetas" che i fedeli di Siviglia lanciano verso le immagini sacre durante le processioni della Settimana Santa, fa il suo ingresso l’ossimoro, la sineciosi a cui facevamo riferimento all’inizio:


[pace paurosa]..
[gesto santo del mio peccato]...
[corpo caldo e innocente]...
[crudo amore]...
[casto cuore ...cuore che vuole peccare]

Il senso di colpa, affermato e sentito come estraneo, si manifesta alfine apertamente con un temuto e trepido svelamento:


[Madre!Quel lume è tanto puro che la tua coscia pare di neve], [Seni d’avorio nidi di gigli non vi ha violato mano di padre]

Ma è
successivamente, in MEMORIE, che troviamo la più limpida dichiarazione d’amore per la madre:


[Torno alle giornate
più remote del nostro
amore, una marea
di muta gratitudine
e disperati baci.
Tutta la mia infanzia
è sulle tue ginocchia
spaventata di perderti
e perdutamente
felice di averti]

La purezza del sentimento sta tutta nella primaria connessione tra amore per la madre e amore per la vita "allo stato puro", archetipica connessione troppo insistita per passare inosservata:


[quanto amavo una
vita troppo bella per me...];
[tu sola davi la solitudine
a chi, nella tua ombra,
provava per il mondo
un troppo grande amore];
[e un troppo grande amore
nel cuore, per il mondo].

L’insistita "ingenuità" espressiva ci ripete che l’amore per il mondo è "troppo", un eccesso che costella e pone immediatamente il suo opposto, l’incapacità di entrare davvero nella vita....Ma perché questo? Quale struttura di coscienza giustifica tale esperienza esistenziale?
Sentiamo ancora Hillmann :


-"Il Puer Aeternus è quella struttura di coscienza e modello di comportamento che a) rifiuta e combatte il Senex- il tempo, il lavoro, l’ordine, i limiti, l’apprendere, la storia, la continuità , il sopravvivere ed il resistere."-(7)

Se ascoltiamo bene Il Fanciullo Eterno, lo Splendido Adolescente, e anche l’Angelo Necessario, e quant’altro le epifanie di questo spirito disincarnato ci vogliono dire, molto spesso, quasi sempre, essi ci diranno la loro incapacità di vivere.

Il rapporto tra affermazione del proprio peccato e senso di colpa con il conseguente "non credo", sono ormai alle porte; IL PIANTO DELLA ROSA ne segna la definitiva presa di coscienza e l’espressione poetica col SERMONE DEL DIAVOLO:


[Fanciullo,sei un mostro
quale coscienza,
quale arte nell’inganno];

L’ILLECITO:


[ormai tu m’hai capito,
e, non coerente,
mio cinico innocente
gusti il frutto proibito];

e,ancora,in SOLITUDINE:


[Arrosisci? Mi scacci?
pensati tredicenne
in treno, con le mani
strette sul grembo tenero.
pensati sotto il fiotto
della doccia, a Bologna
col costume disciolto
ebbro di vergogna];

oppure SUPPLICA:


[ben dolcemente sfiori
le note della carne
e quel fioco concerto
mi devasta il cuore].

Adesso l’autocoscienza de L’ANGELO IMPURO,


[Eccomi dunquein piena eccelsa confidenza con la mia presenza, angelo impuro ch’amo];

assieme alla passione di BESTEMMIA


[Sì,sono animato dalla felicità di sentire l’ardore che fa di me un Nato]

possono produrre in PAOLO E BARUCH, nel NON CREDO, in LINGUA e TRAGIQUES, quelli che mi sono parsi gli esiti poetici più alti :


e cioè la consapevolezza poetico esistenziale di LINGUA; la solida, icastica dichiarazione costituita da CROCEFISSIONE; i gorghi di passione, angoscia e consapevolezza che ci sgomentano ne LE PRIMULE, l’EX VITA, LA BALLATA DEL DELIRIO; l’effusione turbata ed estatica, al limite del dicibile, di CARNE E CIELO.

Ma forse qui conviene fermasi analiticamente.
In LINGUA Pasolini confessa la sua


[fanciullesca speranza
senza ironia]

nella "Forma preesistente",che assume ora i tratti della poesia "codificata"


[O endecasillabo d’avorio],

ora quelli della tradizione come "orribile statua":


[feci ingresso nel museo vigilato
degli adulti],

per cui adesso immagina che solo senza questa forma odiata-amata, forma che appartiene al mondo del Senex ["minaccia d’alabastro"] si possano rivivere


[gli slanci per mia madre le soggezioni per il mio grembo]

Perchè così, poi


[Ritroverò stupori senza ombra per l’orologio, il topo, la fionda i compagni la chiesa la piazzetta].

Non c’è forse altro luogo più di questo, dove la voce del Puer dichiari la propria estraneità al mondo del Senex, al "museo degli adulti" opposto alla piazzetta, la fionda, i compagni, in una immagine invero un pò abusata. Ma Pasolini sa egregiamente trascendersi e rendere poeticamente l’ipostasi di complessi che sente vivere nella sua vita in una chiusa magistrale:


[No, non ho madre, non ho sesso, ho ucciso il padre col silenzio, amo la mia pazzia di acqua e assenzio, amo il mio giallo viso di ragazzo,le innocenze che fingo e l’isterismo che celo nell’eresia o lo scisma del mio gergo, amo la mia colpa che quando entrai nel museo degli adulti era la piega dei calzoni, gli urti del cuore timido: e tu rifiuti ciò per cui ti amo, non mi muti].

E’ a partire da questa consapevolezza poetico-esistenziale che mi pare possibile cogliere, nella sezione L’ITALIA, il tentativo di vedere la realtà a partire da una prospettiva diversa da quella dei Padri: sono infatti tutti giovani, ragazzi, bambini quelli che possiamo trovare nelle strade e nelle città attraversandone i diversi capitoli, un mondo di Figli adolescenti guardato in carrellate davvero cinematografiche, con quegli squarci che ritroveremo in "Ragazzi di vita", "Accattone", "Il sogno di una cosa", "Mamma Roma" e sta forse proprio qui l’inizio di quel "populismo descrittivo", realistico solo falsamente perchè animato dal tentativo di scappare dal "Mondo dei Padri".
In CROCIFISSIONE, come una sorta di definitiva epifania, ritorna il tema della Passione, del Cristo sanguinante immagine del poeta-puer; una specie di TEOREMA ante litteram, una dichiarazione di posizione esistenziale. Qui c’è già tutto il Pasolini "luterano-paolino", eretico portatore delle evangelica "necessità dello scandalo": il Cristo muore infatti "Sotto gli occhi di tutti", e le connotazioni insistono sulla visione: "Esibire", "guarda", "gli fanno luce". Occorre insomma "essere esposti" giacchè


[la chiarezza del cuore è degna di ogni schermo di ogni peccato di ogni più nuda passione];

ma è la chiusa che stupisce per la capacità di sintetizzare le sembianze del Cristo-poeta-puer: lo stare esposti alla gogna, l’offerta del proprio corpo come "oggetto sacrificale", il sanguinare:


[scoprendo all’ironia le stille del sangue dal petto ai ginocchi].

E’ evidente come qui l’intreccio di "intelletto e passione" e la "testimonianza dello scandalo" contribuiscano ad evocare non solo la poetica di tutto Pasolini, ma finanche una sorta di profezia esistenziale sulla vita e sulla morte del poeta (Baruch è profeta!).
Non ci rimane che osservare quanto l’archetipo del puer si sia impossessato del Nostro, qui sopratutto nella sua autodistruttività, nonchè nell’innocente e sfacciato bisogno di esporsi.
Come dice Hillmann, il sanguinare è connesso ad una:


-"immagine di vulnerabilità in generale: la pelle è troppo sottile per la vita reale, la sensibilità a ogni strumento appuntito d’attacco, l’assenza di difese della verità giovanilmente ingenua ed aperta"-(8).

E di nuovo l’incapacità ad entrare nel tempo, la consapevolezza che l’archetipo della giovanile purezza è estraneo alla temporalità del senex, è ben espressa nella chiusa de LE PRIMULE: quel "non invecchio" dice che


[dentro il mio cuore c’è un resto eterno di fanciullezza(...) Cibo delle primule e del mio cuore, fa ogni cielo diverso, ogni alito d’aria il primo, ogni battito d’ali annuncio di creazione]

Veramente qui trova eco la situazione epocale dell’uomo moderno,descritta così da F.Jesi:


-" L’uomo moderno al quale è rivolto -ma si potrebbe anche dire: dal quale è nato- l’insegnamento della psicoanalisi, denuncia, riconoscendo così nel proprio volto più segreto i tratti del fanciullo, un’intima percezione della fine di un ciclo, e si ritrova nella condizione dell’orfano primordiale, abbandonato dinanzi all’alba del mondo."-(9)

A questo punto è necessario sviluppare almeno un pò l’ultimo aspetto, preannunciato, dell’archetipo del puer, che quasi in forma di "non-detto" possiamo intravedere da alcuni scorci dei versi dell’Usignolo: e cioè il fatto che la "Costellazione Puer" si definisce sopratutto nel rapporto col Padre.
In questo senso ci può essere d’aiuto Enzo Siciliano, che nel suo "Vita di Pasolini" ha brillantemente messo in evidenza una fulminea epifania del rapporto di Pasolini con l’immagine del padre. Anche qui si arriva mediante un episodio che ha tutto il sapore di una rivelazione improvvisa, densissima di rimandi simbolici ed esistenziali: l’episodio del cinema con Rita Hayworth che canta "Amado mio" sullo schermo, dall’omonimo romanzo incompiuto... Era quello "Il più bel film visto da Desiderio":


-"Davanti a Gilda qualcosa di stupendamente comune invase tutti gli spettatori. La musica di Amado mio devastava. Così che le grida oscene che si incrociavano per la platea, gli "attento che ti si spaccano i bottoni", i "Quante te ne fai stasera?", parevano fondersi in un ritmo dove il tempo pareva finalmente placarsi, consentire una proroga senza fine felice. Anche quando Iasìs, abbracciato da Desiderio, gli posò il capo su una spalla, e in quell’atmosfera da orgia consumata al di là del tempo, prima della morte, il petto di Desiderio parve finalmente sciogliersi, fu una commozione a un livello dove le lacrime si gelavano. Rita Hayworth con il suo immenso corpo, il suo sorriso e il suo seno di sorella e di prostituta -equivoca e angelica- stupida e misteriosa con quel suo sguardo di miope, freddo e tenero fino al languore- cantava dal profondo della sua America Latina da dopoguerra, da romanzo-fiume, con una inespressività divinamente carezzevole...
C’è R.Hayworth sullo schermo, col suo "grande corpo", epifania della inconoscibile Natura, punto terminale di una tensione fisica riconoscibilissima ("Attento che ti si spaccano i bottoni") ,la donna "contadina" col suo languore suggerisce, riscatta, india. Sembra essere lei, nell’attimo in cui si sfila il guanto "con delicata libidine e furiosa pazienza" a spingere Iasìs al suo "Stasera": -e quell’attimo fu un "urlo di gioia, un dolce cataclisma".

Clinicamente si può parlare credo di un arresto della libido alla fase adolescente. Ma la proiezione paterna, in essa, vibra insidiosa. Desiderio stringe col braccio gli omeri del suo ragazzo: questi gli posa il capo sulla spalla -il rapporto è inequivoco. Lo scrittore è qui certamente scisso: è l’uno e l’altro; è il padre e il fanciullo -uniti da un’urgenza appassionata che si compie davanti all’epifania irresistibile della femminilità (...) A questo punto un’ipotesi. L’incompiutezza del racconto sta altrove che in esso: sta in ciò che la vita vi ha racchiuso come simbolo: -l’incompiuto rapporto con l’immagine del padre che Pasolini ospitava dentro di sè (...) In quell’ incompiutezza narrativa -una incompiutezza più supposta che reale, ripeto- Pasolini nascose, per uno di quegli imprevedibili rinvii, cocenti e immediati, della vita nell’arte, il senso della propria ossessione: farsi padre al proprio ragazzo, perchè questi rispecchiasse in lui, rendendogli l’abbraccio, tutte le sue nostalgie inappagate di figlio.-" (10)
Lacerti di questo che può forse dirsi lo "sfondo oscuro"su cui Pasolini dipinse la sua vicenda umana e poetica, sono già presenti nell’Usignolo: impliciti nella PASSIONE nella figura di Cristo, "Dio -Puer", arrivano ad esprimersi nella CROCEFISSIONE, dove chiedendosi il poeta qual sia l’insegnamento del Cristo inchiodato, egli pare volerci suggestionare con uno



[sporgersi ingenui sull’abisso];

non potrebbe tutto ciò richiamare dalle profondità simboliche evocate dal Cristo in croce proprio l’icona del rapporto col Padre?
La costellazione archetipica del puer è stata invece troppo spesso -secondo Hillmann- associata a quella della Grande Madre:



-" Tanto il Figlio che soccombe quanto l’eroe che prevale traggono la loro definizione attraverso la relazione con la Magna Mater; il Puer invece la trae dalla polarità Senex-Puer (...) La dominante giovanile della coscienza nel suo sorgere e che governa lo stile della personalità dell’ io può essere determinata dal Puer (e dal Senex) oppure dal figlio e dall’eroe."-(12)

Se dunque il rapporto tra Pasolini e la madre è "scandalosamente" esposto in tutto l’Usignolo, forse il rapporto con lo "spirituale", il "paterno", è il Grande Rimosso della vita e della poesia del Nostro. Per rintracciarlo ci si può affidare a frammenti, come la strordinaria fine di MEMORIE, nel quale adesso l’intuizione di Siciliano ci illumina quel


[Mi innamoro dei corpi
che hanno la mia carne di figlio]

Fin dove Pasolini amava nei giovani la sua carne di figlio in quanto figlio della madre, e fin dove in quanto figlio del padre?
Si può rispondere a ciò seguendo l’apparire dei due aspetti del puer nel cammino poetico ed esistenziale del poeta: e se l’esordio dell’Usignolo richiama esplicitamente il rapporto Puer-Magna Mater ed ombreggia quello Senex-Puer, è nelle ultime opere teatrali che riappare l’ombra del Padre, come in Pilade:



[In nessun modo si ama meglio che nel sogno:ameremo così i nostri indimenticabili padri sognandoli. E ci racconteremo i sogni...](13)

Ancora, per bocca d’Oreste


[Andrò a pregare sulla tomba del mio povero padre.
non l’ho dimenticato, egli è ora nei miei sogni, e nei miei sogni mi parla con parole di grazia...]

Che cosa avrebbe mai detto il padre con tali "parole di grazia?", quale rapporto avrebbe voluto avere Pasolini col padre?
Come avviene anche in AFFABULAZIONE, secondo Siciliano -



" Ciò che Pasolini chiedeva a suo padre è di essere quel GRANDE ALBERO SENZA OMBRA: un padre senza carisma, ricco di un carisma più grande, quello che è attribuito solitamente alla Divinità. Un padre il cui sesso non appartiene, un padre che non feconda materialmente, ma feconda nello spirito."-(14)

Presa di coscienza, sia pur letteraria della Grande Rimozione del suo destino di Figlio?
L’Usignolo si conclude con una sezione che sembra messa lì per segnare, più che mai contradditoriamente, l’incipit finto-decadente dell’immagine fine ottocento del titolo, stavolta con il finto razionalismo de LA SCOPERTA DI MARX, anticipato e chiosato da una citazione di Gor’kij così esplicitamente autoironica da spingerci a riportarla:



-"Io so che gli intellettuali nella gioventù sentono realmente l’inclinazione fisica verso il popolo e credono che questo sia amore. Ma questo non è amore: è meccanica inclinazione verso la massa"-

[con esso mi imprigiono
nello stupendo dono
ch’è ormai solo ragione
(…)
Ma c’è nell’esistenza
qualcos’altro che amore
per il proprio destino.
E’ un calcolo senza
Miracolo che accora
O sospetto che incrina.
La nostra storia! Morsa
Di puro amore, forza
Razionale e divina]


Ebbene, anche la conclusione è segnata nell’intimo dall’ossimoro, dalla sineciosi, che possiamo infine davvero considerare stimmate di tutta una vita, scelta di coerenza estrema, eccessiva, della vita e della poesia al proprio "mito"; una coerenza che se non sempre offre esiti poetici pienamente appaganti, tuttavia non smette di esercitare il suo fascino, quello appunto del Puer Aeternus. 

Note:

(1) P.V.Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori 1978,pg.782 


(2) F.Fortini, Saggi italiani, Bari, Di Donato 1974, p.122 

(3) G.Barberi Squarotti, Poesia e narrativa del 2o Novecento, Milano Mursia 1971,p.140/148

(4) James Hillmann: -Senex e Puer,Marsilio Padova,1978 -Saggi su Puer,R.Cortina ed.Milano 1988 

(5) J.Hillmann, Saggi su Puer, R.Cortina Milano 1988 

(6) Al lettore nuovo, prefazione di P.P.Pasolini a Poesie, Milano Garzanti 1970, p.6 

(7) J.Hillmann, ibidem, p.13 

(8) " , " , p.34 

(9) F.Jesi, Letteratura e Mito, Einaudi, Torino, 1968, p.12 (10) E.Siciliano, Vita di Pasolini, Milano, BUR 1981, ppgg.151, 152, 153. 

(11) J.Hillmann, ibidem, p.113. 

(12) P.P.Pasolini, Affabulazione e Pilade, Milano, Garzanti,1977, p.124


Fonte:
http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Saggio&Id=1




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

Moshe Kahn traduttore di Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini: tra strategie traduttive e considerazioni metalinguistiche - Tania Baumann

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 


Moshe Kahn traduttore di Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini: tra strategie traduttive e considerazioni metalinguistiche

Tania Baumann

AnnalSS 6, 2009. Lost in Translation. Testi e culture allo specchio
 

 
Il romanzo Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini appare nel 1955 e comporta subito per il suo autore un’incriminazione per oscenità. Non solo la sua ambientazione è scandalosa – il romanzo mette a nudo la squallida realtà della periferia romana, le borgate, e ha come protagonista il sottoproletariato che vive in esse – ma anche e soprattutto il suo linguaggio: sulla lingua standard della voce narrante, talora contaminata da regionalismi e voci dialettali, si innesta, in un procedimento mimetico, il dialetto romanesco dei personaggi. Si tratta, più propriamente, di una ristretta e particolare variante di romanesco, cioè del "gergo della malavita o della  plebe romana" (Pasolini 2005: 243), ricco di frequenti interiezioni ed espressioni volgari(1). Per ottenere l’effetto mimetico del linguaggio dei personaggi, elemento fondamentale della poetica del romanzo, lo scrittore effettua una ‘ricerca sul campo’ nelle borgate romane, rivolgendosi soprattutto al suo informatore Sergio Citti, pittore nel quartiere della Maranella, e annotando "su un foglio di carta […] modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei ‘parlanti’ fatti parlare apposta" (Pasolini 1979: 211).
Una parte del "tesoretto lessicale" (Pasolini 1979: 211) frutto di questa  ricerca filologica sfocia nel "Glossario" appendice del romanzo nel quale lo  scrittore elenca, "più per scrupolo, e curiosità, che per effettiva utilità […] un certo numero di parole dialettali e gergali con la loro traduzione"; egli  infatti è convinto "che non ci sia lettore che, pur imbattendosi per la prima  volta in qualcuna delle parole del gergo della malavita e della plebe romana,  non ne afferri o non ne intuisca il significato" (Pasolini 2005: 243). L’uso  alternato di lingua standard e dialetto è soprattutto funzionale ad una  "differente resa ideologica" delle vicende rappresentate nel romanzo:  l’adozione del dialetto permette "un’adesione immediata alla realtà  rappresentata", quella della lingua standard invece il distacco della voce  narrante da essa, che si esprime attraverso l’ironia, l’intenerimento, la pietà e  la didascalicità (Mannino 1974: 69).


 La particolare struttura linguistica di Ragazzi di vita, come d’altronde di  ogni altro romanzo che presenti inserti dialettali o ‘misture’ linguistiche,  confronta il traduttore con problemi notevoli: come rendere il dialetto  romanesco nella lingua d’arrivo? Forse non è un caso che il romanzo sia  stato tradotto in tedesco soltanto nel 1990, ben quarantacinque anni dopo la  sua pubblicazione in Italia. La traduzione è stata affidata a Moshe Kahn,  uno tra i più rinomati traduttori contemporanei di testi letterari dall’italiano al tedesco, che ha al suo attivo un’esperienza pluridecennale: oltre a Ragazzi di vita ed altri scritti pasoliniani ha tradotto opere di Luigi Malerba, Primo  Levi, Roberto Calasso, Beppe Fenoglio, Dacia Maraini, Salvatore  Mannuzzu, Stefano Benni e Andrea Camilleri, ottenendo per lo più, da parte degli scrittori tradotti e dei critici tedescofoni, reazioni molto favorevoli.
La traduzione di Ragazzi di vita, oltre al problema della resa del dialetto gergale, pone al traduttore anche quello del divario temporale: il destinatario implicito del testo originale era l’italiano degli anni del cosiddetto miracolo economico che, leggendo il libro, veniva messo a confronto con una realtà che lo circondava o di cui, perlomeno, aveva conoscenza, ovvero la situazione di miseria economica e morale che stava proliferando ai margini dei maggiori centri urbani, icone del benessere e del nascente consumismo.
Ma nemmeno il lettore italiano odierno ha difficoltà di comprensione, né per quanto concerne la sapiente ‘mistura’ linguistica del romanzo, né riguardo alle vicende narrate: egli può far affidamento sul proprio Weltwissen, ovvero su una determinata ‘conoscenza del mondo’ che egli possiede in quanto appartenente alla comunità linguistica e culturale italiana. È evidente  che la situazione è più complessa per il lettore tedescofono che si può confrontare col testo solo a partire dal 1990 e non dispone delle stesse conoscenze del destinatario implicito del testo originale.

Generalizzando possiamo affermare che un autore solitamente produce un testo per destinatari appartenenti alla sua stessa comunità linguistica e culturale. Il testo originale ‘funziona’ appunto nel contesto comunicativo della comunità linguistica e culturale nella quale è incastonato. Questo significa, d’altro canto, che il testo viene recepito sullo sfondo di un insieme di norme che costituisce l’orizzonte delle aspettative del ricevente. La particolare composizione del testo ad opera dell’autore e l’orizzonte delle aspettative del destinatario si condizionano a vicenda: le norme che vincolano le aspettative del ricevente condizionano le norme di scrittura dell’autore; le norme di scrittura dell’autore fanno a loro volta riferimento alle norme su cui si basano le aspettative del ricevente, confermandole, contraddicendole e, eventualmente, cambiandole. Ovviamente le norme che vincolano le aspettative non sono identiche per ogni ricevente di una comunità linguistica e culturale, ma dipendono, fra l’altro, dall’appartenenza sociale, dal livello culturale, dalle conoscenze linguistiche e dal sapere enciclopedico personale del ricevente, dalla situazione di ricezione sia individuale che storico-sociale (cfr. Koller 2004: 107-108).

Nella comunicazione bilingue, come avviene nella traduzione, le condizioni comunicative sono più complesse: il traduttore è insieme ricevente ed emittente del testo, in quanto riceve il testo originale, che diventa testo di partenza, ne traspone il codice e diviene in tal modo l’emittente del testo nella lingua d’arrivo (cfr. Koller 2004: 106-107). Dalla sua capacità di mediazione dipende il successo della comunicazione. Nel caso di Ragazzi di vita, Moshe Kahn ha scelto di rendere la mediazione il più efficace possibile attraverso l’aggiunta di spiegazioni – usate con molta parsimonia: sono 24 in tutto – che evidenziano casi di intertestualità (per esempio i rimandi alla Divina Commedia) e spiegano alcuni elementi specifici della cultura italiana quali per esempio località di Roma, canzoni popolari ecc. È inoltre autore di una documentata postfazione, nella quale ripercorre le vicende burrascose che hanno accompagnato l’uscita del romanzo in Italia, tracciando al contempo un quadro storico della vita socioculturale e politica dell’Italia degli anni Cinquanta e presentando quindi la poetica pasoliniana. Nel paragrafo conclusivo della postfazione, infine, Kahn espone le proprie strategie traduttive. Si tratta di un brano molto interessante, poiché contiene riflessioni metalinguistiche che costituiscono il fondamento su cui poggia la traduzione. Per quanto concerne il problema di maggior rilievo del romanzo, la resa del romanesco in tedesco, il traduttore spiega:
 

Schwierigkeiten [bestanden] beim genauen semantischen Verständnis des römischen Dialekts, das Gewichtungen entsprechender deutscher sprechformen erst ermöglicht. Ziemlich bald wurde mir klar, daß der Umgang mit einem deutschen Dialekt – das Berlinerische hatte sich für eine deutsche Entsprechung des Römischen verführerisch aufgedrängt – ausgeschlossen werden mußte. Gefragt war ein allgemein verständlicher Jargon, der es mir ermöglichte, einerseits eine deutsche Übertragung zu geben, andererseits dem Text das ‘Römische’ zu belassen. Hilfreich, sogar unentbehrlich, wie schon für Pasolini, war mir dabei Sergio Citti. So entwickelte ich im Lauf der Arbeit Sprechweisen für die Übersetzung, die, bei genauerem Hinsehen, an manchen Stellen zwar keiner gängigen deutschen Ausdrucksweise entsprechen, aber durchaus zu einer deutschen Ausdrucksweise werden könnten (Kahn 1990: 236)(2).

L’ultima frase del brano citato, in particolare, sembra ricollegarsi all’idea di Friedrich Schleiermacher secondo il quale soltanto una traduzione straniante, ossia "eine Haltung der Sprache, die nicht nur nicht alltäglich ist, sondern die auch ahnen läßt, daß sie nicht ganz frei gewachsen, vielmehr zu einer fremden Aehnlichkeit hinübergebogen sei"(3) (Schleiermacher 1963: 55) è in grado di evidenziare il Geist der Sprache insito nell’opera letteraria straniera, ovvero "die bildende Kraft der Sprache, wie sie eins ist mit der Eigenthümlichkeit des Volkes"(4) (Schleiermacher 1963: 60). Inoltre, Schleiermacher attribuiva a questo metodo traduttivo il merito di fecondare ed arricchire il patrimonio linguistico della lingua d’arrivo, contribuendo in tal modo allo sviluppo di questa (cfr. Schleiermacher 1963: 69-70).

Nella sua postfazione, Moshe Kahn non spiega il motivo della rinuncia al berlinese quale corrispondente tedesco del romanesco ma, anche in considerazione di quanto appena esposto, tale scelta è sicuramente riconducibile al diverso valore connotativo di entrambe le parlate: il
sottoproletariato protagonista di Ragazzi di vita ha origini contadine e mediterranee che inequivocabilmente trovano espressione nel linguaggio dei personaggi e sono note al destinatario del testo originale. Il sottoproletario berlinese, invece, ha caratteristiche derivanti da una realtà metropolitana ed industriale che sono altrettanto note al destinatario del testo d’arrivo. La resa del romanesco del testo di partenza col berlinese nel testo d’arrivo avrebbe quindi provocato una frattura tra forma e contenuto e portato ad un risultato decisamente deformante. La strategia traduttiva adottata in questo caso da Kahn sembra dunque la soluzione migliore, in quanto propone un linguaggio gergale tedesco senza specifici connotati diatopici, ma con chiara valenza diastratica.

Per quanto riguarda la resa in tedesco del colore italiano in generale e del romanesco in particolare, il traduttore sfrutta diverse strategie traduttive: il titolo del romanzo (Tab. 1) è stato mantenuto invariato in tedesco, con la sola aggiunta della specificazione del genere letterario, che manca invece nel testo originale. Nella traduzione dei titoli dei singoli capitoli (Tab. 1) si possono osservare sia prestiti (Il Ferrobedò/Der Ferrobedò; Il Riccetto/Riccetto; Ragazzi di vita/Ragazzi di vita –Jungs von der Straße) che adattamenti (La comare secca/Der Knochenmann)(5). A livello grafico si può infine notare che la numerazione dei capitoli italiani è soppressa nella versione tedesca.

 

 
 
Per i versi che appaiono in epigrafe ad alcuni capitoli (Tab. 2), Kahn ha cercato di proporre l’uso alternato tra lingua standard e linguaggio colloquiale e gergale che caratterizza tutto il romanzo – un’impresa assai difficile data la frammentarietà delle epigrafi in romanesco, ma risolta in modo magistrale: la lingua standard è stata impiegata per i versi tratti da Dante e da Tolstoj – nel caso della Divina Commedia è citata la più autorevole traduzione tedesca, quella di Hermann Gmelin; per i versi tratti da canzoni popolari e dalle poesie dialettali del poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli è stato scelto un linguaggio tendenzialmente colloquiale o, come nell’epigrafe del capitolo 5, l’efficacia espressiva dei detti popolari.
 

 
Nella versione tedesca il colore locale italiano è conferito anche dalla conservazione dei soprannomi italiani dei diversi personaggi, primo tra tutti il personaggio principale, il Riccetto. In Ragazzi di vita Pasolini non è tanto interessato a presentare i personaggi nella loro complessità psicologica, ma ne traccia le caratteristiche per lo più con efficaci e rapide pennellate, e una particolarità fisica o comportamentale è sufficiente a identificarli. Il soprannome, pertanto, diventa per essi nome proprio, scritto appunto con la maiuscola: oltre al Riccetto appaiono il Monnezza, lo Spudorato, il Pecetto, il Ciccione e diversi altri. Per il lettore italiano, il procedimento è trasparente, mentre non lo è per il lettore della traduzione tedesca, benché il traduttore abbia cercato di evidenziarlo con l’aggiunta di un’apposizione alla prima apparizione di un tale personaggio, dunque "Riccetto der Lockenkopf", "Spudorato der Schamlose", "Ciccione der Dicke" ecc.
L’efficacia del procedimento tuttavia non è del tutto garantita, in quanto forse non ogni lettore tedescofono, specie se sprovvisto di conoscenze della lingua italiana, capisce che l’apposizione è la traduzione tedesca del soprannome italiano, ma d’altronde, nell’insieme la perdita è veramente minima.
Intrise di colore romanesco sono soprattutto le parolacce che accompagnano ogni atto linguistico dei personaggi. La particolare difficoltà traduttiva, come spiega Moshe Kahn nella sua postfazione, consiste nel fatto che



italienische Kraftausdrücke sind zumeist im Bereich der männlichen Erotik oder der Religion angesiedelt, deutsche dagegen vorwiegend im Umfeld des Analen. Mir kam es darauf an, an den zahlreichen Stellen, wo der italienische Text dies forderte, diesen Typus des Erotischen – und damit Italienischen – aufscheinen zu lassen. Auch an den wenigen Stellen, wo römische Kraftausdrücke den relgiösen Bereich berühren, habe ich mich für erotische Umformungen dieser Art entschieden, we l die Möglichkeiten des Deutschen hier nicht ausreichen (Kahn 1990: 236-237)(6).
 
La strategia adottata dal traduttore, in parte identica a quella adoperata  per la resa del dialetto romanesco, consiste nel coniare espressioni e modi di dire non necessariamente correnti in tedesco, ma pur sempre facilmente comprensibili. Queste coniazioni, adottando la tipologia proposta da Koller 2004(7) per classificare le diverse corrispondenze lessicali tra originale e traducenti, comprendono "calchi" dell’espressione romanesca, "corrispondenze parziali", "corrispondenze totali", "diversificazioni" e "adattamenti" a espressioni tedesche correnti. Le locuzioni elencate nella Tabella 3 sono tratte, a fini esemplificativi, dal primo capitolo di Ragazzi di vita. Come si può osservare, nella colonna delle corrispondenze lessicali la traduzione delle parolacce, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, tende complessivamente ad un equilibrio tra adattamento e un rifacimento volto a rendere in tedesco le particolarità semantiche del romanesco.
Questo si evidenzia per esempio nella prima locuzione presente nell’elenco, "fijo de na mignotta", che in tedesco trova una piena corrispondenza nel termine "Hurensohn". Il traduttore però ha optato per una diversificazione, affiancando al traducente principale altri tre termini tesi a cogliere le diverse sfumature della tipica espressione romanesca: "Hurenbolzen" e "Hurenarsch" sono neologismi che presentano una corrispondenza parziale con l’originale, mentre l’adattamento "Wichser" per "li mortacci tua [sua ecc.]" ricorre anche come secondo elemento nel composto "Seelenwichser" con cui il traduttore rende "l’animaccia sua". Per contro, nel caso delle locuzioni romanesche "sti cojoni" e "a stronzo" si ha una neutralizzazione in quanto entrambe condividono il traducente tedesco Arschloch".

 

 
 
Il passo tratto dalla postfazione, citato sopra, in cui il traduttore espone le strategie traduttive adoperate per i vocaboli volgari, è interessante anche per un altro motivo: esso contiene infatti riflessioni metalinguistiche del traduttore sul diverso valore semantico delle parolacce italiane e romanesche rispetto a quelle tedesche, e proprio tali riflessioni rivelano la convinzione di Kahn che l’italiano sarebbe una lingua erotica. Si può ravvisare, nelle parole di Kahn, un concetto metalinguistico vicino a quello di Leo Weisgerber, principale rappresentante della Sprachinhaltsforschung, ossia di quell’indirizzo linguistico che studia la lingua dalla prospettiva del contenuto(8). Weisgerber parte dal presupposto romantico condiviso da Humboldt e Schleiermacher che ogni lingua naturale crea una propria visione del mondo. La lingua costituisce così il mondo mentale intermedio (geistige Zwischenwelt) tra uomo e realtà esterna; essa trasmette ai componenti di una comunità linguistica ‘l’immagine del mondo della lingua madre’ (Weltbild der Muttersprache): l’uomo può concepire soltanto ciò che la struttura della lingua madre gli permette di concepire (cfr. Weisgerber 1964: 43-67). Questa teoria può essere applicata al linguaggio colorito dei ‘ragazzi di vita’ pasoliniani, ovvero del sottoproletariato romano del secondo dopoguerra. Questo ceto sociale è composto per la maggior parte da individui immigrati nella metropoli dalle campagne del Meridione, terra della Magna Mater Mediterranea e dei culti di fertilità. La cultura contadina e mediterranea, benché snaturata in questi personaggi, lascia tuttavia tracce inequivocabili nel loro linguaggio(9).

La strategia traduttiva proposta da Moshe Kahn sembra dunque particolarmente efficace, in quanto trasmette al lettore tedescofono non solo la parlata gergale di un gruppo sociale, ma anche la realtà socioantropologica che ne costituisce lo sfondo. Nel suo insieme la traduzione tedesca di Ragazzi di vita rivela un procedimento traduttivo in sintonia con la posizione che Umberto Eco assumerà alcuni anni più tardi riguardo all’antico e mai sopito dibattito sul grado di ‘fedeltà’ di una traduzione rispetto al testo di partenza: "Di fronte alla domanda se una traduzione debba essere source o target oriented, ritengo che non si possa elaborare una regola, ma usare i due criteri alternativamente, in modo molto flessibile, a seconda dei problemi posti dal testo a cui ci si trova di fronte" (Eco 1995: 125).
È un fatto senz’altro eccezionale che un traduttore esprima nella traduzione la sua personale concezione metalinguistica, come avviene nel nostro caso con l’asserzione di Moshe Kahn che l’italiano è una lingua erotica. La sua traduzione veicola così informazioni ‘in più’ rispetto al testo di partenza che rischiano di appesantire testi nella cui concezione la cultura mediterranea non si palesa così esplicitamente come in Ragazzi di vita o manca completamente, come per esempio nel romanzo Achille piè veloce di Stefano Benni (2003), anch’esso tradotto in tedesco da Moshe Kahn (2006).
Achille piè veloce è ambientato in una metropoli grigia dell’Italia settentrionale, e i due protagonisti dai nomi omerici, Achille e Ulisse, sono intellettuali disadattati, per motivi diversi, che oppongono una caparbia resistenza alla tetraggine e alla banalità della vita quotidiana; ad essi si accompagna una serie di altri personaggi. Nei discorsi dei personaggi prevale il linguaggio colloquiale che, secondo una consuetudine ormai diffusa a tutti i livelli sociali, contiene molti vocaboli volgari, ma che certamente non può essere definito "gergo" (cfr. Ferrero 1991: XXI). Nella traduzione di questi termini, in Achille piè veloce prevale, rispetto a Ragazzi di vita, il procedimento dell’adattamento; tuttavia non mancano espressioni e modi di dire inusuali in tedesco che talvolta riecheggiano quelli elaborati per i ‘ragazzi di vita’ pasoliniani (Tab. 4):

 

 
 
Indubbiamente, anche in questo caso i calchi e le corrispondenze parziali sono volti a trasmettere al ricevente tedescofono il valore semantico del termine originale, ma nella versione tedesca di Achille piè veloce questo ‘valore aggiunto’ crea piuttosto un effetto straniante non in sintonia con la strategia
traduttiva dominante(10).
È fuori dubbio che ogni lettura di un testo avvia nel ricevente automaticamente un processo interpretativo inteso, nel senso più ampio del termine, come processo ermeneutico. Anche il traduttore, benché legga un determinato testo già in prospettiva alla mediazione che dovrà effettuare, ossia analizzandolo, non può sottrarsi a questo automatismo. Di conseguenza, ogni traduzione è necessariamente un’interpretazione, legata alla dimensione soggettiva della personalità del traduttore: capacità intellettuali, carattere, cultura, provenienza, padronanza linguistica sia della lingua straniera sia della lingua madre ecc. A questi condizionamenti soggettivi del processo ermeneutico è esposto a sua volta chi effettua la critica di una traduzione, e proprio in considerazione di questa inevitabile e generale limitatezza umana il critico può – e deve – esprimere soltanto un giudizio relativo sulla traduzione, motivando sempre il suo giudizio sia positivo che negativo, ed evitando giudizi sommari quali "ottima traduzione", "traduzione congeniale" o "traduzione impacciata" (cfr. Reiß 1971: 106-109).
L’analisi delle strategie adoperate da Moshe Kahn nella traduzione di Ragazzi di vita ha evidenziato che queste sono strettamente legate ad una personale concezione metalinguistica del traduttore e, in qualunque modo la si voglia considerare, l’opera traduttiva di Moshe Kahn ci ricorda che la traduzione letteraria è una vicenda culturale creativa e umana, e non può essere ricondotta ad un anonimo procedimento meccanico.


Note
1 Mannino sottolinea che i vocaboli dialettali usati nei romanzi ambientati nelle borgate romane, Ragazzi di vita e Una vita violenta, appartengono a "un gergo ristrettissimo, e trovano i loro referenti nel sesso, nel denaro, nei gesti più ripetuti e stereotipi dei ragazzi di vita" (Mannino 1974: 131).

2 "Le difficoltà [consistevano] nel cogliere con esattezza il significato semantico del dialetto romanesco: solo questo permette di ponderare le forme linguistiche corrispondenti in tedesco. Capii subito che si doveva escludere il ricorso a un dialetto tedesco, benché in un primo momento vi sia stata la forte tentazione di usare il berlinese come corrispondente tedesco del romanesco. Serviva invece un gergo comprensibile a tutti, che mi permettesse da un lato di trovare un corrispondente tedesco, dall’altro di lasciare al testo anche il colore "romanesco". In questo mi fu d’aiuto, anzi indispensabile, come già per lo stesso Pasolini, Sergio Citti. Man mano che il lavoro procedeva, sviluppai modi di dire per la traduzione che in certi passi, a ben vedere, non corrispondono a modi di dire correnti in tedesco, ma che potrebbero pur sempre diventare modi di dire tedeschi" [La traduzione è mia, così come tutte le seguenti].

3 "un uso della lingua che non solo non è quotidiano, ma di cui si intuisce che non è nato spontaneo, quanto piuttosto piegato verso una somiglianza forestiera".

4 "la forza creativa della lingua, com’è tutt’uno con le caratteristiche peculiari di un popolo".

5 Quest’ultimo procedimento nel caso specifico si rende necessario in quanto l’allegoria italiana della morte si presenta in veste femminile in corrispondenza del genere del termine; il termine tedesco invece, ‘der Tod’, avendo genere maschile, è comunemente rappresentato da un’allegoria maschile, conosciuta come ‘der Knochenmann’, ossia lo scheletro o, letteralmente, ‘uomo di ossa’.

6 "le parolacce italiane si collocano per lo più nella sfera o dell’erotico o della religione, mentre quelle tedesche sono collocate prevalentemente nell’ambito dell’anale. Nei numerosi passi in cui il testo italiano lo richiedeva, mi premeva far trasparire questa tipologia  dell’erotico e, con essa, una peculiarità dell’italiano. Anche nei pochi passi in cui le parolacce romanesche toccano l’ambito religioso, ho scelto una corrispondenza erotica di questo genere poiché le possibilità del tedesco in questo caso non sono sufficienti".

7 Le categorie proposte da Koller (2004: 228-240) sono le seguenti: la corrispondenza completa (Eins-zu-eins-Entsprechung), per esempio ted. Montag ・ィ it. ‘lunedì’; la diversificazione (Eins-zu-viele-Entsprechung): ad un termine della LP corrispondono diversi termini nella LA, per esempio ted. ledig ・ィ it. ‘celibe’ – ‘nubile’; la neutralizzazione (Vielezu-eins-Entsprechung): a diversi termini della LP corrisponde un unico termine nella LA, per esempio it. giocare – suonare [uno strumento] ・ィ ted. ‘spielen’; la corrispondenza nulla szu-Null-Entsprechung): un termine o una locuzione della LP non trova un traducente nella LA. Per risolvere questi casi esistono secondo Koller cinque procedimenti traduttivi: l’adozione del termine come prestito (Übernahme des AS-Ausdrucks in die ZS), il calco (Lehnübersetzung), la spiegazione o parafrasi (Explikation oder definitorische  schreibung), l’adattamento (Adaptation), ossia l’assimilazione culturale del TP al contesto comunicativo della LA; la corrispondenza parziale (Eins-zu-Teil-Entsprechung): ad un termine della LP corrisponde solo parzialmente un termine nella LA, p.e. ted. Heimat ・ィ it. ‘patria’.

8 Tale indirizzo è noto anche come "grammatica del contenuto" (inhaltsbezogene  Grammatik).

9 Il linguaggio gergale italiano, in generale, è fortemente influenzato dal "peso delle culture contadine e dei dialetti, [da] le varietà e le differenze regionali" (Ferrero 1991: XXV). Lo stesso gergo romanesco usato da Pasolini in Ragazzi di vita non è tanto il vecchio dialetto romano, quanto piuttosto "il nuovo gergo delle borgate misto di romanesco e di residui dialettali meridionali" (Mannino 1974: 131).

10 In questo senso si era espressa una studiosa recensendo la traduzione tedesca di Achille piè veloce, criticando il fatto che certi vocaboli volgari di uso corrente vengano resi in maniera "allzu umständlich", ossia inutilmente complessa (cfr. Restemeier 2006).


Bibliografia


Benni, S., 2003, Achille piè veloce, Feltrinelli, Milano;

Benni, S., 2006, Der schnellfüßige Achilles. Aus dem Italienischen von Moshe Kahn,
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Eco, U., 1995, "Riflessioni teorico-pratiche sulla traduzione", in S. Nergaard (a cura di)
(1995), Teorie contemporanee sulla traduzione, Bompiani, Milano: 121-146;

Ferrero, E., 1991, Dizionario storico dei gerghi italiani. Dal Quattrocento a oggi, Mondadori, Milano;

Kahn, M., 1990, "Nachwort", in P.P. Pasolini, Ragazzi di vita. Aus dem Italienischen von
Moshe Kahn, Wagenbach, Berlin: 231-237;

Koller, W., 2004, Einführung in die Übersetzungswissenschaft, 7, aktualisierte Auflage,
Quelle&Meyer, Wiebelsheim;

Mannino, V., 1974, Invito alla lettura di Pasolini, Mursia, Milano;

Pasolini, P.P., 1979 [1958], "Il metodo di lavoro", in Id., Ragazzi di vita, Einaudi, Torino:
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Pasolini, P.P., 2005 [1955], Ragazzi di vita, Garzanti, Milano;

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Reiß, K., 1971, Möglichkeiten und Grenzen der Übersetzungskritik. Kategorien und Kriterien für eine
sachgerechte Beurteilung von Übersetzungen, Hueber, München;

Restemeier, N., 2006, "Der schnellfüßige Achilles – zu schnellhändig übersetzt", in ReLÜ –
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Schleiermacher, F., 1963 [1838], "Methoden des Übersetzens", in H. J. Störig (a cura di),
Das Problem des Übersetzens, Henry Goverts Verlag, Stuttgart: 38-70;

Weisgerber, L., 1964, Das Menschheitsgesetz der Sprache als Grundlage der Sprachwissenschaft, 2., neubearbeitete Auflage, Quelle & Meyer, Heidelberg.



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Attualità e strumentalizzazione di Pier Paolo Pasolini: il caso Israele - Palestina

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Attualità e strumentalizzazione di
Pier Paolo Pasolini:
il caso Israele-Palestina

di Francesco Mancini

«Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi quanto mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là. Nessuno dei miei amici comunisti lo farebbe, per un vecchio, ormai tradizionale e mai ammesso odio contro i sottoproletariati e le popolazioni povere. Inoltre forse tutti i letterati italiani possono essere accusati di scarso interesse intellettuale per il Terzo Mondo: non io. Infine, in questi versi, scritti nel '63, come è fin troppo facile vedere, sono concentrati tutti i motivi di critica a Israele di cui è ora piena la stampa comunista. Ho vissuto dunque, nel '63, la situazione ebraica e quella giordana di qua e di là del confine. Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del '43, '44: ho capito, per mimesi, cos'è il terrore dell'essere massacrati in massa. Così da dover ricacciare le lacrime in fondo al mio cuore troppo tenero, alla vista di tanta gioventù, il cui destino appariva essere appunto solo il genocidio.
Ma ho capito anche, dopo qualche giorno che ero là, che gli israeliani non si erano affatto arresi a tale destino. (E così, oltre ai miei vecchi versi, chiamo ora a testimone anche Carlo Levi, a cui la notte seguente l'inizio delle ostilità, ho detto che non c'era da temere per Israele, e che gli israeliani entro quindici venti giorni sarebbero stati al Cairo). È dunque da un misto di pietà e di disapprovazione, di identificazione e di dubbio, che sono nati quei versi del mio diario israeliano. Ora, in questi giorni, leggendo "l'Unità" ho provato lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese. Possibile che i comunisti abbiano potuto fare una scelta così netta? Non era questa finalmente, l'occasione giusta per loro di "scegliere con dubbio" che è la sola umana di tutte le scelte? Il lettore dell'"Unità" non ne sarebbe cresciuto? Non avrebbe finalmente pensato – ed è il minimo che potesse fare – che nulla al mondo si può dividere in due? E che egli stesso è chiamato a decidere sulla propria opinione?
E perché invece "l'Unità" ha condotto una vera e propria campagna per "creare" un'opinione? Forse perché Israele è uno Stato nato male? Ma quale Stato, ora libero e sovrano, non è nato male? E chi di noi, inoltre, potrebbe garantire agli Ebrei che in Occidente non ci sarà più alcun Hitler o che in America non ci saranno nuovi campi di concentramento per drogati, omosessuali e… ebrei? O che gli ebrei potranno continuare a vivere in pace nei paesi arabi? Forse possono garantire questo il direttore dell'"Unità", o Antonello Trombadori o qualsiasi altro intellettuale comunista? E non è logico che, chi non può garantire questo, accetti, almeno in cuor suo, l'esperimento dello Stato d'Israele, riconoscendone la sovranità e la libertà? E che aiuto si dà al mondo arabo fingendo di ignorare la sua volontà di distruggere Israele? Cioè fingendo di ignorare la sua realtà? Non sanno tutti che la realtà del mondo arabo, come la realtà della gran parte dei paesi in via di sviluppo – compresa in parte l'Italia – ha classi dirigenti, polizie, magistrature, indegne?
E non sanno tutti che, come bisogna distinguere la nazione israeliana dalla stupidità del sionismo, così bisogna distinguere i popoli arabi dall'irresponsabilità del loro fanatico nazionalismo? L'unico modo per essere veramente amici dei popoli arabi in questo momento, non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e più disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?».

Il 6 novembre 2005, sul giornale L'Opinione, diretto da Arturo Diaconale e Renato Brunetta, il secondo in qualità di "direttore politico", l'intervento di Pasolini, di cui si è riportato il testo, è stato ripubblicato e fatto precedere dalla seguente presentazione: "I dittatori arabi fanno orrore. Comunisti italiani svegliatevi! Un'invettiva ormai dimenticata del poeta assassinato il 2 novembre 1975 contro i miti antisraeliani della sinistra. Fu scritta all'indomani della Guerra dei Sei Giorni sulla rivista Nuovi Argomenti, aprile-giugno 1967, diretta da Alberto Moravia".
L'articolo di Pasolini era, altresì, seguito da questo commento del giornalista Dimitri Buffa: "Se escludiamo il riferimento alla "stupidità" del sionismo, scusabile se consideriamo il testo nel suo insieme, possiamo tranquillamente affermare che Pasolini, al di là di qualunque giudizio letterario, fu un intellettuale onesto e profetico. Invitiamo i nostri lettori ad inviare questo articolo, largamente sconosciuto, a giornali, amici, diffonderlo il più possibile, particolarmente in questi giorni nei quali ricorrono i trent'anni dalla uccisione di Pasolini" [1].
Sarebbe appena il caso di sottolineare che scopo dello scritto di Pasolini è condannare le scelte degli esponenti e della stampa del Partito comunista italiano, che vede totalmente ed acriticamente sbilanciate in favore dei paesi arabi e contro lo stato di Israele. Egli non si schiera, cioè, con nessuno dei contendenti o, più esattamente, prende le distanze da entrambi ed esprime solidarietà ed amore per i popoli coinvolti.

Il commentatore Buffa ritiene, invece, di sorvolare sul rigetto pasoliniano della stupidità del sionismo, scusandolo – bontà sua – con un oscuro riferimento a considerazioni di contesto non meglio precisate o comprensibili.

Analogamente, egli ritiene di ignorare del tutto come, nello stesso testo, Pasolini rammenti di aver espresso con largo anticipo "tutti i motivi di critica a Israele di cui è ora piena la stampa comunista".
Inoltre, non rileva come Pasolini affermi che "Israele è uno Stato nato male", pur sottolineando, come circostanze attenuanti, come ciò lo accomuni ad ogni altro Stato e come esso costituisca una garanzia contro il sempre incombente pericolo di nuovi olocausti e campi di concentramento.
Con buona pace del giornale L'Opinione, il giudizio negativo di Pasolini sullo Stato di Israele, con le attenuanti già rilevate, accompagnato da commoventi espressioni di amore e simpatia per il popolo israeliano, si riscontra anche in altri interventi del poeta.
Lo si trova chiaramente enunciato, in particolare, in una intervista del 1968 a Jon Halliday, largamente conosciuta, eppure – chissà – forse davvero ignota al commentatore Buffa.
L'argomento è proprio l'intervento su Nuovi Argomenti e il contenuto ne è sostanzialmente una sorta di interpretazione autentica, con cui vengono esplicitati concetti già espressi l'anno prima:

«Le poesie pubblicate su Nuovi Argomenti sono poesie che non ho incluso nel volume Poesia in forma di rosa, dove c'è una sezione intitolata Israele nella quale si rende l'idea dell'impressione che ha destato in me quella società. È stata un'impressione contraddittoria, nel senso che io la disapprovo radicalmente in quanto si fonda su un'idea sostanzialmente razzista, messianica e religiosa, l'idea di una Terra Promessa basata su ragioni religiose vecchie di tremila anni, cosa completamente folle. Non accetto la premessa, che è nazionalistico- religiosa: è una cosa orribile, anche se in fondo è lo stesso principio su cui si fondano tutti gli stati.
Però, su questa premessa, è stata costruita una nazione che ispira grande simpatia; ad esempio i kibbutzim, benché siano luoghi tristissimi che fanno venire in mente i campi di concentramento, e la propensione degli ebrei per il masochismo e l'autoesclusione, nello stesso tempo sono qualcosa di nobilissimo, uno degli esperimenti più democratici e socialmente avanzati che abbia mai visto. Inoltre, ho sempre amato gli ebrei perché sono stati degli emarginati, perché sono tuttora oggetto di odio razziale, perché sono stati costretti a restare estranei alla società.

Ma una volta fondato il loro proprio stato non sono più dei diversi, non sono più una minoranza, non sono degli emarginati; sono la maggioranza, sono i normali. E questo mi ha dato una piccola delusione, non saprei esattamente come spiegarla. Loro, che sono sempre stati i paladini della diversità, del martirio, della lotta dell'altro contro il normale, ora sono diventati la maggioranza, i normali: questa è stata una cosa che ho trovato un po' difficile da digerire" [2].


A ben vedere, il giornalista Buffa incorre, 38 anni dopo, nella stessa scorrettezza che Pasolini rimprovera alla stampa comunista del 1967: non si sogna minimamente, cioè, di "scegliere con dubbio" e, in più, si sforza di "creare" nei suoi lettori l'opinione che gli sta a cuore.
Con un subdolo espediente da illusionista, lascia surrettiziamente credere che il punto di vista sostenuto non sia suo, ma scritto e pensato in epoca non sospetta da Pasolini, di cui sottolinea onestà intellettuale e capacità profetiche, per rafforzare e rendere più credibili le tesi propagandate.
Un tale tentativo di arruolamento postumo a fianco dello Stato di Israele appartiene al tipo di operazioni per le quali Pasolini era solito andare su tutte le furie.
Nello stesso tempo esso costituisce l'implicita conferma della perdurante autorevolezza della figura e del pensiero del poeta-regista a tanti anni dalla scomparsa.

Sulla natura e la portata di tale sua autorevolezza, Pasolini ebbe modo di esprimersi sul Corriere della Sera del 6 ottobre 1974, reagendo in termini altrettanto duri ad un pesante attacco portatogli dal giornale del Vaticano Osservatore Romano ("Non sappiamo donde il suddetto tragga tanta autorevolezza se non da qualche film di un enigmatico e riprovevole decadentismo, dall'abilità di uno scrivere corrosivo e da taluni atteggiamenti alquanto eccentrici"); così rispondeva Pasolini:
«[…] Ciò che prima di tutto vi si nota è un'idea che a una persona normale sembra subito aberrante: l'idea cioè che qualcuno, per scrivere qualcosa, debba possedere "autorevolezza". Io non capisco sinceramente come possa venire in mente una cosa simile. Ho sempre pensato, come qualsiasi persona normale, che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba essere qualcosa di sociale e di ufficiale che "fissi" l'autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante, dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più concepire verità al di fuori dell'autorità.

Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta; dall'essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca.

Ma supponiamo, per ipotesi assurda, che una mia "autorevolezza" esista: malgrado me stesso, mettiamo, e decretata oggettivamente nel contesto culturale e nella vita pubblica italiana.

In tal caso la proposizione vaticana è ancora più grave. Infatti essa mette sotto accusa non solo le cerchie culturali, entro cui io opero come scrittore, ma, a questo punto, anche le centinaia di migliaia e, in qualche caso, i milioni di italiani "semplici", che decretano il successo delle mie opere cinematografiche. Insomma sono colpevoli i critici che mi giudicano e sono degli sciocchi gli spettatori che vanno a vedere i miei film. […]» [3].

Sembra di poter dire che la autorevolezza di Pasolini era quella stessa dei profeti, priva di ogni autorità o ufficialità o potere di tipo istituzionale, perché così egli stesso aveva voluto che fosse.

È da presumere che non fosse solo per modestia che il poeta-regista attribuisse le proprie capacità ed attitudini all'analisi socio-politica alle caratteristiche del mestiere svolto: 
«Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere» [4]. 

Non è, però, che egli si facesse soverchie illusioni circa una qualche esclusività o superiorità delle proprie doti intellettuali e conoscenze, perché proseguiva affermando:
«Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere».


Queste parole di Pasolini contengono un implicito, ma imperituro rimprovero a quanti, in ogni tempo, pur avendo le sue stesse capacità di analisi e fonti di conoscenza, non le esercitano al servizio della verità che pure conoscono.

 
 Note:

[1] D. BUFFA, Contro i miti antisraeliani della sinistra, in "L'Opinione", 6.11.2005, p. 3 (l'articolo è rintracciabile su www.informazionecorretta.com/main.php?mediald=21&sez=120&id=14531). Il testo di Pasolini è disponibile in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 143-146.
[2] P.P. PASOLINI, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday (1968-1971), in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1330-1331.
[3] P.P. PASOLINI, Scritti corsari, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 356-357.
[4] Ivi, p. 363.

Fonte: http://digilander.libero.it/lepassionidisinistra/n_14/attualita.htm


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