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mercoledì 13 agosto 2014

Pier Paolo Pasolini - L'usignolo di Italo Moscati.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 


L'USIGNOLO
di Italo Moscati
Tratto da:
PASOLINI PASSIONE
Vita senza fine di un artista trasparente
EDIESSE, Roma 2005




 

Fu lo Spirito Santo a spingere il marxista Pier Paolo Pasolini a sfogliare il Vangelo? I racconti su quella notte si assomigliano tutti e ne fanno una storia edificante.

Lesse il Vangelo «d'un fiato come un romanzo scoprendo quanta parte della realtà del mondo contadino dell'età di Cristo è finita nelle pagine del testo di Matteo, il più 'rivoluzionario' perché il più 'realista'» (Naldini).

Provò subito il bisogno di «fare qualcosa», sentì «una energia terribile, quasi fisica»; e la «via di Damasco» che gli si spalancò davanti non fu quella della fede giunta come un fulmine a coglierlo, ma quella «estetica» della poesia. Il lettore notturno fu «invaso da quell'aumento della vitalità che l'opera di poesia - è la tesi di Bernard Berenson - suscita» (Siciliano).

Dopo la notte di Assisi, Pasolini scrisse in una lettera a Lucio Settimio Caruso, collaboratore di don Rossi, d'aver letto il Vangelo per la prima volta durante la guerra, fra il 1940 e il 1941, a diciott'anni. Si era sentito ispirato e con il tempo ne erano nati i versi di "L'usignolo della Chiesa cattolica".

In queste pagine Pier Paolo aveva riversato il suo amore per il «Cristo, sereno poeta, fratello ferito», per il Cristo dal «corpo di giovinetta», e la drammatica emozione provata di fronte alla crudeltà della crocifissione.

Una vera passione che si ritroverà anche in un altro suo libro, pubblicato più avanti negli anni, e sempre prima di Assisi, "La religione del mio tempo": «Io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue».

Nei versi dell'"Usignolo", il giovane Pasolini trasmise il suo bisogno di agire, di compromettersi: «Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?), / la chiarezza del cuore è degna / di ogni scherno, di ogni peccato / di ogni più nuda passione... / (questo vuol dire il Crocifisso? / sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull'abisso)».

A quale perdono e a quale abisso Pasolini alludeva fin quasi a inchiodarsi egli stesso alla croce?

Alberto Moravia, che lo conosceva bene, lo stimava, ma non si faceva commuovere facilmente, riteneva che i suoi tormenti fossero dovuti a un senso di colpa di cui non era mai riuscito a liberarsi interamente, un senso di colpa dovuto all'aver adottato il giudizio negativo della società italiana sull'omosessualità.

Il gesuita Virgilio Fantuzzi, rifacendosi a questo giudizio negativo, aggiungeva che Pasolini sfidava una società iniqua da cui si sentiva ingiustamente condannato e protestava perché escluso «dalla festa della vita che solo per gli altri si rinnova».

Ma Pasolini non parlava soltanto di sé. Accusava la Chiesa di non fare abbastanza per condannare questa iniquità; ma anche la riteneva responsabile, in nome di un giudizio di cui si sentiva vittima, di non cercare rimedio a tutte le iniquità. La Chiesa gli appariva due volte colpevole, sia perché dimenticava i diversi come lui, sia perché stava con i ricchi e con lo Stato anziché con le moltitudini di poveri e sfruttati.

La passione ideologica di Pasolini, veemente come in un profeta, seduceva non solo i disponibili, generosi cattolici della Cittadella di Assisi, ma anche tutti quei cattolici che, come gli ex preti delle tendopoli, consideravano la Chiesa una vera peccatrice. Egli non amava la Chiesa ma sperava in qualche modo di contribuire a correggerla, usando la sua arte.

In quella stessa lettera che indirizzò a Caruso, proponendo il suo sincero «irrazionale sentimento» per il Cristo «che credo divino», Pier Paolo esprimeva il desiderio che il suo futuro film «potesse essere proiettato nel giorno di Pasqua in tutti i cinema parrocchiali d'Italia e del mondo. Ecco perché ho bisogno della vostra assistenza e del vostro appoggio. Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica non contrastassero mai la vostra sensibilità di credenti».

In nome di «un'idea prepotente ed esclusiva», incosciente o forse machiavellico, pretendeva di mettersi alla testa dei credenti da non credente.

Era stato ospitato ad Assisi, nei giorni in cui si svolgeva «attutita, estranea e, in fondo, ostile la festa per l'arrivo del papa». Giovanni Ventitreesimo, il papa che amava e che avrebbe voluto vedere capace di emendare i peccati della Chiesa, era stato lì per una breve apparizione alla Cittadella. Pier Paolo era rimasto nella sua stanza a rileggere il Vangelo.

Una volta finito il film, avrebbe risposto a un lettore sul settimanale comunista "Vie Nuove"; «Se ti è lecito identificare un momento storico della Chiesa con la classe sfruttatrice, ciò non significa che lo puoi fare sempre [...] Il papa si è tolto dalla testa la mitria e l'ha donata ai poveri, sollevando un alto applauso tra tutti i vescovi e i cardinali avanzati che pensano la Chiesa come Chiesa dei poveri».

Non ci fu nessun miracolo ad Assisi. Ci fu soltanto l'intuizione di un prete intelligente. Don Giovanni Rossi capì il dono che un artista come Pasolini avrebbe potuto fare, più di altri, alla Chiesa di papa Giovanni e del Concilio Vaticano secondo, un'assise di prelati di tutto il mondo in cui l'intera vecchia struttura del cattolicesimo era stata messa in discussione.

Pasolini, a sua volta, capì che, affievolitasi ormai «la luce della Resistenza», la parola sacra del Vangelo avrebbe potuto essere così forte da surrogare la crisi ideale del marxismo e la sua personale crisi politica.

Il P.C.I. era stato ed era ancora una grande madre protettiva che Pasolini poteva criticare ma che non avrebbe mai abbandonato.

Curiosamente, se papa Giovanni predicava di aprire il dialogo facendo distinzione tra l'errore del comunismo, che andava comunque respinto, e gli erranti, cioè i comunisti, Pasolini preferiva mantenere il dialogo con il partito e polemizzare con i suoi intellettuali o con i burocrati che sbagliavano. Né papa Giovanni né Pasolini rinunciavano a credere nelle rispettive chiese.

Il film sul Vangelo poteva e doveva diventare un'occasione di dialogo fra cattolici e comunisti come rare volte si era verificato in passato.

Don Rossi, confidente di papa Giovanni Ventitreesimo che appena eletto nel 1959 gli comunicò la sua intenzione di convocare un Concilio, aveva cominciato da tempo a lavorare per Pasolini. In un colloquio privato con il pontefice, avvenuto agli inizi del 1963, quando Pier Paolo aveva in corso il piccolo carteggio con i nuovi amici della Cittadella, gli parlò del film che Pasolini voleva girare. La risposta fu positiva. Andate avanti, disse il papa, «con coraggio e con prudenza».

Sono particolari che Caruso ha comunicato alla rivista "30 giorni", diretta da Giulio Andreotti, nel dicembre 1994. Interessanti perché vi si apprende che a difendere il progetto fu anche l'arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, considerato il più conservatore del Sacro Collegio.

In una lettera a don Rossi, che chiedeva lumi e coperture, rimasta a lungo inedita, l'allora presidente della Conferenza episcopale per l'Azione cattolica diede il suo nulla osta: «Per portare avanti la conquista della cultura a Dio, qualcosa bisogna pur rischiare. Non siamo dispensati dai canoni della prudenza; ma anche la prudenza in taluni casi consiglia l'audacia. Esclude solo la temerarietà. Mi permetta di pregarla di 'assistere molto', di far pregare molto perché non si può ammettere che la faccenda riesca meno bene dal punto di vista del rispetto pieno a Nostro Signore».

L'intervento di Siri fu politico e provvidenziale insieme. Già spirava un'aria favorevole al progetto che veniva da padre Grasso della Gregoriana e da altri teologi, mentre don Rossi era persino trepidante e disse a Pasolini che sempre lo aspettava ad Assisi «con grande amore e ammirazione».

Don Rossi mise accanto al regista come consulente il biblista don Andrea Carraro, «un prete contadino dal sorriso arguto», come lo definì il regista. Quando morì, nel marzo del 1969 mentre non cessavano le fastidiose polemiche su "Teorema", Pier Paolo andò a visitare la salma e lasciò un suo ricordo: lo aveva giudicato da subito un uomo infinitamente buono «perché ciò che conta è l'irraggiungibile santità, non la Chiesa. E ciò che solo ha valore, è questo silenzio della morte, così più reale di ogni obbedienza e di ogni disobbedienza».

Pasolini si dedicò al lavoro e in pochi mesi consegnò la sceneggiatura. Lucio Settimio Caruso, dopo averla letta, comunicò il suo entusiasmo all'autore, che rispose: «In me durante questi ultimi anni, l'insofferenza totale verso la borghesia ha assunto caratteri estremi [...] Là dove si parla di Dio, anche per dire la propria miscredenza, non c'è la borghesia. Forse è appunto perché sono così poco cattolico, che ho potuto amare il Vangelo e farne un film».

Una volta finito, il film divise i cattolici. Ebbe molti elogi ma provocò sconcerto fra gli alti prelati. Dopo aver assistito alla prima mondiale alla Mostra di Venezia del settembre 1964, il cardinale Giovanni Urbani reagì all'istante in modo negativo: «Pasolini non ha capito il Vangelo: Gesù non era così». Ma poi, come riferirà trent'anni dopo il segretario particolare di papa Giovanni, monsignor Capovilla, il cardinale Urbani era tornato a casa e aveva riletto il Vangelo di Matteo finendo per correggersi: «Mi sono accorto che Pasolini, pur da laico, aveva portato sullo schermo esattamente il Gesù di Matteo. Con grande fedeltà, parola per parola».

D'accordo con lui furono i padri riuniti a Concilio che applaudirono il film all'inizio quando apparve la scritta «Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni Ventitreesimo», e alla fine. Papa Giovanni era morto, e sul soglio pontificio era salito Paolo Sesto. Si disse che anche lui avesse visto il film da solo, in una proiezione riservatissima, ma il fatto non fu mai confermato.

Pasolini era ormai uomo con il quale si poteva dialogare. Non fu soltanto il "Vangelo" ad autorizzare lo sviluppo del dialogo ma, paradossalmente, lo scandalo della "Ricotta", che non intralciò la preparazione del film tratto dalle pagine di Matteo, ma anzi la accelerò.

Il primo marzo 1963 un ufficiale dei carabinieri si era presentato al cinema Corso di Roma, dove si proiettava il film "Rogopag" in cui era inserito "La ricotta", con un ordine di sequestro firmato dal sostituto procuratore della repubblica di Roma, Giuseppe Di Gennaro. La proiezione venne interrotta perché, come si è detto, l'episodio diretto da Pasolini costituiva «vilipendio della religione di Stato».

Secondo Di Gennaro, il regista, «con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica», rappresentava «alcune scene della Passione di Cristo dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica».

Pasolini aveva previsto il rischio e aveva messo all'inizio del film una dicitura: «[...] la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i Testi che la raccontano, i più sublimi che siano mai stati scritti».

Ma la formula non bastò perché Pasolini fu condannato per vilipendio a quattro mesi di reclusione. Un anno dopo fu assolto «perché il fatto non costituisce reato» e nel 1968 il caso fu finalmente chiuso con il dissequestro del film che intanto aveva ripreso a circolare, con il titolo "Laviamoci il cervello", grazie ad alcuni tagli della censura.

Per "La ricotta" era intervenuta direttamente la magistratura. La Chiesa aveva preso una posizione cauta. La Commissione vaticana per la revisione e il giudizio morale sui film non aveva «escluso per tutti» la pellicola. Alcuni autorevoli critici di giornali cattolici avevano pubblicato recensioni favorevoli. E forse anche gli appoggi dei cattolici di Assisi erano serviti.

Ma soprattutto doveva aver agito in modo sotterraneo, nella Chiesa e fra i cattolici, quella preoccupazione, esposta nella lettera del cardinale Siri: «Per portare avanti la conquista della cultura a Dio, qualcosa bisogna pur rischiare». La Chiesa cercava il dialogo con il mondo della cultura e sapeva che con quello del cinema non era facile. Sapeva anche che, in un paese dove tutto stava cambiando, si doveva pur correre qualche rischio, sia pure calcolato.

In Vaticano, i prelati non ignoravano quello che il centro e la destra politica dicevano del cinema italiano, e cioè che era sottoposto a una tradizionale e forte egemonia della sinistra, comunista in particolare. Gli interventi della censura ministeriale contro alcuni film che venivano allora definiti genericamente «impegnati» davano spesso la netta sensazione di colpire i registi, gli sceneggiatori, gli autori di sinistra in nome del pregiudizio.

Il potere della Chiesa, sia pure ridotto rispetto a quello politico, faceva comunque paura. Un giudizio negativo della Commissione di revisione dei film, affisso nella parrocchie e pubblicato dai giornali, letto in questura o da qualche giudice, poteva avere effetto sull'affluenza nelle sale e poteva essere usato per avviare lunghi procedimenti in tribunale. I rapporti esistenti fra la Chiesa e il governo guidato da democristiani erano tali, e il cinema italiano era così poco amato in Vaticano, che erano pensabili intese contro i film con maggiori ambizioni artistiche e culturali.

Registi famosi cercavano protezione e aiuto, o almeno prendevano qualche precauzione, rivolgendosi a sacerdoti intelligenti e colti per consigli, consulenze.

Federico Fellini, per "Le notti di Cabiria" o per "La dolce vita", ma anche per altri suoi film, chiedeva abitualmente pareri a padre Angelo Arpa, un gesuita esperto e sensibile, consultato anche da altri autori, compreso Pasolini. E così facevano anche importanti produttori.

C'era una lunga storia dei rapporti fra cinema, Vaticano e cattolici. Fuori dagli ambienti di Cinecittà, molti ignoravano che dal 1944, subito dopo l'entrata degli Alleati a Roma, il domenicano belga padre Felix Morlion, collaboratore durante la guerra del servizio segreto americano, aveva iniziato a organizzare in Italia un'estesa rete di sale parrocchiali grazie a una gran quantità di dollari.

Inoltre, sul finire degli anni quaranta, appoggiandosi al giovane giornalista Gian Luigi Rondi, amico dell'allora altrettanto giovane Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, incaricato del settore cinematografico, padre Morlion aveva avvicinato Roberto Rossellini, che realizzò "Stromboli terra di Dio" con Ingrid Bergman, e Vittorio De Sica. Entrambi potevano essere interlocutori su cui influire, poiché erano sempre alla ricerca di finanziamenti per i loro film.

Erano semplici iniziative per arginare l'egemonia comunista?

Il clima generale di quel periodo era molto particolare, molto carico di tensioni. E così lo descrive, a distanza di quasi cinquant'anni, lo storico del cinema Guido Aristarco: se per il cinema erano, con i capolavori del neorealismo, anni stupendi, tuttavia, «nessuno si sentiva indipendente. C'era imminente il pericolo di una guerra civile, c'erano persone pronte a partire per la Svizzera. Portare in tasca 'l'Unità' oggi fa ridere. Per noi, in quella situazione, vedere che l'autore di "Germania anno zero" aveva fatto un film come "Stromboli terra di Dio" era come vedere qualcuno abbandonare la battaglia».

In questo clima si combattevano lunghe, silenziose ma infuocate battaglie per orientare il cinema che era ancora il mezzo di comunicazione di massa più potente e non subiva la concorrenza dalla televisione.

La Chiesa di papa Giovanni non era più quella di padre Morlion e sceglieva altre strade, altri metodi.

Per questa Chiesa Pasolini poteva essere il compagno di strada?

I suoi scritti, i suoi film, i suoi interventi avevano un'intensità ideale che pochi scrittori e registi cattolici mostravano di possedere. E Pasolini sapeva almeno essere un interlocutore serio.

In un intervento alla Terza settimana sociale dei cattolici, nel settembre 1967, sempre ad Assisi, il regista fece una vera e propria lezione di semiologia applicata alla fede davanti a un pubblico composto in prevalenza di cattolici.

Era il frutto delle sue teorizzazioni sul linguaggio del cinema, che s'intrecciavano con la realizzazione dei film, e che esponeva volentieri ogni volta che gliene si dava l'occasione. Disse che i cattolici commettevano un errore se in arte pretendevano troppo dai contenuti; e aggiunse che il cinema era, in quanto riproduttore della vita e della natura, un linguaggio attraverso il quale si esprimeva Dio.

Nessuno si sentì di controbattere.



 
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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PORCILE (Pigsty) - Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





PORCILE (Pigsty)
Pier Paolo Pasolini
 
 
PORCILE
 
Regia- Pier Paolo Pasolini con la collaborazione di Sergio Citti e Fabio Garriba
Soggetto - Pier Paolo Pasolini
Sceneggiatura - Pier Paolo Pasolini con la collaborazione di Sergio Citti
Produttore - Gian Vittorio Baldi
Fotografia - Armando Nannuzzi e Tonino Delli Colli (1° episodio), Giuseppe Ruzzolini (2° episodio)
Montaggio - Nino Baragli
Musiche - Benedetto Ghiglia
Scenografia - Danilo Donati
Paese di produzione - Italia
Anno 1969
Durata - 98 minuti
Colore - Colore
Audio - Sonoro
Genere - Drammatico
 
Interpreti e personaggi
 
Pierre Clementi: Il cannibale
Franco Citti: II cannibale
Luigi Barbini: soldato
Ninetto Davoli: Maracchione
Sergio Elia: domestico
Jean-Pierre Léaud: Julian
Alberto Lionello: Klotz
Margarita Lozano: Madame Klotz
Anne Wiazemsky: Ida
Ugo Tognazzi: Herdhitze
Antonino Faà di Bruno: l'uomo anziano
Marco Ferreri: Hans Guenther  
PREMESSA 

Una volta messa in corto circuito l'identità borghese per mezzo dei suoi stessi strumenti, Pasolini attacca il vincolo sociale, quel potere assoluto e astratto dagli individui che lo esercitano il quale non consente altro che la piena, incondizionata obbedienza da parte di ogni membro della sua presunta "società".
Mentre Teorema è ancora sotto sequestro per oscenità, nel novembre del 1968 Pasolini da il via alle riprese di Porcile (un film povero, girato in un mese, con una cifra irrisoria), ricavandone il soggetto da un ampliamento dell'omonima e coeva tragedia in versi. Il film, attraverso un livello di prolifica, costante ambiguità dei personaggi di due vicende sovrapposre, una del tutto priva di parole, I'altra piena di farfugliamenti e sofisticati birignao da marionette del potere, si propone l'intento di "cristallizzare I'orrore" sociale attraverso una metafora dalla valenza duplice: quella del divoramento.
Due storie parallele, una arcaica e l'altra moderna. Nella prima un giovane che vive isolato alle falde di un vulcano, nutrendosi famelicamente di rettili, insetti e sterpi, incontra un soldato, lo uccide e lo mangia. Improvvisamente altri sbandati si uniscono a lui e insieme continuano a vivere da cannibali, tra l'altro assaltando, violentando e squartando un gruppo di ragazze. Ma la società invia dei guerrieri a catturarli e li condanna a morte.
Nella seconda il giovane figlio di un ricco industriale tedesco disdegna le profferte amorose della fidanzata perché invischiato in rapporti con dei porci; inoltre rifiuta sia di aderire alla contestazione sia di interessarsi dell'azienda paterna. Il padre, frattanto, tenta di eliminare col ricatto un concorrente dopo aver scoperto che si tratta di un ex criminale nazista, ma questi lo minaccia di rivelare le anormali tendenze del figlio. Allorché quest'ultimo viene sbranato dai maiali, i due industriali possono finalmente brindare al loro accordo di collaborazione...
 
Nella prima vicenda, ambientata in un indefinibile Cinquecento ricostruito sul deserto lavico dell'Etna, una sorta di asceta della contestazione radicale, un giovane santo-carnefice, fa strage e si ciba di tutto quello che trova, compresi gli uomini che gli capitano a tiro. La società a cui si è sottratto, una società chiusa e chiesastica, che come Kronos divora i suoi figli, viene a sua volta divorato, smembrata, rigettata in quell'estremo atto di simbiosi e di religazione che è il cibarsi del proprio simile.
Nella seconda vicenda, che scorre parallela alla prima ed è lo sviluppo in immagini della tragedia in versi originaria, la metafora del divoramento è riferita al "porcile" umano, inteso come luogo di un potere cinico, totale e diabolico, fondato sul ricatto politico e
sullo scambio economico, un potere che ha fatto propria (comprandoseIa) fìnanche tutta la storia dell'arte e la cultura più sublime e antiborghese, un potere, infine, impersonato dal capitano d'industria, I'umanista Klotz (per il cui ruolo Pasolini aveva pensato a Jacques Tati), ben al di la della problematicità redisua degli alto-borghesi di Teorema, sicuro, erudito e volgare, per il quale ogni antagonismo non è che il prossimo, stuzzicante oggetto da fare proprio e neutralizzare.
In questa oscena contemporaneità, ìl porcile vero e proprio, il recinto dei maiali, è invece fatto oggetto di un silenzioso, ambiguo, tenero e scandaloso amore panico da parte dell'etereo Julian Klotz, delfino del Potere che ha abiurato una volta per tutte dalla sua identità, e che diviene così un inafferrabile e alogico angelo perverso tra i demoni e i fantasmi di una Germania neocapitalista che altro non è che la resurrezione industriale del vecchio, cannibalesco Terzo Reich nazionalsocialista.
Nel film, dunque, sono messe a confronto le tendenze estreme della società degli orrori, la pura violenza della negazione disperata e il certo e protervo aurosarcasmo dei 'maiali' altoborghesi, la tragedia ferina del rifiuto assoluto e lo zoomorfismo grottesco, a la Grosz, dell'assolutismo economico.
A fare da trait-d'union tra queste due vicende così lontane nel tempo, e a portare così un vago sentore di umanità in entrambi questi episodi di definitiva disumanizzazione, è il personaggio più umile, il contadino Maracchione, i cui occhi, a dispetto della sua condizione sociale, sono un "esempio di umile indipendenza", di una purezza interiore intatta. E nel suo sguardo, nella sua semplicità che sopravvivono, come in uno stato di latenza o di incubazione, i germi di quell'uomo possibile, che Pasolini cerca disperatamente anche nel mezzo della sua visione sempre più disperata (che egli definisce, proprio nelle note a margine di Porcile, "anarchia apocalittica"): la capacità di conservare€, pure essendo testimone dell'abiezione più profonda, quel senso della realtà che sfugge ad entrambi i tipi di alienazione, quella dell'eroe-santo contro tutti e quella dell'indifferente-aguzzino capitano d'industria.
 
Porcile è, a detta dell'autore, il suo film "che più tende al cinema di poesia". In esso ogni gesto è allegorico, estremistico, spinto al limite dell'immaginabile per superare la realtà con la verità dell'abominio. Il gesto artistico dello svisceramento, che oltrepassa il semplice gesto di denuncia della prima fase del suo cinema, e che stigmatizza con lo straniamento del grottesco e del verso poetico l'interiorità malata della società perbenistica, sarà quasi una costante del cinema a venire di Pasolini, sempre più radicale nella sua critica alla dittatura dell'ovvio, Il cinema d'élite muta nel cinema dell'incompatibilità, l'unico in grado di rendere il benservito all'accettazione dell'assurdo imposta dall'industria culturale: l'assolutezza e l'ambiguità divengono canoni di inattaccabilità da parte della società dei consumi, e inviti alla smitizzazione rivolti a quella ancora amorfa "nuova élite" intellettuale che Pasolini intende costruire muovendo le coscienze di coloro che (come Maracchione in Porcile) non temono né l'idealismo né I'abiezione, e che non perdono di vista il loro essere, semplicemente, uomini vivi..

Trama

Due lapidi sulla disubbidienza vengono lette prima delle immagini iniziali, sul rumore di un'eruzione lavica. I titoli di testa scorrono su un grande e moderno porcile. Poi, in mezzo ad una landa deserta, un giovane vestito in abiti antichi che si ciba di farfalle e di serpenti (Pierre Clementi) è osservato parallelamente a Julian (Jean-Pierre Léaud), delfino del grande magnate tedesco Klotz, che si aggira fischiettando nella villa "italianizzante" e neoclassica di suo padre a Godesberg, nei dintorni di Colonia. Il giovane nel deserto trova degli elmi e delle armi accanto a carcasse di soldati morti, e li indossa.
 
Siamo di nuovo a Godesberg, nel 1967, periodo delle prime manifestazioni studentesche in Germania. Il venticinquenne Julian, figlio unico ed erede di Klotz, ha uno scialbo rapporto con la diciassettenne Ida (Anne Wiazemsky), la quale lo ama non ricambiata. Ida cerca nell'impegno politico studentesco il senso della sua vita, mentre Julian, "né obbediente né disubbidiente" (come lo definisce sue padre), si è reso conto che come rivoluzionario era conformista, e di "non avere opinioni". Vive sospeso nel suo limbo, in un'impenetrabile e stralunata aria di mistero e di fuga dal reale, nell'infinita ripetizione di un amore segreto e perverso, quella passione zoofila che lo porta ad eccitarsi e a potersi accoppiare solo con i maiali che vivono nelle tenute paterne, quei maiali con cui, citando Brecht e Grosz, il padre "umanista", con cinica ironia, identifica la sua classe e se stesso.
Ida, trattata da Julian come una bambina capricciosa (i loro dialoghi pullulano di espressioni nonsense come urrà, trallallero, trallalà, ecc.), non riesce a strappare a Julian il segreto del suo vero amore, a causa del quale viene rifiutata.
Alla vuotezza del loro rapporto puramente verbale si aggiunge I'atarassia dei rapporti familiari di Julian con suo padre, il paralitico Herr Klotz (Alberto Lionello) e sua madre (Margherita Lozano), che vedrebbero di buon occhio un matrimonio con Ida, per salvare Julian dalla sua apatia.
Ida esorta Julian a seguirla nelle grandi manifestazioni di protesta sotto il muro di Berlino. Julian, giocosamente, rifiuta.
Klotz, sdraiato nel letto con il cappello da notte, si interroga con la sua consorte sull'ambigua condotta del figlio, e poi afferma che "i tempi di Grosz e di Brecht non sono affatto passati", anche se la Germania di Bonn, che fabbrica solo lane, formaggi, birra e bottoni, "non è mica la Germania di Hitler".
Dopo qualche tempo, sui bordi della grande vasca della villa, Julian, da una sponda all'altra, fa il suo "ultimo, infame esperimento" sull'amore di Ida nei suoi confronti, prima di ribadirle che il suo amore è altrove.
 
Uno stacco sul giovane cinquecentesco lo mostra scrutare a distanza i movimenti degli uomini che si aggirano sulla montagna deserta. Il giovane, senza dire una sola parola, affronta un soldato da solo a solo, lo uccide, e ne getta la testa in un cratere fumante del vulcano. Poi, accanto ad un falò, mangia la carne del soldato cotta.
 
Si torna a Godesberg, e da un dialogo di costante contraddizione reciproca tra Ida e la madre di Julian, apprendiamo, ancora prima di vederlo, che Julian si è chiuso in uno stato di catalessi, sdraiato su un letto come un povero Cristo, con i pugni stretti e lo sguardo fisso nel vuoto, del tutto insensibile a chi lo circonda.
Intanto, Klotz suona I'arpa, e, su due nuove lapidi, ne leggiamo i preoccupati pensieri, che riguardano il suo "concorrente venuto su dal niente", Herdhitze, che insidia il suo primato produttivo.
 
Sul vulcano, il giovane cannibale ha trovato un seguace (Franco Citti), che, dopo aver condiviso con lui un pasto, lo aiuta a fare strage degli uomini che passano di lì, e a rapirne e stuprarne le donne, che vengono trattate come vere bestie.

A Godesberg giunge il fedele servitore-spia di Klotz, il viscido Hans Guenther (Marco Ferreri), che ha importanti novità sul conto del maggior concorrente di Klotz, il sedicente signor Herdhitze, Hans Guenther ha scoperto che Herdhitze altri non è che Hirt, vecchio compagno di studi di Klotz, criminale nazista addetto alla "raccolta di crani di commissari bolscevichi ebrei per ricerche scientifiche all'universita di Strasburgo".
 
Sul vulcano, i cannibali rapiscono e uccidono una donna, poi la mangiano, sotto gli occhi increduli del marito che è riuscito a nascondersi.
 
La conversazione tra Klotz e Hans Guenther prosegue amabilmente, con la descrizione del martirio degli ebrei nelle camere a gas, e con la rivelazione che Hirt (ora Herdhitze) si è arricchito rubando i denti d'oro dei prigionieri, finché, ad un tratto, il signor Herdhitze stesso (Ugo Tognazzi), viene annunciato in visita improvvisa dal maggiordomo di KIotz.
 
In un paesetto cinquecentesco giunge il marito della donna sbranata dai cannibali, che rivela, davanti alla folla (tra cui anche il contadino Maracchione, Ninetto Davoli) I'orribile misfatto.
Il vulcano si riempie di soldati armati, appostati e nascosti con i fucili spianati, mentre due "esche", un uomo e una donna nudi, vengono piazzati, visibili, nella piana. I cannibali (il cui numero intanto è cresciuto), scrutano la situazione con diffidenza.
 
A Godesberg, Herdhitze e Klotz conversano, scrutandosi reciprocamente, e brindando ipocritamenre alla loro "nuova giovinezza".
 
Ancora un breve stacco sul vulcano, dove soldati e cannibali scrutano la situazione.
 
Klotz pensa di avere Herdhitze in pugno, di poterlo ricattare, ma Herdhitze gli rivela che è a conoscenza del "vizietto" di suo figlio Julian, dell'accoppiamento con i maiali; in uno sterminato salone con affreschi settecenteschi, mentre Hans Guenther si specchia la lingua, Klotz capisce di dover scendere a patti con il suo rivale.
 
Sul vulcano la situazione si evolve: il giovane cannibale, a gesti, ordina I'attacco ai suoi seguaci, ma viene sorpreso dai soldati, e catturato dopo che si è denudato dinanzi a loro.
 
A Godesberg Julian è guarito, e parla con Ida del nuovo colosso tedesco: I'industria Herdhitze-Kokz, nata dalla fusione dei due grandi antagonisti.
Mentre Ida sta per dare I'addio a Julian, perché ha deciso di sposarsi, Julian, in un monologo di straordinaria bellezza letteraria, descrive a Ida il senso del suo amore, pur senza rivelarne chiaramente I'oggetto.
 
In una fortezza cinquecentesca si svolge il giudizio della banda di cannibali. Una campana a morto esprime senza parole il prevedibile verdetto: esecuzione capitale. Il contadino Maracchione è tra la folla, e assiste sgomento alla processione che accompagna i condannati sul vulcano. Il giovane cannibale è I'unico a non pentirsi davanti alla croce.
 
A Godesberg è in atto un grande ricevimento per festeggiare la Fusione industriale Herdhitze-Klotz. Julian si allontana dalla villa, e mentre si avvia nei boschi incontra il sorridente contadino Maracchione. Una bimba segue Julian a distanza nella sua passeggiata.
 
Con un montaggio parallelo assistiamo alla costruzione dei patiboli dei cannibali e all'ingresso di Julian nel porcile. Julian scompare tra i maiali, mentre il cannibale, con le lacrime agli occhi, pronuncia per quattro volte l'unica frase di tutto I'episodio:

"Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia".

Maracchione osserva muto l'esecuzione dei cannibali: sono legati in terra con i quattro arti a dei pali, per essere fatti sbranare vivi dai cani selvatici.
 
A Godesberg, nel pieno dei festeggiamenti della Fusione, giungono in drappello i contadini di Klotz vestiti di nero, per annunciare a Herdhitze (il più forte dei due soci) I'orribile scomparsa di Julian, totalmente sbranato dai maiali. Herdhitze, avendo constatato che di Julian e della sua deviazione non è rimasta alcuna traccia visibile, intima ai contadini di tacere per sempre sull'accaduto.
 
 
COMMENTO


I santi non fanno Storia, non cambiano la Storia: essi agiscono per sè, è il loro narcisismo a uccidere la pienezza delle loro intenzioni. Il giovane, innominato cannibale e Julian muoiono vittime della loro estraneità, della loro solitudine, del loro disperato tentativo di fuga verso l'Altro, mentre la loro società non ammette che ortodossia e obbedienza.
Chi gli sta accanto li abbandona, prima o poi, (Ida abbandona Julian alla sua criptica verità, i seguaci del cannibale abiurano davanti al crocefisso, pentendosi), perché la loro solitaria lucidità si fa delirio, strada troppo personale per poter essere seguita, pure nella sua sconvolgente verità, da qualcun'altro.
La battuta "Allora sisssst! Non dite niente a nessuno!" con cui Herditze conclude la tragedia dell'amore perverso di Julian, sintetizza il senso della loro sconfitta, che è il vero orrore contro cui si deve combattere il silenzio, l'abbandono della consapevolezza e della memoria.
In una scena della tragedia, tagliata poi dalla sceneggiatura, Julian incontra il suo idolo intellettuale, Spinoza, nel porcile, poco prima di essere sbranato. Spinoza spiega al passionale Julian che i più grandi libri della letteratura umana, in cui sono contenuti i frutti di ogni possibile saggezza, sono opere "nate da un mondo che avrebbe prodotto, alla fine, tuo padre umanista e il suo socio tecnocrate. Anzi, quelle opere non hanno fatto altro che dar gloria a loro, avallare la loro storia".
Se il terreno di confronto è la mera Ragione, la Ragione avvalla sempre il diritto del più forte. A nulla servono i cartelli di protesta della contestataria razionalista Ida, con su scritto "Abbasso Dio".
Dal dominio totalitario della Ragione tecnocratica ci si libera solo attraverso il recupero del sacro, dell'Altro. È solo la pura vita, ciò che è prima e dopo dei gesti e delle parole, a poter superare il totalitarismo tecnocratico, vita a cui il senso, e non il contenuto razionale delle grandi opere letterarie, appartiene da sempre.
Maracchione, suo malgrado, vive, testimonia la vita. Julian e il giovane cannibale muoiono entrambi sbranati e felici, folli dell'aver raggiunto l'unica via di uscita dalla ragione consentita dalla società: quella santità che si autodistrugge, che elimina da sè il problema della propria diversità. Il paradosso dei due santi-profani è di morire digeriti dalla società che hanno rifiutato, quella dei "porci" per Julian, quella dei "cani" selvatici per il giovane cannibale, una società che, come viene detto della Germania, ha una infinita "capacità di digerire".
Tutto resta com'era, perché non ha la forza necessaria per essere Altro.
La vittoria della società mostruosa del totalitarismo avviene attraverso il rito della fusione: da una parte quello fisico dell'eucarestia cannibalistica, che denuncia la perversa imprescindibilità dal nemico di chi ne estremizza il rifiuto; dall'altro quello dei Trust del Potere che ha sempre necessità di accrescersi (la Fusione delle industrie di Klotz e di Herdhilze), e che, tramite la sua cattiva coscienza, rappresentata dall'alterità di Julian, deve fondersi con la propria materia metaforica, con i maiali, simbolo dell'abiezione onnivora e della sporcizia.
Nella società individualistica, il cui archetipo è Edipo, ogni ribellione si riduce ad una ribellione nei confronti del Padre-potere, ribellione che ne legittima la figura (così come il cartello di Ida legittima I'esistenza di Dio): il giovane cannibale, nell'unica frase che pronuncia, dichiara di avere ucciso il Padre-vincolo sociale proprio mentre, ebbro delle sue gesta, ne sta per morire. Julian, che sfugge alle cure del Padre attraverso una follia ancora più celeste di quella di Amleto, si reintegra all'immagine paterna in quella perfetta pena del contrappasso che è il suo
amore irrefrenabile per I'essenza del Potere secondo Brecht e Grosz (autori che ossessionano l'umanista Klotz), l'onnivorità suina.

Porcile è un film visionario, che strumentalizza l'orrore per giungere alla positività. Superata l'impasse di Edipo, Pasolini giunge a dire che il trasgredire non basta, che anche la trasgressione, se non è gesto cosciente e rivolto agli altri, può essere annullata dal silenzio, può passare inosservata, può esaurirsi nel narcisismo del "gesto".
Cosa resta, all'uomo sociale, della sua libertà?
Intanto, la libertà di denunciare l'illibertà, e non semplicemente di rifiutarla. Di metterla in contraddizione attraverso la propria presunta liberalità, di costringerla a rifutare l'Altro, svelandosi per quello che è: diventare indigeribili all'enorme ventre sociale borghese.
 
Anche per Porcile, come era già accaduto per Teorema, l'accanimento negativo della critica è al limite del grottesco: perfino un cineasta della vecchia guardia sovietica come Sergej Jutkievic lo definisce "opera abberrante di un regista occidentale", concordando in tutto e per tutto con i soliti detrattori, con i gruppetti protestatari della destra, con gli scandalizzati critici di regime, con tutti gli strenui difensori dei diritti dell'uomo medio.
Pasolini considera Porcile il suo film più riuscito, è irritato dagli strascichi processuali della "occupazione" di Venezia dell'anno precedente, e, ancora in polemica con il Festival, con la critica, con il clima di ottusità generale, di contro alla prima "ufficiale" di Porcile a Venezia (bollata dall'ormai canonico divieto ai minori), organizza una "controprima" di protesta, di mattina, a Grado, dove si trova per le riprese di Medea.
 
La maturità stilistica di Pasolini si trova ormai in un punto di non ritorno. Non si tratta neppure piùr di sperimentare una forma filmica, già straordinariamente matura nell'uso "geometrico" (alla Murnau, per intenderci, tra l'altro citato anche nel film) dei totali paesaggistici e del campi lunghissimi dell'episodio sull'Etna, nel cromatismo personalissimo, nella delicata e invisibile direzione degli attori (il cui margine improvvisativo è sempre maggiore), nella perfetta efficacia del montaggio parallelo-analogico delle due vicende, nell'uso superbo dei "silenzi": Pasolini continua a perseguire, senza compromessi, l'espressione del taciuto e del rimosso, dell'orrore "democratico" dell'occidente, creando i presupposti di una irriducibilità artistica, di un estremismo interpretativo che ha bisogno di mettersi continuamente in discussione, di trovare ogni volta un nuovo equilibrio, di essere, secondo il detto di Rimbaud, "absolument moderne".
    
 
Fonte:
 
 
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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