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domenica 30 novembre 2014

Pasolini: Per una lingua estremamente politica.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini: Per una lingua estremamente politica.
Posted by Andrea Baldazzini
domenica, novembre 16, 2014
«La cosiddetta paura dell’errore si rivela essere paura della verità» 
(Hegel)
Pasolini è l’ultima grande coscienza italiana, l’ultimo specchio in cui abbiamo potuto guardarci e odiarci. Come ogni coscienza, a volte la si ascolta in cerca di buoni consigli, altre la si fugge soffocandola tra le pagine di un manuale o di un’antologia. É difficile dire con che orecchio ci rivolgiamo a questa coscienza oggi. Molti sembrano esserne diventati addirittura sordi, altri invece la inseguono, spinti da un bisogno a cui nemmeno loro sanno dare una giustificazione. Il fatto è però che su di lui si continua a scrivere, a pensare, lo si attacca così come lo si sceglie per il soggetto di un film. Assunta allora la criticità, e secondo alcuni la pericolosità, del soggetto, lo scopo di questo breve articolo vuole essere mostrare quello che secondo noi è il fulcro dell’intera riflessione pasoliniana, ovvero il continuo processo di riadattamento del linguaggio nelle proprie opere in funzione dei radicali cambiamenti della società italiana. Centro del discorso, volendo essere essenziali, è la subordinazione della lingua alla realtà: «La realtà è un linguaggio. Altro che fare la semiologia del cinema: è la semiologia della realtà che bisogna fare !» [Pasolini, 1972]. Per illustrare al meglio tale questione abbiamo deciso di suddividere l’articolo in due paragrafi: nel primo si parlerà della raccolta di versi Poesia in forma di rosa, testo che segna un profondo momento di svolta nell’autore; mentre la seconda parte verterà sul rapporto tra i romanzi Ragazzi di vita, Una vita violenta e la prima produzione filmica.
In Pasolini ogni atto comunicativo, ogni descrizione e ogni inquadratura si rivelano spinti dalla necessità di una poetica militante.
Dalla Realtà, alla poesia, alla Rosa
«Quando si dice che la poesia di Pasolini è politica, nel migliore senso della parola, si vuol dire che in quella poesia sono contenuti rapporti temporali (interpretazioni del passato e del presente e tensione ad un futuro) analoghi a quelli che furono di alcune delle prevalenti tendenze storico- politiche del loro tempo. Ad esempio: una dominante della poesia pasoliniana sembra essere la presenza di un evento incombente e imminente su di un presente sentito come oggetto di pietà per il suo immediato convertirsi in passato» (Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino: Einaudi, 1993). In queste pochissime righe, scritte dal grande amico e critico Fortini, si possono rintracciare tutte le più importanti linee guida della produzione poetica pasoliniana: il tempo letto attraverso le grandi narrazioni del cristianesimo e del marxismo, un tempo che acquisterà nel corso degli anni una sempre maggiore fisicità fino a coincidere con il tempo del potere (il cui esito sarà magistralmente descritto in Salò o le 120 giornate di Sodoma), poi ancora la razionalità del letterato e dell’intellettuale scandaloso, l’autenticità e la naturale disperazione del Terzo Mondo, gli infiniti Alì dagli occhi azzurri, l’amore per gli ultimi e una congenita insofferenza per i primi, per i cari ma non più compagni intellettuali. Se è con questo che dobbiamo costantemente confrontarci quando apriamo il Pasolini poeta, allora quanto detto acquista una rilevanza ancora maggiore quando ci tuffiamo in “Poesia in forma di rosa”, un’opera che segna l’aprirsi di una vera frattura esistenziale e storica.
L’evento incombente di cui parla Fortini è proprio il dispiegarsi di quello che noi oggi chiamiamo capitalismo avanzato, un sistema economico che diventa sistema di produzione di soggettività, un potere capace di permeare quelle istanze vitali che fino ad allora erano rimaste escluse dai tentativi di colonizzazione portati avanti dai regimi totalitari, dalle guerre o dalle ideologie. Pasolini lo chiama ‘neocapitalismo’, è questo il cardine attorno a cui ruota tutta la raccolta poetica (pubblicata nel 1964) e la causa della frattura; esso determina sia una trasformazione irreversibile dell’intera struttura sociale nazionale sia una radicale ‘mutazione antropologica degli italiani’ stessi. Nasce così una nuova epoca, o, come la chiama l’autore, una ‘nuova preistoria’, alle spalle viene lasciata la realtà della tradizione, del Fascismo, del ‘paleocapitalismo’ mentre davanti si spalanca una realtà agli occhi del poeta mostruosa perchè totalizzante. Pasolini qui intuisce la tragicità della società di massa con il suo conformismo, la sua falsa tolleranza che in nome del relativismo procura nient’altro che omologazione. A sparire sono insomma le differenze, i particolari, i tratti del volto di una collettività che è sempre più sfuocata. Se vogliamo allora portare alla luce le concrete trame di Poesia in forma di rosa dobbiamo scavare nel rapporto che intercorre tra il poeta e la sua realtà, quest’ultima definita da lui stesso come «fine pratico della mia poesia».
La realtà è l’oggetto della sua ossessione, egli vorrebbe esserne in un certo senso l’artigiano, in molti versi viene descritta l’immagine dell’intellettuale come colui che orbita attorno alla società sprigionando verso di essa contemporaneamente una carica di attrazione e una di repulsione che la modella, ne smussa gli angoli o ne affila i bordi. La realtà è insomma il punto su cui va concentrata tutta la nostra attenzione: da una parte essa costituisce il luogo di quella contraddizione che costringerà l’autore a un profondo salto di stile, dall’altra è continuamente assunta come nucleo critico a partire dal quale è possibile mostrare la crisi del modello razionalista che non era più in grado di spiegare un’ampia sintomatologia sociale sovvertitrice degli assetti tradizionali. Il tema della realtà viene poi sviluppato seguendo due direzioni che coincidono con i due aspetti della frattura di cui ho parlato poco fa: la dimensione storico-politica e quella esistenziale-soggettiva. Della prima qualcosa è già stato detto (si leggano La Guinea, La nuova storia, Profezia, Il sogno della ragione e tutta la sezione VI intitolata Israele) mentre della seconda si è fatto solo un qualche accenno. Volendo allora gettare uno sguardo sulla dimensione più intima dell’autore, imprescindibile è il riferimento alla poesia Un solo rudere, davvero fondamentale perchè qui si trova una delle più intense autodescrizioni, qui Pasolini si dichiara essere, nonostante tutto, ‘una forza del passato’, egli dice di ‘venire dai ruderi, dalle chiese, \ dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini’ e dice che mentre scrive si trova a guardare i tramonti su Roma ‘come i primi atti della Dopostoria’, fino a terminare con l’affermazione: ‘E io […] mi aggiro\ più moderno di ogni moderno \ a cercare fratelli che non sono più’ . Da questi pochi versi si intuisce molto bene la distanza che separa un personaggio plasmato da una matrice così ‘arcaica’ da quella nuova storia che negli anni ‘60 stava muovendo i suoi primi passi. Tali parole ci fanno inoltre capire la ragione dell’intensità e della tragicità con cui l’autore ha vissuto questo salto di epoca a cui dedica la prima poesia della seconda sezione che porta il titolo della raccolta stessa. Proprio il titolo potrebbe infatti venire tranquillamente sostituito con ‘Poesia in forma di dolore’ in quanto la rosa qui è ‘una rosa carnale di dolore, \ con cinque rose incarnate, \ cancri di rosa nella rosa \ prima: in principio era il Dolore. \ Ed eccolo, Uno e Cinquino’. In pochissime pagine viene così dispiegata l’intera trama della questione conflittuale che affligge l’autore: come poter continuare a vivere in un mondo nel quale ci si sente estranei, in un mondo nel quale si è estranei, nel quale si può esistere solo come testimone di ciò che è stato e che non sarà più ?
Ebbene, la risposta a un simile interrogativo può essere rintracciata in quella che a mio avviso è la poesia più bella dell’intera opera, ovverosia Una disperata vitalità. Essa è divisa in nove atti e strutturata come fosse un’intervista (la giornalista viene definita nei termini di un “cobra col golfino di lana” e questo indica l’attacco diretto da parte di Pasolini verso quella che lui stesso definiva ‘l’industria culturale’, ma qui non c’è spazio per affrontare tale discorso), quelli per noi più importanti sono il primo e l’ottavo. Nell’ottavo l’autore prefigura l’immagine del nuovo tipo di intellettuale, un’immagine che oserei definire religiosa: ‘Venni al mondo al tempo \ dell’Analogica \ […] Ora è il tempo \ della psicagogica’, l’intellettuale diventa cioè lo psicagogo, letteralmente il conduttore di anime, una sorta di Caronte militante che traghetta gli spiriti da una riva all’altra, da un’epoca all’altra. Pasolini sente su di sé la pressione di una vera e propria missione civile e dopo un primo momento di disperazione rinasce, forte di un’estrema vitalità. Nel primo atto compare invece il famoso verso che un po’ riassume tutto quanto detto fino ad ora: ‘La morte non è \ nel non poter comunicare \ ma nel non poter più essere compresi’, qui emerge l’idea secondo cui la morte rappresenta la totale privazione degli strumenti linguistici; volendo usare un’immagine è come se un giorno ci fossimo svegliati avendo dimenticato la nostra lingua e ogni altro sistema di comunicazione (gesti, disegni ecc.), nessuno intorno a noi può capirci e questa per un intellettuale è la morte peggiore, l’incomprensibilità assoluta, la totale negazione della possibilità di esprimere il reale. A questo punto sembra manifestarsi una contraddizione insolvibile: da una parte c’è il desiderio di diventare l’intellettuale anche della Nuova storia, dall’altra proprio questa Nuova storia lo ho reso incomprensibile agli occhi e alle orecchie dei molti. Che fare ?
Ecco allora il salto di cui ho preannunciato in apertura. Tra le ultime poesie vi è Così mi salvo la quale segna la presa di consapevolezza da parte di Pasolini dell’insostenibilità della lingua- poesia, essa non riesce più ad afferrare la realtà neocapitalista: ‘La condizione della poesia \ ha distrutto la poesia’. L’incontro della dimensione storico-politica e di quella esistenziale-soggettiva mostrano all’autore la necessità di ripensare il proprio linguaggio, ed è in questo modo che Pasolini sceglie di mettere in secondo piano la poesia per dedicarsi completamente al cinema. Come si vedrà nel secondo paragrafo con il cinema l’autore ritrova una presa forte sulla realtà e ciò gli permette di diventare lo psicagogo, il profeta, l’intellettuale che aveva annunciato in nome di una ‘disperata vitalità’, ovverosia in nome di un amore puro per le forme di vita autentiche non capitalisticamente mediate. Volendo riassumere il tutto in una battuta si può affermare che la realtà, nella sua accezione più politica, rappresenta la bussola delle forme espressive pasoliniane: al cambio di rotta deve corrispondere un cambio di mezzo, una nuova lingua per un nuovo mondo.
Dalla Realtà, al romanzo, al cinema.
Parallelamente all’attività poetica, Pasolini ha pubblicato nel corso degli anni 50 romanzi che hanno accentrato su di lui l’attenzione della scena letteraria italiana, spaccata tra detrattori accaniti e strenui difensori. All’interno di queste opere, Ragazzi di vita e Una vita violenta, possiamo cogliere il germe che porterà l’autore a concentrarsi su un nuovo linguaggio più adatto a narrare la realtà: il cinema. Al fine di comprendere appieno questo passaggio, ci dedicheremo inizialmente ad evidenziare le principali tematiche che animano i romanzi sopra citati, per poi osservare come esse vengono sviluppate attraverso la regia.
Nel 1949, in seguito ad un’accusa di oscenità in luogo pubblico che aveva portato alla sua estromissione dal Partito Comunista Italiano, Pasolini fugge da Casarsa in compagnia della madre e si trasferisce a Roma, dove intraprende per alcuni anni l’attività di insegnante. L’ambiente con cui si trova in contatto, quello del sottoproletariato romano, affascina l’autore al punto da decidere di renderlo protagonista di quella che inizialmente era stata concepita come una trilogia di romanzi, di cui avrebbero fatto parte Ragazzi di vita, Una vita violenta e il non realizzato Il rio della grana. Al fine di rendere il più fedelmente possibile la vita magmatica che ribolliva nelle periferie, Pasolini decide di scrivere cercando di sfruttare la lingua parlata nelle strade e, in cerca di un interprete, si imbatte in un imbianchino fratello del Citti che, da Accattone in poi, diventerà una delle più caratteristiche maschere della filmografia pasoliniana. Già da questa prima scelta, restituire al lettore il sottoproletariato con la sua voce piuttosto che attraverso i filtri di un lessico colto, possiamo osservare come, all’interno della produzione dell’autore, la lingua non sia mai un elemento fine a se stesso, bensì uno strumento subordinato ad una fedele rappresentazione del reale. Sin dalla pubblicazione della prima opera, quel Ragazzi di vita edito nel 1955 da Garzanti, la scelta di un realismo senza compromessi sembra ritorcersi contro l’autore: il libro viene accusato per la crudezza delle immagini proposte, una nutrita falange di critici lo assale con giudizi negativi e gli viene negata la prtecipazione ai più prestigiosi premi letterari del paese, complice un’accusa di pornografia. Gran parte degli strali contrari nascevano dalla decisione dell’autore di mostrare, oltre a scene che riproducevano la violenza e l’assenza di morale nella vita dei ‘borgatari’, alcuni episodi di prostituzione maschile, argomento all’epoca ancora considerato tabù all’interno del discorso pubblico.
Contemporaneamente all’attività di scrittore, Pasolini intraprende una carriera di sceneggiatore per il cinema che lo porta a firmare nel 1954 la sua prima sceneggiatura, quella de La donna del fiume di Mario Soldati. Mediante quest’attività l’autore comincia ad avvicinarsi sempre più al nuovo mezzo espressivo, al punto da decidere di dedicarsi alla regia dopo la pubblicazione di Una vita violenta nel 1959. Il cambiamento di linguaggio è per Pasolini una mossa necessaria al suo sviluppo di intellettuale, motivata proprio dal rapporto privilegiato che intercorre tra cinema e realtà: quest’ultimo non si limita a descriverla come la scrittura, ma bensì la divora, restituendo allo spettatore una sintesi che conserva intatta tutta la violenza del fatto ma, allo stesso tempo, consente al regista di investirlo di nuove sfumature e significati. La prima pellicola dell’autore, Accattone, nutre una chiara parentela con gli scritti in prosa che l’hanno preceduto. Il protagonista, Accattone, è un sottoproletario che vive facendo il ‘magnaccia’. Quando si innamorerà di Stella e non riuscirà a farla prostituire, entrerà in una spirale che lo condurrà ad una redenzione che coinciderà con la morte. Interessante è osservare come il percorso compiuto qui dal protagonista sia quasi speculare rispetto a quello intrapreso da Tommaso di Una vita violenta, se non che la salvezza di Accattone proviene da una fonte psicologico-religiosa (la donna, il cui nome parlante la investe di un’aura sacrale) mentre quella di Tommaso da una fonte psicologico-politica (l’adesione al Partito Comunista). All’interno di questa prima pellicola Pasolini integra i soggetti che avevano animato la sua produzione romanzesca con le nuove possibilità offertegli dal cinema, che gli permettono di recuperare ed esplicitare un importante tassello della sua educazione universitaria: la passione per l’arte. Durante i corsi della facoltà di lettere presso l’Università di Bologna, il regista aveva avuto modo di frequentare i corsi di storia dell’arte tenuti da Roberto Longhi, docente volenteroso che organizzava per gli allievi più promettenti piccoli cicli di lezioni aventi sede nel suo appartamento. Dalle lezioni di Longhi Pasolini mutua una passione per la pittura rinascimentale, che si traduce in un bagaglio iconografico che contribuirà a determinare, implicitamente ed esplicitamente, la dimensione della messa in scena del suo cinema. L’autore più amato si rivela essere Masaccio, che, a detta del regista, è presente indirettamente in tutta la resa visiva di Accattone. Le influenze masaccesche sono da ricondursi alla propensione per inquadrature che avvolgano la narrazione di un velo ieratico, delle quali è esemplificativa l’insistenza su primi piani statici, ma anche ad un certo uso del bianco e nero: le diapositive che Longhi usava proiettare a supporto delle sue lezioni mancavano di colore, consegnando al repertorio iconografico di Pasolini uno spurio Masaccio chiaroscurale.
La tensione di Pasolini verso il reale lo porta ad ambientare anche il secondo lungometraggio all’interno del sottoproletariato romano, consegnandoci però una storia che sembra in qualche modo anticipare nella costruzione il suo film a tesi per eccellenza, Teorema. Dove la tesi di quest’ultimo era però la dissoluzione della borghesia dinnanzi all’irruzione del sacro, Mamma Roma si fa latore di un messaggio strettamente sociologico: le varie classi sociali devono essere educate senza snaturarle; far coincidere l’educazione con un passaggio ad una classe superiore, non può che destinare l’intero progetto al fallimento. Tale è la storia di Ettore e sua madre, una prostituta che tenta di affrancarsi dalla strada intraprendendo il mestiere di fruttivendola e tentando di inserire il figlio nella società borghese. Gli sforzi della donna si dimostreranno vani, riportandola sulla strada e riconsegnandole il figlio morto, spirato di febbre in carcere. All’interno della pellicola l’uso del bagaglio figurativo dell’autore si delinea questa volta in maniera esplicita sin dalla prima scena, un pranzo di nozze nella cui disposizione il regista rende omaggio all’Ultima Cena leonardesca. Tra le citazioni pittoriche la più esplicita e discussa è quella del Cristo morto del Mantegna, la cui posa sarebbe ripresa pedissequamente dall’inquadratura che ci mostra il corpo morto di Ettore in cella: acclamata dalla critica intera come segno della “foga citazionista” dell’autore e con altrettanta foga disconosciuta da Pasolini, che non esita a chiamare in causa il suo vecchio maestro per sostenere la sua posizione “Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici?” (Pasolini, Le Belle Bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977).
Se nelle prime due pellicole il matrimonio tra regia e contenuti appariva ancora imperfetto, con La ricotta, mediometraggio presente all’interno del film Ro.Go.Pa.G., l’autore riesce a giungere ad una definitiva sintesi, che ci regala una delle più belle testimonianze del Pasolini regista. Qui l’attenzione resta focalizzata, come in precedenza, sul mondo del sottoproletariato, incarnato questa volta dalla comparsa Stracci, che impersona il buon ladrone in un film manierista. L’autore ci dà prova di aver appieno interiorizzato il “linguaggio scritto della realtà” con movimenti di macchina più sciolti, un minor indugio sulle singole scene, e alcune irresistibili sequenze accelerate che strizzano l’occhio alla slapstick comedy americana e ai film di Charlot. Anche l’influenza pittorica appare infine perfettamente integrata sotto forma di sgargianti tableaux vivants riproducenti le deposizioni del Pontormo e del Rosso Fiorentino; talmente efficaci da guadagnarsi il plauso della critica e un processo per vilipendio alla religione. Possiamo così notare come l’urgenza comunicativa di Pasolini si sia spinta, pur di rimanere il più possibile attigua al reale che celebra e di cui si nutre, dalla prosa sino a quella che era per gli intellettuali degli anni 60 una terra incognita: il cinema.
Conclusione
Dalla transumanza, dal percorso cioè attraverso la molteplicità dei linguaggi del reale, abbiamo così avuto modo di mostrare come per l’intellettuale sia necessario mantenere un rapporto organico con la realtà. Il riadattare la propria voce ad un corpo in perenne divenire diventa in Pasolini la manifestazione concreta del dispiegarsi della sua poetica militante. La disperata vitalità si fa presupposto esistenziale per essere partigiano della ragione nell’appena costituita società neoliberista, dove la massa degli ‘accattoni’ si trasforma in un volgo consumista e torpido, sordo al richiamo della vera emancipazione. Un simile esempio ci appare ancora più prezioso oggi, dove il linguaggio è troppo spesso degradato a flatus vocis, a vuota filastrocca sempre più lontana da quell’agire che una volta si aveva il coraggio di definire politico.
Fonte:


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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