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venerdì 8 agosto 2014

Pier Paolo Pasolini - Il primo paradiso, Odetta

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Il primo paradiso, Odetta

Tratto da Teorema libro, Garzannti 1969

*


Il primo Paradiso, Odetta, era quello del padre.
C'era un'alleanza dei sensi, nel figlio
- maschio o femmina –
dovuta all'adorazione di qualcosa di unico.
E il mondo, intorno,
aveva un lineamento solo: quello del deserto.
 
In quella luce oscura e senza fine,
nel cerchio del deserto come un grembo potente,
il bambino godeva il Paradiso.
Ricordati: c'era un Padre soltanto (non la madre).
La sua protezione
aveva un sorriso adulto ma giovane,
e lievemente ironico, come ha sempre chi protegge
il debole, il tenerino - maschio o femminuccia.
 
Tu sei stata in questo Primo Paradiso
fino a oggi: e, in quanto femmina,
non ne perderai mai il ricordo e la venerazione.
Sarai, per natura, adoratrice... Ma prima
di tornare a te, per avvertirti dei pericoli
della religione, voglio farti la storia
di tuo fratello, ch'è dello stesso sesso di Dio.
Anch'egli, in tempi in cui era veramente bambino,
(più bambino ancora di quand'era nel ventre materno
o di quando succhiò il primo latte dal seno)
è vissuto in quel Primo Paradiso del Padre.
 
L'odio sorse improvviso, e senza ragione.
Il grembo ch'era come un sole coperto di nuvole
dolci e potenti, il grembo di quell'Uomo
immenso e unico come il deserto,
divenne un oscuro fondo di calzoni,
s'immiserì, perdette l'innocenza
nel sospetto di non essere altro che umano.
Era venuto il giorno
in cui, il puro orizzonte del deserto, si perde
in un silenzio e in un colore meno perfetto,
si cominciano a vedere i primi palmizi,
e la prima pista compare muta tra le dune.
 
Così il bambino valicò il confine del Primo Paradiso:
che restò indietro, nel tempo; nel tempo, sognato,
di una verde regione rigata di file trasparenti
di pioppi - o in una grande città di provincia.
Il bambino cadde a capofitto sulla terra,
perdette il nome di Lucifero e prese, insieme,
quello di Abele e quello di Caino (ciò vale almeno
per certe terre rosa, mediterranee, e per queste, verdi,
dove le monache a un'Odetta laica l'insegnano).
 
Queste terre furono il Secondo Paradiso.
Ci fu una madre (diciamola adottiva), che, nel tuo caso,
ebbe ricche pellicce odorose di precoci primavere.
Come fu terrestre, dolcemente terrestre,
la sua dolcezza di bambina piccolo borghese,
che, tutte le care cose apprese non le desidera per sé
ma per quel suo figlioletto che le passeggia al fianco,
anche lui tutto imperlato del fresco delle primule!
Scorreva un fiume (nel tuo caso il Po) in quel Paradiso:
perché la casa dove i genitori « adottivi » alloggiano,
dopo il matrimonio, è sempre nei dintorni di un fiume.
O, se non è un fiume, il mare o una catena di colli.
 
Crebbero da soli i frutti, con nomi stupendi,
mele, uva, more, ciliege; e i fiori, gli inutili fiori,
non contarono meno di loro: e anche i loro nomi
erano meravigliosi, primule, appunto, o girasoli,
o bucaneve, o mughetti, e anche, nelle feste, orchidee.
Il sole, là sopra, era certamente una creatura amica
addolcita dall'innocente idea che la madre
comunicava al suo piccolo figlio stretto per mano;
e come nasceva al mattino, moriva alla sera,
cedendo il posto a quelle stelle che il figlio, obbediente,
doveva appena vedere, e presto lasciare ai loro silenzi.
 
Ma quella madre non era innocente, com'egli credeva!
E così lo stesso odio senza ragione - che era nato da solo,
come un frutto o un fiore, nel Primo Paradiso –
nacque anche nel Secondo. La nostra esistenza
non è che un folle identificarsi con quella dei viventi
che qualcosa di immensamente nostro ci mette vicino.
 
Fummo così la madre peccatrice davanti al frutto
il cui mistero risuscitava i giorni del Primo Padre
- tanto anteriori a quelli del verde Paradiso lombardo!
 
Risplendette nuovamente il sole del deserto
su quella piccola mela, desiderio di modeste esistenze.
Il solito sole di ogni giorno se ne stava in disparte,
segregato come in un improvviso dicembre; mentre l'altro,
stupendo, ardeva: misura su cui misurare secoli e miserie.
La mamma dunque, che altri non era che il proprio bambino,
addentò con materna innocenza e figliale incoscienza
quel frutto estivo. Subito il secondo padre, quello adottivo
- che, in confronto al primo, era come lo spento
sole d'inverno in confronto a quello delle Prime Estati –
seguì il suo esempio, esule uomo della terra,
facilmente tentato e facilmente corrotto.
 
Ma anche con lui, noi ci eravamo identificati:
perché, in quanto noi stessi, non potevamo esistere;
potevamo esistere solo se eravamo il padre, la madre.
Peccammo con le loro stesse bocche, le loro stesse mani.
E il Primo Padre ci cacciò anche dal Secondo Paradiso.
 
Sono dunque due i Paradisi che noi abbiamo perduto!
Stretti per mano ai genitori prendemmo le strade del mondo.
Lucifero si distinse da Abele, e seguì il suo destino
finendo nell'oscurità più nera. Abele morì,
ucciso da se stesso col nome di Caino.
Insomma non restò che un figlio, un figlio solo.
 
Dopo molti millenni si ebbe la prima seminagione,
e dopo un altro millennio da questo avvenimento
fu nominato un Re padrone degli uomini moltiplicati.
Ah, quanti vasellami colorati! Dovemmo guadagnarci il pane
e questo cominciò a prenderci a noi stessi, e a perderci
ognuno in una falsa idea di sé, nell'inferno presente.
Per questa strada, dunque, si sta avviando tuo fratello Pietro.
 
Ma perché, nell'esporti questa Teoria dei Due Paradisi,
ho parlato di tuo fratello Pietro e non di te?
È semplice: perché senza la sua storia di figlio maschio
la tua non potrebbe essere confrontata a nulla,
e non si potrebbe quindi neanche cominciare a parlarne.
 
Non ci fu una Lucifera, né una Abele, né una Caina:
tu dunque dovresti essere restata nel Primo Paradiso.
O almeno è quello che dovresti ricordare, col vero Padre:
ed è così, infatti: perciò sei immensamente più vecchia
del tuo padre adottivo, di cui sei innamorata,
di tua madre adottiva, che ha il nome di Lucia,
e di tuo fratello Pietro, esempio dell'intera esistenza.
 
Con ognuno di essi, tu, poverina, ti sei identificata:
e non sai che invece sei laggiù, prima delle loro nascite,
la sola veramente obbediente al Primo Padre.
Cosa deve valere di più, la tua identificazione o il tuo essere?
Tu non sai scegliere, tenera Odetta, perché sei cieca:
così sei scelta; così sei vissuta; e tu recalcitri
inutilmente, persa tra un ricordo ch'è troppo bello
e una realtà che ti porta dal sogno alla pazzia.



Tratto da Teorema libro, Garzannti 1969




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PASOLINI, CALVINO E I FASCISTI

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

 
 
 
PASOLINI, CALVINO E I FASCISTI
La cultura della sinistra e il massacro del Circeo
Pierluigi Battista



Erano «borghesi», «fascisti», «pariolini», violenti. L’efferatezza bestiale del loro crimine si era scatenata su due donne indifese, e questo stava a simboleggiare la cifra «sessista» di una sopraffazione senza confini; e perdipiù su donne «proletarie», e questo particolare ne denunciava la propensione al sopruso «di classe», manifestazione estrema e delinquenziale di una condizione di illegittimo privilegio. I tre assassini del Circeo - Izzo, Ghira e Guido - divennero subito la personificazione di qualcosa di ancor più torbido e infernale di un semplice Male politico, incarnazione di una negatività storica - il «fascismo» - che oltrepassava i confini della dimensione politica vera e propria per trasformarsi in tara antropologica, abiezione umana, turba psichica prima ancora che errore ideologico.
Era il 1975 e la raffigurazione artistica di questo connubio di ferocia e potere sembrava esprimersi nel truculento Salò di Pier Paolo Pasolini. Ma Pasolini, proprio due giorni prima di morire, sorprese ancora una volta il mondo culturale di sinistra e imbastì sul misfatto del Circeo una polemica politico-giornalistica, il cuore di una provocatoria ed estrema «lettera luterana» il cui destinatario era Italo Calvino. A poche ore dalla morte, Pasolini aveva colto nel commento calviniano sul delitto del Circeo (apparso l’8 ottobre sul Corriere della Sera ) il segno di una narcotizzante pigrizia intellettuale, l’aggrapparsi a certezze solide ma inaridite dall’uso e dall’abuso: l’antifascismo rituale, l’identificazione convenzionale tra borghesia italiana e fascismo, la pretesa di fissare una volta per tutte l’inferiorità antropologica e financo umana del «nemico». Un Pasolini tutto diverso da quello lugubre di Salò, il 30 ottobre del ’75 scrisse sul Mondo la sua lettera a Calvino («Tu dici», è l’incipit inequivocabilmente accusatorio) per contraddirlo: «Ho da ridire sul fatto che tu crei dei capri espiatori, che sono: "parte della borghesia", "Roma", i "neofascisti"».
Era una sferzata ai comodi clichés della cultura di sinistra e solo la morte all’Idroscalo di Ostia, quarantotto ore dopo, impedì il consueto profluvio di polemiche che negli ultimi anni aveva travolto ogni scorreria «corsara» di Pasolini. Ma resta altresì significativo che l’ultimo scritto pasoliniano sia stato il suo intervento sul Circeo. Non una difesa dei massacratori, ovviamente. Ma l’insofferenza per chiavi di lettura che a Pasolini risultavano terribilmente anacronistiche. Aveva scritto Calvino: «questi esercizi mostruosi si presentano con la sguaiataggine truculenta delle bravate da caffé, con la sicurezza di farla franca di strati sociali per cui tutto è stato sempre facile, una sicurezza che fa passare in meno che non si dica dai pestaggi all’uscita della scuola alle carneficine nelle ville del week-end». Una linea di assoluta continuità sembra stabilirsi nell’argomentazione calviniana tra «i pestaggi» neofascisti e le «carneficine».
Ma questa continuità è il preludio di un’ulteriore coincidenza socio-politica in cui i «picchiatori fascisti» altro non sarebbero che il frutto marcio di «una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifera senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società significa come relazione reciproca tra gli interessi personali o di gruppo o quelli della collettività». Con il che i neofascisti responsabili della carneficina diventano il prodotto di una «borghesia» su cui a metà degli anni Settanta, nel clima infuocato di una politicizzazione integrale del discorso pubblico, il ceto intellettuale di sinistra scaglia la sua scomunica storica definitiva. Ma nell’intervento di Calvino sui criminali del Circeo Pasolini scorge l’esatto contrario della propria rappresentazione del «nuovo» fascismo, quello del «genocidio» culturale dell’elemento genuinamente popolare e della «neolingua» imposta dall’acculturazione violenta della televisione, che rende drasticamente obsoleto il «fascismo» vecchio stile anatemizzato alla Calvino.
Pasolini, rivolgendosi a Italo Calvino: «i "poveri" delle borgate romane e i "poveri" immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è oggetto della tua descrittività». E ancora, con toni sempre più aspri nei confronti del suo interlocutore (con il quale, come è noto, i rapporti non erano mai stati idilliaci): «I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano "batterie") simili a quelle del Circeo; e inoltre, anch’essi drogati. L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico». Di più: «L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata». Nel cuore degli anni Settanta, in cui la violenza politica è all’ordine del giorno, la pratica della violenza fa dire a Calvino che, a proposito dei fatti del Circeo, «criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive e ottimistiche», ma Pasolini, nel suo ultimo scritto, legge qualcos’altro nei volti delinquenziali di Angelo Izzo e dei suoi due compari stupratori. Lo ripete ancora una volta, in un passaggio che lo stesso Pasolini definisce una «litania»: «la nuova cultura ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti, da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche popolari».
Se nella cultura della sinistra il massacro del Circeo rappresentava l’ennesimo capitolo di una lotta di classe a parti rovesciate, nell’immaginazione pasoliniana il mostro dell’omologazione consumistica aveva disintegrato le classi e dunque anche la borghesia nel cui seno, secondo la linea calviniana, sarebbero cresciuti il fascismo e i carnefici del Circeo, i picchiatori e gli stupratori, i «pariolini» e gli sfruttatori. Ancora Pasolini contro Calvino: «Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende». E con accenti che coinvolgono la persona stessa del suo antagonista e anche l’ambiente di cui quest’ultimo è espressione: «Ti sei comportato come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un caso, ripeto, privilegiato».


Fonte:
http://www.sagarana.net/anteprimal.php?quale=69


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