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domenica 24 agosto 2014

PPP La sua inchiesta - Franco Buffoni

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



PPP La sua inchiesta
Franco Buffoni



"Ma quando tutta la sabbia insieme e senza vento
Prese le forme sue, si comprese
Che la rimozione urgente non bastava".


Sono i versi conclusivi di una poesia datata 5 novembre 1975, intitolata "PPP la sua inchiesta", e rimasta inedita, come molte altre di quel periodo. Avevo ventisette anni, ero omosessuale e vivevo in Lombardia.
"Ti faccio fare la fine di Pasolini", me lo sentii dire un paio di volte negli anni successivi: era come uno slogan in certi ambienti, veniva usato come deterrente, quando non ci si comportava propriamente da "clienti".
Pasolini lo avevo incontrato in una occasione di poesia a Roma nel luglio del 1972, ma non ero riuscito a suscitare il suo interesse. In compenso sentii parlare molto di lui in quel mese di esami di maturità, come supplente neo-laureato nella commissione dell’Istituto Tecnico-Linguistico Femminile "Caterina da Siena" di via Panisperna. Non come regista o come scrittore, non ce n’era bisogno. Sentivo parlare di lui la sera dal mio aiuto-bagnino. Aveva vent’anni, lo avevo incontrato sulla spiaggia di Ostia, dove qualche volta mi recavo al pomeriggio dopo gli esami. Ero sceso a Roma con la mia 128 gialla nuova comprata a rate e targata Varese. La sera ci piaceva scorrazzare su è giù fino a Piramide e poi al centro. Tardi lo riaccompagnavo a Ostia e ci fermavamo proprio lì, nei pressi del Lido. Seppi tutto del Pasolini notturno: abitudini, contatti, preferenze, insistenze, concessioni. Era assolutamente noto presso chi non aveva letto una riga dei suoi scritti. Ma non aveva più "storie" con nessuno. Mentre per me allora non era concepibile non vivere la storia. E con l’aiuto-bagnino Riccardo, che la sera indossava camicie sgargianti e portava pantaloni lucidi a zanna di elefante, io vissi una bellissima storia.
Tre anni dopo, quando accadde il disastro, Testori ricordò sul Corriere che sì, si cena con gli amici, ma più tardi – soli – si finisce col cedere e col cercare qualcuno nella notte. Mentre Arbasino, più pragmaticamente, scrisse che non era possibile che si finisse in un posto del genere senza avere ben deciso prima chi doveva fare che cosa a chi.
Io avevo capito. Trovavo ragionevole che per Arbasino dovesse essere così, ma sapevo da fonte certa che per Pasolini così non era. Non era più così da tempo. Con alcuni ragazzi il suo gioco era proprio quello di farli anche cedere. Un gioco più che altro cerebrale, che difficilmente concretizzava: gli bastava il gesto del cedimento. Che contestualmente significava anche avere chiuso con lui per sempre. Solo chi gli resisteva e lo "menava" aveva nuove chance di incontro.
PER QUESTO MI PARVE VEROSIMILE IL PRIMO RACCONTO DI PELOSI.
Per questo non mi parvero convincenti le posizioni di chi, come Enzo Siciliano, Alberto Moravia, Laura Betti – da subito e molto saggiamente, dico oggi – parlò di agguato ordito contro di lui. Erano le attribuzioni relative all’agguato che proprio non mi convincevano: neofascisti e/o il racket della prostituzione maschile (sul quale, si aggiungeva, Pasolini da tempo stava indagando). Oppure altre inchieste che forse stava conducendo. Ma a chi potevano dare fastidio le inchieste di un poeta che parlava di lucciole e di nuche di adolescenti? Pensavo: solo chi conosce il nostro mondo dall’interno può capire. Ero d’accordo con Bellezza, con Naldini.
Trascorsero diciassette anni. Pelosi intanto usciva e tornava in galera per piccoli furti e spaccio. Apparve Petrolio. Non mi bastò: lo lessi a tratti, svogliatamente, infastidito. Carlo nel salotto: narcisista. Carlo si autoaccusa, tra quelli dei nemici mette anche il suo nome: masochista. Carlo si fa dieci ragazzi infoiati in fila: non giova alla causa dei nostri diritti civili. Certe parti contro l’Eni e la DC le saltai a pie’ pari, pensando che ormai era cambiato tutto: non aveva più senso pensare alla DC. Un romanzo fallito più che incompiuto, mi sembrava, già era troppo lungo così.
Perché oggi sono qui ad accusarmi di miopia e a chiedere scusa alla sua memoria e a coloro che colsero subito la verità? Perché in rete ho visto finalmente le foto del suo corpo martoriato. Chiunque si rende conto che quel massacro non può essere stato compiuto da un ragazzo ritrovato con una sola macchiolina di sangue sul pantalone. Persino ammettendo che lo abbia davvero travolto fuggendo in auto. Erano in tre o quattro, avevano le catene, disse subito il testimone che abitava nella baracca lì vicino (NON PIU’ INTERROGATO): gli gridavano "arruso" e "comunista", lui gridava "basta" e poi "mamma", che fu la sua ultima parola. Il volto e il corpo recano i segni della lapidazione. Solo nell’estate del 2005 ho visto quelle foto. Dopo la confessione televisiva di Pelosi del 7 maggio 2005.
E sono grato a Gianni D’Elia e al suo editore Giovanni Giovannetti (Effigie) che – invitandomi a presentare a Milano alla Festa dell’Unità nell’agosto 2005 L’eresia di Pasolini insieme a Barbacetto di "Diario" – mi indussero a rileggere Petrolio.
Oggi mi resta solo il dubbio se Pelosi fu esca consapevole o inconsapevole. Propendo per la seconda ipotesi. Con forti minacce per farlo tacere fattegli giungere in carcere, immediatamente dopo l’arresto. Pelosi doveva scappare e basta. A piedi. Nel piano degli assassini.
Ormai che la verità sia in Petrolio e soprattutto nel petrolio non lo dice un poeta o uno scrittore, ma un giudice. Come D’Elia ricorda a p. 98 del suo libro: "Secondo il giudice Vincenzo Calia, che ha indagato sul caso Mattei, depositando una sentenza di archiviazione nel 2003, le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo italiano fascista e di stato". E ancora: "Calia ha scoperto un libro, che è la fonte di Pasolini, un libro nato dai veleni interni all’ente petrolifero nazionale". Pubblicato nel 1972 sotto pseudonimo, Questo è Cefis (L’altra faccia dell’onorato presidente) fu subito ritirato dalla circolazione e mandato al macero per ordine della magistratura. Pasolini riuscì ad averlo in fotocopia. In Petrolio "l’onorato presidente" si chiama Troya.
PASOLINI E’ STATO UCCISO PERCHE’ STAVA PER SCRIVERE SUL CORRIERE LA VERITA’ SUL CASO MATTEI.
Stava per dimostrare che le Sette sorelle non c’entravano, che la questione era interna, nostra, italiana; veniva da una saldatura tra istanze di potere politico-mafioso e certe disinvolture "resistenziali" per le soluzioni drastiche: Cefis e Mattei erano stati entrambi anche uomini della Resistenza.
E oggi possiamo forse domandarci quanto di quella acutezza nella conduzione della sua indagine venne a Pasolini dalla conoscenza dei meccanismi interni alla fine drammatica del fratello maggiore Guido.
Come ho potuto per tanti decenni – io intellettuale, io poeta, io omosessuale – non capire?
In parte, certamente, fu per i comportamenti di Pasolini nella sua vita "privata". Che di privato non aveva nulla. E furono proprio quei comportamenti che indussero i mandanti e gli assassini ad andare sul sicuro: stavano costruendo un delitto verosimile con tanto di movente. Ci cascarono molte persone oneste, come il pittore Gabriele Mucchi, rigorosamente marxista, che si schierò violentemente a difesa di Pelosi, considerandolo vittima dello sfruttamento sessuale di chi adescava minorenni con l’Alfa 2000.
Per incidens, alla fine di maggio 2005, dopo la confessione televisiva di Pelosi, nella trasmissione di Rai 3 che si occupa di critica televisiva con i giovani analisti della Cattolica di Milano, la signora Poggialini, critico di Avvenire, definì Pasolini "pedofilo", tout court. Un’accusa assurda alla quale nessuno dei presenti ritenne di dover obiettare.
Ma la vera ragione per cui, per tanti decenni, sono rimasto al buio, l’ho capita casualmente imbattendomi in questa frase del libro di D’Elia: "L’omicidio di Pasolini è stato un atto premeditato e politico, non un delitto omosessuale". UN DELITTO OMOSESSUALE?
La questione non è solo lessicale. Diventa subito di sostanza. Nel delitto di gelosia è il geloso che uccide. Ad uccidere gli omosessuali, invece, sono sempre degli eterosessuali che ci tengono tantissimo a dichiararsi tali. (Ed è questa la ragione per cui gli omosessuali li cercano). Ricorrendo a tale definizione, se ne perpetua oggettivamente l’assassinio, inducendo quelli ottusi e miopi come me a ritenere verosimile, concepibile, spiegabile un delitto "omosessuale". Un delitto omofobico, piuttosto, si dovrebbe dire.
Quindi, non si dica che Pasolini – comunque – è stato ucciso dalla sua debolezza, che lo induceva a porsi in situazioni "a rischio" con i maschi "eterosessuali". L’omofobia ha solo reso più cruento un delitto politico.
PASOLINI SAREBBE STATO UCCISO LO STESSO. AVREBBE FATTO LA FINE DEL GIORNALISTA MAURO DE MAURO. Che fu fatto sparire proprio mentre indagava sul caso Mattei: mafia-Eni-Dc.
Ma a differenza del coraggioso giornalista De Mauro, il coraggioso giornalista Pasolini fu anche un artista, un grandissimo artista, che attraverso il personaggio di Carlo – il cui corpo in Petrolio si consustanzia in merce, divenendo esso stesso petrolio – è riuscito a trasformare l’inchiesta che gli costò la vita nell’opera letteraria-summa della realtà italiana nel secondo dopoguerra.

Fonte:
http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article2807


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Perche’ i critici letterari non vogliono la verita’ su Pasolini? - Carla Benedetti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro






Perche’ i critici letterari non vogliono la verita’ su Pasolini?
Carla Benedetti



Il 1 aprile su "La stampa", Marco Belpoliti ci ha invitati a non parlare più dell’omicidio di Pasolini. E’ uno strano invito, per me abbastanza inquietante. Sarebbe come se qualcuno sostenesse che è inutile farsi troppe domande sulla morte di John Kennedy, tanto si sa già tutto. In America sarebbe ridicolo. In Italia lo si fa spesso per la morte di Pasolini. Ogni volta che sui giornali se ne torna a parlare, immancabilmente si alza una voce per dire che non c’è nulla più da scoprire. Così fanno da anni Nico Naldini (cugino e biografo di Pasolini), Graziella Chiarcossi (erede di Pasolini e moglie di Vincenzo Cerami) e altri. Ora anche Belpoliti. E proprio nei giorni in cui, in seguito a nuovi fatti, la Procura di Roma ha deciso di riaprire il caso.

Perché lo fanno? Sinceramente non lo capisco. A chi o a che cosa potrebbero nuocere ulteriori indagini? Non sta anche a loro a cuore la verità? Certo, Pasolini era un "poeta". Ma forse che la ricostruzione di un omicidio può essere più approssimativa quando la vittima è un "poeta"? Gli assassini non sono ugualmente assassini? E la verità sulla morte di un poeta non è altrettanto sacra di quella sulla morte di un qualsiasi altro uomo o donna?

Nella replica a Mario Martone su "La Stampa", e gia’ prima nella versione pubbicata su Nazione Indiana, Belpoliti sostiene anche che non c’era alcuna ragione per eliminare Pasolini, e cerca di portarne un "prova" filologica. Scrive che le fonti di Petrolio (il romanzo a cui Pasolini stava lavorando al momento della morte) sono tutte note e quindi Pasolini non sapeva niente di più di ciò che altri sapevano. Pasolini ha infatti ripreso molti materiali da articoli di giornale e dalle fotocopie di Questo è Cefis (uno strano libro, scritto da qualche nemico dell’ex presidente dell’Eni, e poi ritirato dalla circolazione – ora lo si può leggere anche qui, su ilprimoamore.com), che gli aveva passato Elvio Fachinelli.

E’ vero. Tutte quelle carte sono visibili all’archivio Vieusseux di Firenze.

Però Belpoliti omette di dire che quelle sono le fonti del Petrolio edito. Ma nessuno sa cosa ci fosse nel capitolo intitolato "Lampi sull’Eni", al cui posto ora non resta che una pagina bianca. E se non se ne sa niente, non si può nemmeno sapere quali ne fossero le "fonti". Come può allora Belpoliti sostenere con tanta perentorietà che Pasolini non avesse ricevuto da qualcuno dei materiali compromettenti sul delitto Mattei o sul suo successore Eugenio Cefis?

Proprio di quelle parti "mancanti" si è tornato a parlare nelle ultime settimane dopo l’annuncio di Dell’Utri. E’ possibile che Pasolini non le avesse ancora scritte. Ma in molti resta il sospetto che invece siano state sottratte. C’è un indizio dentro al testo stesso: in una pagina successiva di Petrolio Pasolini rimanda il lettore proprio a quegli appunti mancanti, come se li avesse già scritti.

Oltre che studiosa di Pasolini, io sono una delle tante persone che vorrebbero si facesse luce su quell’atroce delitto. Nel 2005 la rivista "Il primo amore" lanciò un appello per la riapertura delle indagini. Fu firmato da un migliaio di cittadini italiani e stranieri, tra i quali personalità note della cultura come Andrea Camilleri, Bernard Henri-Lévy, Luca Ronconi e molti altri. Il testo dell’appello non dava alcun adito al complottismo. Semplicemente diceva:

"Noi non sappiamo se a far tacere uno degli artisti più fervidi e una delle voci più scomode e tragiche di questo paese sia stata una decisione politica. Quello che però sappiamo - come lo sa chiunque abbia prestato attenzione alla vicenda - è che la versione blindata della rissa omosessuale tra due persone non sta in piedi. Sappiamo che essa è stata solo una copertura servita a sviare le indagini e a coprire un altro tipo di delitto".

Quella versione infatti non regge. Non solo perché il reo confesso l’ha ritrattata, ma perché già non reggeva per il Tribunale di Primo grado, che infatti condannò il Pelosi "assieme a ignoti". Naldini, Belpoliti e qualche altro letterato se ne sono invece innamorati. La trovano "poetica". Permette loro di fare molti bei ricami sulla morte sacrificale e sullo "scandalo dell’omosessualita". Un poeta omosessuale ucciso mentre cercava di violentare il suo oggetto di desiderio! Un poeta delle lucciole ucciso da una lucciola mutante… E se non fosse vera? A loro non importa.

Ma se Naldini e Belpoliti sono così certi che la rissa omosessuale spiega il delitto, perché non ci dicono chi erano gli "ignoti" che presero parte all’omicidio? Non ce lo dicono perché ovviamente non lo sanno. Non lo sanno, però sostengono che si sa già tutto.

Per di più tendono a far apparire chi ha dubbi come dei dietrologi fanatici, innamorati dei complotti, stravolgendo i loro argomenti. Belpoliti lo fa anche nei confronti di un mio articolo uscito sull’"Espresso" del 31 marzo e leggibile anche qui. Fa persino passare per incontro "notturno" la conversazione che ebbi nel 2003 con il giudice Vincenzo Calia alla Casa delle Letterature di Roma, al termine di un convegno su Pasolini, a cui presero parte anche Gianni D’Elia e Gianni Borgna.

Perché tanta fretta di mettere in ridicolo chi vorrebbe la verità? Non la vogliono forse anche loro?



Fonte:
http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article2812



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