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mercoledì 27 agosto 2014

EDIPO RE - Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



EDIPO RE - Pier Paolo Pasolini
 
 
EDIPO RE


Paese - Italia, Marocco
Anno - 1967
Durata - 104 minuti
Colore - Colore
Audio - Sonoro
Genere - Drammatico
Regia - Pier Paolo Pasolini
Soggetto - Pelliccione
Sceneggiatura - Pier Paolo Pasolini
Fotografia - Giuseppe Ruzzolini
Montaggio - Nino Baragli
Musiche - Pier Paolo Pasolini
Scenografia - Luigi Scaccianoce

Interpreti e personaggi

Franco Citti - Edipo
Silvana Mangano - Giocasta
Alida Valli - Merope
Carmelo Bene - Creonte
Julian Beck - Tiresia
Ninetto Davoli - Anghelos
Luciano Bartoli - Laio
Ahmed Belhachmi - Polibo
Francesco Leonetti - servo di Laio
Giandomenico Davoli - pastore
Pier Paolo Pasolini - gran sacerdote


Prima proiezione - XXVII Mostra di Venezia, 3 settembre 1967


Premi

XXVIII Mostra di Venezia, Premio CIDALC
(Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinema)
Grolla d'oro, Saint Vincent, 6 luglio 1968
Premio Nastro d'Argento 1968 a Bini e Scaccianoce
*
 
Appena terminato di girare “Che cosa sono le nuvole?” (che uscirà solo nel 1968, qualche mese prima di “Teorema”), Pasolini torna in Marocco e dà inizio alle riprese di “Edipo Re”, portando a compimento un progetto che risale ai tempi in cui stava girando “Accattone”.
La stesura del trattamento del film fu compiuta nell'estate del 1966, parallelamente al soggetto di quel “Teorema” che diventerà prima un romanzo "sperimentale", poi un film, nel quale uno dei temi fondamentali della tragedia sofoclea, quello dell'infrazione del tabù sessuale familiare, diventa lo strumento di dilacerazione della coscienza di ciò che resta dell'uomo borghese.

La figura di Edipo interessa Pasolini non solo per la sua statura tragica, e neppure unicamente per le implicazioni psicoanalitiche che nella nostra cultura il mito tragicizzato da Sofocle ha assunto nell'interpretazione freudiana. Pasolini, con questo film, affronta una volte per tutte la sua ansia autobiografica, il suo personale "complesso di Edipo"; ma l'autobiografismo attraverso il quale il regista riscrive la tragedia è piuttosto il superamento della necessità autobiografica, di quella istanza con cui, tre anni prima, sovrapponeva la figura della Madonna a quella della propria madre nel “Vangelo secondo Matteo”, proiettando il mito del proprio presente sul passato.
Il vero tema del film, che sarà sviluppato ulteriormente l'anno seguente con “La sequenza del fiore di carta”, è la colpevolezza dell'innocenza. Nel contrasto tra l'innocenza di Edipo, perseguitato da un destino oscuro e avverso fin dalla sua nascita, e la colpevolezza che ha origine dal rifiuto della verità, si delinea una sorta di "peccato originale" alla rovescia: Edipo é l'uomo a cui è dato conoscere, fin dall'inizio, il proprio destino, ma che combatte contro ciò che sa perché non accetta la consapevolezza del male che è in lui, chiudendo gli occhi: è per questo che deve vagare nei secoli condannato alla coscienza, ma senza poter più vedere il mondo che ha voluto ignorare. Costruendo intorno al testo di Sofocle un prologo e un epilogo ambientati nella contemporaneità, nei luoghi e nei tempi della propria infanzia e della propria maturità, Pasolini carica la figura di Edipo di un'ansia e di un senso di sbandamento che travalicano lo sgomento dell'eroe tragico, così come superano l'evocazione del caso edipico personale. A partire dall'oscuro senso di morte insito nel testo di Sofocle, la vicenda di Edipo diviene l'emblema della "condizione umana" occidentale: quella dì una vita resa cieca dalla volontà di non sapere ciò che si è, di ignorare la propria "verità", quella verità forse terribile, che perfino la marionetta di Otello in “Che cosa sono le nuvole”, a suo modo, cercava.

“Questo è ciò che di Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale innocenza e l'obbligo del sapere. Non è tanto la crudeltà della vita che determina i crimini, quanto il fatto che la gente non tenta di comprendere la storia, la vita e la realtà”..., ha affermato Pasolini.
È dunque l'atteggiamento del chiudere gli occhi di fronte alla propria condizione e proseguire il cammino personale fino alla catastrofe ciò che accomuna Edipo all'umanità del Dopostoria in cui Pasolini vive: ma identificando se stesso con Edipo, archetipo di questa umanità cieca, Pasolini prende definitivamente le distanze dalla sua innocenza colpevole, e riconosce che l'epoca dell'innocenza si è conclusa, che un intellettuale "che sa" (come scriverà di sè qualche anno più tardi su un celebre articolo "corsaro") non può più pretendere di alimentare la speranza attraverso la creazione artistica di un "mondo altro", ma ha il compito di turbare il mondo, di sviscerare in tutta la sua nudità la crudezza delle relazioni sui cui si struttura la società in cui vive.
Edipo, condannato nel finale pasoliniano a vagare ciecamente attraverso i secoli come il vecchio marinaio di Coleridge, giunge nella contemporaneità fino al luogo in cui l'autore ha aperto per la prima volta gli occhi al mondo: Pasolini-Edipo muore dove nasce la coscienza dell'inizio di una nuova vita, dove il mondo si è manifestato all'atto del vedere, non fin dall'inizio, ma in un qui-ora che rendono quel vedere insito nella vita una ricerca del vedere, una palingenesi dello sguardo. Infatti, la rivoluzione "linguistica" che Pasolini compie con il suo Edipo re passa anche e soprattutto attraverso la scelta di abbandonare il piano dialettico, di non presentare più un "messaggio" identificabile e sussumibile attraverso schemi concettuali borghesi. Pasolini lavora alla stesura del film "come uno che ha avuto un'allucinazione", senza un teorema da dimostrare, cercando di trasmettere, in tutta la loro contraddittorietà, le pure emozioni dei personaggi del dramma-tipo della mentalità occidentale.
Il messaggio è tutto nell'evidenza contestuale, nella costruzione di una realtà mitica in cui ogni evento ha luogo quasi senza parole, attraverso gesta violente, suoni, rumori, entro i quali le emozioni dei personaggi, liberate dal vincolo della logica, esplodono in un'immagine assoluta, ambigua, eppure inevitabilmente chiara. Con Edipo re, dunque, Pasolini intraprende quel cammino verso il disvelamento dell'atrocità che, con la parentesi utopistica della trilogia della vita, lo porterà fino alla descrizione della pura violenza di Salò.

A fare da contrappunto al violento istinto di sopravvivenza di Edipo, è la succube, silenziosa, quieta grazia del Terzo Mondo, espressa attraverso i volti della gente comune del Marocco, dove un'antica Grecia immaginaria, volutamente al di fuori di qualsiasi fedeltà filologica, viene ricostruita in mezzo al deserto: in questo modo Pasolini identifica il mondo della verità, quello delle nostre radici storiche e culturali, con uno dei tanti mondi della verità umana rimasti nel presente, quell'isola fuori del Tempo Borghese che è il Nordafrica.

TRAMA
 

* Una pietra miliare indica la città di Tebe: ma la scena ha luogo in un paesino del Nord nell'Italia degli anni '20, dove vediamo una levatrice portare alla luce un bambino. Una donna (Silvana Mangano gioca con delle amiche su di un prato, poi prende con tenerezza il suo bambino in braccio e lo allatta. Sulle note del Dissonanzen Quartet di Mozart, il volto sorridente della madre che allatta è attraversata da un momento di panica, prima di tornare al sorriso. Una soggettiva degli alti alberi del prato ci annuncia che il bambino ha aperto gli occhi per la prima volta al mondo.
Sotto un balcone da cui pende la bandiera italiana con lo stemma sabaudo, un giovane ufficiale guarda con severità il bambino che gioca nella carrozzella. L'uomo é il padre del bambino, ed il suo pensiero è espresso tramite una didascalia: egli teme che sua figlia sia nato per prendere il suo posta sulla terra e ricacciarlo nel nulla, appropriandosi innanzitutto dell'amore della sua donna. Viene la notte. Dopo essersi assicurati che il bambino sta dormendo, i genitori si recano ad una festa da balla in un palazzo attigua al loro, ma poco dopo il bambino si sveglia turbato, esce sul balcone, e vede, attraverso le tende delle finestre, le silouetthes dei genitori che ballano abbracciati.
Esplodono dei fuochi d'artificio, il bambino cade nel panico, piange.
Di notte, il padre e la madre in una stanza, e il figlio nell'altra, sono svegli, pensierosi, inquieti. Sulle note di una musica etnica africana, il padre si reca nella stanza del bambino e ne stringe le caviglie con forza. Il bambino si lamenta.
La scena si sposta nell'antica Grecia, sul monte Citerone.
Un bambino è appeso per le caviglie ad un palo, portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. Il compito dell'uomo è uccidere il bambino, per evitare che si avveri una profezia dell'oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il propria padre e sarebbe giaciuto con la propria madre.
Il servitore (Francesco Leonetti), però, non ha il coraggio di ucciderlo, e finisce per abbandonarlo nel deserto. Ma un vecchio pastore, che ha assistito alla scena, raccoglie con tenerezza l'innocente, e lo parta in omaggio al suo sovrano Pòlibo, (Ahmed Belhachmi), re della città di Corinto. Pòlibo, trionfante, mostra il bambino alla sua consorte Mèrope (Alida Valli), la quale decide di adottarlo come figlio, con il nome di Edipo, che letteralmente significa "colui che ha i piedi gonfi".
Edipo (Franco Citti) è cresciuto, ed è di temperamento ambizioso e irascibile. Dopo una lite al gioco del disco, apprende dal suo rivale di essere un "figlio della fortuna", un trovatello.
La notte Edipo ha degli incubi, e decide di recarsi a Delfi ad interpellare l'oracolo sulla origine dei suoi sogni: così, senza alcuna scorta, armato di una sola spada, il giovane principe di Corinto si incammina verso il tempio d'Apollo. L'oracolo, con una raccapricciante voce femminile, lo scaccia via seccamente, rivelandogli il suo destino incestuoso e parricida. In preda alla costernazione, Edipo si allontana.
Per evitare che la profezia si avveri, decide di non tornare mai più a Corinto, da quelli che crede i suoi genitori. Si mette le mani sugli occhi, fa qualche giro su se stesso, e prende una direzione qualsiasi. Ma la direzione é sempre, fatalmente, quella di Tebe.
Sulla strada assolata giunge il carro del re Laio.
Laio maltratta Edipo, solo e senza scarta, e lo insulta come se fosse un mendicante: Edipo decide di vendicare l'affronto: con una corsa forsennata, urlando ferinamente la propria rabbia, uccide uno ad uno, nel silenzio desertico, sotto gli occhi del sovrano, tutti gli uomini della sua scorta. La stessa sorte infine tocca anche al re Laio.
Edipo, stremato dalla carneficina, riprende il suo casuale cammina, che lo conduce finalmente a Tebe. Alle porte della città incontra una interminabile fila di persone piangenti, che si allontanano da Tebe con il loro poveri averi. Tocca al messaggero (Ninetto Davoli) spiegare al nuovo arrivata Edipo le ragioni di quell'esodo: la Sfinge, creatura oscura, è giunta all'improvviso sulla montagna alle porte della città dall'abisso, seminando sciagura. Il messaggero aggiunge che esiste una "taglia" sull'uccisione della Sfinge: colui che ricaccerà la Sfinge nell'abisso, diventerà marito della regina di Tebe, la vedova Giocasta (Silvana Mangano). Edipo, non ascoltando le parole della Sfinge che ancora una volta lo mette di fronte al suo destino oscuro, riesce con una cieca violenza nell'impresa di sconfiggere l'inattaccabile creatura dell'abisso.
Così il messaggero annuncia alla propria città festante che è giunta il nuova re, Edipo.
Alla fine dei cortei di ringraziamento, Edipo e Giocasta giacciono insieme nel talamo nuziale. L'oscuro destino del "bimbo dai piedi gonfi" si è armai compiuta.
La peste infuria su Tebe. Il gran sacerdote (Pasolini) parla con Edipo a nome del popolo, e gli chiede ragione di quanto sta accadendo. Edipo gli risponde di essere in attesa del ritorno del cognato Creonte (Carmelo Bene), che si è recato a Delfi per avere un responso sugli eventi luttuosi dall'oracolo.
Creonte torna, e rivela che la causa della peste è la vendetta degli dei, irati per la presenza a Tebe di un uomo impuro, la cui colpa è l'uccisione del re Laio. Edipo decide di vendicare l'uccisione di Laio come se egli fosse stato "suo padre". Ma nonostante i provvedimenti del re siano sempre più severi, la situazione non muta. I morti vengono ormai bruciati a decine nei roghi comuni.
Edipo decide di consultare Tiresia (Julian Beck), il veggente cieco, per capire quale sarà il futura della città di Tebe. Il cieco Tiresia, suonatore di flauto, portato davanti ad Edipo, ha paura, e si rifiuta di parlare. Minacciato e accusato prima, poi perfino malmenato dal re, Tiresia rivela che Edipo prima o poi saprà di essere fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito di sua madre, e che vagherà per il mondo senza più poterlo vedere, come ora accade a quel Tiresia che lui ha dileggiato e aggredito.
Edipo prosegue la sua vita regate, e accusa Creonte e Tiresia di aver ordito una congiura alle sue spalle. Ma durante una conversazione con Giocasta, che gli sta spiegando i particolari dell'assassinio di Laio, Edipo apprende che il fato avverso lo ha ormai ghermito, che lui è il vero assassino, il responsabile della catastrofe di Tebe. Giocasta non vuole perdere Edipo, cerca di tranquillizzarlo, ma Edipo urla con dolore la verità ormai compresa.
Edipo raggiunge l'unico testimone dell'assassinio di Laio rimasto in vita, il vecchio servitore, per averne conferma.
Una volta raggiunto sulle montagne quell'uomo, Edipo lo costringe a dire "quello che non si può dire": che il re di Tebe che ha ora innanzi a se è il figlioletto di Giocasta e di Laio che egli aveva abbandonato sul monte Citerone molti anni addietro. Edipo ritorna al palazzo, ormai cosciente dell'avverata profezia. Lì trova Giocasta che si è uccisa, impiccandosi nella stanza da letto. Allora, con un gesto fulmineo e ferino, simile a quelli con cui ha fatto strage di Laio e della scorta, Edipo si acceca entrambi gli occhi con la spilla delle vesti di Giocasta. Poi, accecato, esce dal palazzo, e incomincia a brancolare nel suo buio definitivo, pietosamente accompagnato dal messaggero.
Edipo e il messaggero si trovano ora, vestiti in panni moderni, sotto i portici di una Bologna di fine anni Sessanta. Edipo suona il flauto sulle scalinate delle chiese, ma è inquieto, disperato, e cerca di continuo di andarsene altrove. Camminando sempre più in periferia, attraverso panorami sconsolati di fabbriche e rifiuti urbani, Edipo giunge finalmente al prato in cui il bimbo nato negli anni Venti aveva aperto gli occhi per la prima volta.
Una nuova soggettiva sulle cime degli alberi ci annuncia l'epilogo della vicenda: Edipo è giunto dove la sua vita è cominciata, e dove dunque, ora, può concludersi del tutto *.
( * S. Murri - Pier Paolo Pasolini)

COMMENTO
 

È difficile definire il senso della ribellione di Edipo al proprio destino: egli non ha scampo, ma non può accettare la verità che gli è stata rivelata, perché significherebbe accettare la propria perversa empietà, l'infrazione inconsapevole di tutte le norme che strutturano la società in cui crede, e in cui vuole vivere senza angosce. Così egli tenta la ricerca di un'altra verità, una verità, per così dire, diversa dal vero, ma l'unica strada che gli resta è quella della cecità, sia quella della cieca violenza con cui elimina tutto ciò che lo riporta alla coscienza del proprio destino, sia quella del cieco accaparramento dei privilegi offerti da quello stesso destino, solo attraverso il quale egli può godere appieno della propria condizione regale.
Per vivere come un re, Edipo deve vivere sdoppiato: da una parte la consapevolezza messa a tacere della propria impurità, dall'altra la sua sincera e codarda volontà di una purezza altra, da ricostruire fuori del proprio destino oscuro. Ma quel "destino oscuro" altro non è che è la propria condizione umana, e a ciò che si è non si può sfuggire: questo è quello che gli ribadiscono tanto l'oracolo quanto la Sfinge, e per quanto Edipo si acciechi gli occhi con le mani e giri intorno a se stesso prima di prendere una direzione, perché sia il caso e non "ciò che è", il destino, a guidare la sua vita, egli non può evitare di giungere a Tebe, e di compiere così il barbaro crimine parricida da cui cerca di esimersi. In questo modo la figura di Edipo diviene l'antecedente pre-borghese del borghese che si disfa sotto i colpi dell'Altro in “Teorema”; egli viene posto all'inizio dell'itinerario sociale dell'uomo occidentale, la cui cieca vicenda di sopraffazioni e stragi si compie nel congiungimento di quell'abisso "che è dentro di sè" (quello che nel lessico freudiano è detto "inconscio") con la torbida oscurità della Storia, dell'Altro sociale, al quale egli non sa ribellarsi, e, che, sfuggendo, ribadisce. Edipo può anche riuscire a sfuggire, temporaneamente, con la forza, alla prepotenza dell'Altro inteso come oscurità della Storia (storia tanto individuale, interiore, che sociale, storia degli eventi), ma deve arrendersi di fronte al compimento della nemesi del proprio "peccato originale": l'umanità di cui egli è il rappresentante è un'umanità ingiusta (il giovane Edipo, per esempio, si attribuisce vittorie non sue nelle gare atletiche), un'umanità proterva, classista e dominante (tutto il dramma si consuma nel chiuso dei palazzi reali, laddove il popolo è solo carne che perisce gratuitamente per colpa dell'ingiustizia commessa da Edipo); un'umanità occidentale, che Pasolini colloca non a caso in un Terzo Mondo simbolo del popolo che non può reagire, vittima dello strapotere di quella casta di persone per le quali sole vale il confronto con il "destino" della Storia.
Edipo è sconfitto dall'Altro, da ciò che egli non può controllare neppure con i suoi mezzi regali: ma l'Altro abissale che è l'inconscio e l'Altro alto e imperscrutabile che è la Storia si congiungono nel gorgo fatalistico e fondamentalmente barbarico che è la mentalità occidentale, costruita sull'autismo esistenziale.
Edipo è re, nato per essere re, questa è la colpa che si abbatte sulla sua totale innocenza. È la storia del dominio, di cui Edipo è, sua malgrado, figlio, che porta necessariamente alla strage di tutto ciò che si frappone tra il potere e chi se ne arroga il diritta. Edipo uccide Laio senza una ragione, se non quella dell'orgoglio regale che porta dentro di sè. Perfino il rapporto incestuosa con Giocasta è sotto il segno del possesso, espresso da quei “madre!” (assente nella tragedia di Sofocle) urlato da un Edipo ormai consapevole della propria empietà, che non rinuncia a consumare il suo privilegia sessuale, maledetta o no che sia, senza pentirsi.
Mai come nel suo primo lungometraggio a colori (una decisione sofferta, quella del colore), Pasolini riesce a portare ad un livello di equilibrio straordinaria il rapporto tra forma ed espressione. L'opera di costruzione di un autonoma "linguaggio della realtà" viene compiuta attraverso il ribaltamento del rapporto tra la componente della parola e quella delle percezioni non mediate concettualmente, quelle visive e sonore. Se in precedenza alla parola spettava il compito di condurre la riflessione, di esprimere le emozioni dei personaggi, di chiarificare la vicenda, mentre alle suggestioni pittoriche, al gusto del bianco e nero e dei ritmi fratti del cinema muto, spettava il compito di evocare un clima generale, in qualche modo estetizzante, ara è l'immediatezza delle componenti sonore e visive dell'immagine nella quasi totale assenza di dialogo a creare una "evidenza narrativa" non-concettualizzabile, laddove la parala, la strumento dialettico borghese, non è più che una dei componenti dell'immagine, componente il più delle volte ellittica, oscuro, involuto, a cui spetta il compito di creare semmai un clima emotivo ed estetizzante, clima esaltato dallo stile sibillino dei versi di Sofocle.
Alla tragedia di Sofocle (tradotta e ridotta in prosa per il set dallo stesso Pasolini) viene sottratto l'elemento teatrale-letterario portante, quello della scoperta progressiva, attraverso i dialoghi tra i personaggi, del dramma di Edipo. Nella descrizione dell'antefatto, che prende la quasi totalità del film, e che è l'argomento costante dei dialoghi sofoclei, l'uso della parala viene ridotto al minimo: quasi tutti gli eventi "del fato" avvengono in un primordiale silenzio fatto di rumori, urla, gesti, ancora più preistorici della preistoria greca che il regista mette in scena. La stessa "grecità" è sottratta alla sua stigmatizzazione scolastica, alla sua iconagrafia ricorrente, e mescolata ad una basilarità etnica composita, in cui gli scenari desertici e gli attori improvvisati del Marocco si muovano tra il silenzia e contaminazioni musicali astoriche e indefinite, che vanno dai canti popolari rumeni alla musica nordafricana, dalla musica giapponese antica ai canti rivoluzionari russi, a cui spetta il compito di creare una sorta di "coro tragica" in assenza di parole. Unica eccezione "classica", quella del quartetto di Mozart K 465, conosciuta come Dissonanzen Quartet, un quartetto atipico, quasi dodecafonico ante-litteram, che in qualche modo turba e mette in discussione la serena armonia del compositore-tipo della musica occidentale: ad essa è attribuito il compito, come leitmotiv, di rimarcare i momenti in cui si manifesta, oscuramente, la verità.

I poveri lucani del “Vangelo secondo Matteo” hanno ora il volto dei veri poveri, quelli del Terzo Mondo. Gli spiritual del Vangelo hanno lasciato il posto ad una musica etnica indistinta nello spazio e nel tempo. L'opzione del regista per una cultura "altra", in questo caso per la "verità" del Terzo Mondo, diviene ormai inequivocabile con Edipo re.
Dell'Italia, che fa da cornice all'autobiografia in chiave edipica, vediamo prima uno scorcio della provincia alle soglie del fascismo, poi i frutti della "mutazione antropologica" della società dei consumi, gli estremi di un itinerario in qualche modo immobile, lo svolgimento di un'unica mentalità, quella borghese e capitalistica, nel cui seno il dramma edipico si ripercuote come reminescenza attuale di una verità perduta, e ora ridotta a pura reminescenza etica. Perfino l'italiano, come lingua d'origine dell'autore-Edipo, è messa in discussione: ne è testimonianza l'indistinta calata dialettale del sud con cui Pasolini fa doppiare i suoi personaggi, rendendoli antiletterari, e marcandone la provenienza sociale. Della cultura letteraria del regista restano solo i simboli, ormai quasi indecifrabili, della civiltà greca.
Tutti gli omicidi che Edipo compie, urlando ferinamente e senza senso, avvengono in controluce, sotto la luce bianca e accecante del sole: da una parte questo rievoca il dettame della tragedia greca secondo il quale l'attimo della morte non può essere rappresentato sulla scena, dall'altra, quello che era il colore rituale della morte presso i greci, il bianco.
L'oracolo, che prima di profetizzare si ciba di riso, rievoca l'atto simbolico di ricreare attraverso il comportamento rituale e religioso un contatto primordiale tra la materia e lo spirito. Ma, in entrambi i casi, questi simboli sono espressi senza parole, attraverso la pura immagine. Infatti, con Edipo re Pasolini diventa, in qualche modo, "più cinematografico": impara a servirsi dei maggiori stratagemmi narrativi della "lingua filmica", usa movimenti di macchina più audaci, sperimenta le potenzialità dello zoom, usa spregiudicatamente i grandangolari e i teleobiettivi, e riesce fino in fondo a liberarsi dai cliché narrativi del gusto del bianco e nero "muto" sui quali si era formato, così come dalla tendenza a riflettere nell'immagine le proprie reminescenze pittoriche.
Nulla più è precisamente identificabile, i costumi e la "scenografia" seguono criteri di pura suggestione, anch'essi, come la musica, astorici e di provenienza ibrida.
Il clima di sperimentalismo è reso ancora più marcato dalla partecipazione di attori dell'avanguardia teatrale contemporanea come Carmelo Bene o Julian Beck del Living Theatre, che accanto a volti noti del cinema come Alida Valli e Silvana Mangano, alle sorprendenti interpretazioni di Franco Citti e Ninetto Davoli, e alle numerosissime, anonime comparse marocchine, contribuiscono all'espressione del clima allucinatorio attraverso il quale Pasolini ha letto i versi sibillini di Sofocle.

Il film, premiato al Festival di Venezia dalla Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts e des Lettres par le Cinema, uscirà nelle sale con il solito divieto ai minori, dilacerando "normalmente" lo stuolo degli addetti ai lavori. Ma lo sguardo di Pasolini è già rivolto altrove: dopo aver attraversato con la sua Grecia fuori del tempo la strada per le proprie origini, ora si sposta su quanto, nel presente, sembra aver mantenuto intatta la verità dei rapporti sociali.
E, finalmente, l'incontro del regista con il Terzo Mondo.
 
Fonte:
http://cinetramando.blogspot.it/2011/10/edipo-re-pier-paolo-pasolini.html
 
 
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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ACCATTONE - Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
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Eretico e Corsaro


ACCATTONE - Pier Paolo Pasolini


ACCATTONE

Scritto e diretto da: Pier Paolo Pasolini

Collaborazione ai dialoghi: Sergio Citti

Fo­tografia: Tonino Delli Colli

Scenografia: Flavio Mogherini

Coordina­mento musicale: Carlo Rustichelli

Montaggio: Nino Baragli

Aiuto re­gia: Bernardo Bertolucci

Assistente alla regia: Leopoldo Savona



Inter­preti e personaggi

Franco Citti (Cataldi Vittorio, detto Accattone, doppiato da Paolo Ferrari); Franca Pasut (Stella); Silvana Corsini (Maddalena); Paola Guidi (Ascenza, doppiata da Monica Vitti); Adriana Asti (Amore); Adriano Mazzelli (il cliente di Amore); Ro­molo Orazi (suocero di Accattone); Massimo Cacciafeste (cognato di Accattone); Francesco Orazi (il Burino); Mario Guerani (il commis­sario); Stefano D'Arrigo (il giudice istruttore); Enrico Fioravanti (primo agente); Nino Russo (secondo agente); Emanuele Di Bari (Sor Pietro); Franco Marucci (Franco); Carlo Sardoni (Carlo); Adria­na Moneta (Margheritona); Polidor (becchino); Danilo Alleva (Iaio); Sergio Citti (il cameriere); Elsa Morante (una detenuta); Gli amici di Accattone: Luciano Conti (il moicano); Luciano Gonini (Piede d'oro); Renato Capogna (il Capogna); Alfredo Leggi (Pupo Biondo); Galeazzo Riccardi (il cipolla); Leonardo Muraglia (Mommoletto); Giuseppe Ristagno (Peppe il Folle); Roberta Giovannoni (il tede­sco); Mario Cipriani (Balilla); Roberto Scaringella (Cartagine); Silvio Citti (Sabino); Giovanni Orgitano (lo Scucchia); Piero Morgia (Pio); I napoletani (doppiati da attori della compagni di Eduardo De Filip­po); Umberto Bevilacqua (Salvatore); Franco Bevilacqua (Franco); Amerigo Bevilacqua (Amerigo); Sergio Fioravanti (Gennarino); Ade­le Cambria (Nannina); Mario Castiglione (Mario); Dino Frondi (Dino); Tommaso Nuovo (Tommaso); i farlocchi: Edagardo Siroli, Renato Terra

Produzione: Arco Film (Roma) / Cino Del Duca (Ro­ma)
Produttore: Alfredo Bini
Pellicola: Ferrania P 30
Formato: 35 mm., b/n, 1:1.33
Macchine da presa: Arriflex
Sviluppo e stampa: Isti­tuto Nazionale Luce
Doppiaggio e sincronizzazione: Stabilimenti Tita­nus
Distribuzione: Cino Del Duca
Riprese: Aprile-luglio 1961, Teatri di posa Incir De Paolis, Roma
Esterni: Roma, Subiaco
Durata: 116' (3188 m.)
Prima proiezione: XXII mostra di Venezia sezione "infor­mativa", 31 agosto 1961
Premi: Festival di Karlovy Vary, 1962, pri­ma premio per la regia.
Un sottoproletario romano, Accattone, vive sfruttando Maddalena, una prostituta strappata ad un napoletano in carcere. L'uomo evita la vendetta degli amici del carcerato, incolpando Maddalena di tutto ed abbandonandola nelle mani dei guappi. Rimasto senza soldi, Accattone cerca di tornare da sua moglie, che però lo respinge, poi incontra Stella, una ragazza che lui cerca di convincere a prostituirsi. Colpito dal rifiuto di Stella, cerca di guadagnarsi da vivere onestamente, ma sarà tutto inutile...


PREMESSA - Le traversìe subite da Pasolini per giungere alla realizzazione del film si moltiplicarono enormemente al momento della sua distribuzione. L'ostracismo perpetrato da autorità e opinione pubblica nei confronti del regista rasentò il linciaggio, e il risultato finale fu che “Accattone” divenne il primo film nella storia della cinematografia italiana a essere vietato, con apposito decreto, ai minori di diciotto anni.
Il film, montato in fretta e furia per la presentazione a Venezia, non ottenne il visto di censura per le sale, ma fu comunque proiettato fuori concorso al Festival il 31 agosto del 1961. Alla sua proiezione seguirono violente polemiche, durate circa due mesi, che si conclusero solo con l'intervento dell'allora Ministro per il Turismo e lo Spettacolo Folchi il quale impose al film, prima ancora che vi fosse una normativa definitiva in materia, il divieto ai minori di diciotto anziché di sedici anni. La proiezione nelle sale romane, avvenuta il giorno stesso della concessione del visto ministeriale, fu coronata dal boicottaggio prima, dal linciaggio materiale di Pasolini poi, ad opera di un gruppo di giovani neofascisti. Le accuse generalmente e genericamente mosse al film, rivolte con un accanimento indecifrabile e ridicolo se viste con gli occhi delle presenti generazioni, erano in realtà tremendamente serie nel torbido clima da dittatura della mediocrità "perbene" dell'epoca, tanto da meritare di essere espresse dal pulpito delle aule parlamentari da indignatissimi "rappresentanti del popolo", da orde di disgustati giornalisti e da una massa consensuale addestrata al rifiuto della diversità dall'ossessiva pressione esercitata dalle prime due categorie. Il punto di queste accuse, a parte una inconsistente patina moralistica di disprezzo nei confronti della crudezza, considerata "pornografica", del mondo della prostituzione e del suo sfruttamento che faceva da sfondo al film, era soprattutto l'incomprensibile solidarietà e la simpatia che Pasolini, un intellettuale borghese "libero di parlare", dimostrava di provare nei confronti di quei miserabili piccoli delinquenti, i sottoproletari romani protagonisti del suo film. E, nonostante la risibile foga con cui tali accuse vennero espresse, esse coglievano in pieno l'aperta provocazione intentata dal regista: mettere in scena ciò che la sua società, quella che gli aveva consentito la posizione di privilegio di realizzare un film, aveva volutamente rimosso da secoli: la vita degli "scarti", di quegli uomini latori di una preborghese miseria condannati a sopravvivere ai margini più remoti delle istituzioni vigenti nella società. In una società che ha strumenti di persuasione ricattatoria tutti "morali" come lo "scandalo", l'isolamento sociale, fondata sulla necessità di dimostrazione rituale di potere, dover ,riconoscere l'esistenza di un mondo che vive al di fuori del potere dei codici morali, non importa se perché gettato fuori con violenza dal corpo sociale dalla classe dominante, significa dover contraddire l'inesorabilità di tali codici, mettere in discussione l'universalità dei propri assiomi di forzata convivenza "etica".
Ma l'etica borghese non ha dialettica, o si è colpevoli o non lo si è, e neppure la pietà religiosa sulla quale tale etica dichiara di essersi costituita può soppiantare il razzistico senso di lesione che proviene dal fatto di dover riconoscere l'esistenza di un mondo recluso nel suo male, un "male" di cui tale classe storicamente dedita all'accaparramento è la diretta responsabile.
Pasolini, dunque, nel girare “Accattone”, metteva le mani in una ferita aperta nella pseuda-coscienza borghese, quella dell'esistenza di due Italie, una ufficiale, l'Italia
da esportazione, onesta, né povera né ricca ma allegra e sincera, quella oleografica dell'antica nobiltà e dei mangiatori di maccheroni, e un'Italia miserrima, in cui tutto, dalla lingua ai codici morali, era fermo ad un passato mai risolto di carognesca vitalità senza scampo, in cui neppure un debole riflesso della prima poteva filtrare attraversa il duro codice pre-borghese della sopravvivenza, della vita alla giornata.
Ma chi erano queste pietre dello scandalo, questa umanità dotata di una purezza astorica, questi "estranei" nella propria terra per cui la storia che si svolge nella società "vera" è vista solo come costante minaccia poliziesca o irraggiungibile mito di benessere, quando non è addirittura ignorata, con un comprensibile meccanismo di compensazione, come inesistente?

La loro storia si intreccia a quella degli interpreti, tutti attori rigorosamente non-professionisti, reclutati da Pasolini negli stessi luoghi in cui la vicenda del film si svolge, tanto che a tratti diventa quasi impossibile distinguere lo spirito della trasfigurazione poetica da quello dell'inchiesta sociologica. Vediamone la vicenda nel film.
TRAMA - Cataldi Vittorio, detto Accattone, (Franco Citti), è un "pappone", lo sfruttatore di una prostituta di nome Maddalena, mestiere che ha "ereditato" da un delinquente napoletano, Ciccio, denunciandolo anonimamente e raccogliendone la piccola "industria". Accattone vive in una borgata fatta di baracche senza tempo, ai margini della periferia romana, in una casa diroccata presumibilmente anche questa di Ciccio, insieme alla sua donna-prostituta e alla moglie-chioccia di Ciccio, Nannina, una donna disoccupata con cinque bambini a carico, di quelle che nel Sud Italia dell'epoca si sposavano a quindici anni. La vita di Accattone si svolge per lo più fuori del "baretto" assieme a un gruppo di amici tra i quali vige il codice non scritto di un fraterno antagonismo, tutti stoicamente fieri del loro non lavorare: ladruncoli, ricettatori, mantenuti dai genitori, adolescenti spiantati e violenti che dileggiano sarcasticamente chiunque lavori (come Sabino il fratello di Accattone). Accattone ha una moglie, Ascenza, dalla quale é separato, che gli ha dato un figlio. Ascenza lavora l'intera giornata per un salario da miseria in una officina di riciclaggio di bottiglie usate. L'apparente staticità della sua vita si interrompe quando quattro mariuoli napoletani compiono una spedizione per conto di Ciccio, scopo della quale è accertare le responsabilità di Accattone nell'arresto di Ciccio, e, nel caso, farsi giustizia. Accattone capisce le loro intenzioni e scarica tutta la colpa su Maddalena, la quale, una notte, nella squallida penombra di una discarica, viene malmenata dai quattro vendicatori di Ciccio e lasciata malconcia sul terreno. Portata in questura, Maddalena non denuncia i veri assalitori ma alcuni ragazzi che l'avevano insultata qualche sera prima. Accertata però la falsa testimonianza della donna, la polizia ne stabilisce la reclusione. Così Accattone resta all'improvviso "senza lavoro", ma rinuncia spavaldamente alle "offerte di lavoro" dei ladro Balilla, il quale, con una serenità millenaria, cerca di convincerlo spiegandogli che da quando il mondo è mondo un ladro non è mai stato disoccupato. Depresso e digiuno da giorni, Accattone torna all'officina in cui lavora la moglie per chiederle un prestito. Qui incontra Stella, una ragazza mite e ingenua, poverissima, della quale si innamora. Stella accetta l'amore di Accattone con una sorta di timida rassegnazione, vincendo un'inibizione nei confronti degli uomini derivata dal suo vissuto familiare: Stella è infatti figlia di una prostituta. L'esperienza dell'innamoramento provoca in Accattone una crisi di coscienza tutta istintiva, un'insoddisfazione di sè fino ad allora sconosciuta; ma i suoi propositi di cambiamento sono costantemente minati dalla spinta alla continuità proveniente dai suoi amici. Accattone porta Stella a vivere da Nannina, e, addirittura, decide, tramite una "raccomandazione" del fratello, di andare a lavorare da un fabbro. Lo spirito "malandro" di Accattone riaffiora di continuo, come quando, per comprare delle scarpe a Stella deruba il figlioletto della catenina d'oro, con una rassegnazione amara che è tutto un presagio del futuro. Infatti. l'apparente rinascita di Accattone è di breve durata, appena un giorno: il tempo di scontrarsi con la durissima realtà del lavoro materiale, con la paura feroce del giudizio degli amici, con l'incapacità di tenere fermo un proposito positivo senza farsi toccare dalla disperazione della propria condizione, e Accattone crolla miseramente in una cupa e feroce depressione. Così, dilacerato, Accattone sogna il proprio funerale, la sua morte rituale di fronte agli amici di sempre, in un paradiso-cimitero pezzente e squinternato gestito da un imperturbabile becchino. Accattone rinuncia al lavoro con rabbia, e decide, non senza tormento, di sfruttare la prostituzione della rassegnata e benevola Stella. Ma il tentativo non riesce, Stella crolla di fronte al primo cliente e torna in lacrime da Accattone. Per di più, Amore, una prostituta che ben conosce Accattone, viene arrestata in una retata e portata nella cella di Maddalena, dove fa la spia sui cambiamenti intercorsi nella vita del suo ex-protettore. Maddalena, ferita nell'orgoglio, decide di denunciare Accattone. La polizia comincia a controllarne i movimenti. Così, mentre Accattone, alla ricerca di cibo per sè e per Stella, accetta l'offerta di Balilla di partecipare a qualche furto, la polizia è pronta a intervenire. Durante il furto di alcuni salumi, infatti, Accattone, Balilla e il giovane Cartagine vengono colti in flagrante dalla polizia. Accattone però riesce a fuggire rubando una motocicletta: ma la fuga, come ogni altro tentativo di riscatto di Accattone, è di breve durata. Fuori campo sentiamo i rumori di un incidente stradale. La polizia e gli amici accorrono, mentre con la testa sanguinante sul selciato scuro, poco prima di morire, Accattone dichiara la sua avvenuta liberazione, il compimento del suo tragico destino, dicendo semplicemente...“Ah. mo' sto bbene”.
Il film si chiude sul segno della croce fatto meccanicamente e senza emozione dal ladro Balilla in manette, sulle note della Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach.

 

COMMENTO 

Il "mondo a parte" descritto da Pasolini nel film era come l'ultima scia di qualcosa di davvero preistorico, nel senso di precedente alla condizione borghese dell'essere-nella-Storia: un mondo assoluto, sciolto dai legacci della Ragione Dominante, in cui si sopravvive solo attraverso una ferina ingenuità senza spazio per i sensi di colpa, un mondo in cui aleggiava un polveroso senso di morte in vita, un'allucinata serenità non senza allegria, simile all'ultima sigaretta del condannato a morte. Pasolini, in strabiliante sintonia con i filosofi della scuola di Francoforte e in particolar modo con Theodor W. Adorno, dichiarava preistorica anche la società borghese a quel mondo contemporanea, ma preistorica in un senso del tutto differente: preistorica perché viaggiante verso la Nuova Barbarie capitalistica, quella tecnocratica, basata sul depauperamento della coscienza e sull'assimilazione e la digestione di ogni diversità, attraverso un'irresistibile estetizzazione della merce. Una società violentemente razzista, la cui apparente tolleranza viene in realtà usata come arma di ricatto per imporre la giustificazione delle tendenze più regressive e violentemente antidemocratiche, per lasciare spazio illimitato all'ottusa colonizzazione della cultura attraversa la sua illimitata mercificazione. E la vaga somiglianza percepibile all'epoca tra queste due preistorie parallele era, secondo Pasolini, "del tutto casuale".
La storia "astorica" del sottoproletariato è da sempre ferma alla rivolta individuale contro uno strapotere sovrastante quanto distante e sconosciuto: ma la rivolta non può trasformarsi in rivoluzione poiché il sottoproletariato non è mai stato una classe omogenea con una coscienza di sè, ma un gruppo eterogeneo la cui unica caratteristica comune è imposta dall'esterno, ed è l'indegnità sociale. Un gruppo in cui per di più vige la legge del più forte, e dove esiste a stento una solidarietà che confina con la pietà di sè e degli altri. Il dolore feroce del sottoproletariato per la propria condizione è infatti pieno di risentimento, ma del tutto estraneo alla sana rabbia della "coscienza" proletaria, perché senza speranza di riscatto: una condizione tragica, vitalisticamente disperata, per molti aspetti simile a quella dell'intellettuale borghese anti-borghese Pasolini.
Per Pasolini infatti quelle stesse leggi che un sottoproletario ignorava per furbizia, in base alle leggi della pigra sopravvivenza del succubo, o per semplice, terrorizzata incoscienza, sono ignorate per rifiuto, attraverso una precisa presa di coscienza contro il modello di sviluppo che da esse è sotteso. E la disperazione, che nell'animo sottoproletario nasce dall'impotenza, nella lucida analisi pasoliniana è la conseguenza di un'impotenza di secondo grado: quella di chi può parlare solo a patto di confondersi con l'altra merce, di diventare voce del coro e così scomparire. Ulteriore tratto in comune è, come conseguenza della disperazione, il non potersi rassegnare, il dovere scommettere su se stessi con il disincanto di chi sa che tutto probabilmente sarà vano.
Per questo ogni tentativo come quello di Accattone, di opporre una caparbia disobbedienza al tragico destino della propria condizione, somiglia a quello di Pasolini. E come per il destino che di lì a quattordici anni attendeva Pasolini, anche quello di Accattone non poteva che concludersi con la morte, unica vera libertà concessa dalla società eugenista agli uomini "senza dignità" che ignorano (come Accattone) o rifiutano (come Pasolini) le leggi della Ragione Dominante.

La sconfitta di Pasolini nella sfida aperta con la società benpensante era dunque già scritta fin dall'inizio. Infatti, quando Pasolini si accinse a descrivere questa "cultura altra" in seno a quella ufficiale, in Italia già serpeggiava il cambiamento da quella società politica della "ricostruzione" dei dopoguerra, che la scrittore definiva «in perfetta continuità col regime fascista», alla nuova barbarie del boom economico, quella dell'industria culturale di massa, che attraversa il miraggio dell'integrazione economica e sociale, avrebbe ottenuto di lì a poco la sua vittoria: l'omologazione a sè di tutte le "diversità" residue.
Quando il film fu trasmesso per la prima volta in TV, nel 1975, Pasolini scrisse in un celebre corsivo sul “Corriere della Sera” che ai suoi occhi “Accattone” non era più altro che un "prelievo di laboratorio" effettuato su una società che stava scomparendo, tanto nella sua classe dominante quanto nel suo sottoproletariato, oltre che nella lingua, nelle abitudini, nel modello di vita: l'Italia dell'estate del 1960, come tiene a specificare Pasolini, quella del governo Tambroni formato con l'ausilio di missini e monarchici, era in realtà il complesso residuo di un tempo che si stava autofagocitando definitivamente. Così il regista descrive questo processo:
“Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di una di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la grandiosa metropoli plebea, avrei avuto l'impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. Le SS di Hitler, appunto. I giovani - svuotati dei loro valori e dei loro modelli come del loro sangue - e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere: quello piccola-borghese”.

Pasolini aveva dunque immortalato nel suo film gli ultimi latori di una "atroce condizione umana", dialetticamente contrapposti, nella "purezza" della loro ignoranza della storia borghese, alla società dell'apparenza, altrettanto caduca e transitoria, di quegli anni. Allora dunque era ancora passibile tentare di descrivere una vita intatta dalla morale borghese, anche se non in grado di contrapporle alcuna morale: uno di questi sottoproletari aveva infatti molto di più in comune con un uomo della sua condizione vivente nel medioevo che non con un suo contemporaneo appartenente alla classe ideologicamente dominante. L'ideologia del miserrimo Cataldi Vittorio detto Accattone è infatti un'ideologia negativa, religiosa alla rovescia, relegata al destino e ai suoi pagani, millenari valori assoluti, quelli del cieco accaparramento della propria sopravvivenza. Tutto ciò che oltrepassa la vita alla giornata, persino l'esperienza rinnovatrice dell'amore, non gli è concessa. Tutto può entusiasmarlo appena per un breve istante, ma quando esce dalla condizione di sogno irraggiungibile per diventare realtà, subito si confonde allo squallore della vita, si sporca, é troppo bello per durare. Per questo Accattone non vive che la morte dell'esperienza, e non può essere liberata che dall'esperienza della morte.
Ciò che all'epoca spingeva Pasolini a dipingere l'epos del sottoproletariato romano era l'utopia, di origine marxiana, del supporre in chi fosse intatto dalla logica dominante il germe di una storia futura, di là da venire, basata sui valori di una spontaneità anche vicina a quella predicata da Cristo nel Vangelo, ma soprattutto intesa come rottura di quella "seconda natura" sociale che è il modello comportamentale imposto dalla classe dirigente: se un proletario infatti corre sempre il rischio della corruzione proveniente dal miraggio del passaggio alla classe piccolo-borghese a contatto con la quale egli vive, il distacco definitivo del sottoproletario la pane al di fuori di questa rischio (ma anche al di fuori di qualsiasi altra forma di evoluzione). L'assoluta potenzialità rinnovatrice dell'essere completamente al di fuori del vincolo sociale si trasforma così nell'esserne completamente all'interno non appena 1a colonizzazione culturale da parte di chi possiede i mezzi di persuasione ha inizio. Il "genocidio" lamentato da Pasolini, dunque, per paradosso, non era che lo sviluppo di quell'etica senza morale sospesa nel tempo, di quell'estraneità incosciente che poteva essere l'unico punto di forza palingenetico di questo mondo.
La narrazione di “Accattone” è affidata ad uno stile del tutto simile a quello "bocciato" da Fellini: una fotografia nitida e contrastatissima che affida la sua forza espressiva ad un'alternanza poeticamente scomposta di primissimi piani statici, dettagli, controcampi panoramici e campi lunghi con un ritmo interno concitatissimo; i movimenti di macchina ridotti all'essenziale, anche quando, come nei due celebri carrelli su Accattone che cammina in strada, si tratta di sequenze molto lunghe. Un discorso a parte merita l'uso del suono nel film. L'aperta provocazione di utilizzare uno dei capisaldi della tradizione musicale religiosa, La passione secondo San Matteo di Bach, come leitmotiv per le gesta disperate dell'Accattone senza Dio, a enfatizzarne la condizione di povero Cristo che porta su dì sè i peccati di tutto un mondo senza neppure il beneficio religioso della redenzione, si alterna alle stornellate romanesche cantate con sarcasmo cattivo dai ragazzi della borgata e alle canzoni popolari con le parole storpiate in un'acre parodia del mondo. Ma fra tutte vi è una scena che merita senz'altro di essere ricordata per la sconvolgente efficacia della sua essenzialità: quella del sogno di Accattone. La scena sovraesposta e polverosa in cui si aggirano, tra detriti e calcinacci, vestiti a lutto e preceduti da angeli-chierichetti in processione, gli amici di Accattone che vanno al suo funerale, il senso di morte emanato dai corpi esanimi ricoperti di pietre dei mariuoli napoletani, l'angoscia di vedersi scavare la propria fossa all'ombra anziché al sole, sono sottolineati in maniera superlativa da un silenzio sordo, dall'assenza di qualsiasi rumore, un silenzio senza ampiezza, senza respiro, senza spazio. Solo, di tanto in tanto, qualche breve ed ellittico scambio di parole, e il respiro affannato di Accattone che sogna, fanno baluginare qualche germe di realtà in questo definitivo omaggio alla forza espressiva dell'immagine "muta", a questo silenzio vuoto che fa da contrappunto ai numerosi momenti di silenzio pieno di latrati, di motori', di urla e di vento in cui i passi sconsolati di Accattone si aggirano per tutto il corso del film.
In Accattone si addensa dunque già tutto il cinema futuro di Pasolini, per il quale non conoscere una tecnica "da specialista" ha comportato la possibilità di usarne i mezzi espressivi come se fossero sostanzialmente nuovi. Alla provocazione politica si univa dunque una vera e propria provocazione visiva, simile nello spirito a quella dell'eterno non professionista Duchamp: riuscire a guardare da una vista nuova la stessa, squallida realtà dell'osservazione quotidiana, in modo da rivelarne, pur senza cambiarne gli attributi, quell'intima drammaticità che fa corpo con una irraggiungibile, amara ironia.


Fonte:

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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